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Ultimo Aggiornamento: 03/06/2010 17:06
27/09/2005 09:40
 
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L'economista Noreena Hertz ha una ricetta per dare
una concreta opportunità di ripresa ai Paesi in via di sviluppo.

Terrorismo, miseria e ingiustizia:
perché bisogna cancellare il debito.

di ROSARIA AMATO


ROMA - La cancellazione totale di tutti i debiti illegittimi e inesigibili dei Paesi in via di sviluppo. Una croce, cioè, su tutti i debiti contratti da regimi dittatoriali che hanno usato il denaro contro gli interessi della popolazione, e di tutti quelli il cui pagamento andrebbe a detrimento dei bisogni fondamentali dei cittadini dei Paesi debitori. Dopo, "massicce iniezioni di risorse" che però vengano controllate da "Fondazioni di Rigenerazione Nazionale", che avrebbero il compito di custodire i risparmi sul debito e vigilare sul loro effettivo utilizzo per obiettivi di sviluppo, per poi scomparire per sempre, una volta raggiunti tali obiettivi. Le fondazioni dovrebbero essere amministrate in maggioranza dai cittadini dei Paesi destinatari.

Non si tratta di una nuova platonica "Città ideale". E' il progetto di un'economista molto conosciuta e apprezzata, innanzitutto dal suo governo, quello britannico, che ha fatto proprie diverse sue proposte, ma anche nel resto del mondo. Noreena Hertz, al momento condirettrice a Cambridge del Centre of International Business and Management, commentatrice della BBC e della CNN, è stata definita dall'Observer "una delle maggiori personalità intellettuali del mondo", mentre il New Statesman l'ha nominata "Best of Young British".

Ma alla Hertz dà più soddisfazione ricordare come la Banca Mondiale l'abbia definita, "nonostante le divergenze di veduta", "una delle cinque persone che stanno influenzando maggiormente il dibattito mondiale sulla globalizzazione". E, pur apprezzando gli artisti che si stanno battendo per la cancellazione del debito, da Bono a Geldof, dice che alla dedica di Jovanotti che campeggia nell'edizione italiana del suo Un pianeta in debito (pubblicato da Ponte alle Grazie), avrebbe preferito quella dell'arcivescovo Desmond Tutu, che consiglia la lettura del saggio ai potenti della terra, perché possano poi farne uso.

Cancellare il debito, spiega Noreena Hertz, non è soltanto una necessità dei Paesi poveri, le cui economie fragilissime sono ingoiate dal pagamento degli interessi, tanto che diventa impossibile pensare a qualunque politica sanitaria, scolastica, di sviluppo di qualsiasi tipo. E non è solo una questione etica, anche se naturalmente la questione etica potrebbe avere il suo peso dal momento che a creare questo circolo vizioso sono stati i Paesi occidentali, dall'epoca del colonialismo e soprattutto dalla Guerra Fredda in poi. Ma è anche una questione di sopravvivenza dei Paesi più ricchi.

Cosa ci accadrà se lasceremo ancora le cose come stanno, e se le promesse di cancellazione del debito dei Paesi in via di sviluppo continueranno a rimanere tali?
"Non si tratta solo di un imperativo morale, non c'è solo il fatto che è evidentemente sbagliato dal punto di vista etico continuare a chiedere gli interessi sul debito a un continente come l'Africa che ha 26 milioni di malati di Aids. Il nesso tra debito e malattie è scioccante, immorale, pericoloso e soprattutto non necessario. Ogni giorno nelle nazioni in via di sviluppo muoiono migliaia di persone a causa del debito. Ma quello che ci deve spingere a pensare che si tratti anche di un nostro interesse egoistico, è che se i Paesi in via di sviluppo continueranno ad essere così poveri, ci saranno sempre meno persone che vorranno viverci, e continueranno gli arrivi in massa di persone disperate, come avviene anche in Italia. E' poi evidente il legame tra povertà e terrorismo: non tutti i poveri diventano terroristi, e non tutti i terroristi sono poveri, certo, è stato dimostrato che anzi che in molti appartengono alla classe media. Ma la disperazione, l'insicurezza e la convinzione di doversela cavare da soli dopo essere stati abbandonati dallo Stato sono condizioni che possono condurre i disperati a fare scelte che coinvolgono noi tutti".

Del resto lei sottolinea nel suo libro il fatto che questo debito sia nostra responsabilità: i Paesi poveri non nascono poveri, non lo sono certo perché privi di risorse.
"In una certa misura siamo tutti colpevoli. All'epoca della Guerra Fredda, i prestiti sono stati usati dalle potenze mondiali per tirare i Paesi più poveri dalla propria parte. Stati Uniti, Unione Sovietica e Cina facevano a gara a concedere prestiti, che però non andavano certo a vantaggio della popolazione. Spesso venivano utilizzati per finanziare regimi impresentabili. E' stato calcolato che negli ultimi 60 anni un terzo di tutti i prestiti della Banca Mondiale sia stato oggetto di malversazione. Per esempio la Gran Bretagna ha finanziato la costruzione di una fabbrica di cloro in Iraq, eppure tutti sapevano che razza di dittatore sanguinario fosse Saddam Hussein.

Lei è molto critica nei confronti della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, ne sottolinea l'intransigenza ma anche l'inettitudine. Cosa c'è che non funziona in questi organismi internazionali?
"Io parlo anche per esperienza diretta, perché ho lavorato nel '92 in Russia come consulente dell'International Finance Corporation, organizzazione sorella della Banca Mondiale, per aiutare il governo russo nelle riforme economiche. Ero molto giovane, ci mandavano in giro per le fabbriche e così mi sono resa conto subito di quello di cui chiunque si sarebbe accorto, e cioè che quel piano di privatizzazione avrebbe comportato costi umani altissimi. Migliaia di persone avrebbero perso il lavoro e ogni tipo di tutela sociale e sanitaria (si pensi agli ambulatori delle fabbriche). Quando lo feci presente a Washington, mi risposero che non aveva importanza, che il processo di privatizzazione serviva a togliere i beni pubblici dalle mani dello Stato, per impedire che in futuro il partito comunista tornasse al potere. Quanto alla gente, ci avrebbe pensato il mercato. E invece il mercato non ci ha pensato affatto: tra il 1990 e il 1994 l'aspettativa di vita in Russia si è ridotta di cinque anni, e sono aumentati il tasso di alcolismo e dei suicidi. E poi, a testimonianza di come operano Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, c'è il racconto di Theogène Rudasingwa, alto rappresentante del governo ruandese. Raccontò di quando erano appena entrati a Kigali, alla fine della guerra, con le strade piene di cadaveri, e gli uffici vuoti, non c'erano nemmeno le macchine da scrivere. Si rivolsero alla Banca Mondiale, che rispose loro che non li avrebbe aiutati se prima non avessero pagato i tre milioni di dollari di interessi sul debito scaduto".

Lei ha messo a punto un progetto preciso per l'estinzione del debito e il successivo sviluppo dei Paesi più poveri. E' solo un suo progetto, o è stato condiviso da economisti di altri Paesi, organismi internazionali ed esponenti politici?
"Mi sembra di poter dire che in qualche maniera quello che ho proposto e discusso sta contribuendo a cambiare la mentalità dei governi, a cominciare da quello del mio Paese. Il Regno Unito si è infatti impegnato a non subordinare i prestiti ai Paesi in via di sviluppo alle condizioni poste dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale. Sta inoltre facendo pressioni perché si indaghi sui conti bancari dei dittatori. Quest'estate ho lavorato fianco a fianco con le autorità della Tanzania, cercando di utilizzare al meglio i fondi destinati allo sviluppo, in modo che raggiungessero davvero gli effettivi destinatari. Si tratta di progetti che possono anche essere utilizzati in altri Paesi".

Se anche si raggiungesse l'obiettivo della cancellazione globale del debito, quali sono gli altri passi fondamentali perché i Paesi in via di sviluppo possano tirarsi fuori dal loro attuale stato di miseria?
"Cancellare il debito è solo il primo passo, la strada è lunga. Dopo, occorreranno molti aiuti. Solo per l'Africa subsahariana, occorreranno non meno di 50 milioni di dollari l'anno di ulteriori contributi, necessari se si pensa che, oltre ai malati di Aids, c'è anche da curare la malaria, e poi attualmente i bambini che vanno a scuola possono contare su un solo pasto al giorno, e non hanno i supporti vitaminici. Non ci sono strade: le potenze coloniali hanno pensato solo a costruire grandi porti, perché a loro conveniva così, e quindi la rete viaria è ancora tutta da costruire. Poi bisogna dare a questi Paesi la possibilità concreta di accedere agli scambi commerciali. Si calcola che l'Africa perda circa 300 milioni di dollari l'anno in potenziali esportazioni a causa delle norme di tutela del commercio dell'Unione Europea. Se tutto questo accadrà, forse finalmente l'Africa avrà davvero una possibilità di sviluppo, come non ha mai avuto in passato".

(27 settembre 2005)

Da Repubblica.
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