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Segnalazione libri e riviste

Ultimo Aggiornamento: 01/05/2006 17:26
13/01/2005 02:25
 
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GLI ALTRI DI UR

di Walter Catalano



Gigi Montonato,
COMI- EVOLA : Un rapporto ai margini
del fascismo, Congedo Editore, Galatina (Le) 2000,
pagg. 160, €. 25,82



Arturo Onofri,
CORRISPONDENZE con Comisso, Montale,
Palazzeschi, Banfi, De Pisis, Evola, Péladan,
De Gubernatis, Gromo, Mazzarelli, Schwarz,
a cura di Marco Albertazzi e Magda Vigilante
con la collaborazione di Michele Beraldo,
La Finestra Editrice, Trento 1999, pagg. 90, €. 10,33



Arturo Onofri
ARIOSO – ORCHESTRINE
La Finestra Editrice, Trento 2002, pagg. 325, €. 48,00



L’ambiente esoterico romano degli anni ’20 e l’attività svoltasi intorno alle riviste Ignis, prima, e Ur e Krur, poi, facenti capo alle due figure cardinali e contrapposte di Arturo Reghini e di Julius Evola, viene indagato sempre più approfonditamente da numerosi studiosi e ricercatori che non disdegnano l’utile compito di trarre dall’oblio anche i personaggi minori di questa feconda e per troppo tempo misconosciuta stagione intellettuale.

Al recupero di un’epoca, di un’atmosfera e di uno stile remoti, contraltari sotterranei alle “follie del tabarin” care ai nostri nonni, contribuiscono egregiamente questi volumi curati da Gigi Montonato e da Marco Albertazzi. Il primo è un saggio sul rapporto fra il barone Girolamo Comi -1890/1968- poeta e membro del Gruppo di Ur (sotto il nome di Gic) ed il barone Julius Evola, i secondi due fanno parte di una articolata operazione editoriale condotta dalla piccola ma prestigiosa casa editrice trentina - La Finestra di Marco Albertazzi - che ha pubblicato, per la prima volta in modo organico, gran parte delle opere del poeta e antroposofo – anch’egli membro del Gruppo di Ur ( sotto il nome di Oso) e amico di Evola - Arturo Onofri -1885/1928- (divisa in vari volumi, oltre ai due che qui recensiamo conta il Ciclo lirico della Terrestrità del sole; il Nuovo rinascimento come arte dell’Io, Le Trombe d’argento, Scritti esoterici, ecc.; a questa su Onofri si affiancano analoghe iniziative dedicate allo stesso Girolamo Comi – è stata ristampata la sua principale raccolta poetica Spirito d’armonia – e ad un altro membro del Gruppo di Ur, il pitagorico Aniceto del Massa (Sagittario) –1898/1976 – di cui sono apparse le Pagine esoteriche).

Sia Comi che Onofri sono fedeli compagni di strada di Evola, sodali del suo gruppo magico, fedeli alla linea evoliana dopo la frattura con l’ala massonica di Reghini, sebbene siano entrambi intellettualmente e dottrinalmente autonomi rispetto all’imperialismo pagano del Barone. La corrispondenza riportata nei volumi evidenzia i formalmente rispettosi ma non per questo meno fieri attacchi di Evola contro lo steinerismo di Onofri e l’incombente conversione al cattolicesimo di Comi. Le lettere raccolte nel volume curato da Albertazzi delineano inoltre le molteplici relazioni di Onofri in ambito sia letterario e poetico (Comisso, Montale, Palazzeschi, De Pisis, Gromo, ecc.), sia esoterico (oltre ad Evola, gli antroposofi Alcibiade Mazzarelli e Lina Schwarz) ed occultistico (Josephin Péladan ed Angelo De Gubernatis) testimoniando direttamente – come segnala con acutezza Albertazzi nella sua introduzione – la natura “sapienziale” della poesia di Onofri il cui scopo è “rievocare, attraverso la tecnica compositiva, quel mondo costituito da sottili ‘melodie rapprese in mondo’, da ‘suoni del Gral’, che la condizione terrena tenta di farci ripudiare” ; manifestare attraverso “misteriose corrispondenze” e rivelare trascendendo la funzione ordinaria del linguaggio “una lingua angelica […] nella quale il parlare è un accordare il mondo con sé stesso”.

Onofri - scomparso prematuramente la notte di Natale del 1928 - non farà in tempo, a differenza di Comi, a seguire Evola nell’avventura de “La Torre” e del “superfascismo” tradizionalista, quando la stagione più creativa e affascinante del Barone era ormai tramontata e all’idealista magico e all’imperialista pagano – ancora carichi della dinamite dadaista – stava subentrando l’alfiere del razzismo “spiritualista” e il collaboratore di Farinacci. Comi gli resterà fedele fin sulle pagine di Diorama Filosofico, inserto culturale di Regime Fascista: come precisa Montonato, “Si tratta di una chiara militanza ideologica, sia pure limitata a temi e modi riconducibili genericamente alla Tradizione e alle polemiche critico letterarie così accese in quegli anni”.

Dal 1935 in poi il rapporto fra i due si offusca dopo la definitiva conversione al cattolicesimo di Comi e la sua pubblicazione nel 1937 di Aristocrazia del Cattolicesimo stroncato in toni duri e sarcastici da Evola. D quella data in poi, sebbene i rapporti personali restassero amichevoli, Comi non fa più parte del gruppo evoliano. “Come due personaggi ovidiani – commenta efficacemente Montonato – Evola e Comi finirono per essere ‘puniti’ per la loro aristocratica fierezza e condannati a metamorfosi[…] Entrambi sfidarono le vertigini delle vette e lì in alto incontrarono la divinità castigatrice. Evola, che voleva perfino morire in piedi, fu condannato da paralisi, provocata da schegge di bomba, a vivere su una sedia a rotelle. Comi, che aspirava alle altezze dell’assoluto poetico, finì nelle bassezze di un’esistenza avvilente”. Quest’ultimo - che pure, come poeta, Albertazzi colloca in una posizione originalissima in equilibrio fra i crepuscolari, la poesia esperienziale di Daumal e del Grand Jeu e quella sufi araba e persiana - emerge invece dalla ricostruzione biografica di Montonato come il classico antieroe decadente: scapestrato in gioventù e pessimo studente; ‘pacifista’ riformato per ‘nevrastenia cerebrale’ durante la Grande Guerra; tiepido fascista (il suo conterraneo Starace gli rifiuterà la tessera nel ’38); tiepido esoterista prima e tiepido cattolico poi; dilapidatore del patrimonio familiare “fra salotti letterari e banchetti, un po’ Mecenate e un po’ Anfitrione” ; finirà per sposare la sua governante e sopravvivere grazie alla generosità dei compaesani e ad un tardivo e magro vitalizio statale. Sebbene Montonato metta in relazione questa esistenza fallimentare con il destino generale delle aristocrazie del Regno delle Due Sicilie, il Comi ci ricorda piuttosto un personaggio uscito dalla arguta fantasia di un poeta del Nord: il Totò Merùmeni di Guido Gozzano, “il buono che derideva il Nietzsche[…]“ che “sognò pel suo martirio attrici e principesse/ ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne[…]”,” anima riarsa” che “Alterna l’indagine e la rima […]” ed “esprime a poco a poco/ una fiorita d’esili versi consolatori…”.



Da http://www.airesis.net/recensioni/comi_evola_onofri.htm
15/01/2005 17:46
 
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Il folle sogno di Edipo: sottomettere il mondo alla nostra ragione
Una guida al celebre mito ne ripercorre significati interpretazioni e figure: la sua grandezza consiste nella permanente interrogazione, nulla di definitivo può essere detto sull’uomo

15/1/2005

Augusto Romano

CERTAMENTE non sbagliava C. Levi-Strauss quando osservava che Freud, piuttosto che interpretare il mito di Edipo, ne aveva in realtà scritto un nuovo capitolo. Se è vero che i miti raccontano noi a noi stessi, certamente quello di Edipo è tra i più evocativi, giacché possiede la capacità di espandersi in tutte le direzioni partendo da un nucleo narrativo apparentemente semplice. La sua esemplarità sta nella sua inesauribilità, nella sua naturale disponibilità a sollecitare nuove immagini e riflessioni, a tracciare nuovi percorsi interiori. La sua struttura sembra essere quella del disvelamento, tanto che scherzosamente la tragedia di Sofocle è stata definita un precursore del romanzo poliziesco. In verità, si tratta di un disvelarsi mai definitivo, mai pienamente soddisfatto di sé: un disvelarsi che non rinnega l'enigma cui dovrebbe dare soluzione, e così mostra la natura essenzialmente ambigua e irriducibile della nostra esperienza. Il mondo di oggi, malato di false certezze, può trovare nel mito di Edipo una puntuale confutazione. Non è tanto la fantasia freudiana sull'Edipo (tra l'altro, scarsamente fondata sugli elementi del mito) a commuoverci, quanto piuttosto la riflessione che esso ha sollecitato nel mitologo e grecista J.P. Vernant, cui si deve l'aver attirato l'attenzione sul fatto che, primariamente, la tragedia di Edipo è la tragedia dell'orgoglio, della ubris, e della inconsapevolezza. Edipo il chiaroveggente, il decifratore di enigmi, ignora la parte di ombra che rappresenta il sinistro riflesso della sua gloria, e perciò non sa di essere anche un mostro di impurità, che la città dovrà espellere come capro espiatorio per poter tornare pura. A un livello più profondo, Edipo è il testimone della insondabilità divina, e dunque della costitutiva duplicità della natura umana. Non viene qui sottolineato tanto il tema della colpa morale quanto l'impossibilità di dare dell'uomo una lettura univoca, e perciò la necessità di accettare che egli sia un plesso di contraddizioni insolubili. In Edipo, che è insieme il segnato e l'eletto, gli opposti si incontrano. E dunque, quando l'uomo, sulle orme di Edipo, tenta una domanda radicale su di sé, si scopre senza un'essenza definita, oscillante tra l'eguale a dio e l'eguale a nulla. Cosicché Vernant può concludere che «la sua vera grandezza consiste proprio in ciò che esprime la sua natura di enigma: l'interrogazione». E' questa una conclusione cui, per altra via, giunge lo scrittore F. Dürrenmatt quando, nel racconto La morte della Pizia, Tiresia, rivolgendosi alla Pizia, dice: «Come io, che ho voluto sottomettere il mondo alla mia ragione, ho dovuto affrontare te che hai provato a dominare il mondo con la tua fantasia, così per tutta l'eternità coloro che reputano il mondo un sistema ordinato dovranno confrontarsi con coloro che lo ritengono un mostruoso caos». Come certe stoffe, siamo cangianti e nulla di definitivo può essere detto su di noi. Alla luce di questi pensieri, anche l'interpretazione freudiana del mito, che si ispira a un certo positivistico ottimismo, si ridimensiona da sé. Certo, l'oracolo (il cieco Tiresia o, per noi moderni, i sogni in quanto veicoli dell'inconscio) ci dà dei suggerimenti, che però sono di incerta comprensione. In questo consiste però la loro ricchezza, a condizione di riconoscere la valenza positiva della frase di Eraclito, secondo cui «il signore, cui appartiene l'oracolo che sta a Delfi, non dice né nasconde, ma accenna». Del resto la cecità, cui anche Edipo approderà, indica l'appartenenza a un mondo di segni non riconoscibili dallo sguardo superficiale che appartiene alla vita diurna, quotidiana.
Consiglio vivamente il bel libro di Bettini e Guidorizzi, Il mito di Edipo. Si tratta - e mi riferisco soprattutto al contributo di Guidorizzi - di un saggio assai accattivante, proprio perché capace di restituire l'intreccio vertiginoso di temi che il mito evoca. Sebbene lo stile piano e comunicativo faccia pensare a un intento divulgativo, in realtà la grande competenza e la sottigliezza con cui i dati offerti dalla mitologia e i problemi antropologici che vi sono connessi vengono analizzati, fanno di questo libro una sintesi efficace e molto nutriente dei tanti significati che, sullo sfondo della cultura greca, possono essere attribuiti al mito di Edipo e delle funzioni che svolgono le figure che lo abitano. Non ultimo motivo di interesse è l'apparato dei rimandi testuali alle fonti, la ricca bibliografia, l'appendice dedicata alle incarnazioni moderne del mito e, infine, l'iconografia (curata da S. Chiodi e C. Franzoni). Quanto istruttiva la differenza tra l'ex libris di Freud inciso da Luigi Kasimir, in cui Edipo fronteggia con ingenua determinazione una Sfinge che lo guarda con l'atteggiamento intento di chi conosce il futuro che lo attende, e i quadri di G. Moreau o di F. Khnopff, in cui una Sfinge-femme fatale sembra alludere a un femminile divorante e a un maschile inquieto e debole. Brividi della modernità, finis Austriae: Edipo perde la sostanza eroica, e noi possiamo immaginarlo frastornato e insieme risucchiato dai tonfi definitivi dell'orchestra malheriana.
Peccato per gli errori di stampa.


Recensione a Maurizio Bettini Giulio Guidorizzi, Il mito di Edipo, Einaudi, pp. 250, € 18

nhmem
zilath mexl rasnal
28/01/2005 23:16
 
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Il fiume rosso di Hermann Löns



Hermann Löns Il fiume rosso Firenze, 2005, autoprodotto, Introduzione di Stefano Senesi. Formato A5. Costo 5,00 euro
Illustrazioni di Werner Graul (le sue opere nel sito http://www.geocities.com/graulwerner/ ). Richiedere a: wuotan@infinito.it

Nella novella Die Rote Beeke (“Il fiume rosso”), ora tradotta in italiano, lo scrittore e poeta tedesco Hermann Löns descrive l’uccisione di 4.500 guerrieri sassoni che nel 782 furono giustiziati a Verden su ordine di Carlo Magno per non aver abiurato la loro religione pagana e rifiutato il battesimo. Il racconto fu pubblicato in Germania nel 1912 dalla casa editrice Sponholtz Verlag, illustrato da incisioni dell’artista Erich Feyerabend.

Dall'introduzione a cura di Stefano Senesi

Meglio morti che schiavi

Alla morte di Pipino Il Breve, uno dei suoi bastardi, Carlo, che la Chiesa chiamerà Magnus, il futuro Carlo Magno allora ventiseienne, ereditò un territorio dall’estremità orientale della Turingia e del nord della Frisia fino alla Guascogna. Nel 771, alla morte di suo fratello, egli dominò su tutto il regno di suo padre. Nel 778 i Sassoni si ribellarono. Guidati dall’audace capo Witukind (o Witikind: in antico sassone “il bianco fanciullo”), forzano le frontiere del regno franco. Carlo Magno organizzò immediatamente delle spedizioni punitive. Ma nel 782 un’armata franca fu sorpresa dai Sassoni e fatta a pezzi ai piedi del Suntelgebirge, sulla riva est del Weser. Due dei tre generali che la comandavano restarono sul terreno. La risposta di Carlo Magno fu di un’inaudita ferocia. Raggiunto il suo esercito, egli sconfisse i Sassoni a Verden, vicino alla confluenza del Weser e dell’Aller. L’eccidio in questione si consumò presso Externsteine in un solo giorno, dove vennero decapitati 4500 primogeniti delle più nobili famiglie sassoni. Dal 783 al 785 gli scontri ripresero violenti. Carlo Magno si accanì e trionfò sulle ultime resistenze nel 785. All’assemblea generale di Paderborn Witukind fu costretto ad arrendersi. Un capitolare impiantò in Sassonia la civiltà franca e la religione cristiana. Esso dispose che “ogni Sassone non battezzato, che cercherà di nascondersi ai suoi compatrioti e che rifiuterà di farsi amministrare il battesimo, sarà messo a morte”. E’ difficile riproporre oggi questa storia, dopo secoli e secoli di distruzione mentale sistematica da parte del fanatismo monoteista. A testimonianza di questa crociata contro l’Europa rimane il santuario dissacrato delle Externsteine. Il luogo dove si svolgevano antichissimi culti millenari e dove i simboli della religione pagana sono stati occultati, presenta alla base di una delle rocce sacre la Deposizione dalla croce. Risalente al 1220 ca., ad opera di monaci cistercensi, propone la figura dell’Irminsul, l’axis mundi venerato dai pagani piegato, sul quale Nicodemo sale per staccare il corpo di Cristo dalla croce. E’ facile individuare in questa semplice raffigurazione la simbolica rappresentazione del potere del Verbo che ha piegato il paganesimo, soffocandone la sua atavica vitalità. Ma non è il caso di dilungarsi qui su questo argomento, che esigerebbe decisamente troppe parole. Basti dire che ad osservare il sito roccioso di Externsteine con la sua struttura, il pagano con il suo animismo ritorna prorompente, e pare vibrare nelle tradizioni, nelle leggende, nella forma dei grandi massi. E allora l’Irminsul piegato pare risollevarsi…

[Modificato da Il Ghibellino 13/02/2005 18.19]

29/01/2005 00:48
 
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Ottima iniziativa!
Spero il volume sia anche disponibile qui a Roma presso la libreria Europa. La settimana prossima passo a dare un'occhiata.

[SM=g27817]
05/02/2005 17:09
 
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Se ai Greci togli gli dei, spariscono pure gli uomini


Nel mondo, il divino sospende il potere del caos e afferma quello della bellezza: il classico di Walter Otto, storico delle religioni «ispirato» da Nietzsche, un libro per Baricco...

Federico Vercellone


GLI dei sono qui - affermò il grande antagonista di Friedrich Nietzsche, colui che ne condannò la visione mistica della grecità, il rigoroso e scientificamente laicissimo Ulrich von Wilamowitz Moellendorf rammentando così il requisito fondamentale della religione greca, quello per cui il dio consiste della propria apparizione, manifestandosi qui e ora. Il divino - ce lo ricorda il volume Gli dei della Grecia di un grande storico delle religioni eterodosso e d'ispirazione nietzschiana, quale Walter Otto - custodisce, per il greco, una determinata sfera dell'essere e le dà forma. Ogni figura dell'Olimpo restituisce intuitivamente, attraverso i suoi lineamenti, un ambito dell'attività umana o della natura nelle sue sfumature e modulazioni, e ne contempla caratteristiche e peculiarità.
Questa suprema vivente connessione si chiama dio. Proprio per ciò nessun greco si sarebbe mai chiesto se gli dei esistessero: semplicemente li aveva dinanzi come evidenze grazie alle quali una determinata sfera del mondo assume le proprie fattezze. In breve un greco non poteva essere ateo proprio perché non credeva ai suoi dei ma semplicemente ne presupponeva l'esistenza. Stando così le cose non ha alcun senso voler secolarizzare il mondo omerico, poiché se gli si sottrae il divino non gli resta neppure l'umano. E' così che operazioni recenti come quella di Alessandro Baricco, intese a laicizzare un poema come l'Iliade eliminando gli dei dalla narrazione, finiscono per lasciare notevolmente perplessi. L'esito ultimo di un adattamento di questo genere del testo antico è quello di produrre un falso vero e proprio: nessun eroe omerico si sarebbe mai sognato di vivere e agire in un mondo disertato dagli dei. Il disincanto è infatti un prodotto moderno di cui rende ragione un genere tipicamente moderno come il romanzo che con l'epos ha soltanto una vaghissima parentela. Prescindendo ora da divagazioni estemporanee, è il caso di addentrarsi ulteriormente negli Dei della Grecia di Walter Otto, di cui Adelphi presenta una nuova edizione italiana a cura di Giampiero Moretti e di Alessandro Stavru. Alla sua prima edizione, nel 1929, questo testo suscitò interesse e perplessità: esso si proponeva di riproporre lo sguardo nietzschiano sulla religione greca, di mostrare l'abisso originario sul quale il mondo olimpico era venuto a ergersi. Naturalmente la cosa non poteva non suscitare sospetti e contrastanti prese di partito. Nietzsche era infatti stato messo al bando dalla scienza dell'antico proprio da quel
Wilamowitz che avrebbe alla fine adottato il medesimo criterio fatto proprio dal suo antagonista nella Nascita della tragedia, quello secondo cui non si accede al divino che attraverso il divino stesso. Non si può cioè intenderlo se non riconoscendo che esso è ciò che tiene insieme, nella sfera dell'apparizione e non in quella del discorso, diverse sfere dell'essere.
Ciò presuppone una fase più originaria nella quale il divino non è ancora riuscito a prendere dimora nell'ambito che gli compete, quella dell'apparenza, una fase in cui esso lotta per giungere alla chiarezza rappresentativa che gli è propria nell'universo olimpico. Essa è connessa alla sfera della stirpe, del diritto fondato sul sangue; e tutto ciò ci conduce in prossimità dell'Ade, del mondo dei morti. Nello stadio superiore non si è persa del tutto la memoria di questo strato precedente. Lo dimostrano narrazioni come quella di Esiodo a proposito della nascita di Afrodite, secondo la quale questa dea nacque da una curiosa intromissione di Crono nell'amplesso dei genitori, Urano e Terra. Crono evirò il padre e dal seme del sesso divino caduto nel mare e trasformatosi in spuma si venne formando Afrodite. La chiarezza della forma deriva dunque in questo caso da un conflitto oscuro, da un'originaria indistinzione di cielo e terra che, separandosi violentemente, danno luogo alla genesi miracolosa della forma. Nella sua suprema evidenza, essa viene detta bellezza.
La narrazione mitologica non costituisce in nessun modo, da questo punto di vista, un'invenzione fantastica, l'antica testimonianza di un mondo radioso e ingenuo come avrebbe voluto un classicismo caricaturale, ma la testimonianza di una visione profondissima dell'essere e del mondo. Si tratta di un atteggiamento che non testimonia affatto, agli occhi di Otto, una religiosità superficiale alla quale andrebbe accostato per contrasto il cristianesimo. Quando parliamo dei Greci non abbiamo dunque da immaginarci, secondo Otto, un mondo levigato che vive smemorato in una sorta di presente eterno. Al contrario le divinità greche, la loro configurazione, testimoniano - come c'insegna l'esempio di Afrodite - dell'inconcepibile fatica e dolore che costituisce il travaglio della forma, e costituisce il preludio del suo luminoso articolarsi. Attraverso il divino si delinea il mondo nelle sue partizioni, si sospende il potere del caos e s'impone quello più lieve della forma e della bellezza.


Walter Otto

Gli dei della Grecia

a cura di Giampiero Moretti e Alessandro Stavru Adelphi, pp.343, €42

SAGGIO

ttL, tuttoLibritempolibero, 5/2/2005 (supplemento de "La Stampa")


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zilath mexl rasnal
05/02/2005 20:54
 
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Walter Otto... da leggere e far leggere. Importantissimo in questi terribili tempi moderni.

Attenzione anche alla nuova edizione del celeberrimo 'Anticristo' di Federico Nietzsche recentemente edita dalle edizioni di Ar con l'inedito titolo de 'L'anticristiano'.

http://www.libreriaar.it


Questo è quanto. Ora, sabato 5 febbraio 2004 alle ore 20:52, il sottoscritto se ne va placidamente a dormire, domattina lo attendono le vette e la neve e una giornata dotata di senso.
Guten nacht.
13/02/2005 18:23
 
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Laura Rangoni, Il paganesimo (si parla anche dell'MTR)



Edito a gennaio 2005 dalle edizioni Xenia nella collana 'tascabili' questo volumino ad opera di Laura Rangoni intitolato "Il paganesimo" dedica alcune pagine anche al Movimento Tradizionale Romano.
A prima vista il tutto non sembra fatto neanche troppo male, ma leggendo le pagine dedicate all'MTR si evince chiaramente che molto di quanto contenuto è frutto di ricerche su internet.
Il libro l'ho appena acquistato, e quindi non ho ancora avuto modo di leggerlo, ma ho già avuto modo di ravvisare alcuni errori qui e là nonché vari indizi che fanno capire che la compilatrice non è propriamente una profonda conoscitrice della materia. per dirne una mancano nella bibliografia sulla Via Romana i due importanti volumi di Renato Del Ponte ('La religione dei romani' e 'Dei e miti italici').
Comunque questa collana della Xenia è appositamente congeniata per proporre pratici volumini sulle tematiche più disparate, senza che questi abbiano alcuna finalità di esaustività. Sarebbe quindi ingeneroso essere troppo severi con questo libro.
19/02/2005 17:00
 
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L’ORIGINE DEI COMUNI E IL RUOLO DIRIGENTE DEI CAVALIERI: UN SAGGIO DI VIGUER, PIETRA MILIARE NELLA STORIOGRAFIA MEDIEVALE, RIBALTA L’OLEOGRAFIA BORGHESE OTTOCENTESCA


L’ORIGINE DEI COMUNI E IL RUOLO DIRIGENTE DEI CAVALIERI: UN SAGGIO DI VIGUER, PIETRA MILIARE NELLA STORIOGRAFIA MEDIEVALE, RIBALTA L’OLEOGRAFIA BORGHESE OTTOCENTESCA

19/2/2005

Alessandro Barbero

UN passo famoso di Ottone di Frisinga, vescovo e cronista nonché zio dell'imperatore Federico Barbarossa, testimonia lo stupore e il fastidio con cui i nobili tedeschi del suo tempo guardavano alla società comunale italiana, considerata al tempo stesso aliena e sovversiva. Fra le altre enormità di questi insolenti lombardi, che «preferiscono essere governati da consoli piuttosto che da imperatori», quella che maggiormente scandalizza Ottone è la facilità con cui, in Italia, diventano cavalieri «anche giovani di condizione inferiore e addirittura spregevoli lavoratori delle arti meccaniche, che gli altri popoli tengono lontani come la peste dalle occupazioni più elevate e decorose». Il vescovo sa benissimo che proprio per questo le città italiane sono così agguerrite, e «superano di gran lunga per ricchezza e potenza le città del resto del mondo», ma questo riconoscimento concesso a malincuore non basta a giustificare l'avvilimento in cui fanno precipitare la nobile istituzione della cavalleria, aprendone l'accesso a gente ignobile come artigiani e mercanti. Pensava forse a questo brano il massimo cantore moderno dell'epopea comunale italiana, Giosué Carducci, quando scriveva Sui campi di Marengo: dove attribuì a un principe tedesco, la notte prima della battaglia coi lombardi, la rabbia di dover «morire / per man di mercatanti che cinsero pur ieri / a i lor mal pingui ventri l'acciar de' cavalieri!». Nell'interpretazione romantica cara alla borghesia dell'Italia risorgimentale, i comuni erano un'invenzione dei borghesi, gente avvezza a comprare e vendere, a tenere conti e maneggiare denaro; i valori ch'essi condividevano, e che volevano imporre anche ai nobili, erano quelli del lavoro e dell'industria («quando l'austero e pio Gian della Bella / trasse i baroni a pettinare il lino», dirà ancora, efficacemente, il Carducci). Che questa gente dimostrasse anche di saper cingere la spada e far concorrenza ai nobili sul loro terreno, superandoli in patriottismo e in coraggio, appariva come una novità stupendamente rivoluzionaria. Jean-Claude Maire Vigueur, medievista francese felicemente trapiantato da molto tempo in Italia, dopo anni di ricerche negli archivi cittadini propone un'immagine del mondo comunale così diversa dal'oleografia ottocentesca, che si direbbe stia parlando di un altro mondo. Per lui, nei comuni italiani dei primi tempi l'attività dominante, più del commercio, era proprio la guerra. In ogni città, il comune era guidato da quelle famiglie che potevano permettersi di mantenere cavalli da guerra, che possedevano armi e avevano l'agio di addestrarsi ad usarle; questa militia, come la chiamano i documenti, formava il nucleo più efficiente degli eserciti comunali, e prosperava sui benefici ricavati dalla guerra, bottino, stipendi, esenzioni, rimborsi. Queste stesse famiglie monopolizzavano gli uffici del comune e ne dirigevano la vita politica, traendone, ancora una volta, grassi profitti; solo nel corso del Duecento l'elemento che noi chiamiamo borghese, organizzato nelle società di Popolo, comincerà a contestare l'egemonia dei cavalieri. Questo non significa, sia chiaro, che l'economia cittadina non fosse basata fin dall'inizio su robusti interessi commerciali. Le guerre volute e combattute dalla militia erano volte a stroncare la concorrenza d'una città rivale, a impossessarsi di un asse stradale, a occupare nuovi mercati. Le stesse famiglie dei milites avevano le mani in pasta nel commercio e nel prestito e si distinguevano dunque nettamente, come profilo sociale, dall'aristocrazia rurale che dominava nel resto d'Europa. Ma nessuno che fosse soltanto un mercante o un artigiano poteva avere un ruolo dirigente nel comune dei primi tempi; chiunque faceva i soldi coi traffici si affrettava a procurarsi armi e cavalli, a fortificare la sua casa in città, a comprare terre in campagna, a imparentarsi con famiglie più antiche, avvezze a comandare e combattere. Solo allora era riconosciuto come un cittadino eminente, in grado di competere con gli altri nella gara per gli uffici e per i profitti. Proprio qui sta la novità cruciale dell'interpretazione di Maire Vigueur in Cavalieri e cittadini. Nel corso del Novecento già altri studiosi hanno proposto una lettura del Medioevo italiano che si discostava radicalmente da quella tradizionale, enfatizzando il ruolo delle famiglie di origine nobiliare e feudale nella direzione del primo comune, e la precedenza data ai valori guerrieri e cavallereschi su quelli borghesi. C'era il rischio, però, di perdere di vista la specificità della società comunale italiana, ridotta a una variante di quella società nobiliare e gerarchica diffusa, allora, in tutta Europa. Cavalieri e cittadini è destinato a restare una pietra miliare nella storiografia sull'Italia medievale, proprio perché dimostra come il ceto dominante dei comuni abbia incarnato una novità rivoluzionaria, nel momento stesso in cui si organizzava intorno a comportamenti e valori di natura militare e cavalleresca. Era rivoluzionario il fatto che nobili fieri del loro sangue, vassalli di principi e vescovi, padroni di castelli e contadini, investissero il loro denaro nei traffici, armando navi, importando derrate, prestando denaro, senza per questo smettere d'essere, e di sentirsi, cavalieri. Ed era rivoluzionario che anche il primo venuto, impegnandosi con successo in queste attività, potesse gareggiare con quei nobili e diventare un cavaliere al pari di loro. Capiamo, allora, l'incomprensione di Ottone di Frisinga, portavoce della mentalità e dei pregiudizi della corte imperiale. Per lui, la cavalleria era una condizione privilegiata e quasi sacra, ottenuta mediante rituali elaborati e riservata a chi vantava sangue nobile, in una società irrigidita in gerarchie volute da Dio. Non capì mai che in Italia bastava avere i mezzi per mantenere cavalli da guerra perché la comunità riconoscesse a una famiglia il rango cavalleresco; che essere cavaliere e trafficare col denaro, lì non era una contraddizione impensabile; che in quelle città murate, irte di torri e campanili, era nata una società nuova, dove nessuno voleva restare immobile nella condizione in cui era nato, e dove non c'era niente che non potesse essere comprato.


(recensione de Cavalieri e cittadini. Guerra, conflitti e società nell'Italia comunale di Jean-Claude Maire Vigueur, trad. di Aldo Pasquali, Il Mulino, pp. 556, € 35, in ttL tuttoLibri p. 7 suppl. de La Stampa del 19 02 05 )

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zilath mexl rasnal
24/02/2005 18:28
 
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Una nuova Rivista segnalata dal "Corriere"


IL SOMMARIO


La nuova rivista


Il primo numero di «Mondo Contemporaneo» in uscita in questi giorni pubblica, fra l’altro, saggi di Renato Moro (sul cattolicesimo italiano di fronte alla sacralizzazione fascista della politica), di Maurizio Serra (su Drieu La Rochelle, Aragon e Malraux) e un intervento di René Rémond («Qualche riflessione sulla nozione di contemporaneità nella storia»). Il quadrimestrale (pagine 208 16) è edito da Franco Angeli (per gli abbonamenti contattare www.francoangeli.it).


(da http://www.corriere.it/edicola/index.jsp?path=CULTURA&doc=BIOG)

Ecco il sommario completo:

2005, Fascicolo 1



Renato Moro, Religione del trascendente e religioni politiche. Il cattolicesimo italiano di fronte alla sacralizzazione fascista della politica
Maurizio Serra, Drieu La Rochelle, Aragon, Malraux. Letteratura e impegno politico: gli inizi
René Rémond, Qualche riflessione sulla nozione di contemporaneità nella storia
François Cochet, Pace e guerra nel ventesimo secolo. Un bilancio storiografico della ricerca francese
Daniele Fiorentino, Falchi, colombe o gufi? Alcune nuove interpretazioni sugli Stati Uniti e la guerra
Alberto Cavaglion, Gli ebrei e l'occupazione italiana nella Francia meridionale (1940-1943). A proposito di un libro recente

(da http://www.francoangeli.it/Riviste/mon.asp

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zilath mexl rasnal
25/02/2005 19:09
 
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Da acquistare a scatola chiusa!

L'ho preso questa mattina durante un fugace passaggio in libreria ([SM=g27817]):





Walter Friedrich Otto
Le muse e l'origine divina della parola e del canto
122 p., Fazi 2005, collana Le terre, € 14,00


L'originalissima trattazione sulle Muse costituisce uno dei più bei testi scritti da Walter Friedrich Otto, il grande autore de Gli dèi della Grecia e del primo Dioniso novecentesco. Testo riuscitissimo per altezza stilistica e per intelligenza concettuale, l'argomentazione de Le Muse verte, come recita il sottotitolo, sulla convinzione dell'origine divina del canto e della parola; Otto ipotizza cioè il carattere divino dell'autentica parola poetica e della musica, chiamate entrambe a esprimere il ritmo originario dell'esistente; la sua tesi è sostenuta tramite l'esperienza di grandi poeti classici e moderni, oltre che attraverso la propria accorata e personale rivelazione. La vasta rassegna di Otto è sorretta da una conoscenza accorta e sensibile delle testimonianze della civiltà greca e dei più misteriosi rapporti tra le divinità; il percorso inizia infatti dalla presenza (nel mondo e nella poesia) delle Ninfe, le cui apparizioni preludono al canto altisonante delle Muse. Otto articola questo percorso offrendo scorci suggestivi della grande poesia e dell'antica sapienza greca, per metà apollinea e luminosa, per metà enigmatica e oscura. La narrazione di Otto ci offre, insomma, una preziosa e rara riflessione sull'essenza lirica della realtà, di cui la Musa è raffigurazione: su quanto il mondo, umano e divino, sia fatto di poesia e di canto.

L'AUTORE - Walter F. Otto, uno dei massimi filologi e grecisti del Novecento, la Fazi Editore ha pubblicato Il volto degli dèi (1996; ed. tasc. 2004). Da Adelphi sta per uscire Gli dèi della Grecia. Altri libri in commercio sono Dioniso (Il Nuovo Melangolo, 1997) e Il mito (Il Nuovo Melangolo, 2000).



E sempre su Fazi è disponibile quest'altro bel testo sempre di Otto:




Walter Friedrich Otto
Il volto degli dei. Legge, archetipo e mito
XV-79 p., Fazi 2004, collana Tascabili saggi, € 9,00


Venti tesi sull'essenza del mito, sulla civiltà degli antichi, sul mondo moderno e sulla lontananza del divino: in queste pagine, Walter Otto, filologo classico e storico delle religioni, ripercorre il cammino dell'Occidente sul filo di parole fondamentali quali legge, archetipo e mito, che diventano altrettante stazioni di un'ermeneutica complessiva del mondo antico e dei suoi aspetti più emblematici. Otto riconosce nell'uomo la facoltà di disporsi verso quella luminosità dell'essere e dello spirito che assume la forma del divino nella Storia, il volto degli dèi, senza però avere di mira una filosofia, una teoria del mito: la conoscenza del divino per Otto è visione e, se il mito esiste per l'uomo, questo accade tuttavia senza l'intervento umano.

[Modificato da Il Ghibellino 25/02/2005 19.10]

26/02/2005 17:17
 
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Il fuoco di Zoroastro sapienza d’Oriente

«Creazione», un iperbolico e visionario romanzo antioccidentale in cui Gore Vidal intreccia storie e idee di Persia, India, Cina



26/2/2005

Silvia Ronchey

QUANDO un ragazzo indiano giunge all'età che chiamano della seconda nascita, gli danno un cordone fatto con tre fili intrecciati che dovrà portare attraverso il petto, dalla spalla all'ascella, per il resto della vita», scrive Gore Vidal in Creazione. Arrivato all'età della sua terza nascita, nel 1981, Gore Vidal si è guardato sul petto e ha visto un cordone intrecciato di Persia, India e quello che chiama Catai ed è la Cina. E ha immaginato che da lì lui e tutti noi veniamo, e che siamo tutti debitori della sapienza dell'Oriente. In questo che con qualche esagerazione il New York Times ha definito il suo romanzo migliore, questo figlio ribelle dell'impero americano ha voluto scrivere, anzitutto, un mastodontico, ironico pamphlet antioccidentale. Il pensiero presocratico ha indagato come pochi l'essenza della natura? In realtà, spiega Gore Vidal, la Grecia, la sua filosofia, le sue cosmogonie e teorie sulla creazione non sono che un minuscolo frammento dell'immensa geografia culturale per cui erra nella sua lunga vita Ciro Spitama, persiano della tribù dei Medi e nipote devoto di Zoroastro nonché alter ego dell'autore e protagonista del romanzo. «Quando ripenso all'India - mormora ormai settantenne e cieco al discepolo che raccoglie le sue memorie - l'oro risplende nelle tenebre dietro le palpebre di questi occhi ciechi. Quando ripenso al Catai invece scintilla l'argento e rivedo una neve argentata che cade sui salici d'argento». La Grecia entra nella storia incidentalmente, è solo una dirimpettaia dell'impero persiano, che si estende al Pakistan e all'Afghanistan, l'antica Battriana. Le «guerre persiane» vengono chiamate «guerre greche» e al grande Dario l'io narrante rimprovera di avere sempre guardato ad Ovest anziché a conquistare la Cina. Erodoto è liquidato subito come un ciarlatano, e anzi la data d'inizio del racconto è proprio quella della contestazione del suo discorso ad Atene, argomentata in pubblico da Ciro in «quello che sarebbe per noi - scrive Gore Vidal - il 20 dicembre del 445 avanti Cristo». Questa rimarrà la sola ammissione dell'autore di essere e sentirsi occidentale. Creazione occupa solo 720 pagine perché il benemerito editore Fazi le ha stampate in corpo piccolo, anche se su ottima carta. E' una fantasmagoria iperbolica di fiabe e visioni, memorie e epifanie. Le mura di Babilonia sono «così spesse che un cocchio a quattro cavalli poteva fare un giro completo sui parapetti». La danza indiana rende il corpo più invitante perché decapitato: la testa si muove sul collo in modo del tutto innaturale. Del Catai lo incantano la cucina e le cerimonie quasi religiose della tavola. Ammira la sapienza politica riassunta nel precetto: «Svuotare la mente dei sudditi, riempirne lo stomaco». La sentenza che ascolta quando viene iniziato fra lo Yamuna e il Gange è invece: «Noi siamo nati su una riva, che è la vita di questo mondo, ma se ci affidiamo al traghettatore possiamo passare all'altra sponda». Quando si mette sulle tracce del traghettatore, e cioè di Siddharta, Ciro si sente rispondere: «Al Buddha non interessa la religione. Semplicemente aiuta coloro che sono sulla riva perché possano passare di là e scoprire che non esistono né il fiume, né il traghetto, né le due rive». Confucio è un grigio dipendente statale, riservato, timido ma senza peli sulla lingua, semplice ma odiato per la sua pignoleria, ateo, modesto. Non è arrogante come Socrate: non fa domande, ma dà solo risposte a chiunque gliele chieda.
«In principio era il fuoco». Fra le tre antiche tradizioni, Gore Vidal sembra optare per la zoroastriana, che vede il fuoco come principio e fine di ogni cosa. Nella ricerca del principio di tutto e dell'atto di creazione, l'Afghanistan ha un ruolo centrale, perché è là che Zoroastro riceve la rivelazione del fuoco. Se pensiamo che secondo Marco Polo i giacimenti di petrolio incendiandosi spontaneamente suggerivano a quelle popolazioni la presenza della divinità, e sono visti come una delle radici dello zoroastrismo, il messaggio di Gore Vidal fiammeggia, oggi, di una luce foscamente singolare: il principio di tutto, forse, è il petrolio.



da ttL tuttoLibri suppl. de La Stampa 26 02 2005 p. 7
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01/03/2005 01:15
 
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PALATINO, VELIA E SACRA VIA

EDIZIONI DELL’ATENEO ® Roma www.libraweb.net

ANDREA CARANDINI

PALATINO, VELIA E SACRA VIA
Paesaggi urbani attraverso il tempo

Composto in carattere Dante Monotype
Formato 17 x 24; pp. 100 con figure in bianco / nero;
copertina in cartoncino Murillo Fabriano blu;
sovracoperta in cartocino Ingres Fabriano con
stampa a due colori
ISBN 88-8476-014-3
Disponibile da gennaio 2005
Argomento: archeologia

«Workshop di archeologia classica» · Quaderni · 1
Collana diretta da Andrea Carandini, Emanuele Greco
Il volume, che inaugura la nuova serie dei
Quaderni della rivista «Workshop di ar-cheologia
classica», è dedicato allo studio ed
alla analisi dei risultati degli scavi effettuati
nel centro di Roma durante gli ultimi decenni
di ricerca, decenni in cui, anche alla luce di
nuove analisi dei dati già esistenti (comprese
le fonti letterarie antiche e quelle antiquarie),
si è venuta delineando una più precisa topo-grafia
urbanistica e monumentale delle zone
storicamente e archeologicamente più antiche
della città, dalla via Sacra al tempio di Giove
Statore ed a quello dei Lari, dalla casa dei
Tarquini alla Porta Mugonia. I dati e le prime
conclusioni delle indagini effettuate vengono
presentate dall’Autore senza nascondere la lo-ro
natura problematica, dibattuta e fonte di
numerose controversie nella storia degli stu-di:
si evidenzia però, nello stesso tempo,
l’enorme ricchezza e complessità del cuore di
Roma antica: esso rappresenta una straordi-naria
e inesauribile risorsa di storia, archivia-ta
ordinatamente nel terreno, che si rivela con
sempre maggior precisione man mano che i
metodi di scavo progrediscono.
Indice: Premessa. Il contesto della Sacra
via; Porta Mugonia, Nova via e porta Roma-nula;
Il fanum / Tempio di Giove Statore; La
aedes Larum; La domus Regia dei re latino-sabini:
Numa Pompilio e Anco Marcio; La
domus (Regia) del re dei sacrifici; La domus
(Regia) dei Tarquini; La domus (Regia) di
Servio Tullio e la Fortuna Privata sul Palati-no;
La domus palatina dei Valeri; La domus
Publica (=atrium Regium?). Conclusioni.
Addendum: Il c. d. clivo Palatino A (o la
strada della contesa). Bibliografia. Tavole.
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zilath mexl rasnal
01/03/2005 01:23
 
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'IRAQ PRIMA E DOPO LA GUERRA. I SITI ARCHEOLOGICI' DI PIALUISA BIANCO


Il libro presentato oggi dall'Ansa e'

'IRAQ PRIMA E DOPO LA GUERRA. I SITI ARCHEOLOGICI'
di PIALUISA BIANCO

(L'ERMA DI BRETSCHNEIDER pp.149)

''C'e' un tempo per demolire e un tempo per costruire'', scriveva Qoelet nell'Antico Testamento. E proprio allo sforzo della ricostruzione del patrimonio culturale, dopo le drammatiche immagini dei saccheggi che dal museo di Baghdad attraverso le tv hanno fatto il giro del mondo, e' dedicato questo volume a piu' voci curato dall'Istituto italiano di cultura di Bruxelles, che oggi viene presentato a Roma dal ministro degli esteri Fini e dal responsabile dei Beni Culturali Urbani.
Un libro che e' innanzitutto un percorso d'eccezione - guidato dalle firme piu' illustri della archeologia e delle istituzioni - tra una miriade di capolavori, alcuni dei quali fortunosamente recuperati dopo i saccheggi dell'ultima guerra. Come la splendida Dama di Warka, il cui volto enigmatico e' rimasto sepolto per mesi, avvolto in uno straccio, nel cortile del Museo di Baghdad. Tesori inestimabili, che la difficile situazione irachena post Saddam, ancora insanguinata dai terrorismi, dagli attentati, dai rapimenti, rende di fatto irraggiungibili. E che ora, pagina dopo pagina, in parte con le fotografie, ma soprattutto attraverso la voce appassionata degli esperti che hanno operato e in parte ancora operano in quelle zone, rivivono anche per il lettore piu' distratto. E documentano il grande valore simbolico del lavoro di salvaguardia di un patrimonio culturale, che certo, sottolinea nella sua introduzione la curatrice Pialuisa Bianco,''Appartiene all'Iraq ma riguarda tutti noi, abitatori del XXI secolo''.

ANSA 28 02 2005
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03/03/2005 18:39
 
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Febbraio 11, 2005
Mario Boffo: FEMMINA STREGA
di Valerio Evangelisti




Tra i meriti cospicui delle edizioni Stampa Alternativa, figura anche quello di proporre un tipo di romanzo storico inconsueto, in cui alla trama si mescola una profondità di analisi degna di un saggio. Tali sono, per esempio, i romanzi di Adriano Petta consacrati al catarismo e altre eresie. Tale è anche questo Femmina strega (194 pp. € 10,00) di Mario Boffo, un funzionario della carriera diplomatica qui alla sua seconda prova narrativa.
Il tema del romanzo, e dell’ampio saggio che lo introduce, è quello del “principio femminile”, cioè di quell’elemento cosmologico femminino che, ben presente nel paganesimo, il Cristianesimo si sforzò poi di cancellare. Anzi, più che del solo cristianesimo dovremmo parlare delle grandi religioni monoteiste, con una variante un po’ più moderata nell’Ebraismo e una più estrema nell’Islam (il grado di ostilità varia, come si vede, col variare dell’età della religione considerata).

Va detto che, a parte il radicalismo musulmano, le religioni più diffuse videro riaffiorare il “principio femminile” nel proprio seno o, per meglio dire, in quello delle loro correnti eretiche o eterodosse: lo gnosticismo in ambito cristiano (matrice vera del catarismo, dei Fratelli del Libro Spirito e di tante altre eresie) e della Cabala in ambito ebraico. E non a caso, in età medioevale, residui gnostici e temi cabalistici, uniti al recupero di rituali pagani, andarono a comporre il complesso fenomeno chiamato “magia”.
Fu proprio contro la magia che il Cristianesimo combatté la sua ultima, sanguinosissima crociata e, avendo intuito che le donne erano al centro di questo paganesimo risorto finì, dopo qualche esitazione su un possibile ritorno del culto di Diana, per legarle a Satana quali sue ideali succubi o sacerdotesse. Nacque dunque la figura immaginaria della “strega” – immaginaria come ricostruzione, se si considera che la mascolinità di Satana è indubbia e che i grimoires, esattamente come i manuali dell’Inquisizione (dal ‘400 in poi), erano per lo più redatti da anziani sacerdoti che vi riversavano tutte le loro turbe.
E’ appena il caso di ricordare che se le “streghe” costituivano una categoria peculiare, in realtà tutte le donne erano sospettate di potere divenire tali. Come ha ben dimostrato Guy Bechtel (La sorcière et l’Occident, Plon, Parigi, 1997; Le quattro donne di Dio, ed. Pratiche, 2001), il disprezzo ecclesiastico colpiva anzitutto la peculiare funzione femminile, e cioè la maternità; al punto che sia alla donna incinta che alla donna semplicemente mestruata era interdetto partecipare alle funzioni religiose. La Chiesa quale principale paladina del “diritto alla vita” è una novità recentissima, ultimo sviluppo disperato del tentativo di disciplinare comunque la donna imponendole regole ferree. Anche a costo di cadere nel paradosso di agitare il modello della Donna Vergine senza accorgersi che anch’esso – come ci hanno spiegato con abbondanza di prove Erich Neumann e in genere i pensatori post-junghiani – ricalcava e ricalca miti coltivati dal paganesimo.
Servivano comunque le streghe, individuate nelle cosiddette vetulae - adepte non già di Satana bensì di ciò che oggi chiameremmo medicina naturale – per impartire alle donne meno sottomesse una lezione esemplare, sotto forma di massacro protratto per alcuni secoli. Tanto che anche i “revisionisti” della storia dell’Inquisizione (oggi una folla), devono arretrare di fronte alle cifre di questo spaventoso delitto, e ancora di più di fronte alla rivelazione dell’identità e dell’umanità di chi ne rimase vittima (cfr. AA.VV., Mujeres en la Inquisición, a cura di Mary E. Giles, Mrtinez Roca, Barcellona, 2000).
Della vicenda di una di queste streghe, e dello scontro tra “natura e cultura” che lo sottende, dà conto Mario Boffo nel suo romanzo (come già fece Mino Guerrini in un romanzo che non raccolse a suo tempo l’attenzione dovuta: Strega, ed. Interno Giallo, 1991). Siamo nel XV secolo, tra Abruzzo e Campania, e una donna viene trascinata al rogo. Gli antecedenti e il processo davanti all’Inquisizione sono ricostruiti con assoluto scrupolo documentario, fatta volutamente eccezione per un dettaglio: la formula magica ripetuta in tutto il libro è quella, un po’ improbabile, per scacciare Lilith, la “madre terribile” della Cabala. Ma ciò serve per spostare il discorso su una dimensione filosofica di respiro cosmico.
Insomma, se non lo si è ancora capito, è un romanzo da leggere assolutamente, e magari da meditare.



http://www.carmillaonline.com/archives/2005/02/001215.html


05/03/2005 00:49
 
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Erdmute Heller, Hassouna Mosbahi
Dietro il velo. Amore e sessualità nella cultura araba
Laterza 1996, pp. 348, € 20,66


Dalle varie esperienze di Maometto nel suo harem turbolento all'episodio biblico della moglie di Putifarre che tenta Giuseppe; dai "versetti satanici" espunti dal Corano all'astuzia di Sherazad, l'eroina delle "Mille e una notte"; dalla mistica eretica del sufismo alla disinibita letteratura erotica fiorita tra i giardini e i palazzi di Siviglia, Cordova, Granada e Toledo. Dall'erotomania dissennata dei califfati di Damasco e Bagdad (anticipazioni in terra del paradiso dove i "fedeli" saranno ricompensati con ogni sorta di delizie e con la libertà di unirsi a vergini sempre diverse in decine di posizioni che garantiscono orgasmi della durata di cent'anni) alla sessuofobia del fondamentalismo odierno.
Una lettura sorprendente, che si porta al cuore della concezione islamica dell'uomo e della donna.


Indice:

Prefazione all'edizione italiana – Nota sulle traslitterazioni; Premessa; Introduzione; I. Amore, erotismo e sessualità nell'epoca preislamica; II. La sessualità nel Corano; III. Il Profeta e il suo harem; IV. L'eterna seduttrice; V. La paura della donna nei patriarchi; VI. La doppia immagine della donna; VII. L'amore secondo i mistici; VIII. L'interrogatorio del diavolo; IX. Il puro e l'impuro; X. Il velo e le proibizioni dell'Islàm; XI. Il paradiso anticipato; XII. Erotismo e sessualità nell'«età dell'oro»; XIII. L'erotismo dello spazio islamico; XIV. La vana lotta per l'emancipazione; Note



====================================================
Estratto:
Divinità femminili sterminate dall'Islam

====================================================

La distruzione delle divinità pagane e la sottomissione all'unico Dio imposta dall'Islàm segna il punto di congiunzione tra quella società preislamica della giahilìya e l'epoca dell'Islàm, che cominciò ufficialmente con l'emigrazione del Profeta da Mecca a Medina, la hijra (622), immediatamente successiva alla caduta delle dèe.

Anche se nell'immaginario degli arabi della giahilìya era già presente l'idea di una divinità suprema, di un dio creatore in posizione più elevata di tutti gli altri, al-ìlah (letteralmente: il dio), le tribù beduine della penisola araba dell'epoca preislamica erano tuttavia abituate a rivolgersi alle proprie divinità locali. Alberi, sorgenti e montagne erano spesso adorati quali divinità, poiché si incontravano raramente nel deserto.

Fra le più venerate divinità femminili degli arabi figurano le tre dèe appena citate, al-Làt, al-'Uzza e Manàt. al-Làt (letteralmente: la dea) doveva corrispondere, tra gli arabi ellenizzati, all'immagine di Atena o Minerva; viene citata da Erodoto come Aliat. al-'Uzzà, «la molto possente», assomigliava, come personaggio femminile di eccezionale bellezza, all'immagine di Venere, e Manàt era, secondo il parere della maggior parte degli storici, la dea del destino e della morte, equivalente alla babilonese Mamnatu.

Alla «caduta delle dèe» della Mecca si intrecciano innumerevoli miti e leggende: sono le forme più primitive di interpretazione immaginifica del mondo. L'affabulare collettivo, il raccontarsi storie crudeli, tuttavia, serve anche soprattutto a superare inquietudine e paura, come nella storia riferita da Ibn al-Kalbi a proposito della distruzione di al-'Uzzà per opera di un inviato del profeta Muhàmmad, nella quale sembra già di poter intravedere le leggi repressive che stavano per colpire la donna, dopo l'affermazione del-l'Islàm nella penisola araba: al-'Uzzà, «la possente», era venerata nella valle di Haradh sotto forma di salice diviso in tre tronchi. Secondo la tradizione, Muhàmmad ordinò a Khàlid ibn al-Walìd di distruggere il suo santuario e l'area dei tre tronchi di salice. Arrivato sul posto, Khàlid abbattè il primo tronco, e poi il secondo. Mentre si accingeva a fare a pezzi il terzo, saltò fuori digrignando i denti una donna nera, nuda, infuriata, con i capelli ritti e le mani incrociate sopra la testa. Alle sue spalle il custode del santuario urlava: «'Uzza, tieni duro! Non mollare. Buttalo giù, saltagli addosso! Sia maledetto il velo! Tieniti libere le mani!». Al che Khàlid le disse: «'Uzza, rinnega la tua fede e non ti spacciare per dea. Vedo che Allàh ti ha umiliata!». Poi si avventò contro di lei, le spaccò la testa, indi uccise il custode e abbattè il terzo tronco. Dopodiché tornò indietro per riferire all'Inviato di Dio, il quale dichiarò: «Quella era al-'Uzzà. Ormai gli arabi non avranno più un'altra Possente. Da oggi in poi nessuno la adorerà più!».

La vittoria dell'Islàm non significò soltanto la sottomissione degli uomini a un'unica divinità maschile: una delle sue conseguenze fu anche la sottomissione sessuale del genere femminile a quello maschile.

Per lo scrittore tunisino Yussuf Saddik la distruzione delle «Possenti» fu un assassinio simbolico della donna in quanto incarnazione della superiorità femminile, la fine del suo dominio. Saddik fa riferimento a numerose tradizioni dei tempi della giahilìya che forniscono testimonianze sulla «potenza» della donna, quale il mito di al-Zàbba. Nella sua celebre opera Storia dei profeti e dei re Tàbari riferisce questa leggenda come segue: al-Zàbba, la donna dal grosso pene, veniva chiamata anche Nài-la. Il suo esercito era costituito dai superstiti degli Amàliq, una razza di giganti, arabi nomadi primitivi, nonché uomini della tribù dei Qpdhà'a. al-Zàbba aveva una sorella di nome Zabìba. Dopo aver conquistato e consolidato il potere, si mise a preparare un attacco di sorpresa contro Giud Hàima ibn al-Abràsh, il «piccolo circonciso», per vendicare il proprio padre. In precedenza sua sorella Zabìba, che era intelligente e astuta, le aveva dato il seguente consiglio: «La guerra è un gioco mutevole e pieno di rischi. Con il tuo zipolo hai sempre tenuto in scacco i nemici e finora non hai ancora conosciuto la sfortuna e l'odio. Non potrai prevedere le conseguenze, ne modificare il destino». al-Zàbba prese sul serio il consiglio della sorella e decise di seguire la via dell'astuzia, della scaltrezza e delle tattiche furbe. Scrisse a Giud Hàima e gli fece sapere che voleva darsi a lui, promettendogli il suo regno, e gli propose di unire i loro due regni. Gli diede a intendere che nel dominio delle donne c'era soltanto debolezza, incapacità nella guida degli affari di governo, e un brutto segno. Giud Hàima all'inizio non si fidava e accettò la proposta solo dopo molte esitazioni. Appena si trovò davanti a lei, al-Zàbba si denudò il sesso. Aveva intrecciato i peli, e gli chiese: «Questo che vedi è forse il sesso di una sposa?». E aggiunse: «Mi hanno detto che il sangue dei rè è un rimedio salutare per placare l'ira!».

Poi gli ordinò di sedersi su una pelle che serviva per i sacrifìci umani, fece portare una coppa d'oro dalla quale gli diede da bere vino fino a quando non fu completamente ubriaco. Allora diede l'ordine di tagliargli le vene e di fare molta attenzione a collocare la coppa in modo che nemmeno una goccia di sangue andasse perduta, perché se una goccia di sangue fosse caduta fuori dal recipiente, Giud Hàima sarebbe stato vendicato. Le braccia della vittima si facevano però sempre più deboli, e qualche goccia cadde fuori dal recipiente. al-Zàbba disse: «Non versate il sangue del re!». Giud Hàima rispose: «Disprezzate il sangue che i suoi hanno disprezzato», espressione che più tardi sarebbe diventata un celebre proverbio. Poi al-Zàbba gli succhiò il resto del sangue, ma subito le toccò il medesimo destino della sua vittima.

Così prosegue, in tono distaccato e neutro, la storia crudele riferita da Tàbari:

Un nano di nome Qàsim propose a 'Amr ibn Adi, nipote di Giud Hàima, un'astuzia per vendicarsi di al-Zàbba. Chiese a 'Amr di tagliargli il naso e di frustarlo a sangue. Poi andò da al-Zàbba per implorarne la protezione, spacciandosi per vittima della ferocia di 'Amr. Il nano riuscì in tal modo a insinuarsi nella cerchia di al-Zàbba e a conquistarne la fiducia. Dopo aver fatto piombare la sua guardia del corpo in un sonno profondo, tornò da 'Amr e lo convinse a mettere insieme una carovana enorme, con uomini armati e rotti al combattimento. «Non appena la carovana sarà entrata in città», disse Qàsim, «inviterò al-Zàbba a uscire per ammirare le ricchezze da me acquistate. In tal modo la potrò attirare fuori dal labirinto che suo padre ha fatto scavare tra il suo palazzo reale e il castello di lei. Allora i nostri uomini salteranno fuori all'improvviso, cogliendo di sorpresa le guardie del corpo con un colpo di mano, e uccideranno chiunque opponga resistenza».

Il tranello funzionò e 'Amr le tagliò la via di scampo attraverso il labirinto. Resasi conto della situazione, al-Zàbba fece per succhiare dal proprio anello un veleno che vi teneva nascosto, gridando: «Morirò di mano mia e non per mano di 'Amr!», ma questi le si gettò addosso, la colpì con la spada e la uccise.

Miti e leggende di questo genere lasciano intendere in che modo uomini e donne si fossero combattuti ai tempi della giahilìya. Il tema verrà ripreso più tardi anche in molti racconti delle Mille e una notte, che trasmettono tutti la medesima immagine della donna: persone di bellezza fuori del comune, dotate di potenza diabolica, intelligenti, piene di astuzie, vendicative, ciniche e feroci. In più d'una sura del Corano la donna è descritta allo stesso modo. Alla fine di al-'Uzzà dovette corrispondere non soltanto la fine del paganesimo e dell'idolatria, la morte della donna in quanto simbolo dell'amore, della vita e della fertilità venerato dai maschi, ma nello stesso tempo anche la vittoria definitiva dell'uomo sulla donna. D'ora in poi l'uomo sarà il signore assoluto, mentre alla donna toccherà in sorte di ubbidire e servire.

Certo, nel Corano è dedicata alla donna un'intera sura, e una delle più lunghe, ma Dio le si rivolge non direttamente, bensì tramite l'uomo, per stabilire le regole del gioco relative alla convivenza sessuale, familiare, sociale ed economica:

Gli uomini sono preposti alle donne, perché Dio ha prescelto alcuni esseri sugli altri e perché essi donano dei loro beni per mantenerle; le donne buone sono dunque devote a Dio e sollecite della propria castità, così come Dio è stato sollecito di loro; quanto a quelle di cui temete atti di disobbedienza, ammonitele, poi lasciatele sole nei loro letti, poi battetele; ma se vi ubbidiranno, allora non cercate pretesti per maltrattarle; che Iddio è grande e sublime (IV, 34).

Con il trionfo del dio maschio sulle divinità femminili degli arabi vennero fissate una volta per tutte, nella società islamica, la superiorità dell'uomo e la condizione della donna: perché la parola di Dio (kalàm Allàh) va ritenuta inalterabile ed eterna. Insieme con le divinità femminili furono bandite dal santuario della Mecca anche le statue dei leggendari amanti Isaf e Nàila: fu un atto di significato simbolico per la nuova morale sessuale dell'Isiàm.

Se al-Làt, al-'Uzzà e Manàt simboleggiavano «la potenza» della donna, la leggenda di Isaf e Nàila ricordava invece quanto fosse stato spregiudicato e libero, tra gli arabi dell'epoca preislamica, l'atteggiamento verso l'amore e la sessualità. Isaf e Nàila, due giovani amanti, erano venuti dallo Yemen per compiere il pellegrinaggio alla Mecca. Trovatisi entrambi nella Kà'ba, vennero presi dal fuoco della passione e si amarono all'interno del santuario. Per punizione della loro impertinenza furono trasformati in due statue, che venivano adorate come divinità dai Quràish e da molte altre tribù arabe. Durante il pellegrinaggio si usava sacrificare qualche pecora ai piedi degli amanti pietrificati.

Nel suo libro “Il matrimonio tra gli arabi della giahilìya e nell'Islàm”, 'Abd al-Salàm al-Tarmanmi sostiene che in epoca preislamica non era cosa insolita compiere l'atto sessuale all'interno dei luoghi sacri. Qualche autore arriva addirittura ad affermare che esistevano una prostituzione religiosa e una specie di «sacerdotesse pagane», come nelle antiche religioni naturali.

Da al-Bukhàri, uno degli autori più degni di fede, si apprende che a quell'epoca era del tutto normale che un uomo desideroso di avere un figlio bello, intelligente e coraggioso, pur essendo egli stesso privo di queste qualità, offrisse con la massima semplicità la propria moglie a un uomo che invece ne fosse dotato, affinchè la ingravidasse. Inversamente, anche una donna non sposata poteva «offrirsi» a un uomo senza dover chiedere consiglio o permesso a nessuno. al-Tàbari e altri storici del periodo classico riferiscono che 'Abdallàh ibn 'Abd al-Mùttalib, il padre del profeta Muhàmmad, durante il pellegrinaggio che stava compiendo con il proprio padre incontrò non lontano dalla Kà'ba una donna che gli predisse il futuro. Come la giovane gli vide in viso «una luce straordinaria», gli si offrì con le parole: «Se mi prendi, ti darò tanti cammelli quanti ne furono sacrificati al tuo posto». 'Abdallàh respinse tuttavia la proposta: «Sono con mio padre e non posso agire contro la sua volontà, separandomi da lui». Proseguirono entrambi il loro cammino e arrivarono da Wahd ibn 'Abd Manàf, un nobile molto stimato della stirpe dei Quràish. «Questi diede in moglie a 'Abdallàh la propria figlia, che era a quei tempi la più ambita tra i Quràish. Fu così che 'Abdallàh si unì a lei in matrimonio, e lei concepì l'Inviato di Dio».

Secondo le testimonianze di vari storici classici, le donne di quella regione aspettavano al varco le carovane di passaggio per cercare gli uomini di loro gradimento. Il grande linguista al-Maidàni (m. 1124), autore di un celebre libro sui proverbi arabi, racconta questa storia:

La sorella di un certo Luqmàn ibn 'Abd ibn Iràm, celebre nella sua tribù per il coraggio, l'intelligenza acuta e la forza fìsica, e sposata con un uomo privo di forze e di salute cagionevole. Un giorno chiese a sua cognata di cederle per una notte il letto di suo fratello. La cognata acconsentì. Luqmàn, che era tornato a casa completamente ubriaco, giacque con la propria sorella senza accorgersene. Poi le nacque un figlio e lo chiamò Luqmàn. al-Maidàni riferisce inoltre della figlia di una famiglia stimata che si era «offerta» a un certo Giàhir ibn Thàlit, uomo famoso per l'eccezionale bellezza. Sua madre voleva rimproverare la figlia, ma quando vide Giàhir esclamò: «Hai ragione, figlia mia! Che importanza ha il matrimonio, se tratta di un uomo come Giàhir!».

In tempi di grande siccità e carestia era anche diffusa 1'usanza che le donne abbandonassero i mariti per «offrirsi» ad uomini ricchi. Accadeva del resto che donne ricche si «offrissero» ad altri uomini, se si erano raffreddati i loro rapporti con i mariti. Molte donne avevano una relazione sessuale con più uomini contemporaneamente, convivendo in tal modo in una specie di poliandria. Se rimanevano incinte e davano alla luce un figlio, sceglievano come padre uno degli uomini. Da quel momento in poi il «prescelto» veni considerato il padre, e dava il proprio nome al bambino.

Secondo un'altra usanza molto diffusa, in occasione del feste più importanti gli uomini si scambiavano le proprie mogli e le proprie sorelle. Uno scambio di questo genere poi va avvenire anche tra coniugi: entrambi i coniugi offrivano la consorte l'uno all'altro (e rispettivamente l'una altra), che erano il più delle volte un intimo amico o un'intima amica; usanza che era comune anche tra i persiani e gli eschimesi, nelle Filippine e in varie tribù dell'Angola.

Non era inconsueto che donne i cui mariti erano in viaggio approfittassero dell'occasione per darsi ad altri uomini. I mariti avevano perciò l'abitudine di appendere due frasche davanti alla casa prima di partire. Se al loro ritorno le frasche erano ancora al loro posto, significava che la moglie era rimasta fedele; se invece non c'erano più, la moglie lasciava in tal modo capire al marito che lo aveva abbandonato o ripudiato.

Dalle testimonianze degli storici più antichi risulta che esistevano numerose forme di convivenza tra uomo e donna. Questi legami di tipo matrimoniale venivano spesso conclusi mediante un accordo bilaterale tra uomo e donna, e non sottostavano ad alcun cerimoniale giuridico o sociale. Soprattutto non era previsto alcunché di simile a un rigido controllo. Le «regole del gioco» di queste associazioni a due divergevano quindi molto da quelle del matrimonio che l'Islàm istituzionalizzò.

Così le donne potevano ad esempio respingere o «licenziare» il proprio marito con un semplice gesto, esattamente come faranno più tardi nell'Islàm gli uomini con la formula mutàllaqa, «sei ripudiata». Bastava che la donna girasse la tenda comune in modo che l'ingresso venisse a trovarsi nella parte posteriore di essa: in tal modo si comunicava al marito che era «ripudiato» e non doveva più metter piede nella tenda. Se la donna, come si usava nella giahilìya, viveva in seno alla propria tribù ed era stufa del marito, non doveva far altro che separare il letto coniugale per mezzo di una cortina, per segnalare che lo aveva «ripudiato».

Anche la prostituzione era, a quell'epoca, molto diffusa. Le ragazze di piacere erano per lo più schiave o donne venute da lontano. Vivevano in tende davanti alle quali issavano una bandiera rossa: per questa ragione venivano anche indicate con il nome di «quelle della bandiera». Alla Mecca sarebbe vissuta una celebre prostituta detta «la meretrice di 'Ukaz», di cui si diceva che si fosse coricata a pagamento con tutti; se però l'uomo le piaceva e si comportava bene a letto, gli restituiva i soldi. Tra le molte storie tramandate dai tempi della giahilìya figura anche quella di una prostituta di nome Zùlma, della tribù degli Hudàii, il cui quarantennale esercizio della professione le valse l'onore di essere citata nella raccolta di proverbi di al-Maidàni: Zùlma, che sapeva soddisfare le proprie brame sessuali in maniere diverse a seconda dell'età, gestì anche per anni un bordello, e si dice che non vi fosse mezzana più grande di lei. Si racconta che, giunta in età avanzata, si fosse comprata un caprone e una capra. Il suo massimo piacere era osservarli mentre si accoppiavano. A chi le chiedeva perché, si dice che abbia risposto: «Mi piace ascoltare l'ansimare del coito».

A tutte queste forme più o meno rilassate di nozze e di convivenza matrimoniale l'Islàm ha posto definitivamente fine. Gli storiografi posteriori si sono anzi sentiti in dovere di negare che siano mai esistite. Il fatto, però, che una delle forme di matrimonio preislamico fosse ampiamente praticata all'inizio dell'Islàm (e ancora oggi nell'Islàm sciita) rivela tutta l'assurdità di simili affermazioni.

I primi anni successivi alla proclamazione dell'Islàm rappresentano una fase di transizione durante la quale sono sopravvissuti molti usi e costumi del passato, tra i quali, il «matrimonio a tempo», detto anche matrimonio di piacere o mut'a. Per il matrimonio di mut'a bastava che le due parti convenissero di vivere insieme per un certo periodo di tempo, la cui durata poteva variare.

L'uomo diceva alla donna: «Voglio godere di tè per un po' di tempo in cambio di una certa somma». Scaduto il termine, i due potevano prolungare l'accordo oppure separarsi. Questa «forma di matrimonio» destinata unicamente alla soddisfazione sessuale fu condannata e proibita dall'Islàm in quanto «complice della prostituzione», come tutte le forme di libera convivenza tra i sessi che consentivano alla donna il diritto all'autodeterminazione sessuale.

Come riferisce al-Bukhàri, in un primo tempo il profeta Muhàmmad aveva consentito queste usanze preislamiche senza riserve; l'Inviato di Dio disse a questo proposito: «Se un uomo e una donna si accordano sulla conclusione di un matrimonio a tempo, la durata della loro unione matrimoniale dovrà essere fissata in tre giorni. Se poi vorranno prolungare la loro relazione, possono farlo. E se vogliono separarsi, possono andare ciascuno per la propria strada».

La fonte di al-Bukhàri, Salàma ibn al-Aqwa, completava tuttavia la propria testimonianza come segue: «Non so se queste istruzioni valessero per noi soltanto durante le campagne militari, o se fossero valide per tutti».

Sembra proprio che il profeta Muhàmmad abbia in primo luogo circoscritto il matrimonio di piacere alle situazioni eccezionali, quali viaggi e spedizioni militari, per poi revocarlo definitivamente, come informano altri due testimoni citati da al-Bukhàri: «'Ali ha detto a Ibn 'Abbàs: 'II Profeta ha proibito il matrimonio temporaneo e il consumo di carne dell'asino domestico'».

Essendo 'Ali, genero del Profeta e futuro califfo, ricordato per la notoria misoginia, ci si deve chiedere se, mediante il detto del Profeta da lui citato, non abbia per caso voluto stabilire subdolamente una correlazione tra donne e asini.


[Modificato da Il Ghibellino 05/03/2005 0.50]

05/03/2005 17:43
 
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Schopenhauer cova i lampi del pensiero
Nel terzo volume degli «Scritti postumi» aforismi che fanno più luce di un trattato e i densi taccuini dei viaggi in Italia

5/3/2005

Anacleto Verrecchia

IL terzo volume degli Scritti postumi di Schopenhauer è così bello a vedersi che lo si accarezza con gli occhi. E' la vendetta postuma del filosofo, che in vita penò molto per trovare un editore. Capita sempre così con le opere geniali. Stordita dagli ottoni di Fichte, di Schelling e soprattutto di Hegel, questo tronfio assolutizzatore dello Stato nel trascendente, la Germania ignorò a lungo Schopenhauer. Dovettero passare oltre trent'anni prima che ci si accorgesse della grandezza del Mondo come volontà e rappresentazione, una specie di piramide di Cheope in chiave filosofica. Il riconoscimento tardivo stuzzicò la vena satirica del filosofo, che, alludendo alla propria canizie, soleva dire che il tempo aveva portato delle rose anche a lui, però «bianche». Oppure, dato che tutti si recavano da lui come in pellegrinaggio, sbottava: «Alla fine vengono con trombe e tamburi e credono che questo significhi qualche cosa». Ma qui dobbiamo occuparci del Nachlaß, che nell'edizione tedesca curata da Arthur Hübscher occupa sei volumi. Questi scritti postumi sono di grande importanza per chi voglia studiare il sorgere o il formarsi del sistema filosofico di Schopenhauer. Qui egli scrive di getto e per se stesso, prendendo appunti e annotando le idee che a mano a mano gli si affollano nella testa; ma è proprio questo che conferisce freschezza e immediatezza al Nachlaß. Come certi abbozzi di Michelangelo, ad esempio la Pietà Rondanini, sono ancora più eloquenti dell'opera finita e levigata, così i pensieri abbozzati sul momento da Schopenhauer fanno quasi più effetto della loro rielaborazione nelle opere sistematiche. Franco Volpi, nella premessa, dice molto bene che questi inediti «spalancano le porte dell'atelier di Schopenhauer». Ma ci permettono anche di seguirlo o almeno di immaginarlo mentre va a caccia di idee, soprattutto negli anni di Dresda, per costruire il superbo edificio del Mondo come volontà e rappresentazione. Credo di esser stato il primo, in Italia, a spulciare il Nachlaß e a tradurne circa duecento aforismi. Il lettore interessato li può trovare nelle opere di Schopenhauer che ho curato per la Bur: Metafisica dell'amore sessuale e O si pensa o si crede. Schopenhauer è un maestro insuperabile dell'aforisma, genere letterario che il mio vecchio amico Prezzolini considerava il colmo dell'espressione. Il Nachlaß è disseminato di aforismi. Alcuni suonano secchi come una schioppettata e lasciano odore di polvere bruciata. Un esempio: «Se un dio ha fatto questo mondo, io non vorrei essere quel dio, perché il dolore del mondo mi strazierebbe il cuore». Altri sono, per così dire, lampeggianti e fanno più luce di un trattato. Li chiamerei i funghi reali del suo pensiero. Gli strali più roventi hanno per bersaglio la religione che ha preso o cerca di prendere il posto della filosofia; e se Nietzsche, con l'enfasi che gli è abituale, proclama la morte di Dio, Schopenhauer, quel dio, lo uccide veramente perché toglie qualsiasi validità teoretica al teismo. Il volume raccoglie gli scritti che vanno dal 1818 al 1830, quindi ci sono anche i taccuini che il filosofo tenne durante i due lunghi soggiorni in Italia. Il lettore, però, non si aspetti di trovare i soliti taccuini di viaggio, con annotazioni minuziose di ciò che si è visto o fatto durante la giornata. Niente di ciò. Tutto proteso sui problemi di carattere generale o universale, Schopenhauer non parla mai di sé e delle sue cose personali. Non fa come Thomas Mann, che annota perfino il colore delle sue scarpe e la frequenza delle sue masturbazioni, come se la cosa fosse di capitale importanza per la posterità. Proprio perché Schopenhauer non parla mai di sé, è difficile ricostruire i suoi soggiorni italiani che pure segnarono una svolta nella sua vita. Basti dire che in Italia stava per sposarsi. Accarezzò addirittura l'idea di trasferirsi in Italia, dove, come dice lui stesso, non godette solo «il bello» ma anche «le belle». Siamo abituati a sentir parlare di Schopenhauer come del salice piangente della filosofia. Niente di più falso: egli era una natura tremendamente passionale che all'occasione sapeva cogliere i frutti della vita, dolci o amari che fossero. Un applauso al professor Giovanni Gurisatti per la fluente traduzione. E ora un auspicio. L’Adelphi si è resa universalmente benemerita per l’edizione critica di Nietzsche. Ci sarà un editore che vorrà fare un’edizione critica anche di Schopenhauer, il padre di Nietzsche? Jochen Stollberg, direttore dello Schopenhauer - Archiv di Francoforte, è un ottimo filologo e nessuno meglio di lui potrebbe stabilire il testo critico.


Recensione di: Arthur Schopenhauer, Scritti postumi. Vol. 3 trad. di Giovanni Gurisatti, Adelphi, pp. 1039, € 70;
in ttL tutto libri supplemento de La Stampa (5/3/05) p. 6

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zilath mexl rasnal
05/03/2005 17:50
 
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L’ebreo che curava i corpi studiando i pianeti
5/3/2005

SHABBETAY ha appena dodici anni quando la sua città natale è saccheggiata, i suoi abitanti depredati o uccisi brutalmente. I pochi sopravvissuti saranno profughi o schiavi. Con tutta probabilità lui non tornerà mai più a Oria, per lo meno da vivo. perché in fondo una piazza che porta una targa con il proprio nome inciso è un modo come un altro per tornare. Shabbetay, che allora ancora non si chiamava Donnolo ma che con questo curioso soprannome ("signorello") è poi passato alla storia, non andò a dire il vero molto lontano dalla cittadina pugliese in cui era venuto al mondo, ai primi del X secolo: da quell'evento traumatico in poi, lo troviamo a Taranto, a Rossano in Calabria. Soprattutto chino sui libri, sui suoi malati, in ascolto della parola di qualche saggio. Ha molto studiato, Donnolo. Non si spiega altrimenti la multiformità della sua figura: un'ombra lontana in un tempo quasi irraggiungibile del passato, qual è quell'alto Medioevo pressoché sconosciuto e non meno equivocato. Della regione in cui Donnolo abitava, infatti, all'epoca sotto dominio bizantino (e preda di incursioni islamiche, però), si può dir tutto fuorché che fosse buia. Vi ebbe infatti luogo una specie di piccolo ma estremamente significativo umanesimo, in cui culture diverse convivevano e si scambiavano idee. Quella ebraica, poi, cui Donnolo apparteneva, era una sorta di ponte fra l'erudizione classica, l'islam in avvicinamento, la tradizione biblica. «Donnolo di certo si riconosceva e si ritrovava più a proprio agio in quell'area dell'ebraismo italiota assai attenta alla conservazione del proprio retaggio greco-latino - ben assorbito sin dalla tarda antichità e sancito dal coinvolgimento dei gruppi giudaici anche nell'amministrazione locale - nel cui bagaglio formativo la cultura rabbinica aveva parte subalterna rispetto alla cultura legata al testo biblico, sorprendentemente esteso agli apocrifi e con un interesse speciale per la storiografia nazionale». In questa Italia meridionale volta verso Oriente, nello stesso periodo, qualcuno traduce e rielabora in ebraico l'opera di Giuseppe Flavio, sino ad allora considerata quasi tabù, nella cultura d'Israele. Tale circolazione di uomini e culture si spostò, qualche generazione dopo, oltre l'Italia e le Alpi, creando i primi fermenti del grande giudaismo tedesco nel basso Medioevo e nella prima età moderna. Quanto a Donnolo, cui è finalmente dedicata una bella miscellanea di studi a cura di Giancarlo Lacerenza, di lui sappiamo qualche cosa in più per merito di una lunga prefazione rimata in acrostico apposta al suo commento al Sefer Yetzirah, caposaldo della mistica ebraica. Questa prefazione è una sottile ma anche sofferta autobiografia: un racconto vivo, fitto di incontri. Con i libri e con gli uomini. Donnolo era infatti medico (di lui ci è rimasto anche un trattato di farmacologia, in cui si respira l'aria della scuola salernitana), fine commentatore, astrologo; era in particolare esperto di quella melothesia che individuava per ogni pianeta una specifica influenza su una parte del corpo umano. Credeva fermamente nel rapporto fra macrocosmo e microcosmo - l'uomo fisico e spirituale. Ebbe il privilegio di ricevere dottrina da un dotto giunto misteriosamente da Baghdad, ma anche di conoscere San Nilo da Rossano, che incontrò in veste di medico ma con cui intrecciò un dialogo fitto che andava al di là della diffidenza e della distanza di fede.

TERRE PROMESSE
Elena Loewenthal

(recendione di: Shabbetay Donnolo. Scienza e cultura ebraica nell'Italia del secolo X a cura di Giancarlo Lacerenza, Università di Napoli L'Orientale, pp. 159, s.i.p.)

da ttl tuttoLibri (La Stampa 5/3/05) p. 7

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zilath mexl rasnal
05/03/2005 18:08
 
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edizione spagnola del TAO-TE-KING
Julius Evola, EL TAO-TE-KING de Lao-tsé, Ediciones Heracles

Desde hace por lo menos cincuenta años el Tao-tê-king ha encontrado un espacio significativo en nuestra literatura, habiéndose editado múltiples versiones del mismo con distintas interpretaciones, debido al inconveniente que existe en transmitir a las lenguas occidentales un texto escrito ideográficamente. Sin embargo no dudamos en resaltar aquí que la traducción de Julius Evola se encuentra entre las mejores y más significativas debido a la orientación estrictamente iniciática que le ha dado al mismo, alejada por lo tanto de cualquier influjo moderno, tal como acontece en la casi totalidad de las versiones hasta ahora existentes.

Se trata de una obra escrita en el siglo VI a C por Lao-tsé, un funcionario del gobierno chino de la corte del Emperador que revistaba en la función de archivista, calificado por su acceso a textos de la más antigua tradición. El mensaje que aparece en su obra es el de un alerta a fin de que la comunidad se mantuviese en una armonía, evitándose el vicio habitual en que incurre la clase política por el que como efecto necesario se origina la decadencia del orden social. Éste consiste en la tendencia hacia la hipertrofia del Estado, en el surgimiento de un burocratismo producto de un intento inveterado por querer suplantar a la sociedad en diferentes funciones que le corresponden por naturaleza propia. De esta manera el gobernante se aleja de su rol principal cual es el de representar en el mundo civil y físico el principio supremo y metafísico, el de ser pontífice que vincula el orden temporal de este mundo con el celestial y eterno, dirigiendo a su pueblo hacia un destino superior y trascendente, dándole así un significado a su existencia.



ÍNDICE



Introducción (por Marcos Ghio)......................................... 7



Introducción al Taoísmo (por Julius Evola)..... 16


Tao-tê-king.................................... 50

Apéndice:



Introducción a la Edición de 1923
(por Julius Evola)......... 165




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06/03/2005 18:06
 
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MISTERI DA MERLINO A WILIGUT
Tutto il fascino occulto dei maghi

Druidi del tempo di Cesare, sciamani come Alce Nero, pericolosi occultisti alla Crowley... Il libro dell’inglese Alan Baker, Storia dei maghi , sceglie un rappresentante di una certa fama per ogni categoria - mistici, negromanti, stregoni - misurandone l’effetto sul suo tempo e a distanza di secoli, con la saggezza di chi li vede come uomini indubbiamente speciali ma anche fragili nella loro ricerca di andare oltre il cerchio della vita. Il primo mago? Il serpente che tentò Eva. Il più nefasto? Quel Wiligut che affascinò Himmler, il capo delle SS naziste. Il più ciarlatano? Cagliostro. Il più fantasioso? Lovecraft, creatore di mondi da fantascienza. Il più mago? Merlino, ispiratore del Gandalf di Tolkien.
L’operatore di arti occulte che aspira alla consapevolezza trascendente, siano «alti» o «bassi» i suoi fini, possiede enorme fascino e in ogni epoca «ha in qualche modo risposto alla nostra sete di mistero», spiega l’autore. Fermo restando che la magia ha leggi e linguaggio propri, la sua logica per così dire poetically correct , pur stimolante per lo scienziato, è più orecchiabile forse per l’artista. Perché, sentenzia l’alchimista Paracelso, «una grande immaginazione è all’inizio di ogni opera di magia». Sta al lettore decidere se averne paura o no, conclude Baker con l’augurio «che non ci venga chiesto di pagare il prezzo del sapere arcano». Libro agile, documentato, non privo di ironia.

ALAN BAKER Storia dei maghi
Mondadori
Pagine 232, 7,80

Claudia Provvedini

dal Corriere della Sera 6/3/05

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Il rischio, la gloria e la guerra: Jünger e i perché di un fascino
Dice Ernst Jünger: «Di fatto ogni epoca si esprime non solo nella vita costruttiva, nell’amore, nella scienza e nelle arti, ma anche nell’orrore. Compito del soldato deve essere la cura dell’orrore». Incombenza meno gravosa di quanto si può pensare, almeno a giudizio di chi l’orrore l’ha bazzicato da vicino. È dedicato all’attrazione fatale per il rischio (sicuro) e la gloria (generalmente illusoria) il saggio Il fascino oscuro della guerra (Laterza, pp. 200, 16) di Chris Hedges, per molti anni corrispondente dai fronti del pianeta per la stampa Usa. Il tema è affrontato in capitoli tematici, incrociati con osservazioni sul campo. La «seduzione della battaglia» genera assuefazione: «Solo stando in mezzo a un conflitto - osserva Hedges - la meschinità e l’insulsaggine di tanta parte della nostra vita ci appaiono evidenti. (…) E la guerra diventa un elisir inebriante». Ma l’analisi non induce a comprensione. Il libro, anzi, smonta ogni mitologia guerresca, a partire dall’eroismo dello scontro: di fatto, oggi, i soldati vedono di rado a chi sparano. Da notare la minimizzazione del numero delle vittime nelle foibe giuliane.

Enrico Mannucci

Corriere 7/3/05
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