Vi riporto un articolo...

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astrodanzante
00mercoledì 25 ottobre 2006 03:21
http://www.rsf.org/article.php3?id_article=19388

Reporters sans frontières stila il rapporto sulla libertà di stampa per il 2006.

Prime a parimerito Finlandia, Islanda, Irlanda e Olanda. Segue la Repubblica Ceca.

L'Italia si classifica 40° (recupera 2 posizioni rispetto al 2005). Meglio di noi hanno fatto (tra gli altri) stati come la Bosnia Erzegovina (19) a parimerito con Trinidad and Tobago, Benin (23), Ghana (34) e Mali (35).

Stupefacente la posizione degli esportatori di democrazia: gli USA si piazzano 53°, mentre i territori controllati dagli USA addirittura al 119°.


Ultimi in classifica Iran, Cina, Burma, Cuba, Eritrea, Turkmenistan e Corea del Nord
Agrumica
00mercoledì 25 ottobre 2006 16:17
Re:

Scritto da: astrodanzante 23/10/2006 14.20
E visto che l'ho citata di là...

http://www.rainews24.rai.it/ran24/inchieste/19102006_rapporto41.asp

Che ne sapete della fusione fredda? Una bufala? Pare che non sia così.




un link spero utile
astrodanzante
00mercoledì 25 ottobre 2006 16:46
Re: Re:

Scritto da: Agrumica 25/10/2006 16.17


un link spero utile



Agru, io di fisica non so (quasi) nulla,
sono piuttosto scettico verso chi sostiene questa "free energy" che permea l'intero universo, e penso che accostarla alla fusione fredda non deponga molto a favore di quest'ultima.

Tu sei ferrata in materia, se vuoi spendere due parole...
CorContritumQuasiCinis
00giovedì 26 ottobre 2006 09:44
Vi riporto una intervista.
Uno specialista dell'anima potrebbe essere definito Umberto Galimberti, il filosofo morale capace di entrare nella psiche e nei sentimenti di uomini e donne di oggi, come ha fatto ne 'Le cose dell'amore' (Feltrinelli). Ma Galimberti è anche un acuto psicoanalista di scuola junghiana, che registra giorno dopo giorno gli slittamenti di un'identità maschile sempre più incerta e perturbata, alle prese con donne che non sono più quelle di una volta e sfuggono alle vecchie regole del possesso. Riflettendo sulla guerra strisciante che ha le sue manifestazioni estreme nella violenza domestica e nella moltiplicazione degli stupri, Galimberti cerca di metter ordine nel panorama disastrato che sta emergendo. E ci ricorda che solo una lunga e paziente rieducazione sentimentale potrà riportare un'accettabile convivenza fra i sessi.

Violenze e maltrattamenti delle proprie compagne, minacce, comportamenti persecutori, che nei casi più gravi possono sfociare nell'omicidio. Professor Galimberti, che cosa sta succedendo nella testa degli uomini?

"Partiamo da un primo punto che a me sembra incontestabile, negli ultimi trent'anni c'è stato un progressivo degrado delle capacità psichiche dei maschi. I loro fattori ansiogeni sono proiettati in gran parte all'esterno, sull'autoaffermazione sociale, sul raggiungimento di obiettivi materiali, che peraltro sembrano nascondere una sorta di angoscia sulla propria identità. Paradossalmente è come se i giovani in particolare non avessero più una psiche. Anche quando vengono in analisi non è per indagare se stessi, ma per risolvere un problema specifico. Ormai è più facile analizzare un sessantenne che un trentenne".

E perché questo degrado psichico, come lei lo definisce, può tradursi in violenza contro la donna che ti sta vicino?

"Oggi il gesto è sempre più un sostituto della parola. Quando non riusciamo a dare un nome alle nostre emozioni, quando perdiamo la capacità di guardare dentro noi stessi è come se si rompesse il meccanismo di elaborazione dei nostri disagi. È un deficit non solo culturale, ma psichico. Un apparato emotivo che non ce la fa a verbalizzarsi scivola più facilmente nel gesto violento, unica forma espressiva che riesce a manifestare".


Eppure non si è mai parlato tanto come in questi anni di parità fra uomini e donne, di condivisione. Tutte parole al vento?

"Non si tiene abbastanza conto della disumanizzazione che l'età della tecnica ha portato nel mondo del lavoro. C'è un'accelerazione sempre più forte verso regole di efficienza spasmodica, di competitività che chiedono alle persone di soffocare ogni emozione, di comprimere se stesse, di essere anaffettive e produttive in ogni istante della vita lavorativa. Ma questo provoca una scissione radicale nei confronti del privato, della vita familiare. Se fuori puoi essere solo perfetto e controllato, è a casa, è nei rapporti con la tua compagna che scarichi rabbie e frustrazioni. La famiglia diventa il luogo della massima violenza, la cloaca delle emozioni trattenute. Gli appartamenti sono luoghi appartati, dove può succedere qualunque cosa. Come raccontano le cronache".

Però anche le donne, negli ultimi trent'anni, sono entrate in massa nel mondo del lavoro. Perché allora sono quasi solo gli uomini a esercitare la violenza?

"Sono convinto che le più grandi rivoluzioni della storia hanno a che fare l'emancipazione femminile. D'altra parte la donna era tenuta sottomessa da sempre proprio perché se ne temeva il potere. Ma anche le donne di oggi, se si esclude l'élite di quelle in carriera che imitano modelli maschili, mi sembrano molto meno integrate dei maschi, capaci di esprimere ancora se stesse, le proprie complessità. E questo spaventa in modo crescente gli uomini".

Dietro questa aggressività, che almeno in Italia si comincia ad analizzare solo adesso, si può immaginare anche la paura dei maschi per le nuove libertà femminili?

"Non credo che questa libertà sia ancora pienamente acquisita, almeno sul piano della psiche. Ma gli uomini lo pensano, avvertono che stanno perdendo quella situazione tranquillizzante che era il possesso. Non possono più dire 'la mia donna' con quel tono speciale, non possono impedirle di andarsene per il mondo, di incontrare tanti altri uomini, tanti potenziali rivali che lo fanno sentire precario. Lo spiega bene Proust, quando ne 'La prigioniera' dice che avere a disposizione Albertine in casa non gli dà particolari gioie, se non quella di sottrarla agli altri".

Insomma, la scomparsa dell'amore come possesso può scatenare per una parte degli uomini l'amore come ossessione, spingerli a varie forme di maltrattamenti per sottomettere le compagne fino ad annientarne la volontà?

"Sì, è possibile, anche perché l'amore è concepito sempre meno come relazione con l'altro e sempre più come conferma della propria identità. Se perdo la donna che ho conquistato, se perdo quel valore di mercato che è la sua bellezza, perdo valore io stesso. Questo apre le porte alla violenza".

Abbiamo assistito in Spagna a un processo per violenza domestica: una donna con la testa fasciata è arrivata in aula mano nella mano con l'uomo che gliel'aveva rotta. "Non è cattivo, non lo rifarà più, non voglio che lo condanniate", ha detto. Perché questa dipendenza psicologica è frequente nelle donne maltrattate?

"È lo stesso meccanismo dei bambini, che difendono sempre la madre maltrattatrice, perché hanno paura di perderla. Anche molte donne non vogliono perdere il loro compagno. Temono la solitudine, la riprovazione sociale, la miseria economica. Sperano di riuscire a cambiarlo. Ma purtroppo si sbagliano, questa è una strada senza ritorno".

Intanto lo stupro è in crescita, o almeno ne aumentano le denunce, che sono addirittura triplicate. Specie nelle grandi città le donne possono essere violentate anche in pieno giorno per la strada. Ma molto più spesso, dicono le statistiche, succede in casa, ad opera di amici, fidanzati, mariti o ex.

"Siamo in un'epoca dove la sessualità è eccessivamente esibita dalla pubblicità, dai giornali, dalla tv dove anche un ragazzino ha libero accesso alle linee erotiche, ai film porno. Questa esibizione richiederebbe una maturità che non c'è. È caduto un tabù che invece era importante, che faceva sentire la conquista di una donna come una meta da raggiungere poco a poco, con le telefonate, con il corteggiamento. Ma se tutto è possibile subito, come suggeriscono i messaggi mediatici, se non c'è più educazione emotiva che faccia crescere la psiche, può scattare il gesto. O lei dice subito sì o me la prendo, anche con la forza".

Insomma, vede avanzare una moltitudine di 'analfabeti emotivi', per usare una sua definizione, incapaci di tenere a freno le proprie pulsioni?

"C'è questo rischio. Ma alla radice delle aggressioni sessuali c'è anche un fraintendimento. Oggi le ragazze si declinano attraverso l'ostentazione del corpo, le pance seminude, i seni e le gambe scoperte. La bellezza esibita è il loro biglietto da visita. Non è un'offerta, è un'esibizione narcisistica, come quella delle modelle. Ma i maschi la sentono come un invito".

A parte il fatto che spesso le violentate erano vestite come collegiali, non crede che le donne abbiano diritto a essere rispettate, qualunque sia l'abbigliamento che scelgono?

"Non incolpo le ragazze che si scoprono, ma i maschi che fraintendono. L'atto dello stupro è l'assenza di qualunque elaborazione psichica, è l'impossibilità della relazione con la donna".

Molti suggeriscono l'innalzamento delle pene, i leghisti vorrebbero la castrazione chimica. Secondo lei cosa si può fare per interrompere questo catalogo di orrori?

"Se la Lega dice 'castrare' io rispondo 'educare'. Anche alzare le pene serve a poco, quel che bisogna alzare è il livello culturale, a cominciare dai più emarginati, dagli immigrati. Se penso alla loro situazione, senza soldi, senza donne, in un paese che ostenta il sesso in questo modo, mi viene da dire che quel che succede è inevitabile. Ogni stupro, ogni violenza, chiunque sia a commetterli, è il fallimento dei processi educativi, è non aver insegnato a considerare l'altro come persona e non come cosa. La più bella definizione dell'amore l'ho trovata in Sant'Agostino: 'Volo ut sis', voglio che tu sia quello che sei, riconosco la tua alterità. È da qui che bisogna ripartire".*

Umberto Galimberti, da L'Espresso

*La sottolineatura è mia.
pastronef
00giovedì 26 ottobre 2006 10:23
base americana vicenza quimi sostituisco ad Azzu

Agrumica
00venerdì 27 ottobre 2006 10:43
Re: Re: Re:

Scritto da: astrodanzante 25/10/2006 16.46


Agru, io di fisica non so (quasi) nulla,
sono piuttosto scettico verso chi sostiene questa "free energy" che permea l'intero universo, e penso che accostarla alla fusione fredda non deponga molto a favore di quest'ultima.

Tu sei ferrata in materia, se vuoi spendere due parole...



il problema della fusione fredda è che non ha una collocazione teorica ben definita e parallelamente non ci sono evidenze sperimentali (fino ad ora pare..)
comunque meglio investire sulla fusione fredda che sulle stringhe secondo me
astrodanzante
00sabato 28 ottobre 2006 10:27
La ballata amara di Santa Tejerina

Storie Romina, 21 anni, vittima dell'Argentina anti-abortista
Stuprata da un vicino, costretta a tacere la sua gravidanza per i condizionamenti della Chiesa, condannata per infanticidio
Riccardo De Gennaro
León Gieco, un popolare cantautore di Santa Fe, città della pampa argentina, ha scritto una canzone per lei, come gli innamorati di una volta. «Santa Tejerina es la santa preferida de los que pidion perdón, vamos a bailar que ya yo te perdoné», la santa preferita di coloro che chiedono perdono, andiamo a ballare che io t'ho già perdonata, dice. Ma la storia di Romina Tejerina non è una storia romantica. È una storia di miseria, paura e prevaricazione, lo specchio di una società, quella argentina, che sacrifica ogni anno sull'altare anti-abortista migliaia di ragazze perlopiù minorenni: una parte muore in seguito ad aborto clandestino, un'altra viene gettata in carcere e deve vivere sotto il duplice peso di una sentenza giudiziaria e della condanna morale di una comunità condizionata dalla Chiesa.
Romina Tejerina, 21 anni, un bel volto indio dagli occhi pieni di pianto, appartiene a un terzo gruppo. Deve scontare una pena di 14 anni per aver ucciso la sua bambina appena partorita nella vasca da bagno, dopo essere stata stuprata da un vicino di casa molto più anziano di lei. Emilio «Pocho» Vargas l'aveva aggredita per strada e costretta a salire sulla sua auto: qui l'aveva violentata, sicuro che - anche grazie al fratello poliziotto - l'avrebbe fatta franca. Era il primo agosto del 2002. Se in Argentina esistessero i consultori e l'aborto fosse legale, Romina Tejerina - che ai tempi dello stupro era minorenne - non sarebbe in galera e, due domeniche fa, non sarebbe stata necessaria la mobilitazione di 10mila donne a Jujuy, dove lei è nata e dove sconta la pena, per chiederne la scarcerazione.
Dopo essere stata violentata, Romina aveva tentato di abortire clandestinamente. Non aveva denunciato lo stupro per paura e, successivamente, per la vergogna, non aveva detto della gravidanza né ai genitori, né alla sorella maggiore con la quale viveva. Poco prima della sentenza, nel giugno dell'anno scorso, Romina ha raccontato a una giornalista di Pagina 12, che il padre considerava le donne tutte puttane e che l'aveva avvertita: «Se rimarrai incinta mi farai morire d'infarto». Quando la incontrava, il suo violentatore la derideva, si burlava di lei. Infine la minacciava di uccidere suo padre se avesse parlato. «Non posso giustificare quello che ho fatto - ha raccontato Romina - ma ero disperata. Ho trascorso tutti quei mesi senza sapere che cosa fare». La tensione cresceva in lei, la paura di dover convivere tutta la vita con quel ricordo terribile l'ha fatta uscire di testa. Dopo aver partorito ha afferrato un coltello e, in un raptus di follia, ha colpito per 26 volte il corpicino della neonata. Al processo la difesa ha chiesto la perizia psichiatrica, ma il giudice Sarmann del tribunale di Jujuy ha respinto l'istanza. Ha preferito domandare ai testimoni dell'accusa se Romina beveva, come si vestiva, l'atteggiamento che teneva con i ragazzi, se aveva una relazione con il suo Vargas. Non deve stupire in una regione dove spesso padri e datori di lavoro applicano senza problemi il derecho de pernada, lo ius primae noctis, e non c'è vittima che si ribelli perché non serve a niente. L'unica «colpa» di Romina Tejerina, prima che il vicino di casa la stuprasse, era di andare a bere e ballare con gli amici, come tutte le ragazze.
Il giudizio della società
Bisogna pensare almeno per un attimo a quello che deve sopportare oggi dietro le sbarre: oltre alle durezze del carcere, il giudizio di una società oppressiva e arretrata, alla quale non importa la condizione sociale e la disperazione delle giovani che ogni giorno vengono stuprate e non sanno a chi chiedere aiuto. Romina è colpevole, forse era convinta che uccidendo il bambino avrebbe cancellato per sempre il trauma di quella notte. Non sapeva che la coscienza non funziona in questo modo e la giustizia funziona in modo sbagliato.
Non hanno neppure creduto alla sua versione dei fatti: siccome i ripetuti tentativi di aborto avevano contribuito alla nascita prematura della bambina, il giudice ha deciso che non c'era stato stupro perché i tempi del concepimento e della violenza non coincidevano. Non si è nemmeno preoccupato di disporre il test del Dna, ma probabilmente oggi è ammirato per la sua magnanimità, se si tiene conto che la pubblica accusa, sostenuta da una donna, aveva chiesto l'ergastolo per omicidio aggravato e lui le ha inflitto solo 14 anni. Il violentatore, invece, è rimasto in carcere tre settimane, poi è uscito. Ora viene invitato dalle tv locali, dove annuncia: farò dire una messa per la piccola.
Ma dopo la sentenza, il caso di Romina ha assunto un valore emblematico e nelle strade delle principali città, da Buenos Aires alla Patagonia, sono apparse scritte di solidarietà nei suoi confronti. Lei, a dire il vero, è sorpresa di essere diventata un simbolo per la liberazione della donna e la lotta per la legalizzazione dell'aborto.
Nel solo carcere di San Salvador de Jujuy su 24 detenute tre sono dentro per infanticidio. Natalia, ad esempio, ha ucciso la sua bambina di cinque anni quando ha visto che il marito abusava di lei. Olga, invece, la migliore amica di Romina nel carcere, ha ammazzato con un colpo di pistola il padre, un poliziotto, che la violentava da quando aveva 16 anni.
«Libertad por Tejerina, despenalización del aborto» hanno ribadito due domeniche fa quelle 10 mila donne in corteo per le strade di Jujuy, il capoluogo della regione argentina che confina con la Bolivia. La marcia rientrava nell'ambito dei tre giorni dell'Incontro nazionale della Donna, faticosamente organizzato tra le polemiche degli ambienti ecclesiastici e della comuntià locale. La scelta di Jujuy, d'altronde, non è stata casuale: nella regione muoiono 200 partorienti ogni 100mila, la maggioranza per procurato aborto. Le statistiche dicono che l'indice è pari a 2-3 volte quello delle altre regioni argentine e che si avvicina a quello dei Paesi più poveri dell'Africa.
Come le tre scimmiette
La grande manifestazione di Jujuy si è svolta senza incidenti, nella massima tranquillità, ma la sua conclusione dice più di molti discorsi. A un certo punto, infatti, una parte del corteo si è diretta verso la cattedrale e l'ha trovata circondata da un centinaio di fedeli. Qui si è verificato un inedito scontro verbale: da un lato, le manifestanti gridavano slogan a sostegno dei diritti della donna e dell'aborto, dall'altro, i fedeli e le fedeli rispondevano a capo chino con il bisbiglìo delle loro preghiere.
I due mondi, ora così vicini, non potevano essere più lontani.«No les miran, no les hablen, non respondan», non guardatele, non parlate, non rispondete, era la parola d'ordine fatta circolare tra i credenti, che - come le tre scimmiette - chiudevano occhi, orecchie e bocca davanti a un problema di incredibile gravità. Era come se quelle 10mila donne in corteo non esistessero, o che - come le Madres di plaza de Mayo quando nel '77 cominciarono a reclamare i figli desaparecidos - fossero tutte pazze.
Le donne argentine oggi lottano per l'aborto e lo fanno non soltanto per affermare il diritto della donna di poter scegliere della propria vita e del proprio corpo, ma anche, più direttamente, per salvare migliaia di vite umane. Le cifre parlano chiaro: ogni anno in Argentina 360 donne muoiono a causa di aborti illegali, una al giorno. O per dirla con un altro dato: un terzo delle morti di donne rimaste incinta è provocato dagli aborti clandestini. Ma per la Chiesa, i medici, la magistratura questo non è un problema. Sembrano non accorgersene. È come se questi dati non li riguardassero e, dunque, non c'è da stupirsi se a finire in galera sono le ragazze che abortiscono illegalmente e se quel cantautore di Santa Fe è stato addirittura processato per la sua ballata.
D'altronde basta ricordare che quando il governo Kirchner tentò un'iniziativa per la diffusione dei contraccettivi tra gli strati più poveri della popolazione l'Argentina rischiò l'incidente diplomatico con il Vaticano. Era il febbraio dell'anno scorso. Il vescovo militare Antonio Baseotto prese carta e penna e scrisse al ministro della Salute accusandolo di apologia di reato. Aggiunse che il ministro avrebbe meritato di essere «gettato in mare con una pietra di mulino al collo». Voleva essere una citazione evangelica, ma il riferimento ai «voli della morte» con i quali la giunta militare eliminava i desaparecidos era esplicito. A fronte della dura reazione del governo, Baseotto ottenne la solidarietà del Vaticano, attraverso una lettera inviatagli dall'allora vescovo e, tre settimane dopo, pontefice Joseph Ratzinger. Questi manifestava al «collega» argentino «un sentimento di particolare stima» e giudicava le sue allucinate parole «un intervento a favore della vita nascente e della dignità della sessualità umana».
Evidentemente non di Romina, né di tutte le altre donne. Durante la cerimonia di investitura di Ratzinger a pontefice, Kirchner fu l'unico capo di stato che non avvicinò le labbra all'anello di Benedetto XVI.


(di Riccardo De Gennaro, Il Manifesto 27/10/06)
astrodanzante
00lunedì 30 ottobre 2006 10:00
Migranti: il muro della vergogna - Ich bin Mexikaner





Ma non è tanto per via del muro in sè che vi segnalo l'articolo, ma per invitarvi ad una riflessione: con una frontiera in queste condizioni, quant'è credibile la prevenzione del terrorismo?
lemiemanisudite2.
00lunedì 30 ottobre 2006 10:16
Non toccate le bambine
di Fabrizio Gatti
Sono minorenni. Arrivano dall'Europa dell'Est o dall'Africa. Ridotte in schiavitù e costrette a vendersi. Non possono essere espulse. E l'Italia diventa il loro inferno



Quanto vale una ragazza di 18 anni o forse meno? L'offerta è stata buttata lì qualche sera fa, nel dopocena sul tavolo di una pizzeria alle porte di Torino. "Se hai 15 mila euro, diventa tua. Pagamento in tre mesi". Pochi minuti per decidere, tra il caffè e un bicchiere di grappa: "Guardala, è un affare. Te la porti a vivere con te...". Alla fine il ricatto: "Se non trova 15 mila euro in tre mesi, dovrà pagarne 50 mila all'organizzazione che l'ha fatta arrivare in Italia. E sai cosa vuol dire? Che se non l'aiuti, la manderanno a battere sulla strada". Paolo G., 41 anni, single, non si aspettava di concludere la serata con un profondo senso di colpa. Una risposta la doveva pur dare a quell'amico di mezza età che l'aveva invitato a cena. L'amico è un imprenditore piemontese con l'azienda che va così così e la testa piena di Viagra: dopo aver lanciato la proposta, ha aspettato seduto tra la nuova moglie nigeriana di vent'anni più giovane e la teenager in vendita, sorella di lei. "Gli ho risposto che avrei immediatamente portato la ragazza alla comunità del Gruppo Abele", racconta Paolo G., "ma lui, che bazzica le chiese pentecostali, mi ha fatto un discorso sul valore del debito e della promessa data. Insomma, dopo il mio rifiuto avrà provato a vendere sua cognata a qualcun altro in cerca di moglie. Oppure l'avrà mandata sulla strada. Se no, come trova quei soldi?".

Nell'Italia marchettara dove tutto si può comprare, anche la prostituzione si è inventata nuove strade. Compreso il fai-da-te di famiglia. Non importa se il contratto è per la vita o per dieci minuti sul sedile ribaltabile di una macchina. Cambia solo il costo. Eravamo il Paese dei latin lover. Siamo un popolo di clienti. Così le bande di trafficanti si adeguano. La domanda di sesso a pagamento aumenta? Loro procurano l'offerta. Con ragazze sempre più giovani. Fino alle baby-squillo, insulto un po' cinematografico per indicare ragazzine strappate dai banchi di scuola e mandate in tanga e canottiera a vendersi sui viali. Alla periferia di Roma le fanno dormire nelle grotte. La via Salaria è un postribolo di minorenni al chiaro dei lampioni e spesso anche alla luce del pomeriggio. Lo stesso, dopo le 11 di sera, diventa via Cristoforo Colombo, l'arteria che porta al mare e all'aeroporto di Fiumicino. A Milano non occorre uscire dalla città: ragazze europee e africane sono tornate a occupare piazzale Loreto, viale Abruzzi, la Circonvallazione fin dentro i quartieri semicentrali come i Navigli e il parco Ravizza. Dalle parti di Perugia hanno scoperto una gang di moldavi che legava le adolescenti alle pareti di una stalla abbandonata. Ma la distribuzione di ragazze è capillare su tutta la Penisola. Raggiunge le campagne sperdute, perché lì la domanda dei clienti su camion e trattori è altrettanto forte. Come lungo la statale 16, tra Foggia e San Severo, dove non esistono altro che campi di pomodoro e vigne. La notte le nigeriane bruciano i copertoni per farsi vedere, di giorno vanno a dormire nell'ex zuccherificio a Rignano Garganico. Oppure la statale Adriatica da Rimini a San Benedetto del Tronto. E ancora Bari, Catania, Cremona, Prato, Aosta, Treviso. Al di fuori dei confini dell'Unione europea il mondo è pieno di famiglie ridotte alla fame. I trafficanti non fanno altro che portare le figlie di quelle famiglie là dove clienti ricchi possono mantenere loro e i loro sfruttatori.


Nessuno conosce quante siano le prostitute in Italia. C'è soltanto una stima: tra 50 mila e 70 mila persone e non tutte sottoposte a un controllo violento. Il giro d'affari è mostruoso: ipotizzando un guadagno a testa di 2 mila euro a settimana, fa un incasso settimanale di 140 milioni di euro. Ma secondo Transcrime, l'osservatorio dell'Università di Trento, in quel totale il numero delle donne prigioniere del traffico di esseri umani e dello sfruttamento sessuale è in continua crescita. Le statistiche danno un minimo annuale di vittime (che a volte può coincidere con l'inverno) e un massimo (l'estate): dalla stima di 17.550-35.500 ragazze nel 2001 si passa a 19.710-39.420 nel 2004. Un altro istituto di ricerca e assistenza, il Parsec di Roma, fornisce cifre più caute. Ma comunque spaventose: quasi 23 mila donne sfruttate. E non c'è solo la prostituzione di strada. Perché la forma più temuta dalle ragazze resta quella invisibile tra le mura di night-club e appartamenti. In confronto all'Europa, l'Italia ha il record: le donne 'vittime della tratta a scopo di sfruttamento sessuale' sono 115 ogni 100 mila abitanti maschi con più di 15 anni. Al secondo posto l'Austria con 84 vittime. L'Olanda è ferma a 76. La Spagna a 54. La Germania a 45. La Francia a 27.
Al ministero dell'Interno, un ufficio sta analizzando i dati per indirizzare le strategie. "L'arrivo di minorenni prima di tutto: purtroppo è un effetto indotto involontariamente da noi", ammette un ricercatore della polizia: "Gli organismi investigativi negli ultimi anni hanno snobbato le indagini sullo sfruttamento. Per contrastare il fenomeno le questure hanno scelto la via più veloce dei rimpatri. Come azione preventiva sono state espulse le donne. Questo ha fatto crescere l'arrivo di minorenni: perché i minori non possono essere espulsi. Le organizzazioni hanno poi cambiato politica. Ora alle ragazze lasciano anche il 30 o il 50 per cento dell'incasso. Ed evitano di sottoporle a violenze, rapimenti e stupri. Così le ragazze non scappano, non denunciano e hanno più incentivi a rimanere nel giro. L'altro aspetto nuovo è la mobilità delle prostitute. Le fanno spostare in continuazione: una settimana sulla Salaria, poi sulla Domiziana, poi le ritrovi sulla Romea. Lo spostamento impedisce eventuali legami affettivi con i clienti. Ma questo nasconde un dato preoccupante che dobbiamo approfondire: l'esistenza di una rete comune di contatti tra le squadre di sfruttatori. Che sulla strada sono quasi sempre romeni o albanesi".

Treviso è una città molto severa con gli stranieri. Grazie a Giancarlo Gentilini, vicesindaco della Lega, sono state perfino tolte le panchine nei parchi. Così gli immigrati non si possono sedere. Ma dopo le 22, lungo le vie intorno alla città, con le immigrate gli abitanti della provincia possono fare di tutto. Dalla strada del Terraglio alla Pontebbana. Due ragazze ogni 50-100 metri. Trenta euro per dieci minuti le europee, 20 le africane. Gentilini, quando era sindaco rottweiler e difensore della razza Piave, le aveva protette: "Sono contro gli immigrati", aveva detto, "ma non contro le prostitute straniere. Che volete? Le prostitute sono le navi scuola dei giovani". Anche le forze dell'ordine locali hanno i loro benefici. Quando non sanno come aumentare la statistica di espulsioni e arresti, pure loro prendono di mira le prostitute: c'è sempre qualche ragazza clandestina da rimpatriare o da sbattere in carcere per non aver rispettato la Bossi-Fini.

Giulia, moldava, ex atleta della Nazionale giovanile di pallamano, si offre a ragazzi, single e mariti della provincia di Treviso e Venezia. Da quasi due anni si prostituisce sulla strada del Terraglio. Di solito davanti al comando della polizia municipale di Mogliano Veneto. Quando la sera chiudono gli uffici, arriva lei. L'insegna blu e bianca le dà sicurezza. Giulia ha quell'età indefinita acqua e sapone, tra i 16 e i 18 anni. Se vigili, poliziotti o carabinieri le chiedono quanti anni ha, lei è pronta a rispondere 17: per evitare il rimpatrio. Se invece a domandarle l'età sono clienti preoccupati di finire in galera, dice 19. Così le hanno insegnato i protettori. Quando ha lasciato la Moldavia, sapeva cosa avrebbe fatto in Italia? "Sì, l'ho scelto io", risponde. Ha mai avuto ripensamenti? "Sicuro che non mi piace. Ogni cliente potrebbe essere quello che mi violenta o mi ammazza. Ma io sono moldava: o fai questo o fai la fame". Che immagine ha degli italiani? "Un corpo addosso con le braghe abbassate e il portafoglio in mano". Il portafoglio in mano? "Sì, la gente di qui è molto legata ai soldi. Tengono il portafoglio in mano anche quando fanno sesso. Hanno paura che glielo freghi".

Se passeranno le proposte proibizioniste presentate in Parlamento, le ragazze come Giulia finiranno in carcere. La logica è piuttosto singolare: è come se nella lotta al contrabbando, lo Stato invece di prendere i contrabbandieri avesse arrestato le stecche di sigarette. È la tipica morale italica: si sfrutti pure, ma non si deve vedere. L'esempio più famoso è quel consigliere comunale del centrodestra a Milano. Ha conquistato i voti dei comitati di quartiere scatenando violente campagne, retate ed espulsioni contro le prostitute straniere: una notte la polizia l'ha pizzicato in macchina con un Ma come si potrebbe identificare il reato di prostituzione? Nell'atto sessuale? Nel pagamento? Nella lunghezza della minigonna? La questione preoccupa sociologi e consulenti dei Comuni più sensibili. "Un provvedimento del genere", osserva Lorenza Maluccelli, ricercatrice dell'Università di Ferrara e autrice di saggi, "spingerebbe le ragazze in circuiti ancor meno visibili e più pericolosi. Quante sono le donne violentate nel silenzio? Quelle uccise? Eppure non c'è indignazione perché, per la cultura morale, se sono prostitute se la sono cercata. Gli uomini invece dovrebbero cominciare a interrogarsi sulla loro sessualità. Si dice che in Italia ci siano 9 milioni di clienti. C'è una segregazione mondiale del lavoro delle donne. Dai Paesi più poveri l'Italia prende prostitute e badanti. Due forme di servizi alla persona. E non è un caso che in tutti e due i settori lo sfruttamento di immigrate e clandestine sia largamente diffuso". A volte le prostitute hanno un lavoro regolare proprio come badanti. "Ma quando la questura lo scopre", denuncia Alessandra Ballerini, avvocato della Cgil a Genova, "il permesso di soggiorno può essere negato. Anche se la prostituzione non è vietata dalla legge".

Un progetto riuscito di mediazione tra le proteste degli abitanti e l'andirivieni di clienti l'ha inventato il Comune di Mestre. Qui le prostitute sono state invitate a trasferirsi in 'zone informali' meno abitate. Il potenziamento dell'illuminazione stradale, l'assistenza di unità di strada e la sorveglianza discreta dei vigili urbani ha convinto ragazze e travestiti a spostarsi nelle aree indicate. "L'approccio è pragmatico, puntiamo alla riduzione del danno", spiega il coordinatore, Claudio Donadel: "E ha sicuramente portato a una migliore convivenza e a un forte contrasto delle reti criminali. Dal '99, 172 ragazze sono uscite dallo sfruttamento e più di 680 persone sono state arrestate e condannate. Ora il progetto sarà esteso al Veneto. Partecipano tutti. Tranne, ovviamente, Treviso. E Belluno, dove la prostituzione è meno visibile".

Dal Veneto al Piemonte si muovono i trafficanti della mafia nigeriana. Uno di loro è famoso a Torino come pastore pentecostale. E a Verona, in un bar di Veronetta dove lavora, come basista del racket. Fa parte della rete che costringe migliaia di ragazze africane a saldare il prezzo della loro schiavitù, vendendosi sulle strade. Alcuni pastori nigeriani hanno un ruolo fondamentale. Spesso hanno di fronte giovani spaventate e analfabete. E durante le prediche le minacciano con le peggiori pene dell'inferno se non onorano il debito con l'organizzazione. A volte gli avvertimenti si trasformano in aggressioni ai familiari in Nigeria. Così l'unica via d'uscita dallo sfruttamento è l'aiuto dei clienti. "Il 90 per cento delle ragazze nigeriane", spiega Claudio Magnabosco, fondatore del progetto La ragazza di Benin City, "esce dalla tratta accompagnato da un uomo, cliente o ex cliente che è diventato amico, fidanzato o marito". Il progetto punta alla sensibilizzazione dei 'consumatori': "I clienti, se informati, possono diventare una risorsa. Vogliono multarli? Facciano pure, ma chi aiuterà le ragazze segregate?". Una delle vittime della tratta, Isoke Aikpitanyi, è oggi moglie di Claudio Magnabosco: "Per uscire", racconta Isoke, "basterebbe darci una opportunità, un permesso di soggiorno anche breve, sei mesi, per cercare un lavoro vero. In cambio dei documenti, invece, le autorità pretendono che denunci qualcuno. Dobbiamo far sapere quello che succede. Le 200 nigeriane assassinate in Italia. Le stuprate. Le madri alle quali le maman prendono i figli per ricattarle. I black boy che spacciano droga. Le famiglie che spingono le figlie minorenni a venire in Europa. La corruzione che favorisce i trafficanti. Le mutilazioni sessuali, il debito da pagare che non finisce mai, i pastori cristiani che collaborano con il racket, le ragazze che muoiono attraversando il deserto. Questa è la tratta. Davvero pensate che il problema sia la prostituzione?".
CorContritumQuasiCinis
00martedì 31 ottobre 2006 11:22
Al di là del "cattolicesimo" romano.
lunedì 30 ottobre 2006.


Gioacchino da Fiore ...
Al di là del "cattolicesimo" romano. Verità come "charitas" ed essere come "ereignis", evento. "PER UN CRISTIANESIMO NON RELIGIOSO". Un ’vecchio’ (2002) lavoro di Gianni Vattimo, recensito da Filippo Gentiloni


[...] "Mi rendo conto che ciò che propongo qui è una tesi densa di conseguenze e molto discutibile. Ma il compito di fronte a cui si trova oggi il mondo cristiano, e cioè l’Occidente, è quello di recuperare la propria funzione universalistica senza implicazioni coloniali, imperialistiche, eurocentriche. E’ difficile pensare che possa adempiere a questo compito accentuando la propria specificità dogmatica, etica, disciplinare. Una tale accentuazione, si può ragionevolmente sostenere, non corrisponde nemmeno all’essenza della dottrina cristiana , ma dipende piuttosto da una certa inerzia storica delle chiese come organizzazioni mondane" [...]

La croce divina nel mondo del globale

"Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso" di Gianni Vattimo per Garzanti. Una riflessione sulla religione nell’era della crisi delle grandi narrazioni e della globalizzazione che varca anche le mura di San Pietro

di FILIPPO GENTILONI da il Manifesto




Non pochi sono gli autori che studiano il "fatto" cristiano guardando al di là del cristianesimo attuale. Al di là: post. Laici e cristiani, se si può ancora considerare valida questa distinzione. Autori che non considerano esaurito il fatto cristiano, tutt’altro: non credono al trionfo di quella morte di Dio che era sembrata, alla fine dei secoli passati, salvifica per l’uomo e per la società. Pensano che, al di là della crisi, il fatto cristiano possa avere ancora una sua forte vitalità, ma in forme e modalità diverse da quelle attuali.

Particolarmente interessante, in questo senso, mi sembra la riflessione che sta portando avanti da anni Gianni Vattimo. Ora molti suoi interventi sono stati raccolti in un volume unico, dal titolo significativo Dopo la cristianità, sottotitolo: "Per un cristianesimo non religioso" (edito da Garzanti; si vedano anche il suo Credere di credere, Garzanti 1996 e i suoi dialoghi con i teologi Sequeri e Ruggeri in Interrogazioni sul cristianesimo, Edizioni Lavoro 2000) . Vale la pena di verificare come, per Gianni Vattimo, il "pluralismo post-moderno permette (a me, ma credo anche più in generale) di ritrovare la fede cristiana".

Post, dunque. Dopo il moderno. Non contano le date, ovviamente. Conta la cultura. La cultura da superare è quella razionalista, quella che aveva dominato gli ultimi secoli, raccogliendo, fra l’altro, anche l’eredità della metafisica greca. Una grande cultura all’insegna della razionalità, ma anche della sicurezza, delle idee chiare e distinte, delle bandiere vincenti, delle condanne per chi scantonava. Una cultura che, purtroppo, dice Vattimo, aveva pervaso di sé anche il cristianesimo, deformandolo, nelle strettoie rigide della dogmatica e dell’etica vaticana. Ora questa cultura è finita, grazie all’ermeneutica, a Heidegger, a Pareyson di cui Vattimo si dichiara alunno fedele. E così il cristianesimo può finalmente ritrovare la sua vera identità.

Non è una assoluta novità: alcuni pensatori, in minoranza, lo avevano previsto: così nel lontano Medioevo Gioacchino da Fiore. Così, più vicino a noi, Pascal, Dostoevski e anche Nietzsche.

Sul ben noto pensiero "debole" caro a Vattimo, la riflessione è ormai abbondante. Non altrettanto sul riflesso - assolutamente positivo - che la "debolezza" può avere sul postcristianesimo.

"Mi rendo conto che ciò che propongo qui è una tesi densa di conseguenze e molto discutibile. Ma il compito di fronte a cui si trova oggi il mondo cristiano, e cioè l’Occidente, è quello di recuperare la propria funzione universalistica senza implicazioni coloniali, imperialistiche, eurocentriche. E’ difficile pensare che possa adempiere a questo compito accentuando la propria specificità dogmatica, etica, disciplinare. Una tale accentuazione, si può ragionevolmente sostenere, non corrisponde nemmeno all’essenza della dottrina cristiana , ma dipende piuttosto da una certa inerzia storica delle chiese come organizzazioni mondane".

Perciò Vattimo coniuga la "debolezza" con l’incarnazione, momento centrale nel messaggio cristiano. Carne, cioè storia con le sue vicende, ma anche con i suoi percorsi tutt’altro che dogmatici.

"L’indebolimento dell’essere è uno dei possibili sensi, se non in assoluto il senso, del messaggio cristiano che parla di un Dio che si incarna, si abbassa e confonde tutte le potenze di questo mondo". Una nuova lettura, dunque, dell’antico concetto di incarnazione, ricca di feconde applicazioni per il post.

Un cristianesimo debole sarà, fra l’altro, un cristianesimo di pace, al di là non soltanto dei dogmi ma di tutte quelle crociate più o meno cruente, che i dogmi inevitabilmente hanno prodotto e continueranno a produrre. "La violenza si insinua nel cristianesimo quando esso si allea con la metafisica come 'scienza dell’essere in quanto essere’ e cioè come sapere di principi primi".

La debolezza, quindi, alla radice di quell’ecumenismo oggi più che mai necessario, ma ancora difficile. E’ in gioco il concetto stesso di verità, che non può più considerarsi assoluta.

E anche quello di laicità, una conquista moderna alla quale la debolezza del "post" non vuole rinunciare. "Diventa importante che, entrando nel dialogo interculturale, il cristianesimo si presenti come il portatore dell’idea della laicità, che è l’idea stessa dell’universalismo della ragione spogliata delle sue accidentali - anche se molto radicate e pesanti - complicità con gli ideali del colonialismo e dell’imperialismo moderni".

E’ ovvio che il cristianesimo postmoderno di Vattimo nella sua etica sarà all’insegna della centralità della carità. L’altro: qui il pensiero di Habermas e Levinas si coniuga con quelli, apparentemente molto diversi, di Nietzsche e di Heidegger. Umiltà, carità e amicizia: "L’amicizia può diventare il principio, il fattore della verità soltanto dopo che il pensiero abbia abbandonato tutte le pretese di fondazione oggettiva, universale, apodittica. Senza un’autentica apertura all’essere come evento, l’altro di Lévinas rischia sempre di vedersi spodestato dall’Altro con la maiuscola". Il cristianesimo dopo la cristianità detesta, ovviamente, le maiuscole.

E, per concludere: "Verità come caritas ed essere come ereignis, evento, sono due aspetti che si richiamano in maniera stretta. ... Con tutte le imprecisioni che una tale conclusione, sebbene provvisoria, lascia sussistere, mi pare che proprio da questo punto si dovrebbe cominciare una riflessione su ciò che rimane, non solo da rimembrare, ma anche da fare, duemila anni dopo l’evento del cristianesimo".

Una riflessione, dunque, da cominciare. Sarà lunga e difficile. Si modificare - forse addirittura stravolgere una tradizione forte di venti secoli e anche di innegabili successi. Si tratta di riportare al cuore del cristianesimo la cultura ebraica al posto di quella greca. Non basteranno certamente gli sforzi di un Vattimo e di altri (fra cui Ramon Panikkar, del quale si dovrà parlare, in un analogo contesto, un’altra volta).

Ma forse, più degli sforzi di alcuni illuminati pensatori, saranno gli "eventi" - termine caro a Vattimo - a incamminare la storia del cristianesimo per la via della debolezza (dell’umiltà, per usare un termine più cristiano). Ne cito due di particolare importanza. Il primo è interno al cristianesimo stesso: il suo sfilacciamento. Roma è sempre meno centrale e granitica, le sue parole sempre meno ascoltate, soprattutto in fatto di etica. La struttura piramidale sempre più traballante. Gruppi, associazioni, comunità, ecc. sempre più autonome.

Il secondo è esterno. Roma è sempre meno al centro del mondo. Meno di Wall Street e anche della Mecca. La tragedia dell’11 settembre si deve leggere anche in questo senso. La globalizzazione, nel bene e nel male, tocca anche la cristianità, rendendola meno centrale, più periferica. Sarà inevitabile - e positivo - che la cristianità accetti il suo indebolimento.



monos.84
00giovedì 2 novembre 2006 18:09
mant(r)a
00giovedì 2 novembre 2006 18:22
Re:



bah
ma chi è il baccello che ha scritto l'articolo?

questo vuol mettere in discussione la tesi dell'unicità individuale basandosi su un'affinità statistica, e manco uguaglianza, che ha come oggetto quel semplicissimo sistema che è il genoma?


rabbrividisco.
ittidu
00giovedì 2 novembre 2006 21:26
Re: Re:

Scritto da: mant(r)a 02/11/2006 18.22

bah
ma chi è il baccello che ha scritto l'articolo?

questo vuol mettere in discussione la tesi dell'unicità individuale basandosi su un'affinità statistica, e manco uguaglianza, che ha come oggetto quel semplicissimo sistema che è il genoma?


rabbrividisco.


Pensai la stessa cosa nel vedere una contrapposizione fra l'aspetto "classico" di Gesù e quello di come sarebbe dovuto essere un ebreo del tempo.
Contrapposizione che, nell'intenzione degli autori, voleva dimostrare che Cristo fosse più brutto di come lo si raffiguri [SM=g27825]
monos.84
00venerdì 3 novembre 2006 16:10

Scritto da: mant(r)a 02/11/2006 18.22

questo vuol mettere in discussione la tesi dell'unicità individuale basandosi su un'affinità statistica, e manco uguaglianza, che ha come oggetto quel semplicissimo sistema che è il genoma?




Mah, non credo che fosse questa l'intenzione dell'autore. O, almeno, non quella principale: in quelle righe colgo soprattutto il prendere atto che gli scimpanzé sono strettissimamente imparentati con l'homo sapiens sapiens (tra l'altro, qualcuno ha avanzato l'ipotesi di cambiare il nome scientfico degli scimpanzé da pan troglodytes a homo troglodytes: personalmente non la ritengo un'idea così malvagia).

Aggiungo un pensierino che magari esula dalla tua argomentazione: affermare che un homo sapiens sapiens normale è geneticamente più vicino ad uno scimpanzé normale piuttosto che ad uomo con sindrome di Down non significa promuovere un pan troglodytes al rango di un h.s.s., né considerare gli uomini con cromosomopatie dei non-umani, degli "uomini meno uomini degli altri".
Faccio notare che intendo il termine normale nella sua accezione principale: normale = nella norma, usuale, ciò che si verifica nella stragrande maggioranza dei casi.
Spero di non aver creato equivoci o malintesi... [SM=g27817]
mant(r)a
00venerdì 3 novembre 2006 16:57
sì sì, ma queste son speculazioni che lasciano il tempo che trovano. numeri e forme senza alcun significato qualitativo.
a me interessava l'altro concetto, quello dell'individualità di ognuno, messo in discussione sulla base di tali speculazioni senza reale valore e che, in linea di massima, non sono altro che curiosità quantitative degne di Focus e affini
CorContritumQuasiCinis
00venerdì 3 novembre 2006 19:31
Non ho sbagliato Topic.


[SM=g27828]

Vabbe', fateme anna'. Me vojo pia' tutto sto freddo: benvenuto freddo!!

Contiene Io Odio (meglio: mal sopporto): chi ai primi caldi si denuda e ai primi freddi si imbacucca (cambiando marca e modello di giubbetti, giubbotti, pellami, pellicce, pellicciotti, scaldamani, scaldaglutei, scaldapalle e tutto sempre un po' più trendy - quanto odio 'sto termine, madonna mia, quanto lo odio... ma proprio tanto: questo sì: odio!), manco fossimo a -5°!
Mah... io preferisco il freddo pungente che mi fa rizzare la peluria! Così apprezzo meglio e di più il calore. Di ogni genere.

Vado a...

A presto.

monos.84
00sabato 4 novembre 2006 15:35
Re:

Scritto da: mant(r)a 03/11/2006 16.57
sì sì, ma queste son speculazioni che lasciano il tempo che trovano. numeri e forme senza alcun significato qualitativo.
a me interessava l'altro concetto, quello dell'individualità di ognuno, messo in discussione sulla base di tali speculazioni senza reale valore e che, in linea di massima, non sono altro che curiosità quantitative degne di Focus e affini


Secondo me, ridurre il concetto di individualità genetica ad un semplice "gioco di numeri" (come si fa nell'articolo) è sbagliato.

Nell'articolo si legge che un uomo è un’individualità genetica unica e irripetibile, nel suo Dna si trova fissato il programma di ciò che sarà […] quest’uomo individuo con le sue note caratteristiche già ben determinate.
Alla luce di tutto ciò, io non riesco a capire perché il "gioco di numeri" tra uomini normali, uomini con cromosomopatie e scimpanzé debba mettere in dubbio il concetto d'individualità genetica: per capirlo probabilmente avrei bisogno di una maggiore conoscenza dell'argomento... [SM=g27819]
selvadega
00lunedì 6 novembre 2006 19:57
Lo dico sempre io
struchi par tuti!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
[SM=g27828]

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CorContritumQuasiCinis
00martedì 7 novembre 2006 12:08
... al lupo al lupo al lupo!
Giovedì in Austria il summit dei paesi aderenti
alla Convenzione delle Alpi. Il ministro accusa


"Fermate lo sterminio dei lupi"

l'Italia contro Francia e Svizzera
Pecoraro Scanio: la legge li protegge, ma solo noi la rispettiamo

di ANTONIO CIANCIULLO

ROMA - "Bisogna entrare nel bosco, facendo gran rumore di trombe, corni, tamburi, gridando, sempre andando dove sono le reti e i lacci, non temendo di passare spini e macchie, perché quelli sono i luoghi dove i lupi si cacciano". Queste istruzioni risalgono al sedicesimo secolo (Agricoltura nuova, di Carlo Stefano), ma l'aspirazione all'annientamento dei lupi sembra non essersi ancora spenta. Questi predatori sono diventati ormai un simbolo della vitalità della natura perché la loro stessa presenza testimonia la salute dell'ecosistema, e i vantaggi in termini turistici superano di gran lunga il sacrificio di qualche pecora (puntualmente pagata ai proprietari). Eppure, nonostante la Convenzione di Berna e le direttive comunitarie, al di là delle Alpi, la guerra ai lupi non è mai finita. L'ultimo abbattimento è del 27 ottobre scorso, nella valle di Goms, in Svizzera, al confine con l'Ossola.

"In Italia vengono protetti, in Francia e in Svizzera ammazzati: una situazione insostenibile", denuncia il ministro dell'Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio. "Ho già sollevato il problema in sede di Consiglio dei ministri europei e il commissario all'Ambiente, Stavros Dimas, si è impegnato a proporre una direttiva per la tutela delle specie transfrontaliere. Bisogna uscire al più presto da una situazione surreale: l'Unione europea finanzia la salvaguardia del lupo e i paesi membri della Ue lo uccidono. Così non va: non accetteremo che si ripeta la vicenda dell'orso Bruno, che l'Italia era riuscita a proteggere e che, appena ha messo un piede in Baviera, è stato fucilato".

Sarà uno dei temi di cui si discuterà all'appuntamento biennale dei ministri firmatari della Convenzione delle Alpi giovedì prossimo in Austria. All'ordine del giorno c'è in realtà la questione dei trasporti (l'Italia si era isolata opponendosi al blocco delle nuove autostrade transalpine), ma le uccisioni dei predatori protetti spinge ad ampliare il dibattito.

"Non si può proteggere di giorno e uccidere di notte", accusa Damiano Di Simine, il responsabile dell'Osservatorio Alpi di Legambiente che ha lanciato l'appello al ministero dell'Ambiente per salvare il lupo. "In Baviera non si vedeva un orso da più di un secolo e il primo che è arrivato è stato impallinato. In Svizzera fanno fuori con cronometrica precisione tutti i lupi a cui viene attribuita l'uccisione di almeno 25 animali d'allevamento, un criterio che di fatto dà una licenza di fuoco totale. In Francia è prevista l'eliminazione di 6 lupi".

E visto che i lupi in questione, poco più di un centinaio, essendo girovaghi non hanno bisogno del passaporto, gli sforzi italiani di tutela rischiano di venire vanificati dalla pioggia di deroghe alla protezione che di fatto legittima la caccia. "Anche noi abbiamo un problema: il bracconaggio", fa notare Alberto Meriggi, il ricercatore dell'università di Pavia che ha studiato la presenza dei lupi nell'Appennino settentrionale. "Ma la decisione di applicare la legge senza eccezioni ha consentito al lupo appenninico di riprendere vigore risalendo la penisola. Nel 1986 c'è stata la prima segnalazione in provincia di Genova e tre anni dopo nelle Alpi marittime, in provincia di Cuneo. Ancora oggi il lupo italiano è in crescita: dobbiamo stare attenti a non distruggere decenni di lavoro".






detto per inciso, post scriptum
è amico mio, il lupo, nel regno animale
in bocca al lupo va bene
se campa, non per crepare


AH! LE MONDE
GLF
CorContritumQuasiCinis
00mercoledì 8 novembre 2006 15:48
... a proposito di Lupi

Abituati a considerarci i meno naturalisti e i meno zoofili tra i popoli d’Europa, la cronaca recente almeno in parte ci riabilita. E rovescia il luogo comune contro paesi più settentrionali e in fama di essere più ambientalisti. Secondo la denuncia di Legambiente i lupi italiani, rimessi in sesto grazie allo sforzo del Parco Nazionale degli Abruzzi e risaliti fino all’arco alpino, appena mettono piede in Francia o in Svizzera (sì, in Svizzera!) rischiano una fucilata. E il famoso orso Bruno, sconfinato fino in Baviera dal natio Trentino, è stato accoppato dai cacciatori locali nonostante i generosi schiamazzi degli animalisti.
Insomma, produciamo fauna selvatica per gli schioppi di oltre confine, proteggiamo specie decimate dal progresso per vederle in pericolo appena scollinano fuori d’Italia. Devastatori della natura per generazioni, mangiatori di uccellini con polenta, pescatori di frodo, abbiamo evidentemente fatto qualche passo in avanti, grazie a piccole, solide, tenaci avanguardie di naturalisti, direttori di Parco appassionati, guardie forestali, e perfino cacciatori coscienziosi che hanno fatto molto per la ripopolazione. Avanguardie virtuose che adesso dovremmo spedire in giro per l’Europa per dare qualche utile ragguaglio, anche legislativo, ai nostri rudi e arretrati vicini.


Michele Serra: L'amaca di mercoledì 8 novembre 2006



... e di ben altri "lupi"


La Norimberghetta che consegna al cappio Saddam Hussein, al di là della repulsione etica che ogni condanna a morte suscita, ha questo di veramente brutto: è perfettamente coerente con quel mostruoso groviglio di violenza che è il Medio Oriente, e tira diritto lungo la strada di sangue, odio tribale, vendetta che la guerra di Bush ha così stupidamente aggravato. La sola evidente discontinuità, il vero altolà, lo scarto di coraggio e di fantasia, non sarebbe forse quel tanto di clemenza (meglio, di intelligenza) che bastava a risparmiare la vita al tiranno detronizzato? Occhio per occhio, invece, e un cadavere eccellente a penzolare per l’entusiasmo sciita e la rabbia sunnita. Ogni fazione riconsegnata al suo destino bellicoso, alla sua cecità di clan. E il potere dell’invasore americano messo sempre più a nudo, per la gioia dei farabutti che predicano terrorismo e morte agli infedeli.
Brutti tempi sono alle porte, e nel mio piccolo mi riesce sempre più faticoso riuscire a ridere di questa bruttezza – sola risorsa, il senso e il gusto del ridicolo, per sopportare il Male. Neanche il Calderoli, quando inneggia alla forca come una comparsa di "Frankenstein Junior", strabuzzando il suo sguardo transilvano, riesce a distrarmi dai peggiori presagi.



Michele Serra: L'amaca di martedì 7 novembre 2006
harvest1968
00venerdì 10 novembre 2006 11:08
mi cadono le braccia....
A rischio le carte di Piazza Fontana

di Mario Porqueddu

su Corriere della Sera del 07/11/2006

I documenti abbandonati al tribunale di Catanzaro: 500 mila fogli, alcuni quasi illeggibili I familiari delle vittime al governo: «Vanno digitalizzati». Ma mancano 37 mila euro

Le carte giacciono da molti anni. Il tempo le consuma. Dicono che in tutto sono 500 mila fogli. Gli atti del processo per la strage di Piazza Fontana, le istruttorie, centinaia di fotografie, bobine, un giallo Mondadori che diedero a Pietro Valpreda quando chiese qualcosa da leggere in cella. «C' è tutto» assicura Gregorio Greco, presidente del Tribunale di Catanzaro. «Ma a trovare qualcosa in particolare ci si può perdere la testa» ammette Luigi Severino, l' economo, che in mancanza di archivisti fa da memoria storica e guida i visitatori nel sotterraneo. Archivio del palazzo di giustizia di Catanzaro, settore C: dietro l' anta numero 5 di un lungo raccoglitore metallico c' è un pezzo di storia d' Italia che rischia di andare perduto. Fuori c' è scritto «Valpreda». Dentro sono conservate, alla rinfusa, centinaia di cartelle dalle intestazioni più diverse. Relazioni dei servizi segreti. Vecchi faldoni su «Ordine Nuovo». Una carpetta impolverata: «Allegato numero 5, fascicolo fotografico». Un nastro uscito chissà quando dall' ufficio istruzione del Tribunale di Milano: «Riservatissimo» dice il timbro sull' involucro. Fino al 2000 era tutto nel vecchio palazzo di giustizia del capoluogo calabrese. Laggiù, ricorda chi li ha visti, gli atti stavano nei cartoni del Vernel. Un tempo c' erano anche i «reperti». Poi i pezzi dei vestiti delle 17 vittime della bomba alla Banca Nazionale dell' Agricoltura li hanno buttati via: «Puzzavano. Erano marci. Anche con le finestre aperte nella stanza non si poteva più entrare» dice Severino. Le carte sono state spostate, raccolte su scaffali. Ma non basta. Più di un anno fa, in una lettera al ministero della Giustizia, il presidente del Tribunale scriveva che gli atti «sono spesso costituiti da dattiloscritti ormai sbiaditi, gli indici sono, per la frastagliata composizione del processo, parziali. Spesso, sin dall' origine, sul frontespizio dei faldoni non è indicato il contenuto». Tutto vero. A Catanzaro ci sono veline che hanno più di 30 anni, manoscritti che rischiano di diventare illeggibili. Originali di cui non esiste una copia. E da Bari, una delle sedi che hanno ospitato il processo, hanno rimandato qui grossi scatoloni, uguali a quelli di un trasloco. Cosa contengano non lo sa nemmeno Severino. La lettera del presidente Greco finiva così: «L' intervento non può esaurirsi nella riproduzione informatica, ma anche in un riordino logico e cronologico». Era luglio del 2005. Poco prima, a maggio, i familiari delle vittime della strage si erano rivolti al presidente Ciampi. Chiedevano che i documenti fossero digitalizzati: «Eliminare anche un solo tassello di quel periodo, come gli atti giudiziari, significa vedere i nostri morti innocenti morire una seconda volta». Ciampi ne parlò a Roberto Castelli, allora ministro Guardasigilli, che investì della questione la Direzione generale risorse materiali. Il risultato è in una nota d' inizio estate: «Vista l' importanza di tale documentazione questa Amministrazione si rende disponibile a stanziare un importo massimo di 50 mila euro». A dicembre dell' anno scorso il Tribunale di Catanzaro bandisce una gara d' appalto. Le buste vengono aperte il 18 gennaio 2006: le offerte migliori, quelle più a buon mercato, le fanno la ditta Poltero (87.500 euro) e la Software Service (85 mila). Troppo. Il ministero invita a «chiedere alle ditte già interpellate una revisione dei costi». Il fax è del 27 febbraio. Da allora è tutto fermo. «Siamo tornati alla carica con il nuovo ministro e a luglio abbiamo incontrato il sottosegretario Daniela Melchiorre» dice Manlio Milani, dell' associazione familiari delle vittime. Melchiorre conferma e racconta di aver avuto un' idea: «Noi vogliamo che abbiano soddisfazione non solo le vittime di Piazza Fontana, ma quelle di tutte le stragi - spiega -. Perciò pensavamo di usare i 50 mila euro stanziati per acquistare i macchinari che servono a informatizzare le carte, in modo da poterlo fare in futuro ogni volta che sarà necessario. Certo, poi ci vuole il personale da destinare all' incarico e il guaio è che siamo in carenza di organico. In ogni caso, ne parlerò in settimana col dipartimento dell' organizzazione giudiziaria». Auguri. Al ministero della Giustizia, non è notizia di oggi, non hanno soldi. Non ce ne sono per la carta, né per le auto. Chissà se ci sono ancora i 50 mila euro stanziati a suo tempo. «Ma informatizzare quelle carte è un' iniziativa giusta - dice Guido Salvini, che a Milano come giudice istruttore ha svolto gran parte della nuova inchiesta sulla strage -. Non sono solo gli atti di un caso giudiziario, ma una fotografia dell' Italia degli anni ' 60 e ' 70. Un pezzo di storia che interessa e continuerà a interessare a tanti studiosi e studenti». Gerardo D' Ambrosio, oggi senatore dell' Ulivo, ieri Procuratore di Milano, è d' accordo: «Lasciare perdere queste cose sarebbe sbagliato. Ci sono persone che ancora mi chiedono di quella mia sentenza su Pinelli. Ma gli atti del processo Pinelli, ho scoperto, sono stati distrutti».

CorContritumQuasiCinis
00venerdì 10 novembre 2006 13:56
lemiemanisudite2.
00venerdì 10 novembre 2006 14:02
Re:

Scritto da: CorContritumQuasiCinis 10/11/2006 13.56
Il mio caro vecchio TOM.





Come scorre la sua vita in mezzo a tutto questo silenzio?


"Diversa ogni giorno. È come stare sulla torre di controllo di un aeroporto: momenti di noia mortale, momenti di terrore assoluto. A volte la barca è piena di pesci, a volte sei in cerca della tua fede nuziale in fondo all'oceano, a volte il vento soffia così forte che quasi ti strappa la pelle dal viso, a volte sorseggi un limonata sul bordo della piscina. Qualche volte si fa festa, altre volte c'è carestia: in mezzo il nulla. A volte, come diciamo noi americani per dire che diluvia, piovono cani e gatti, altre volte anche tori, mucche e topi. E qualche volta la mia vita galleggia su un petalo di giglio".


Meraviglia. Non si è Tom Waits a caso.







ongii
00venerdì 10 novembre 2006 14:08


In americaoggi di altman, goduto l'altra sera,
tom è non solo bellissimo, e sexyssimamente ubriaco,
ma è proprio tutto lui
con quel pizzico di lucidità totale, e sincera, in un corpo
devastato dall'alcool.

bello, e rauco. solo rauco.
lemiemanisudite2.
00venerdì 10 novembre 2006 14:23

La più bella canzone di Tom Waits





lemiemanisudite2.
00venerdì 10 novembre 2006 18:07
Francesco Merlo per “la Repubblica”


Da un lato c´è la semplicità e dall´altro il barocco. Ci sono loro che in meno di 24 ore adeguano il pensiero politico alla novità del voto e noi che «il Molise è un dettaglio locale». Loro che hanno già sostituito Rumsfeld con Gates, come avevano esplicitamente chiesto i vincitori, e noi che a cinque mesi dal risultato elettorale non siamo neppure d´accordo su chi ha vinto e su chi ha perso. Loro che già ieri a pranzo hanno brindato insieme, da un lato il presidente cow boy e dall´altro la "lady liberal" Nancy Pelosi, e noi che ancora ci diamo reciprocamente del ladro e del bugiardo.

Loro che adeguano la politica alla realtà e noi che surroghiamo la realtà con la politica. Loro che sono veloci nei riti, nello sventolio di bandiere e nei ricambi istituzionali e noi che ci impantaniamo nelle sedute-fiume di Camera e Senato, Bertinotti o D´Alema?, Napolitano o D´Alema?, e poi mille vertici, mille correnti, mille portavoce, mille sottosegretari, e lo scorporo, la delega, la concertazione, l´ossimoro, il manuale Cencelli, l´indulto ma con sofferenza, tax sì e tax no, liberalizzo ma proteggo, il partito democratico e la crisi del gazebo, ministri contro ministri, il governo in piazza contro il governo.

Il pragmatismo e l´efficacia degli americani contro le sottigliezze, le sfumature e le rendite di posizione degli italiani. Da quella parte c´è la velocità e da questa i brogli, la par condicio e ovviamente la verifica. L´America piaceva già a Goethe, che pure non c´era stato, perché «non ha i castelli e non ci sono i basalti»: l´idea dell´America liscia liscia, bella e diretta, olimpicamente classica, senza le contorsioni inverificabili della verifica.

Pensate, Bush non ha chiesto la verifica, non ha dato la colpa al destino cinico e baro, non ha detto «paghiamo un difetto di comunicazione», oppure «non abbiamo saputo far arrivare il nostro messaggio», o ancora «la colpa è dei giornali». Anzi si è messo a rincuorare i giornalisti accreditati alla Casa Bianca che facevano la faccia triste, mentre a Roma quando Francesco Rutelli, alla vigilia del cambio di governo, andò spudoratamente a passeggiare alla Rai fu tutto un correre, uno stringer di mani, un tradire: «Liberateci, liberateci».

E cosa diventerebbe in Italia il governo bipartisan della politica estera inventato da Bush in 24 ore? Un inciucio, naturalmente. E come si comporterebbe la politica italiana dinanzi al dimezzamento del potere tra destra e sinistra, alla coabitazione forzata, al risico dei 51 seggi contro 49? Con il solito trasformismo, con il mercato parlamentare, ovviamente: il senatore della Virginia James Webb, per esempio, sarebbe già stato discretamente avvicinato, come il paffuto Di Gregorio. E quale governo italiano ammetterebbe la sconfitta, come ha fatto Bush, mentre i risultati del Senato erano ancora in bilico? Quale premier italiano si congratulerebbe con l´avversario prima ancora della conclusione dello spoglio?

Come si vede siamo davanti all´ennesima lezione americana, non solo di democrazia, ma di verità. Non è infatti un insulto alla logica notare che, bambinoni come Clinton, cow boy rozzi come Reagan e come i due Bush, o agricoltori babbioni come Carter, i presidenti americani raccontati da molti giornali e da molti intellettuali italiani, semplicemente non esistono. Così Bush non è uno Stranamore, non è il generale pazzo che gioca follemente con la guerra, ma è un autentico prodotto della democrazia americana, testardo sì ma non davanti alla sconfitta, e anzi intelligente nell´apertura agli avversari che hanno vinto. Non solo infatti si congratula, ma capisce che c´è una nuova maggioranza che è contraria alla sua politica, che ci sono nuovi e legittimi umori che chiedono rappresentanza istituzionale e che la democrazia, di cui egli è pedina, gli impone di riconoscerli e di adattarsi.

E poco importa che la campagna elettorale sia stata dura, al punto che Bush era Thief invece che Chief, ladro invece che capo. Un giornalista gli ha chiesto: «Signor presidente, Nancy Pelosi le ha dato dell´incompetente, del bugiardo e ancora ieri ha detto che lei è pericoloso. Come potete cooperare?» Ecco la risposta di Bush: «Faccio politica da abbastanza tempo per capire quando finisce una campagna elettorale e quando comincia il governo».

La verità e che li dipingiamo imperialisti e guerrafondai, superficiali e sostanzialmente stupidi, perché i presidenti americani ci fanno l´effetto che alla volpe fa l´uva quando è troppo in alto. E dimentichiamo che attorno a loro si raccolgono le migliori intelligenze accademiche, quelle stesse presso le quali noi facciamo accattonaggio intellettuale, perché in Italia non c´è titolo più esibito, anche da parte dei più accesi antiamericani, dell´essere stato in una università americana, allievo dei consiglieri della Casa Bianca.

Ci piace prendere in giro l´America delle americanate, ricorrendo sempre al vecchissimo, consunto cliché di superiorità del Vecchio Continente, della vecchia signora sul pavernu. Perciò ripetiamo stancamente che gli americani non conoscono la raffinatezza della civiltà cortese, non hanno avuto il Rinascimento, che agli americani manca il passato dove sono state forgiate le buone maniere, mancano il Medioevo, le cattedrali gotiche, i templi greco-romani. Se volete un elenco dei pregiudizi europei che sono all´origine dell´attuale antiamericanismo rileggetevi nella riedizione adelphiana lo splendido libro (1955) di Antonello Gerbi "La disputa del Nuovo Mondo".

Si va da Humboldt che li considerava «una stirpe degenerata» a Schopenhauer che li definiva «mongoli modificati dal clima» a Hegel secondo il quale non valeva la pena occuparsene né da parte della storia né da parte della filosofia. Attualizzati e rimodernati quei pregiudizi d´autore sono ancora oggi gli ordigni difensivi che costruiscono l´ideologia antiamericana, sono la pappa, dozzinale e cafona, di una storia raccontata ad "usum revolutionis" dai nostri ostinatissimi cattivi maestri e che ci fa malpensare, legittima i rancori, le riserve da camerieri, da provinciali. Perciò arriviamo a dubitare che siano davvero stati sulla Luna, qualcuno giura che le due Torri se le sono distrutte da soli, vediamo dappertutto complotti della Cia, che sarebbe la kappa dell´Amerika, il suo sottosuolo dostoevskiano.

Insomma neghiamo quella democrazia che perciò ad ogni elezione ci stupisce. E restiamo a bocca aperta vedendo che anche Bush, come tutti gli altri, ci impartisce lezioni, nonostante la stanchezza di una nazione in guerra. L´America di Bush è ancora l´America di Tocqueville, e rimane il nostro modello di riferimento. La sola differenza è che oggi siamo noi quegli incredibili americani che furono scoperti e deformati dai pregiudizi. Con una lingua politica che è una babele, con le procedure istituzionali ridotte ad apparati cerimoniali, con una inaderenza cadaverica alla realtà che velocissima ribolle, siamo noi «i decaduti» raccontati nel libro di Gerbi. I selvaggi, l´umanità sguaiata, siamo diventati noi.


CorContritumQuasiCinis
00sabato 11 novembre 2006 10:07

[...] Roberto Della Seta, presidente di Legambiente. "Se la denuncia della signora Crespi fosse vera - continua Della Seta - si tratterebbe di un atto gravissimo non solo per l’effetto diretto, e cioè i soldi sottratti ai Beni culturali, ma anche per quello indiretto che si traduce nell’aumento della sfiducia dei cittadini verso le istituzioni" [...]

Berlusconi usò l’8 per mille per finanziare la guerra in Iraq

Vegas (Fi) conferma: spostati 80mln.

«L’otto per mille originariamente doveva essere devoluto tutto agli aiuti al terzo mondo, alla cultura e a cose di questo genere. Poi una parte venne utilizzata per le missioni all’estero. E una parte anche per l’Iraq». Giuseppe Vegas, vice-ministro dell’Economia nell’ultimo governo Berlusconi, conferma candidamente a Affaritaliani.it quanto denunciato da Giulia Maria Mozzoni Crespi, presidente del Fai (Fondo per l’ambiente italiano): l’otto per mille che i cittadini italiani hanno voluto assegnare al restauro dei beni culturali, alla lotta alla fame, all’assistenza ai rifugiati, e alle calamità naturali, è andato invece a finanziare la missione militare in Iraq.

«Era stata sottratta una parte originariamente poi il resto è stato lasciato per le varie scelte che son state fatte sull’otto per mille» spiega il senatore di Forza Italia. Ma, in concreto, quanto andò all’Iraq? Chiedono i giornalisti all’ex sottosegretario «Attorno a un terzo, circa 80 milioni», ammette candidamente Vegas.

La notizia dell’uso improprio dell’8 per mille è stata rilanciata in mattinata dal presidente del Fai: «Mi ha colpito quello che mi ha detto Enrico Letta, e cioè che l’otto per mille che i cittadini italiani hanno assegnato all’arte, alla cultura e al sociale è stato attribuito alla guerra in Iraq e solo una minima parte è stata data per combattere la fame nel mondo - ha detto Giulia Maria Mozzoni Crespi in apertura di un convegno sulla tutela dei beni ambientali - Letta lo aveva detto in una conferenza, ma mi ha riferito desolato che era stato pubblicato solo in un trafiletto da un quotidiano».

In effetti lo scorso 31 agosto il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Enrico Letta, al termine di una riunione del Consiglio dei ministri, aveva dichiarato che l’esecutivo, affrontando la questione dell’8 per mille per quel che riguarda la quota statale, aveva scoperto un "buco" di diversi milioni: «Questa quota, all’incirca 110 milioni di euro, con le Finanziarie degli anni scorsi è stata decurtata, e i fondi usati per altri scopi - disse Letta - Per questo abbiamo trovato soltanto 4,7 milioni di euro su gli oltre 100 che dovevano essere disponibili».

(L'Unità, 10 nov 2006)
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Denuncia del presidente del Fondo per l’ambiente in Italia Giulia Maria Crespi "Me lo ha detto il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Enrico Letta"

"L’8 per mille dato dagli italiani per l’arte andato in gran parte per la guerra in Iraq"

Legambiente: "Un grave inganno per i cittadini. Se fosse vero provocherebbe un aumento della sfiducia verso le istituzioni"

ROMA - "Sono rimasta strabiliata che l’8 per mille dato dai cittadini italiani per l’arte, la cultura e il sociale sia andato in gran parte per la guerra in Iraq e solo una minima parte per la fame nel mondo". Lo ha detto il presidente del Fai, Fondo per l’ambiente in Italia, Giulia Maria Crespi aprendo a Roma il convegno nazionale sul tema "La riscossa del patrimonio. Beni culturali, paesaggio e rilancio economico". "A rivelarmelo è stato Enrico Letta - ha aggiunto - il quale a suo tempo lo aveva riferito in una conferenza stampa ma era stato riportato solo in un trafiletto di giornale".

Le parole di Letta. "Il Consiglio dei ministri di oggi ha affrontato la questione dell’8 per mille per quel che riguarda la quota statale", disse lo scorso 31 agosto il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Enrico Letta. "Questa quota - aggiunse Letta - all’incirca 110 milioni di euro, con le finanziarie degli anni scorsi è stata decurtata, e i fondi usati per altri scopi", rispetto a quelli previsti: restauro dei beni culturali, lotta alla fame, assistenza ai rifugiati, calamità naturali.

Per questo, secondo il sottosegretario, "abbiamo trovato soltanto 4,7 milioni di euro sugli oltre 100 che dovevano essere disponibili". Una scelta, sottolineò Letta a proposito del precedente governo, "che si commenta da sola, e che noi critichiamo".

Questo, proseguì Letta, "a fronte di 1.600 domande per oltre 630 milioni di euro". Una situazione che ha costretto il governo Prodi a fare delle scelte: "Abbiamo deciso di usare i 4,7 milioni di euro solo per un capitolo dei 4 per i quali vengono impiegate queste risorse: l’assistenza ai rifugiati e le calamità naturali".

Legambiente. "Sicuramente quando hanno firmato per l’8 per mille allo Stato non pensavano di andare a finanziare la missione in Iraq. Un grave inganno per gli italiani", afferma Roberto Della Seta, presidente di Legambiente. "Se la denuncia della signora Crespi fosse vera - continua Della Seta - si tratterebbe di un atto gravissimo non solo per l’effetto diretto, e cioè i soldi sottratti ai Beni culturali, ma anche per quello indiretto che si traduce nell’aumento della sfiducia dei cittadini verso le istituzioni".

(La Repubblica, 10 novembre 2006)



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Iraq/ "L’8x1000 ha finanziato la guerra".
Rivelazione choc di Enrico Letta


L’otto per mille che i cittadini italiani hanno voluto assegnare alla cultura sarebbe andato invece a finanziare la missione in Iraq. E’ quanto ha scandito la presidente del FAI, Giulia Maria Mozzoni Crespi, aprendo il convegno annuale che il fondo per l’ambiente italiano dedica al patrimonio artistico. "Mi ha strabiliato - ha riferito Crespi - quello che mi ha detto Enrico Letta, e cioe’ che l’otto per mille che i cittadini italiani hanno assegnato all’arte, alla cultura e al sociale è stato attribuito alla guerra in Iraq e solo una minima parte è stata data per combattere la fame nel mondo.

Enrico Letta - ha proseguito la Crespi - lo aveva detto in una conferenza, ma mi ha riferito desolato che era stato pubblicato solo in un trafiletto da un quotidiano".

"L’otto per mille originariamente doveva essere devoluto tutto agli aiuti al terzo mondo, alla cultura e a cose di questo genere. Poi una parte venne utilizzata per le missioni all’estero. E una parte anche per l’Iraq". Così l’ex vice-ministro dell’Economia, Giuseppe Vegas, intervistato da Affaritaliani.it in merito alle dichiarazioni di Giulia Maria Mozzoni Crespi, presidente del FAI, secondo la quale l’otto per mille che i cittadini italiani hanno voluto assegnare alla cultura sarebbe andato invece a finanziare la missione in Iraq. "Era stata sottratta una parte originariamente - spiega il senatore di Forza Italia - poi il resto è stato lasciato per le varie scelte che son state fatte sull’otto per mille". Quanto andò all’Iraq in concreto? "Attorno a un terzo, circa 80 milioni", spiega Vegas.

(AFFARI ITALIANI. Venerdí 10.11.2006 14:15)

CorContritumQuasiCinis
00lunedì 13 novembre 2006 13:51
"Oggi stiamo spaventosamente regredendo ..."

Tralascio il fatto di cronaca, di cui siamo tutti al corrente.

Vi riporto invece, un commento accorato di Umberto Galimberti, tratto da Repubblica.

Quella forza dei ragazzi senza cuore
di UMBERTO GALIMBERTI

MA ATTRAVERSO quali processi i nostri ragazzi costruiscono la loro identità e l'autostima di sé? Attraverso processi molto arcaici e primitivi, a giudicare dal fatto che tra i video più cliccati su Google c'è quello girato in una scuola superiore italiana da un gruppo di ragazzi che, senza pietà, menano e umiliano un compagno Down. Si sa che i Down sono molto miti e affettuosi, quasi la natura avesse compensato il loro difetto genetico con l'affetto che inducono con la loro gestualità impacciata ma commovente.

Commovente per tutti, ma non per quella moltitudine di ragazzi che traggono soddisfazione identificandosi con quei coetanei che pensano che la natura ci ha dato mani e piedi solo per menare il prossimo. Naturalmente quando il prossimo è ritenuto più debole di noi. L'umanità ha fatto un percorso lunghissimo per passare dalla violenza del gesto alla discussione con la parola.

Oggi stiamo spaventosamente regredendo. E costruendo fin dalla più tenera età ragazzi che cercano la loro identità nella forza. Non nella forza del carattere, e neppure nella forza del pensiero, ma, nella completa afasia del cuore e della mente, nella forza dei muscoli, naturalmente dopo aver opportunamente valutato che la propria forza superi quella dell'altro.

E nel loro cuore latita non dico l'amore, sentimento troppo sofisticato per i loro cuori, ma la commozione che non devi fare nessuno sforzo per trovare. Viene da sé, tocca il tuo cuore per il semplice fatto che di fronte a te hai un tuo simile, e per giunta più svantaggiato di te.

"Senza cuore" non è un'espressione patetica. Significa che in te non si è formato quel sentimento di appartenenza alla comunità umana già presente nel mondo animale, dove tendenzialmente il simile non attacca il simile. Il senso di appartenenza non è una conquista culturale, è un dato naturale che accomuna tutte le specie e, al loro interno, le salvaguarda.

Dobbiamo allora pensare che la nostra cultura sia così degradata da infrangere, sin dalla giovane età, non solo il precetto universale di amare il prossimo, presente in tutte le religioni, ma anche il ribrezzo naturale di accanirsi sul più debole? Sì, dobbiamo pensarlo se è vero che quel video è tra più visti sul Web.

E allora la scuola, prima delle discipline che è incaricata a insegnare, prima dell'educazione civica impartita per avviare all'osservanza della legge, dovrebbe incominciare a indagare se i fondamentali della natura umana sono ancora presenti e attivi nei ragazzi che ogni giorno vanno a scuola e poi a casa accendono il loro computer per identificarsi con quell'aggressività malsana che fraintende la crudeltà con la forza e l'affermazione della propria identità con l'accanimento fisico sul più debole e il più indifeso.

Scuola, scuola, scuola. So che i compiti che oggi vengono affidati agli insegnanti sono molti. Ma incominciamo da questo, perché senza il più elementare dei sentimenti umani, nessun processo culturale può partire.

astrodanzante
00lunedì 13 novembre 2006 14:14
Raccogliete le mie braccia per favore! Parte Uno.

Arrivano in ritardo di almeno una settimana, a "click" già moltiplicati, e invece di fare un po' d'autocritica fanno un processo alle intezioni: "sarà vero se è uno dei video più visti" (in quale classifica?)

Non sarà invece che ormai il vostro lavoro lo fanno i bloggers?



Raccogliete le mie braccia per favore! Parte Due.

Per favore, qualcuno vada sul topic "Precari" e spieghi chi è Jena e che si tratta di satira, non di una dichiarazione vera...
Giusitta
00lunedì 13 novembre 2006 14:28
JENA
Gialli
11/11/2006

Finalmente risolto il giallo di Cogne: il piccolo Samuele si è suicidato.

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