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Il Ghibellino
00giovedì 15 aprile 2004 12:23

Uscita la prima edizione italiana integrale dell’«Avesta»

Da: http://www.lastampa.it/_settimanali/ttl/estrattore/Tutto_Libri/art10.asp


Così davvero parlò Zarathustra, profeta di pace e tolleranza
La prima edizione italiana integrale dell’«Avesta», inni e preghiere di una religione in cui la rivelazione non è un dono divino ma una conquista del pensiero umano

10/4/2004

Anacleto Verrecchia


ANCHE l’Italia, finalmente, ha un’edizione dell’Avesta, il libro sacro dell’antichissima religione annunciata dal profeta Zarathustra! L’intero corpus avestico che ci rimane è qui tradotto per la prima volta integralmente in italiano. Il tutto si deve al bravissimo Arnaldo Alberti, un privato studioso che non ama il proscenio e per questo merita un doppio applauso. La figura di Zarathustra, come spesso accade con i fondatori di grandi religioni, è avvolta nel mito. Lo hanno definito il primo saggio dell’umanità, ma nessuno saprebbe precisare l’epoca della sua esistenza. Per i greci, che ne mutuarono gli insegnamenti, Zoroastro, come essi lo chiamarono, sarebbe vissuto seimila anni prima di Platone. Si tratta, evidentemente, di una datazione fantastica. Tuttavia, sull’onda del mito, si è quasi tentati di dire, all’ottava alta e in forma poetica, così: quando il sole non aveva ancora squarciato le tenebre che ricoprivano le nostre lande, sull’altopiano iranico risuonava solenne la parola del magnanimo Zarathustra. Ex oriente lux! Bisogna averlo percorso, quell’altopiano, per sapere quanto esso parli una lingua antica. Per secoli l’Avesta, come del resto il Rigveda e altri testi dell’alta sapienza orientale, fu tramandato oralmente. Si presume che una prima stesura sia stata fatta nel X secolo avanti Cristo. In seguito e fino alle soglie dell’era islamica, il nucleo originario, ossia l’Avesta antico, si accrebbe di nuovi inni e di nuove disposizioni liturgiche, che costituiscono l’Avesta più recente. Di tutto quell’insieme, a noi è giunto appena un quarto o un quinto, che si suddivide in sezioni: Yasna (ufficio divino) è un libro fondamentalmente liturgico e contiene le Gatha, inni sacri attribuiti allo stesso Zarathustra. Seguono il Khordah Avesta (libro di preghiere), il Videvdat (libro dedicato alle leggi e forse la parte più bella) e il Visperad (libro liturgico). Infine abbiamo frammenti di varia ampiezza di altri libri. Zarathustra non si limita a raccogliere la parola del suo dio, che chiama Ahura Mazda, «signore che crea con il pensiero», ma lo interroga con ritmo incalzante sui misteri del mondo. Vuole sapere ed esige delle risposte: «Questo io ti chiedo, o Ahura, e tu rispondimi apertamente. Chi, dando inizio al creato, è stato fin dall’inizio il padre di Asha, il Vero? Chi ha stabilito il cammino del sole e delle stelle? Da chi proviene il crescere e lo scomparire della luna? Questo e altro ancora, o Mazda, desidero sapere». Oppure: «Questo io ti chiedo, Ahura: le cose che io rivelo sono veramente la verità?
... Con queste domande io ti aiuto, o Mazda, a farti conoscere come creatore di tutte le cose». Giustamente l’Alberti scrive che nell’Avesta è l’uomo a interrogare dio e che la rivelazione non è «un dono spontaneo delle divinità, ma la conquista del pensiero umano». Non per niente nel cosiddetto Libro del consiglio di Zarathustra, un testo scritto probabilmente dopo il crollo dell’impero sassanide e che non fa parte dell’Avesta, si legge: «Sii diligente nell’acquisizione del sapere, poiché il sapere è seme della conoscenza, e il suo frutto è la sapienza». Si legga, per contrasto, ciò che Celso scrive sull’ignoranza voluta e proclamata dai primi cristiani. Piena di slancio è l’invocazione di Zarathustra al sole: «Su, sorgi e prendi a fare il tuo giro, tu Sole dagli agili cavalli, sopra la cima del
monte Hara Berezaiti, e dona la tua luce al mondo». Questa squillante preghiera può fare il paio con quella che il Prometeo legato di Eschilo rivolge agli elementi della natura o con l’inno alla luce della Brünnhilde wagneriana. Ma la parte più bella dell’Avesta, almeno per me, è l’amore, continuamente ripetuto, per gli animali, in modo particolare per i cani. Ahura Mazda, per bocca di Zarathustra, raccomanda di preparare una morbida cuccia per la cagna incinta e di assisterla amorevolmente fino a quando «i giovani cuccioli non saranno in grado di difendersi e di alimentarsi da soli». Guai a far loro del male! Chi uccide un cane, ammonisce il dio avestico, «uccide la sua stessa anima per nove generazioni» e non troverà salvezza. Sì, l’amore per gli animali, che sono i più indifesi, è una via che conduce al cielo. Nella dotta introduzione, che a volte è fin troppo tecnica e puntigliosa, Alberti nega il carattere dualistico dello zarathustrismo, mentre altri, come ad esempio l’iranista Robert Charles Zaehner, lo ribadiscono. A me sembra che con il dualismo le cose quadrino meglio. Di fronte ad Ahura Mazda sta Arimane, che nell’Avesta viene chiamato Angra Maynu. Son tutti e due puri spiriti eterni, anche se antagonisti, in quanto l’uno è uno spirito positivo e l’altro uno spirito negativo. Lo spirito buono, ossia Ahura Mazda, è costretto a creare il mondo come arma per sconfiggere, in una lotta cosmica, Arimane. Insomma fa un po’ come il ragno che tesse la tela per acchiappare le mosche. A parte questo, occorre dire che le religioni più funeste e pericolose, come la storia insegna, sono proprio quelle monoteistiche. E se ne capisce facilmente il motivo: un dio unico è geloso del proprio potere e quindi non ama dividerlo con altri. Di qui le guerre di religione che hanno insanguinato il mondo. Al politeismo invece, come insegna Hume, è sempre stata estranea l’intolleranza. Nella Roma pagana non si conoscevano guerre di religione e gli dèi vivevano pacificamente l’uno accanto all’altro. Negli studiosi occidentali c’è una certa tendenza a vedere l’Avesta con occhi cristiani. Bisognerebbe invece vedere il cristianesimo attraverso l’Avesta. Allora ci si accorgerebbe di quanto il cristianesimo sia indebitato con la religione iranica, dove c’è già tutto, dal messia al redentore, dagli angeli ai demoni, dal paradiso all’inferno. Ancora una cosa. Il nome di Zarathustra, che suona più musicale del pedantesco Zarathushtra, è diventato universalmente noto attraverso l’opera principale di Nietzsche. Non si creda, però, che Così parlò Zarathustra abbia qualche addentellato con gli insegnamenti del vero Zarathustra. E’ anche da escludere che Nietzsche abbia mutuato il nome del profeta dall’iranista Carl Friedrich Andreas, marito, per sua disgrazia, di Lou Salomé. La prima volta che il nome di Zarathustra figura negli scritti di Nietzsche risale all’agosto del 1881, quando egli non conosceva neppure la Salomé. L’avrà orecchiato da qualche altra parte per poi ripeterlo in modo puramente formale e stereotipato. Tutto qui.

[Modificato da Il Ghibellino 13/02/2005 17.37]

Il Ghibellino
00giovedì 15 aprile 2004 12:28

Uscita quarta edizione corretta e con due appendici di 'Imperialismo pagano' di Julius Evola

Da: http://www.ediz-mediterranee.com/





Julius Evola, IMPERIALISMO PAGANO
Il fascismo dinanzi al pericolo euro-cristiano
Quarta edizione corretta con due Appendici
EVO 03322, 328 pagine, euro 19,50


Imperialismo pagano venne pubblicato verso la metà del 1928 a ridosso, dunque, dei Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929 fra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano. Il pamplhet di Julius Evola, che riprendeva, fondendoli, alcuni articoli apparsi nel 1926-27, voleva essere proprio una messa in guardia per il fascismo contro questo avvenimento che, a giudizio dell’autore, avrebbe tarpato le ali alle potenzialità imperiali del Regime mussoliniano. Non era una personalissima alzata di scudi, ma la conclusione di un cammino che riassumeva le posizioni di un mondo esoterico e/o pagano quanto mai composito che si riuniva anche sotto le iniziative del Gruppo di Ur e che, con la Conciliazione, vedeva spegnersi ogni aspettativa della possibile affermazione nell’Italia fascista di spiritualità diverse dall’egemonia cristiano-cattolica.
È in questo modo che l’opera deve intendersi, ma anche come un esplicito «appello» al Duce e a tutti «i fascisti degni di questo nome», pur se, scrive esplicitamente Evola, «in forma di campagna militare». Un saggio, dunque, polemicissimo, che prende di petto le questioni, drastico, intransigente, comepuò esserlo un trentenne per cui «il fascismo era troppo poco», come scriverà due anni dopo. Un’opera in cui si effettua una critica serrata sul piano logico, politico, filosofico e religioso di tutti quei valori, di tutte quelle condizioni, di tutti quei miti che, secondo Evola, stavano ostacolando il fascismo e la sua volontà di rinnovare la nazione e lo Stato, il suo voler essere «imperiale»: da un lato la democrazia, il liberalismo, il comunismo, un mal inteso europeismo e occidentalismo; dall’altro il cristianesimo più che il cattolicesimo come «religione ufficiale». Tutte tesi poi meglio organizzate, sistematizzate e sviluppate dal filosofo in opere successive come Rivolta contro il mondo moderno, Gli uomini e le rovine, Cavalcare la tigre.
Le polemiche che Julius Evola suscitò, considerando anche che i suoi saggi erano apparsi in riviste ufficiose come Vita Nova e Critica fascista, furono diffuse, furibonde e si trascinarono a lungo costringendo l’autore ad un quasi silenzio sino al 1932-3. Anno in cui apparve in Germania una traduzione riveduta e adattata ad un pubblico tedesco del libro, e che qui si presenta insieme all’originale per un opportuno confronto e approfondimento di temi.
Il filosofo, negli anni Cinquanta e successivamente, si oppose sempre alla ristampa di Imperialismo pagano, in quanto la considerava un’opera giovanile, fissata ad un preciso momento politico e superata da altre sue opere nel dopoguerra, ma anche perché sapeva che se ne sarebbe fatto un uso strumentale e «militante», come infatti avvenne. Il ripresentarla con ampio apparato critico e comparativo, con appendici e documenti, significa inquadrarla nel suo tempo ed in una complessa e articolata «visione del mondo», non condannarla ad una incongrua damnatio memoriae, ma riscoprirla e capirla per quel che voleva effettivamente essere e per i germi che contiene delle idee e posizioni successive, senza né incongrui anatemi né incongrue apologie.

[Modificato da Il Ghibellino 13/02/2005 18.01]

janus77it
00sabato 17 aprile 2004 18:48
Ritengo molto importante l'attenta rilettura di questa controversa opera evoliana, sia per comprendere lo sviluppo ideale del pensatore tradizionalista, sia per estirpare alla radice tutto quel coacervo di false interpretazioni che si sono sviluppate dopo la pubblicazione dello scritto in questione. Ribadire che Imperialismo Pagano è principalmente un testo politico, più che dottrinale e normativo, è di un'importanza assoluta, e che è stato il giusto risultato del cammino che l'autore aveva intrapreso con l'esperienza del Gruppo di Ur, che, inutilmente aveva cercato di influenzare il Fascismo. Questo per coloro che si fanno abbindolare dal cosidetto "neo-paganesimo", da cui lo stesso Evola aveva messo tutti in guardia, e certamente non per una sua conversione cristiana, come qualche stolto settario afferma, ma per manifestare l'evidenza e l'esigenza, come sempre avviene in Tradizione, di riprendere ciò che di ogni forma tradizionale è immortale ed incorruttibile, cioè i principi divini a cui si ispira, e non forme secolarizzate o archeologia polverosa...il Guènon ha scritto abbastanza sui rischi che si presentano a coloro che cercano di far rivivire le forme e non le essenze di una civiltà tradizionale.

Ave atque Vale

janus77
Il Ghibellino
00domenica 18 aprile 2004 01:01

Uscito il n° 11 di Arthos


ARTHOS
Quaderni annuali di cultura e testimonianza tradizionale
NUOVA SERIE - ANNO VII - VOL. II - N. 11 (anno 2003)


SOMMARIO

p. 129
TRADIZIONE E FOLKLORE
RENATO DEL PONTE Archetipi e antiche tradizioni in alcune manifestazioni popolari dell’area apuo-lunigianese.

p. 149
ARJO G. VERDIN Il patrimonio del folklore come espressione della diffe-renziazione progressiva dei popoli.

p. 153
SAGGI: H. THOMAS HANSEN Julius Evola e il conte Karlfied Dürckheim (seconda parte).

p. 161
FILIPPO LADON Guido De Giorgio e il suo commento ai primi canti della Divina Commedia.

p. 172
POESIA: RITA SANNAZZARI Ricordo (D. M. Alfredo Cattabiani).

p. 173
NOTE E POSTILLE: JULIUS EVOLA Abuso di confidenza (inedito del 1972).

p. 175
RENATO DEL PONTE “Quel treno per Vienna...”. Evola nel 1944.

p. 180
ALFONSO DE FILIPPI Monoteismo e dintorni

p. 186
RECENSIONI:
Meditazioni delle vette di J. Evola [quinta edizione] (M. E. Migliori)
Saltus Marcius di L. Marcuccetti (M. E. Migliori)
Rivista Italiana di Archeoastronomia (M. E. Migliori)

p. 191
IL CROMLECK

In copertina: Immagine bifronte di Virbio (tratto da: Lucia Morpurgo, La rappresentazione
figurata di Virbio, in “Ausonia”, [IV], 1909)


Registrato presso il Tribunale di Genova: n°. 14623 del 4/8/1972.
Finito di stampare il 15 marzo , Festa di Anna Perenna, dell’anno volgare 2004 presso la tipografia “Pierpaolo Baudone” di Sarzana (SP).

“ARTHOS”
DISPONIBILITÀ E PREZZI
PRIMA SERIE
N. 19 (febbraio-giugno 1979), pp. 80 € 9,00
N. 26 (luglio-dicembre 1982), pp. 60 € 7,00
N. 27-28 (1983-1984), La Tradizione Artica, pp. 88 € 9,00
N. 29 (1985), pp. 72 € 9,00
N. 31-32 (1987-1988), René Guénon, pp. 128 € 11,36
Supplemento speciale al n. 33-34 (1992), Indici ventennali, pp. 20 € 3,00
NUOVA SERIE
N. 1 (gennaio-giugno 1997), pp. 48 € 7,00
N. 2 (luglio-dicembre 1997), pp. 48 € 7,00
N. 3-4 (1998), pp. 48 € 7,00
N. 5 (gennaio-giugno 1999), pp. 48 € 7,00
N. 6 (luglio-dicembre 1999), pp. 48 € 7,00
N. 7-8 (2000), pp. 64 € 9,00
N. 9 (2001), pp. 64 € 9,00

ARTHOS
Quaderni annuali fondati nel 1972 da Renato del Ponte
Volume Secondo della Nuova serie.

Direttore: RENATO DEL PONTE (responsabile legale: SALVATORE TRINGALI)
Segreteria di redazione: GIOVANNI VIRGILIO E RITA SANNAZZARI
Comitato redazionale: ALFONSO DE FILIPPI, MARIO ENZO MIGLIORI, DANIELE VERZOTTI

L’“associazione” ad “Arthos” dà diritto a TRE Quaderni Annuali sottoscrivendo la somma di €26,00. Saranno molto gradite anche la formula del “Sostenitore” (€ 40,00) e ancor più quella di
“Amico” (€ 52,00 e oltre) e qualsiasi altro sostegno ulteriore. Aiutare “ARTHOS” è un dovere morale per chi crede nell’idea di Tradizione.

Direzione: ARTHOS, casella postale 60, 54027 PONTREMOLI (MS)
Tel. 0187 - 831833 (solo ore 21.15-22.30)
Ogni versamento va effettuato sul C.C.P. 10151546, intestato a:
RENATO DEL PONTE, Groppomontone, 52 - 54027 PONTREMOLI (MS).

[Modificato da Il Ghibellino 13/02/2005 17.39]

Spartacus74
00lunedì 26 aprile 2004 13:48
in effetti
..la questione è di molto conto in quanto non pochi sono coloro i quali attribuiscono a Evola la volontà di ritenere tale testo non "utilizzabile" in tempi postbellici essendo cambiato clima politico e progetto sulturale di un certo mondo tradizionalista.
Il Ghibellino
00venerdì 14 maggio 2004 15:49

Qualcuno lo ha letto?


Piero Di Vona, Evola e l’alchimia dello spirito, Collezione: ‘gli Inattuali’, vol. XVI, pp.82. Euro 8
Ingiustamente qualificata come trattazione specialistica, La Tradizione ermetica di Julius Evola è invece un testo luminoso e audace, che esalta gli aspetti attivi, eroici e regali della Tradizione. Questo studio che Piero Di Vona dedica al saggio evoliano vuole appunto scostare il velo dei simboli, vincere il labirintico e cifrato codice degli alchimisti, fino a trasformare la descrizione dell’arte alchemica nella filosofia di essa. Semplice e immediato nel suo stile, profondo e sottile nelle conclusioni che trae, Evola e l’alchimia dello spirito restituisce all’universo speculativo di Evola la sua energia suscitatrice. Che nell’intorpidirsi di quest’epoca prende risalto soprattutto per virtù di antitesi, opponendosi alla tirannia dei simboli, delle figurazioni e delle ideologie cristiane. Scrive infatti il Di Vona: “Fu un grande merito di Evola l’aver cercato di costruire un pensiero ed una visione del mondo indipendenti dalla religione venuta a dominare nel mondo occidentale”.

http://ww.libreriaar.it
lupoinvincibile
00giovedì 17 giugno 2004 13:47
Il più lucido scritto di Evola
"Imperialismo" resta il più lucido scritto di Evola, ed il più grande, anche nello stile. I tempi sono mutati, ma il libro ha sortito sensibili effetti, come notato dal Prof. Di Vona nel Risguardo V delle Edizioni Ar. La stessa nascita del Movimento Tradizionale Romano è ascritta da Di Vona tra gli effetti della comparsa del virulento libello.
BMD
nhmem
00domenica 20 giugno 2004 13:02
Re: Il più lucido scritto di Evola

Scritto da: lupoinvincibile 17/06/2004 13.47
"Imperialismo" resta il più lucido scritto di Evola, ed il più grande, anche nello stile.
BMD



Condivido. Ricordo sempre con gioia quando ebbi modo di leggerlo la prima volta nella Biblioteca Nazionale di Firenze. Per fortuna poi ne sono uscite varie edizioni e/o ristampe ed adesso finalmente viene riproposto con il testo delle due versioni rendendole accessibili ad un maggior numero di lettori.
nhmem
00sabato 4 settembre 2004 18:55
JULIUS EVOLA,

ETICA ARIA,
Quattro saggi del 1937-43
a cura di Renato del Ponte,

I QUADERNI DI "ARTHOS",
Pontremoli 2004.
Euro 5,oo.

Sommario:

Premessa alla terza edizione.

Volti dell'eroismo.

Il diritto sulla vita.

Etica aria: Fedeltà alla propria natura.

Sulla "milizia" quale visione del mondo.




"Arthos", casella postale 60, 54027 Pontremoli (MS)
[SM=g27822] [SM=g27823]
janus77it
00domenica 5 settembre 2004 08:48
Un'ottima iniziativa! [SM=g27811]
janus77it
00martedì 7 settembre 2004 17:29

Nuovo numero di Orientamenti con speciale su Evola

E' disponibile il nuovo numero di Orientamenti, rivista di storia politica e cultura. Euro 6,20.

La rivista può essere richiesta al mittente.

Nascerà la Confederazione Nazional Popolare ? di Nicola Cospito
Tradizione e "metafisica della storia" in Julius Evola di Giovanni Perez
Conferenza di Bruno Rassu a Montegranaro
Il Comitato Istituzionale di Carlo Morganti
Sulle orme della Wehrwolf di Mjornir
Tradizione marziale e spiritualità di Spartacus 74-27
Servizio Ausiliario Femminile
Numerologia solare nelle forme tradizionali di Luca Valentini
Autopsia di una fuga di Filippo Giannini
Sulla religione romana di Giandomenico Casalino
Wilhelm Petersen, il pittore del Nord di Harm
Denis Mac Smith di Filippo Giannini
Vademecum del Militante e Discorso sul metodo di Rutilio Sermonti
Recensioni librarie

nicolacospito@libero.it

[Modificato da Il Ghibellino 13/02/2005 18.07]

Il Ghibellino
00martedì 19 ottobre 2004 15:40

Nuovo testo delle Edizioni di Ar:

Autori vari
Il gentil seme. L'idea di Europa: radici e innesti
Edizioni di Ar, 2004, collezione 'Paganitas', € 14



Indice:

A.K. Valerio, Nella (nulla) quaestio (nota introduttiva)

S. Consolato, Sulle radici dell'Europa e su un suo problematico 'padre'

G. Damiano, Nella morsa? Appunti sulla questione 'Europa'

B.M. di Dario, Le radici, gli innesti, la cancerogenesi

P. Di Vona, L'Europa e il cristianesimo

N. Gatta, Un albero dalle morte radici

M. Pacilio, Odisseo o la reintegrazione della regalità

L.L. Rimbotti, Le radici pagane dell'Europa: una lotta per l'identità



Non vedo l'ora di poter leggere questa che si prospetta essere un'interessantissima silloge. Per sciogliere una volta per tutte, almeno a chi avrà la bontà di acquistare e leggere il volume, il nodo sulle autentiche radici dell'Europa, che non sono affatto quello giudeo-cristiane (le radici stanno all'inizio, e non sono certo un innesto) tanto sbandierate ultimamente, quanto piuttosto quelle primieve e pre-semite del mondo europeo pagano e politeista delle origini. Cosa questa che il semplice uso della logica dovrebbe rendere evidente ai più.
Ancora una volta complimenti alle edizioni di AR per la coraggiosa battaglia culturale che da 40 anni portano avanti.

Sito delle Edizioni di Ar
Alex03
00venerdì 22 ottobre 2004 10:08
Re:

Scritto da: janus77it 07/09/2004 17.29
E' disponibile il nuovo numero di Orientamenti, rivista di storia politica e cultura. Euro 6,20.

La rivista può essere richiesta al mittente.

Nascerà la Confederazione Nazional Popolare ? di Nicola Cospito
Tradizione e "metafisica della storia" in Julius Evola di Giovanni Perez
Conferenza di Bruno Rassu a Montegranaro
Il Comitato Istituzionale di Carlo Morganti
Sulle orme della Wehrwolf di Mjornir
Tradizione marziale e spiritualità di Spartacus 74-27
Servizio Ausiliario Femminile
Numerologia solare nelle forme tradizionali di Luca Valentini
Autopsia di una fuga di Filippo Giannini
Sulla religione romana di Giandomenico Casalino
Wilhelm Petersen, il pittore del Nord di Harm
Denis Mac Smith di Filippo Giannini
Vademecum del Militante e Discorso sul metodo di Rutilio Sermonti
Recensioni librarie

nicolacospito@libero.it



Qual'è il numero di copertina di questo?
janus77it
00sabato 23 ottobre 2004 19:16
La pubblicazione di Orientamenti in questione è Anno VII - N. 3-4 Maggio-Settembre 2004; in copertina vi è la copertina (scusa la ripetizione) della vecchia edizione di Rivolta contro il mondo moderno di Evola.
Il Ghibellino
00lunedì 1 novembre 2004 11:36

Autori vari
Il gentil seme. L'idea di Europa: radici e innesti
Edizioni di Ar, 2004, collezione 'Paganitas'


Alcune indicazioni sugli Autori:

- Sandro Consolato, è autore del libro 'Julius Evola e il Buddhismo (Sear), ed è il direttore della rivista 'La Cittadella'.

- Giovanni Damiano, è autore, per le Edizioni di Ar, dei libri: 'La filosofia della libertà in Julius Evola', e 'Elogio delle differenze. Per una critica della globalizzazione'.

- Beniamino M. di Dario, è autore, per le edizioni di Ar, dei libri: 'La via romana al divino. Julius Evola e la religione romana', e 'Il Sole invincibile. Aureliano riformatore politico e religioso'.

- Piero Di Vona, è studioso di Spinoza. Ha pubblicato: 'Evola Guénon De Giorgio' (Sear), 'Metafisica e politica in Julius Evola' (Ar), 'Julius Evola e l'alchimia dello spirito' (Ar). Ha pubblicato, inoltre, libri su Guénon per la Sear e per Il Cerchio, e vari saggi per le Ar.

- Nello Gatta, è autore di ' Giuliano Imperatore. Un asceta dell'Idea di Stato' (Ar).

- Massimo Pacilio, è autore per le Ar di 'Conoscenza tradizionale e sapere profano. René Guénon critico delle scienze moderne' (Ar).

- Luca L. Rimbotti, è autore per il Settimo Sigillo di 'Il mito al potere' e 'Il fascismo di sinistra'.

- Anna K. Valerio, ha curato saggi e introduzioni per le Edizioni di Ar.

[Modificato da Il Ghibellino 13/02/2005 18.10]

Il Ghibellino
00lunedì 1 novembre 2004 11:38

Autori vari
Il gentil seme. L'idea di Europa: radici e innesti
Edizioni di Ar, 2004, collezione 'Paganitas'


Dal risvolto di copertina:

"Il titolo di questo volume, preso a prestito da Dante (Inferno, XXVI, 60) allude alle origini dell'Europa. Mentre s'insisteva per introdurre nella costituzione europea un rimando a presunte 'radici giudaico-cristiane', le Edizioni di Ar hanno ritenuto opportuno, con un gesto che ha valore di richiamo del passato e di auspicio per il futuro, ricordare quale fu il 'seme' che diede vita all'Europa. Il risultato è questo libro, davvero un unicum. Sia per la 'nota di fondo' che lo sostiene, sia per la pluralità delle prospettive a cui i vari scritti hanno dato vita. Infatti, voci diverse, pur non confondendosi, pur mantenendo la loro particolare 'timbricità', hanno finito per intessere un'armonia di suoni. Come ricordava qualcuno, "nella camera dipinta dei nostri vecchi pittori era comune che figure dissimili, dalle varie pareti, alludessero con lo stesso gesto a un solo centro, un solo ospite assente o presente". Che, infine, il testo sia stato pubblicato nella collana Paganitas, crediamo spieghi a sufficienza quali siano e dove vadano rinvenute le origini dell'Europa."

[Modificato da Il Ghibellino 13/02/2005 18.11]

nhmem
00mercoledì 3 novembre 2004 21:46
da "Corriere della Sera" (3/11/2004)

Un libro di Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri sull’imperatore di Svevia e re di Sicilia noto come «stupor mundi»

Benefattore o Anticristo, Federico II stupisce ancora



Si potrebbe cominciare con un indovinello. Rivolgendovi al vostro interlocutore chiedetegli chi era quel re che avrebbe detto: «Come sarebbe bello governare uno Stato islamico, senza papi e senza frati!». Poi aggiungete che molte sue lettere, scritte in arabo, cominciavano con la nota formula: «Bismillahi ar rahman ar rahim», ovvero: «Nel nome di Dio, clemente e misericordioso». Se il prescelto tentenna, ricordategli che più di un papa lo considerò l’Anticristo e che, di conseguenza, fu anche un collezionista di scomuniche. Niente ancora? Rammentategli che a Gerusalemme, anticipando Napoleone di sei secoli, si incoronò da solo ed entrò nella città santa senza versare una goccia di sangue, in perfetto accordo con i musulmani. Se la risposta proprio non giunge, l’aiuto decisivo potrebbe arrivare da Friedrich Nietzsche, il filosofo che lo adorava: «Pace e amicizia con l’Islam! Così pensava e così fece quel grande spirito libero, il genio tra gli imperatori tedeschi...». I puntini sono l’estrema resistenza al nome. Che ora riveliamo: Federico II di Svevia. Non mancano certo libri su questo sovrano noto come «stupor mundi», uomo che affascinò il suo tempo e che i posteri sempre rimpiansero. Dalla classica biografia risalente al 1927 di Kantorowicz Federico II imperatore (continuamente ristampata da Garzanti) a quella meno ponderosa di Abulafia , Federico II. Un imperatore medieval e (Einaudi), via via sino ai numerosi studi specialistici apparsi nel 1994 per l’ottavo centenario della sua nascita, non c’è che l’imbarazzo della scelta. Ora Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, dopo aver pubblicato una storia del pensiero politico sull’età di mezzo (Laterza), ci offre un saggio s u Federico II. Ragione e fortuna , ricostruendo le relazioni che intrattenne con il suo mondo e il gran fiorire di maestri vicini al monarca, che insegnarono «con nuovi metodi e nuove ragioni nuove discipline». Tre saggi finali del libro e la bibliografia si devono a Claudio Fiocchi.
Chi era Federico II? Difficile rispondere. La sua cultura e le sue idee non hanno mai smesso di contaminare quanto stava accadendo; per questo si può dire che da sette secoli i giudizi riflettono quelli del suo tempo. Aprendo la Cronica del guelfo Giovanni Villani, si scopre che era «figliolo d’ingratitudine non riconoscendo la Santa Chiesa come madre, ma come nemica matrigna, in tutte le cose le fu contrario e perseguitatore». E non solo: «Dissoluto in lussuria in più guise (...) in tutti i diletti corporali volle abbondare». Diverso parere nella Historia de rebus gestis Friderici II di Niccolò di Jamsilla, scritta con intenti ghibellini: «Fu un uomo di gran cuore e si applicò in ogni impresa con molta ponderazione. Amò e onorò a tal punto la giustizia che a nessuno fu vietato di chiamare in giudizio lo stesso imperatore (...). Per l’odio dei suoi nemici fu colpito da molte avversità, ma da costoro non fu mai vinto».
Oggi Federico resta una figura fascinosa da studiare, ma difficile da accettare. La sua idea di impero non è politicamente corretta, il suo carattere ghibellino odora di zolfo anche per i bigotti del laicismo, il suo amore per la cultura, intesa come elemento indispensabile alla vita e non come merce da utilizzare, è inattuale. Anche far convivere ebrei, musulmani e cristiani sembra, nell’era della globalizzazione, un residuo dell’età dell’oro. Re di Sicilia oltre che imperatore, il sovrano riunì alla corte di Palermo letterati, filosofi e scienziati. Ma all’occorrenza era figlio del proprio tempo: quando metteva mano alla spada, le teste rotolavano in abbondanza.
Nel saggio della Beonio Brocchieri, la seconda parte è quasi tutta dedicata alla ricostruzione degli interessi culturali di Federico II. Suo consigliere era il filosofo Michele Scoto, destinatario anche di lettere in cui il re chiedeva di svelare i segreti della natura e «che cosa sono i cieli e chi li governa». Di più. Alla Bodleiana di Oxford è conservato un manoscritto in arabo in cui c’è la corrispondenza tra Ibn Sab’in ’Abd al-Haqq e Federico: in esso scopriamo che l’imperatore, insoddisfatto dalle soluzioni date dai filosofi dell’Egitto, della Siria e dell’Iraq, si rivolge a questo sapiente della Spagna musulmana, il quale risponde rifiutando il denaro inviatogli. E la prima domanda, neanche a farlo apposta, è un tema di bruciante attualità nelle scuole filosofiche di quegli anni: l’eternità del mondo. Un’altra è dedicata al numero delle categorie: ad essa Ibn Sab’in replica con un pizzico di insolenza. Non entreremo in tutti i dettagli, ma vale la pena aggiungere che Leonardo Fibonacci poté divulgare il suo sistema delle cifre numeriche indo-arabe grazie a Federico. E che numerose traduzioni furono sollecitate sempre dall’imperatore, a cominciare da un trattato arabo del falconiere Maomin, traslato dal farmacologo e astrologo Teodoro d’Antiochia. Sarà presente nella stesura del celebre libro federiciano su L’arte di cacciare con gli uccelli .
Un altro capitolo della Fumagalli Beonio Brocchieri è dedicato ai maestri ebrei. Troviamo, tra gli altri, Giacobbe Anatoli, il quale partecipava con Michele Scoto e il monarca a discussioni intorno alla materia con cui fu creato il cosmo: capitò anche che i due sapienti non si trovassero d’accordo con il sovrano e respingessero le sue tesi. Anatoli lasciò riflessioni sulla diseguaglianza umana e sulla funzione del linguaggio. E questo accadeva mentre a Parigi - correva il 1240 - una copia del Talmud , dopo una controversia tra cristiani ed ebrei, veniva bruciata alla presenza del re San Luigi.
Questo libro su Federico II è un’occasione per riflettere su quei valori del vivere civile che non tramontano e su una figura che continua a ghermirci. Le sue concubine e il lusso ora ci interessano meno della sua intelligenza, gli errori sono ormai sostituiti dall’esempio dell’uomo nuovo che egli rappresentò. E anche sulla sua fine si moltiplicarono le leggende. Qualcuno lo vide attorniato da astrologi e da saraceni a lui devoti; altri gli fecero indossare l’abito cistercense concedendogli l’assoluzione di Beroldo, suo amico e arcivescovo di Palermo. Altri infine, credettero che egli fosse l’Anticristo annunciato dalle profezie dell’abate Gioacchino da Fiore. E siccome l’Anticristo non poteva andarsene se non dopo aver terminato la sua opera nefasta, le voci si inseguirono sino a credere che Federico non fosse morto, ma addormentato in una caverna. Un giorno sarebbe ritornato alla vita per completare la sua missione.

Il libro di Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, «Federico II. Ragione e fortuna» (pp. 302, 19) è edito da Laterza

Il Ghibellino
00mercoledì 1 dicembre 2004 01:57

Qualcuno ha avuto modo di leggere questo testo di Calasso?




Roberto Calasso, La letteratura e gli dèi
Biblioteca Adelphi, Prima edizione 2001
pp. 183, Euro 14,46

Dal risvolto di copertina
: A lungo gli scrittori hanno parlato degli dèi perché la comunità affidava loro questo compito. Ma poi hanno continuato a scriverne, anche quando la comunità avrebbe ignorato o avversato quegli stessi dèi e il divino da cui promanano. Chi erano quelle figure? Perché i loro nomi affioravano sempre, imperiosamente o allusivamente? Innanzitutto gli dèi della Grecia, che sin dalla Firenze quattrocentesca degli Orti Oricellari – dove poeti, pensatori e pittori quali Botticelli, Poliziano o Marsilio Ficino si proponevano di tornare a celebrare i misteri pagani – attraversano per secoli, come onde possenti e capricciose, la vita mentale dell’Europa, depositandosi in statue, quadri, versi. E in seguito, a partire dai primi anni del Romanticismo tedesco, dèi provenienti da ogni spicchio dell’orizzonte, e in particolare dall’Oriente. Dèi dai nomi oscuri, ma ancora una volta paurosi e ammalianti. Le loro figure si mescolano ora a un rivolgimento delle forme, a una fuga della letteratura dal maestoso edificio della retorica, che a lungo l’aveva ospitata, verso una terra che non è descritta sulle mappe ma dove – da Hölderlin e Novalis a Mallarmé, a Proust e sino a oggi – siamo ormai abituati a ritrovare la letteratura stessa nella sua metamorfosi più azzardata ed essenziale, insofferente di ogni servitù verso la società e portatrice di un sapere irriducibile a ogni altro, che qui viene delineato sotto il nome di letteratura assoluta.
Questo volume raccoglie le otto Weidenfeld Lectures che l’autore ha tenuto all’Università di Oxford nel maggio 2000.

Note sull'autore: Nato a Firenze, Roberto Calasso vive a Milano ed è presidente e consigliere delegato della casa editrice Adelphi. autore di un work in progress di cui finora sono apparsi La rovina di Kasch (1983), Le nozze di Cadmo e Armonia (1988), Ka (1996). Ha pubblicato inoltre il romanzo L'impuro folle (1974) e i saggi I quarantanove gradini (1991) e La letteratura e gli dèi (2001).

Note: Le motivazioni del premio Bagutta
Riportiamo un brano letto da Piero Gelli durante la cerimonia di chiusura:
«Vorrei soltanto infine sottolineare due tra le varie motivazioni che hanno indotto la giuria a premiare La letteratura e gli dèi: l’una, la capacità di affrontare col dominio di un’intelligenza e di una cultura che non hanno confronti un territorio vastissimo di civiltà e di dottrine e di restituirlo col fascino di un’affabulazione teofanica, oltre che con maestria stilistica e con il rigore di una dimostrazione serrata. L’altra, in qualche modo più struggente e simpatetica. Per Calasso, gli dèi non sono mai morti; come l’onda intermittente di Aby Warburg che riprende a sferzare le rocce, riappaiono tra noi, ritornano dall’esilio, e si ritrovano non nei santuari di culti e di riti, bensì nei libri, anche in quelli o soprattutto in quelli che pochi leggono. Si ritrovano quindi in quell’atto solitario e silente che è la lettura, in quell’atto carico di potenza, frenetico e inebriante, che è il leggere, e che sopravvive anche al delirio del computer e dei suoi microchip, perché in fondo sempre di parole e di letture si tratta». (4 dicembre 2001)

Una recensione su internetbookshop.it: Massimo Russo (27-03-2001)
Leggendo l’ultimo “romanzo” di Roberto Calasso, La letteratura e gli dèi, non si può rimanere indifferenti. Nel senso che Calasso è capace, in ogni circostanza, di aprire orizzonti nuovi al lettore anche più smaliziato. E non solo per la sua bravura di autore (scrittore), ma anche per un percorso interpretativo tutto suo (originale) che muove da una cultura profonda e curata. La quale è lampante (a volte compiaciuta) dopo poche pagine (e anche righe) di questo suo ultimo lavoro, le otto Weidenfeld Lectures tenute all’Università di Oxford nel maggio 2000. Il percorso che Calasso traccia, muove dalla considerazione dell’utopia («comunità buona») come pericolosa ossessione e degli dèi nella mitologia classica: parti fondanti della cultura occidentale. Da qui, attraverso un itinerario di incontro e di testimonianza che vede protagonisti gli dèi («ospiti fuggevoli della letteratura»), l’autore individua una via (tra le altre) che però è la Via (anche in un senso propriamente religioso.) Perché se Calasso da una parte tende a trovare il Luogo della Letteratura, e quindi degli dèi, dall’altra non manca in questa scelta di individuare un percorso (in avanti come all’indietro) scientifico (metafisico - ideologico?). Infatti, l’Arte è opera gnoseologica (Nietzsche), per cui conoscenza e simulazione non sono antagoniste ma complici. E la prima operazione, l’Operazione, è un’invenzione dalla quale tutto promana. Quest’invenzione è la Forma, che ci dice come sia necessario, anche nella piena libertà, tenere ben presenti «le leggi» (Proust) che regolano il fare della Letteratura, dopo aver abbandonato la legge per eccellenza, la Retorica (la testimonianza è data, alla morte di Hugo, da Mallarmé. Il poeta francese lungi dall’essere un avanguardista è piuttosto il primo testimone della rinata “giurisprudenza” letteraria). La Letteratura è l’unica verità, ben al di là della limitata realtà, fatta di convenzioni e di approssimazioni razionali. Il percorso affascinante che l’autore esperimenta, passa attraverso la mitologia greca, ma si completa con quella orientale, l’unica ad avere una risposta per tutto. E, attraverso gli autori che Calasso cita (Omero, Hölderlin, Baudelaire, Schlegel e Novalis, Nietzsche, Lautréamont, Mallarmé, Proust, nonché molti altri tra cui Leopardi, Nabokov, Benn, Montale, Artaud, Heidegger), viene rifatta (o fatta) una storia della Letteratura che, appena conosciuta, sembrava mancare. Molto illuminante è il capitolo settimo (la lezione penultima) in cui il Nostro mostra tutta la sua competenza attorno ai miti dell’oriente. Nell’ultimo capitolo, Calasso enuncia la sua tesi di una «Letteratura assoluta» portatrice di un sapere irriducibile e divincolata da qualsiasi forma preesistente. Io credo che merito di queste lectures sia soprattutto nell’orizzonte interpretativo che tracciano e che “apre” inevitabilmente ad “altre” considerazioni attorno allo sviluppo e alle ragioni della Letteratura (si ha, a volte, la sensazione di un discorso “fuori dal mondo”: un vero e proprio fare versi). Ma la conclusione, nella sua essenzialità, non è affatto nuova se non per la intensità e la magnificenza con cui viene pronunciata e per l’iter scelto per giungervi. Riguardo poi alla questione che la Letteratura debba tener fuori la Società dalla sua idealità, penso ci sia stata un po’ di confusione da parte di commentatori affrettati che hanno additato la posizione di Calasso, come quella di un autore che non partecipi del senso della storia. Calasso dice (giustamente) che la Letteratura va tenuta lontana dalla Società, nel senso che da essa non può e non deve farsi soggiogare. Quando è successo infatti ci sono stati i totalitarismi (tesi già esposta con lucidità in La rovina di Kasch). Non può perché la Letteratura ha origine sua propria, attraverso la vita degli dèi, anzi è l’Origine. E nell’individuare la solitudine dello scrittore (dopo il secolo in cui ha trionfato la Letteratura assoluta, dal 1798 al 1898, seguito dalla clandestinità della Letteratura non più “libera”), Calasso ci fa vedere come le opere non siano altro che l’Opera attraverso e nelle mani di una individualità che comprende il tutto (valga il paragone di due scienziati che si trovino a scoprire la stessa cosa contemporaneamente e separatamente). In questo senso lo scrittore (il solo testimone e custode caduco dell’Opera) non è scrittore della Società, ma è comunque “figlio” dell’epoca che lo caratterizza: Calasso però non considera quest’ultimo aspetto (dimentica, invero anche che esiste una Letteratura sociale portatrice di libertà). Allora, il senso dell’esclusione della Società risiede nella sua temporalità estrema che nulla ha a che vedere con la Letteratura “assoluta”. In questo senso La letteratura e gli dèi è un libro per “esperti”, o per chi voglia esperire nuove vie senza accontentarsi di quella più affascinante.
Voto: 5 / 5

Recensione su clarence.com: E' un peccato che di tutto quanto Roberto Calasso ha pensato, scritto e strategicamente adottato nella sua vita di intellettuale settecentesco rimarranno infine soltanto due ricordi: ciò che ne ha detto Tommaso Labranca, che è un cretino e di Calasso non ha capito niente; e ciò che ne ha detto Maurizio Blondet, che è un cattolico e di Calasso non ha capito niente nemmeno lui. Per Labranca, agli esordi del boom del trash, Calasso era l'icona della finta cultura alta, quella che snobba la televisione e che però produce i testi di Franco Battiato: Labranca prese mirabilmente per il culo l'Editore adelphiano, mancando totalmente il bersaglio. Per Maurizio Blondet, che potremmo definire "cattolico atipicamente integralista", Calasso è la punta di diamante di un complotto neopagano che potrebbe arrivare ad atti estremi e sacrificali di carattere splatter. Peccato per Calasso: è ben vero, tuttavia, che ognuno ha la sorte che si merita o che gli merita la sua propria aura (o kharma: questa nozione, a Calasso, piacerebbe di più. Se invece ci mettiamo noi a parlare di Calasso, lo facciamo senza le prospettive di Labranca (su Clarence c'è molto trash: cercatevelo nelle apposite aree) e di Blondet (lo scrivente nemmeno è battezzato).
La letteratura e gli dèi raccoglie le otto Weidenfeld Lectures che l'autore di Ka ha tenuto a Oxford nel maggio 2000. Sono le "lezioni inglesi" di Calasso: qualcosa che sta tra Warburg e Calvino, dal punto di vista prettamente editoriale.
Questo libro è splendido. Ciò che è splendido, spesso, è pericoloso. Questo libro è pericoloso. Che cosa fa Calasso in queste otto travolgenti, geniali, abbacinanti lezioni? Si occupa della presenza divina nella letteratura. Quale letteratura? Semplicemente tutta la letteratura che abbia avuto la pretesa o, se non l'ha avuta, sia riuscita a essere letteratura assoluta. Una letteratura che mantiene in sé - nei significati o via via nelle forme, negli sfondi, financo nei rapidi brividi - la presenza sacra e orririfica e al di là del gioioso di figure che noi contemporanei, avvizziti e inconsapevoli, non ravvisiamo da tempo nel mondo e ora neanche tra le sillabe: la presenza degli dèi. Calasso, in splendida forma, forbitissimo e dilagante senza difettare della precisione di un bisturista, ricostruisce al tempo stesso la storia e la metastoria della letteratura: la quale è, ai suoi orfici esordi, il perfetto Nulla, nel silenzio annichilente di chi non aveva tempo né bisogno di leggere le tracce numinose degli dèi nei libri: poiché gli dèi erano visibili nel mondo, come Atena e Pisistrato su un cocchio segnalato al mercato pubblico.
Poi Calasso approfondisce la stoccata: si passa alla modernità: romantica e mallarmeana. Qui l'autore di Cadmo e Armonia dà il meglio, soprattutto a proposito di Mallarmé, quando individua nel celebre sonetto in -ix il risultato iniziale e finale della Letteratura Assoluta: una letteratura che, facendo perno sull'allegoria di se stessa, individua lo sfondo in cui tutto si agita e tace, il passaggio ultra- e meta-fisico in cui gli dèi si sono reclusi: cioè la Mente. Manifestazioni ormai psichiche, le deità sono brividi e visioni interiori non sintattizzabili, ma còlte con la perizia apparentemente casuale del rabdomante, il quale è comunque e sempre uno scrittore. Non poeta e non prosatore: un ritmo di sfondo, una nota assoluta che regge le forme - da cui le forme emergono - è lo spazio eterico del mentale puro, quel livello che la tradizione vedantica identifica con il Manas, chiave e ostacolo alla Realizzazione spirituale. L'ultima parte del libro di Calasso è una strenua difesa della particolare metrica che governa la silenziosa prosodia annichilente della letteratura assoluta: i metri in cui si avvolgono gli dèi non sono più i metri tradizionali della tradizione occidentale (endecasillabo o alessandrino e fiumana di variazioni compresa), bensì quel ritmo univoco che manifesta la mente a se stessa.
Qui, in questo accenno (Calasso accenna sempre: si potrebbe dire che scimmiotta qualcosa di ineffabile), sta il pericolo dell'operazione di Calasso. Che consiste in ciò: per chi è colto, ma della Tradizione se ne fotte, questo è un innocuo e affascinante trattato su mito e letteratura; per chi di Tradizione ne sa, questo è il volume di un pandit lievemente offuscato da una solfurea egoità; per chi la Tradizione la pratica, questo libro è un'invocazione alla magnetica facisnosità dei siddhi, dei poteri da cui gli yogin sono avvisati di stare lontano. Per chi capisce: Calasso è manasico, un adoratore pernicioso del Manas, delle sue figurazioni, dei suoi esoterismi che sembrano condurre a capire la Realizzazione. Il che non corrisponde alla Realizzazione. Secondo la Tradizione, quest'operazione è l'Antitradizione. Calasso non minaccia il cattolicesimo di Blondet. Calasso minaccia, come sempre inutilmente, la prassi dell'ascesi individuale, strettamente personale, univocamente metafisica. Siccome egli stesso si pone su questo piano, da questo piano gli rispondiamo: bocciandolo, senza revoca, ricacciandolo ai suoi esercizi illusori di apparentemente ingenua prestidigitazione...
Wulf
00martedì 21 dicembre 2004 14:36
Letteratura e Tradizione, anno VII n. 30 ottobre-novembre 2004 diretto da Miro Renzaglia
Sommario:
- Speciale poesia: Anna Lamberti Bocconi, Pietro Altieri
- "La parola oscura del paesaggio interiore" di Julius Evola, traduzione di Alessandra Colla
- Alessandro Pavolini "Allarmi siam poeti" di Gabriele Adinolfi
- Corridoni "una vita per la rivoluzione" di Andrea Benzi
- Berto Ricci "L'Universale" di Matteo Orsucci
- Marinetti "2 dicembre 1944...per combatter'ancora" di Andrea Marcigliano
- Ezra Pound "Il tempio è sacro perchè non è in vendita" di Daniele Lazzeri
- Vertex '20 Post: Forte, Giovannini, Luparella, Pace, Silvestri, Renzaglia
- Dopo 11 settembre: Adinolfi, Altieri, Cochi, Di Lello
- Sullo stato di "Letteratura e Tradizione" intervista a Sandro Giovannini
- Considerazioni sulla musica di Marco Monaldi
- Poesia: Tiziana Fumagalli, Loredana Regnoli,
- Chiose ai margini della vita di Fausto Gianfranceschi
- Antologia: Curzio Malaparte
- Letture: rubrica di recensioni letterarie P. Altieri, C. Bramucci, A De Luca, S. Giovannini, G. Montinato, C. Mutti
- Schede: Adolfo Morganti, Giuseppe Puppo
- Intervista a Claudio Bondì regista del film "De Reditu - Il ritorno" tratto dal poema "De Reditu Suo" di di Claudio Rutilio Namaziano
- Notizie: Bruno Labate "Poesia attiva"
Abbonamento per 5 numeri 30 euro da inviare sul conto corrente postale n. 12061610 intestato a Edizioni del Veliero srl, Piazzale Garibaldi 4, 61100 Pesaro
Nella causale specificare "Abbonamento a Letteratura e Tradizione"
nhmem
00domenica 2 gennaio 2005 15:40
dal "Corriere della Sera" Cronaca di Roma


IL LIBRO

Cupole, obelischi, archi trionfali, piante e animali: viaggio nei simboli e nei miti dell’antica Roma

Il viaggio potrebbe incominciare dal fico ruminale e dalla cesta con Romolo e Remo, destinati a morire come frutti illegittimi della vestale Rhea Silvia. La cesta «non venne trascinata dalla corrente impetuosa del Tevere che era straripato lambendo il Palatino, ma si arenò miracolosamente in un’insenatura fangosa, proprio sotto il fico selvatico», in un luogo dove era venerata Rumina, dea che presiedeva all’allattamento. Così il fico venne chiamato ruminale. Cupole, obelischi, archi trionfali, ma anche piante e animali, dal mitico fico selvatico alle salamandre sulla facciata di San Luigi dei Francesi. Tutta Roma è una costellazione di simboli che attraversano tre millenni di storia, spesso celati in monumenti che sembrerebbero pure decorazioni: come la fontana delle Tartarughe che idealmente raffigura il motto coniato da Augusto, «Festina lente» ovvero «Affrettati lentamente», ispirato a una massima di Aristotele secondo la quale si deve rapidamente mettere in pratica ciò che si è deliberato, ma soltanto dopo aver riflettuto lentamente. Alfredo Cattabiani, studioso di simbolismo e di tradizioni popolari, ricostruisce nel suo libro la mappa dei simboli fondamentali di Roma rivisitando anche i miti ad essi collegati, da quelli della fondazione della città fino alle leggende meioevali.

SIMBOLI, MITI E MISTERI DI ROMA, di Alfredo Cattabiani, Newton & Compton editori, euro 8,90





Il Ghibellino
00giovedì 13 gennaio 2005 02:25

GLI ALTRI DI UR

di Walter Catalano



Gigi Montonato,
COMI- EVOLA : Un rapporto ai margini
del fascismo, Congedo Editore, Galatina (Le) 2000,
pagg. 160, €. 25,82



Arturo Onofri,
CORRISPONDENZE con Comisso, Montale,
Palazzeschi, Banfi, De Pisis, Evola, Péladan,
De Gubernatis, Gromo, Mazzarelli, Schwarz,
a cura di Marco Albertazzi e Magda Vigilante
con la collaborazione di Michele Beraldo,
La Finestra Editrice, Trento 1999, pagg. 90, €. 10,33



Arturo Onofri
ARIOSO – ORCHESTRINE
La Finestra Editrice, Trento 2002, pagg. 325, €. 48,00



L’ambiente esoterico romano degli anni ’20 e l’attività svoltasi intorno alle riviste Ignis, prima, e Ur e Krur, poi, facenti capo alle due figure cardinali e contrapposte di Arturo Reghini e di Julius Evola, viene indagato sempre più approfonditamente da numerosi studiosi e ricercatori che non disdegnano l’utile compito di trarre dall’oblio anche i personaggi minori di questa feconda e per troppo tempo misconosciuta stagione intellettuale.

Al recupero di un’epoca, di un’atmosfera e di uno stile remoti, contraltari sotterranei alle “follie del tabarin” care ai nostri nonni, contribuiscono egregiamente questi volumi curati da Gigi Montonato e da Marco Albertazzi. Il primo è un saggio sul rapporto fra il barone Girolamo Comi -1890/1968- poeta e membro del Gruppo di Ur (sotto il nome di Gic) ed il barone Julius Evola, i secondi due fanno parte di una articolata operazione editoriale condotta dalla piccola ma prestigiosa casa editrice trentina - La Finestra di Marco Albertazzi - che ha pubblicato, per la prima volta in modo organico, gran parte delle opere del poeta e antroposofo – anch’egli membro del Gruppo di Ur ( sotto il nome di Oso) e amico di Evola - Arturo Onofri -1885/1928- (divisa in vari volumi, oltre ai due che qui recensiamo conta il Ciclo lirico della Terrestrità del sole; il Nuovo rinascimento come arte dell’Io, Le Trombe d’argento, Scritti esoterici, ecc.; a questa su Onofri si affiancano analoghe iniziative dedicate allo stesso Girolamo Comi – è stata ristampata la sua principale raccolta poetica Spirito d’armonia – e ad un altro membro del Gruppo di Ur, il pitagorico Aniceto del Massa (Sagittario) –1898/1976 – di cui sono apparse le Pagine esoteriche).

Sia Comi che Onofri sono fedeli compagni di strada di Evola, sodali del suo gruppo magico, fedeli alla linea evoliana dopo la frattura con l’ala massonica di Reghini, sebbene siano entrambi intellettualmente e dottrinalmente autonomi rispetto all’imperialismo pagano del Barone. La corrispondenza riportata nei volumi evidenzia i formalmente rispettosi ma non per questo meno fieri attacchi di Evola contro lo steinerismo di Onofri e l’incombente conversione al cattolicesimo di Comi. Le lettere raccolte nel volume curato da Albertazzi delineano inoltre le molteplici relazioni di Onofri in ambito sia letterario e poetico (Comisso, Montale, Palazzeschi, De Pisis, Gromo, ecc.), sia esoterico (oltre ad Evola, gli antroposofi Alcibiade Mazzarelli e Lina Schwarz) ed occultistico (Josephin Péladan ed Angelo De Gubernatis) testimoniando direttamente – come segnala con acutezza Albertazzi nella sua introduzione – la natura “sapienziale” della poesia di Onofri il cui scopo è “rievocare, attraverso la tecnica compositiva, quel mondo costituito da sottili ‘melodie rapprese in mondo’, da ‘suoni del Gral’, che la condizione terrena tenta di farci ripudiare” ; manifestare attraverso “misteriose corrispondenze” e rivelare trascendendo la funzione ordinaria del linguaggio “una lingua angelica […] nella quale il parlare è un accordare il mondo con sé stesso”.

Onofri - scomparso prematuramente la notte di Natale del 1928 - non farà in tempo, a differenza di Comi, a seguire Evola nell’avventura de “La Torre” e del “superfascismo” tradizionalista, quando la stagione più creativa e affascinante del Barone era ormai tramontata e all’idealista magico e all’imperialista pagano – ancora carichi della dinamite dadaista – stava subentrando l’alfiere del razzismo “spiritualista” e il collaboratore di Farinacci. Comi gli resterà fedele fin sulle pagine di Diorama Filosofico, inserto culturale di Regime Fascista: come precisa Montonato, “Si tratta di una chiara militanza ideologica, sia pure limitata a temi e modi riconducibili genericamente alla Tradizione e alle polemiche critico letterarie così accese in quegli anni”.

Dal 1935 in poi il rapporto fra i due si offusca dopo la definitiva conversione al cattolicesimo di Comi e la sua pubblicazione nel 1937 di Aristocrazia del Cattolicesimo stroncato in toni duri e sarcastici da Evola. D quella data in poi, sebbene i rapporti personali restassero amichevoli, Comi non fa più parte del gruppo evoliano. “Come due personaggi ovidiani – commenta efficacemente Montonato – Evola e Comi finirono per essere ‘puniti’ per la loro aristocratica fierezza e condannati a metamorfosi[…] Entrambi sfidarono le vertigini delle vette e lì in alto incontrarono la divinità castigatrice. Evola, che voleva perfino morire in piedi, fu condannato da paralisi, provocata da schegge di bomba, a vivere su una sedia a rotelle. Comi, che aspirava alle altezze dell’assoluto poetico, finì nelle bassezze di un’esistenza avvilente”. Quest’ultimo - che pure, come poeta, Albertazzi colloca in una posizione originalissima in equilibrio fra i crepuscolari, la poesia esperienziale di Daumal e del Grand Jeu e quella sufi araba e persiana - emerge invece dalla ricostruzione biografica di Montonato come il classico antieroe decadente: scapestrato in gioventù e pessimo studente; ‘pacifista’ riformato per ‘nevrastenia cerebrale’ durante la Grande Guerra; tiepido fascista (il suo conterraneo Starace gli rifiuterà la tessera nel ’38); tiepido esoterista prima e tiepido cattolico poi; dilapidatore del patrimonio familiare “fra salotti letterari e banchetti, un po’ Mecenate e un po’ Anfitrione” ; finirà per sposare la sua governante e sopravvivere grazie alla generosità dei compaesani e ad un tardivo e magro vitalizio statale. Sebbene Montonato metta in relazione questa esistenza fallimentare con il destino generale delle aristocrazie del Regno delle Due Sicilie, il Comi ci ricorda piuttosto un personaggio uscito dalla arguta fantasia di un poeta del Nord: il Totò Merùmeni di Guido Gozzano, “il buono che derideva il Nietzsche[…]“ che “sognò pel suo martirio attrici e principesse/ ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne[…]”,” anima riarsa” che “Alterna l’indagine e la rima […]” ed “esprime a poco a poco/ una fiorita d’esili versi consolatori…”.



Da http://www.airesis.net/recensioni/comi_evola_onofri.htm
nhmem
00sabato 15 gennaio 2005 17:46
Il folle sogno di Edipo: sottomettere il mondo alla nostra ragione
Una guida al celebre mito ne ripercorre significati interpretazioni e figure: la sua grandezza consiste nella permanente interrogazione, nulla di definitivo può essere detto sull’uomo

15/1/2005

Augusto Romano

CERTAMENTE non sbagliava C. Levi-Strauss quando osservava che Freud, piuttosto che interpretare il mito di Edipo, ne aveva in realtà scritto un nuovo capitolo. Se è vero che i miti raccontano noi a noi stessi, certamente quello di Edipo è tra i più evocativi, giacché possiede la capacità di espandersi in tutte le direzioni partendo da un nucleo narrativo apparentemente semplice. La sua esemplarità sta nella sua inesauribilità, nella sua naturale disponibilità a sollecitare nuove immagini e riflessioni, a tracciare nuovi percorsi interiori. La sua struttura sembra essere quella del disvelamento, tanto che scherzosamente la tragedia di Sofocle è stata definita un precursore del romanzo poliziesco. In verità, si tratta di un disvelarsi mai definitivo, mai pienamente soddisfatto di sé: un disvelarsi che non rinnega l'enigma cui dovrebbe dare soluzione, e così mostra la natura essenzialmente ambigua e irriducibile della nostra esperienza. Il mondo di oggi, malato di false certezze, può trovare nel mito di Edipo una puntuale confutazione. Non è tanto la fantasia freudiana sull'Edipo (tra l'altro, scarsamente fondata sugli elementi del mito) a commuoverci, quanto piuttosto la riflessione che esso ha sollecitato nel mitologo e grecista J.P. Vernant, cui si deve l'aver attirato l'attenzione sul fatto che, primariamente, la tragedia di Edipo è la tragedia dell'orgoglio, della ubris, e della inconsapevolezza. Edipo il chiaroveggente, il decifratore di enigmi, ignora la parte di ombra che rappresenta il sinistro riflesso della sua gloria, e perciò non sa di essere anche un mostro di impurità, che la città dovrà espellere come capro espiatorio per poter tornare pura. A un livello più profondo, Edipo è il testimone della insondabilità divina, e dunque della costitutiva duplicità della natura umana. Non viene qui sottolineato tanto il tema della colpa morale quanto l'impossibilità di dare dell'uomo una lettura univoca, e perciò la necessità di accettare che egli sia un plesso di contraddizioni insolubili. In Edipo, che è insieme il segnato e l'eletto, gli opposti si incontrano. E dunque, quando l'uomo, sulle orme di Edipo, tenta una domanda radicale su di sé, si scopre senza un'essenza definita, oscillante tra l'eguale a dio e l'eguale a nulla. Cosicché Vernant può concludere che «la sua vera grandezza consiste proprio in ciò che esprime la sua natura di enigma: l'interrogazione». E' questa una conclusione cui, per altra via, giunge lo scrittore F. Dürrenmatt quando, nel racconto La morte della Pizia, Tiresia, rivolgendosi alla Pizia, dice: «Come io, che ho voluto sottomettere il mondo alla mia ragione, ho dovuto affrontare te che hai provato a dominare il mondo con la tua fantasia, così per tutta l'eternità coloro che reputano il mondo un sistema ordinato dovranno confrontarsi con coloro che lo ritengono un mostruoso caos». Come certe stoffe, siamo cangianti e nulla di definitivo può essere detto su di noi. Alla luce di questi pensieri, anche l'interpretazione freudiana del mito, che si ispira a un certo positivistico ottimismo, si ridimensiona da sé. Certo, l'oracolo (il cieco Tiresia o, per noi moderni, i sogni in quanto veicoli dell'inconscio) ci dà dei suggerimenti, che però sono di incerta comprensione. In questo consiste però la loro ricchezza, a condizione di riconoscere la valenza positiva della frase di Eraclito, secondo cui «il signore, cui appartiene l'oracolo che sta a Delfi, non dice né nasconde, ma accenna». Del resto la cecità, cui anche Edipo approderà, indica l'appartenenza a un mondo di segni non riconoscibili dallo sguardo superficiale che appartiene alla vita diurna, quotidiana.
Consiglio vivamente il bel libro di Bettini e Guidorizzi, Il mito di Edipo. Si tratta - e mi riferisco soprattutto al contributo di Guidorizzi - di un saggio assai accattivante, proprio perché capace di restituire l'intreccio vertiginoso di temi che il mito evoca. Sebbene lo stile piano e comunicativo faccia pensare a un intento divulgativo, in realtà la grande competenza e la sottigliezza con cui i dati offerti dalla mitologia e i problemi antropologici che vi sono connessi vengono analizzati, fanno di questo libro una sintesi efficace e molto nutriente dei tanti significati che, sullo sfondo della cultura greca, possono essere attribuiti al mito di Edipo e delle funzioni che svolgono le figure che lo abitano. Non ultimo motivo di interesse è l'apparato dei rimandi testuali alle fonti, la ricca bibliografia, l'appendice dedicata alle incarnazioni moderne del mito e, infine, l'iconografia (curata da S. Chiodi e C. Franzoni). Quanto istruttiva la differenza tra l'ex libris di Freud inciso da Luigi Kasimir, in cui Edipo fronteggia con ingenua determinazione una Sfinge che lo guarda con l'atteggiamento intento di chi conosce il futuro che lo attende, e i quadri di G. Moreau o di F. Khnopff, in cui una Sfinge-femme fatale sembra alludere a un femminile divorante e a un maschile inquieto e debole. Brividi della modernità, finis Austriae: Edipo perde la sostanza eroica, e noi possiamo immaginarlo frastornato e insieme risucchiato dai tonfi definitivi dell'orchestra malheriana.
Peccato per gli errori di stampa.


Recensione a Maurizio Bettini Giulio Guidorizzi, Il mito di Edipo, Einaudi, pp. 250, € 18

Harm Wulf
00venerdì 28 gennaio 2005 23:16

Il fiume rosso di Hermann Löns



Hermann Löns Il fiume rosso Firenze, 2005, autoprodotto, Introduzione di Stefano Senesi. Formato A5. Costo 5,00 euro
Illustrazioni di Werner Graul (le sue opere nel sito http://www.geocities.com/graulwerner/ ). Richiedere a: wuotan@infinito.it

Nella novella Die Rote Beeke (“Il fiume rosso”), ora tradotta in italiano, lo scrittore e poeta tedesco Hermann Löns descrive l’uccisione di 4.500 guerrieri sassoni che nel 782 furono giustiziati a Verden su ordine di Carlo Magno per non aver abiurato la loro religione pagana e rifiutato il battesimo. Il racconto fu pubblicato in Germania nel 1912 dalla casa editrice Sponholtz Verlag, illustrato da incisioni dell’artista Erich Feyerabend.

Dall'introduzione a cura di Stefano Senesi

Meglio morti che schiavi

Alla morte di Pipino Il Breve, uno dei suoi bastardi, Carlo, che la Chiesa chiamerà Magnus, il futuro Carlo Magno allora ventiseienne, ereditò un territorio dall’estremità orientale della Turingia e del nord della Frisia fino alla Guascogna. Nel 771, alla morte di suo fratello, egli dominò su tutto il regno di suo padre. Nel 778 i Sassoni si ribellarono. Guidati dall’audace capo Witukind (o Witikind: in antico sassone “il bianco fanciullo”), forzano le frontiere del regno franco. Carlo Magno organizzò immediatamente delle spedizioni punitive. Ma nel 782 un’armata franca fu sorpresa dai Sassoni e fatta a pezzi ai piedi del Suntelgebirge, sulla riva est del Weser. Due dei tre generali che la comandavano restarono sul terreno. La risposta di Carlo Magno fu di un’inaudita ferocia. Raggiunto il suo esercito, egli sconfisse i Sassoni a Verden, vicino alla confluenza del Weser e dell’Aller. L’eccidio in questione si consumò presso Externsteine in un solo giorno, dove vennero decapitati 4500 primogeniti delle più nobili famiglie sassoni. Dal 783 al 785 gli scontri ripresero violenti. Carlo Magno si accanì e trionfò sulle ultime resistenze nel 785. All’assemblea generale di Paderborn Witukind fu costretto ad arrendersi. Un capitolare impiantò in Sassonia la civiltà franca e la religione cristiana. Esso dispose che “ogni Sassone non battezzato, che cercherà di nascondersi ai suoi compatrioti e che rifiuterà di farsi amministrare il battesimo, sarà messo a morte”. E’ difficile riproporre oggi questa storia, dopo secoli e secoli di distruzione mentale sistematica da parte del fanatismo monoteista. A testimonianza di questa crociata contro l’Europa rimane il santuario dissacrato delle Externsteine. Il luogo dove si svolgevano antichissimi culti millenari e dove i simboli della religione pagana sono stati occultati, presenta alla base di una delle rocce sacre la Deposizione dalla croce. Risalente al 1220 ca., ad opera di monaci cistercensi, propone la figura dell’Irminsul, l’axis mundi venerato dai pagani piegato, sul quale Nicodemo sale per staccare il corpo di Cristo dalla croce. E’ facile individuare in questa semplice raffigurazione la simbolica rappresentazione del potere del Verbo che ha piegato il paganesimo, soffocandone la sua atavica vitalità. Ma non è il caso di dilungarsi qui su questo argomento, che esigerebbe decisamente troppe parole. Basti dire che ad osservare il sito roccioso di Externsteine con la sua struttura, il pagano con il suo animismo ritorna prorompente, e pare vibrare nelle tradizioni, nelle leggende, nella forma dei grandi massi. E allora l’Irminsul piegato pare risollevarsi…

[Modificato da Il Ghibellino 13/02/2005 18.19]

Il Ghibellino
00sabato 29 gennaio 2005 00:48

Ottima iniziativa!
Spero il volume sia anche disponibile qui a Roma presso la libreria Europa. La settimana prossima passo a dare un'occhiata.

[SM=g27817]
nhmem
00sabato 5 febbraio 2005 17:09
Se ai Greci togli gli dei, spariscono pure gli uomini


Nel mondo, il divino sospende il potere del caos e afferma quello della bellezza: il classico di Walter Otto, storico delle religioni «ispirato» da Nietzsche, un libro per Baricco...

Federico Vercellone


GLI dei sono qui - affermò il grande antagonista di Friedrich Nietzsche, colui che ne condannò la visione mistica della grecità, il rigoroso e scientificamente laicissimo Ulrich von Wilamowitz Moellendorf rammentando così il requisito fondamentale della religione greca, quello per cui il dio consiste della propria apparizione, manifestandosi qui e ora. Il divino - ce lo ricorda il volume Gli dei della Grecia di un grande storico delle religioni eterodosso e d'ispirazione nietzschiana, quale Walter Otto - custodisce, per il greco, una determinata sfera dell'essere e le dà forma. Ogni figura dell'Olimpo restituisce intuitivamente, attraverso i suoi lineamenti, un ambito dell'attività umana o della natura nelle sue sfumature e modulazioni, e ne contempla caratteristiche e peculiarità.
Questa suprema vivente connessione si chiama dio. Proprio per ciò nessun greco si sarebbe mai chiesto se gli dei esistessero: semplicemente li aveva dinanzi come evidenze grazie alle quali una determinata sfera del mondo assume le proprie fattezze. In breve un greco non poteva essere ateo proprio perché non credeva ai suoi dei ma semplicemente ne presupponeva l'esistenza. Stando così le cose non ha alcun senso voler secolarizzare il mondo omerico, poiché se gli si sottrae il divino non gli resta neppure l'umano. E' così che operazioni recenti come quella di Alessandro Baricco, intese a laicizzare un poema come l'Iliade eliminando gli dei dalla narrazione, finiscono per lasciare notevolmente perplessi. L'esito ultimo di un adattamento di questo genere del testo antico è quello di produrre un falso vero e proprio: nessun eroe omerico si sarebbe mai sognato di vivere e agire in un mondo disertato dagli dei. Il disincanto è infatti un prodotto moderno di cui rende ragione un genere tipicamente moderno come il romanzo che con l'epos ha soltanto una vaghissima parentela. Prescindendo ora da divagazioni estemporanee, è il caso di addentrarsi ulteriormente negli Dei della Grecia di Walter Otto, di cui Adelphi presenta una nuova edizione italiana a cura di Giampiero Moretti e di Alessandro Stavru. Alla sua prima edizione, nel 1929, questo testo suscitò interesse e perplessità: esso si proponeva di riproporre lo sguardo nietzschiano sulla religione greca, di mostrare l'abisso originario sul quale il mondo olimpico era venuto a ergersi. Naturalmente la cosa non poteva non suscitare sospetti e contrastanti prese di partito. Nietzsche era infatti stato messo al bando dalla scienza dell'antico proprio da quel
Wilamowitz che avrebbe alla fine adottato il medesimo criterio fatto proprio dal suo antagonista nella Nascita della tragedia, quello secondo cui non si accede al divino che attraverso il divino stesso. Non si può cioè intenderlo se non riconoscendo che esso è ciò che tiene insieme, nella sfera dell'apparizione e non in quella del discorso, diverse sfere dell'essere.
Ciò presuppone una fase più originaria nella quale il divino non è ancora riuscito a prendere dimora nell'ambito che gli compete, quella dell'apparenza, una fase in cui esso lotta per giungere alla chiarezza rappresentativa che gli è propria nell'universo olimpico. Essa è connessa alla sfera della stirpe, del diritto fondato sul sangue; e tutto ciò ci conduce in prossimità dell'Ade, del mondo dei morti. Nello stadio superiore non si è persa del tutto la memoria di questo strato precedente. Lo dimostrano narrazioni come quella di Esiodo a proposito della nascita di Afrodite, secondo la quale questa dea nacque da una curiosa intromissione di Crono nell'amplesso dei genitori, Urano e Terra. Crono evirò il padre e dal seme del sesso divino caduto nel mare e trasformatosi in spuma si venne formando Afrodite. La chiarezza della forma deriva dunque in questo caso da un conflitto oscuro, da un'originaria indistinzione di cielo e terra che, separandosi violentemente, danno luogo alla genesi miracolosa della forma. Nella sua suprema evidenza, essa viene detta bellezza.
La narrazione mitologica non costituisce in nessun modo, da questo punto di vista, un'invenzione fantastica, l'antica testimonianza di un mondo radioso e ingenuo come avrebbe voluto un classicismo caricaturale, ma la testimonianza di una visione profondissima dell'essere e del mondo. Si tratta di un atteggiamento che non testimonia affatto, agli occhi di Otto, una religiosità superficiale alla quale andrebbe accostato per contrasto il cristianesimo. Quando parliamo dei Greci non abbiamo dunque da immaginarci, secondo Otto, un mondo levigato che vive smemorato in una sorta di presente eterno. Al contrario le divinità greche, la loro configurazione, testimoniano - come c'insegna l'esempio di Afrodite - dell'inconcepibile fatica e dolore che costituisce il travaglio della forma, e costituisce il preludio del suo luminoso articolarsi. Attraverso il divino si delinea il mondo nelle sue partizioni, si sospende il potere del caos e s'impone quello più lieve della forma e della bellezza.


Walter Otto

Gli dei della Grecia

a cura di Giampiero Moretti e Alessandro Stavru Adelphi, pp.343, €42

SAGGIO

ttL, tuttoLibritempolibero, 5/2/2005 (supplemento de "La Stampa")


Il Ghibellino
00sabato 5 febbraio 2005 20:54

Walter Otto... da leggere e far leggere. Importantissimo in questi terribili tempi moderni.

Attenzione anche alla nuova edizione del celeberrimo 'Anticristo' di Federico Nietzsche recentemente edita dalle edizioni di Ar con l'inedito titolo de 'L'anticristiano'.

http://www.libreriaar.it


Questo è quanto. Ora, sabato 5 febbraio 2004 alle ore 20:52, il sottoscritto se ne va placidamente a dormire, domattina lo attendono le vette e la neve e una giornata dotata di senso.
Guten nacht.
Il Ghibellino
00domenica 13 febbraio 2005 18:23

Laura Rangoni, Il paganesimo (si parla anche dell'MTR)



Edito a gennaio 2005 dalle edizioni Xenia nella collana 'tascabili' questo volumino ad opera di Laura Rangoni intitolato "Il paganesimo" dedica alcune pagine anche al Movimento Tradizionale Romano.
A prima vista il tutto non sembra fatto neanche troppo male, ma leggendo le pagine dedicate all'MTR si evince chiaramente che molto di quanto contenuto è frutto di ricerche su internet.
Il libro l'ho appena acquistato, e quindi non ho ancora avuto modo di leggerlo, ma ho già avuto modo di ravvisare alcuni errori qui e là nonché vari indizi che fanno capire che la compilatrice non è propriamente una profonda conoscitrice della materia. per dirne una mancano nella bibliografia sulla Via Romana i due importanti volumi di Renato Del Ponte ('La religione dei romani' e 'Dei e miti italici').
Comunque questa collana della Xenia è appositamente congeniata per proporre pratici volumini sulle tematiche più disparate, senza che questi abbiano alcuna finalità di esaustività. Sarebbe quindi ingeneroso essere troppo severi con questo libro.
nhmem
00sabato 19 febbraio 2005 17:00
L’ORIGINE DEI COMUNI E IL RUOLO DIRIGENTE DEI CAVALIERI: UN SAGGIO DI VIGUER, PIETRA MILIARE NELLA STORIOGRAFIA MEDIEVALE, RIBALTA L’OLEOGRAFIA BORGHESE OTTOCENTESCA


L’ORIGINE DEI COMUNI E IL RUOLO DIRIGENTE DEI CAVALIERI: UN SAGGIO DI VIGUER, PIETRA MILIARE NELLA STORIOGRAFIA MEDIEVALE, RIBALTA L’OLEOGRAFIA BORGHESE OTTOCENTESCA

19/2/2005

Alessandro Barbero

UN passo famoso di Ottone di Frisinga, vescovo e cronista nonché zio dell'imperatore Federico Barbarossa, testimonia lo stupore e il fastidio con cui i nobili tedeschi del suo tempo guardavano alla società comunale italiana, considerata al tempo stesso aliena e sovversiva. Fra le altre enormità di questi insolenti lombardi, che «preferiscono essere governati da consoli piuttosto che da imperatori», quella che maggiormente scandalizza Ottone è la facilità con cui, in Italia, diventano cavalieri «anche giovani di condizione inferiore e addirittura spregevoli lavoratori delle arti meccaniche, che gli altri popoli tengono lontani come la peste dalle occupazioni più elevate e decorose». Il vescovo sa benissimo che proprio per questo le città italiane sono così agguerrite, e «superano di gran lunga per ricchezza e potenza le città del resto del mondo», ma questo riconoscimento concesso a malincuore non basta a giustificare l'avvilimento in cui fanno precipitare la nobile istituzione della cavalleria, aprendone l'accesso a gente ignobile come artigiani e mercanti. Pensava forse a questo brano il massimo cantore moderno dell'epopea comunale italiana, Giosué Carducci, quando scriveva Sui campi di Marengo: dove attribuì a un principe tedesco, la notte prima della battaglia coi lombardi, la rabbia di dover «morire / per man di mercatanti che cinsero pur ieri / a i lor mal pingui ventri l'acciar de' cavalieri!». Nell'interpretazione romantica cara alla borghesia dell'Italia risorgimentale, i comuni erano un'invenzione dei borghesi, gente avvezza a comprare e vendere, a tenere conti e maneggiare denaro; i valori ch'essi condividevano, e che volevano imporre anche ai nobili, erano quelli del lavoro e dell'industria («quando l'austero e pio Gian della Bella / trasse i baroni a pettinare il lino», dirà ancora, efficacemente, il Carducci). Che questa gente dimostrasse anche di saper cingere la spada e far concorrenza ai nobili sul loro terreno, superandoli in patriottismo e in coraggio, appariva come una novità stupendamente rivoluzionaria. Jean-Claude Maire Vigueur, medievista francese felicemente trapiantato da molto tempo in Italia, dopo anni di ricerche negli archivi cittadini propone un'immagine del mondo comunale così diversa dal'oleografia ottocentesca, che si direbbe stia parlando di un altro mondo. Per lui, nei comuni italiani dei primi tempi l'attività dominante, più del commercio, era proprio la guerra. In ogni città, il comune era guidato da quelle famiglie che potevano permettersi di mantenere cavalli da guerra, che possedevano armi e avevano l'agio di addestrarsi ad usarle; questa militia, come la chiamano i documenti, formava il nucleo più efficiente degli eserciti comunali, e prosperava sui benefici ricavati dalla guerra, bottino, stipendi, esenzioni, rimborsi. Queste stesse famiglie monopolizzavano gli uffici del comune e ne dirigevano la vita politica, traendone, ancora una volta, grassi profitti; solo nel corso del Duecento l'elemento che noi chiamiamo borghese, organizzato nelle società di Popolo, comincerà a contestare l'egemonia dei cavalieri. Questo non significa, sia chiaro, che l'economia cittadina non fosse basata fin dall'inizio su robusti interessi commerciali. Le guerre volute e combattute dalla militia erano volte a stroncare la concorrenza d'una città rivale, a impossessarsi di un asse stradale, a occupare nuovi mercati. Le stesse famiglie dei milites avevano le mani in pasta nel commercio e nel prestito e si distinguevano dunque nettamente, come profilo sociale, dall'aristocrazia rurale che dominava nel resto d'Europa. Ma nessuno che fosse soltanto un mercante o un artigiano poteva avere un ruolo dirigente nel comune dei primi tempi; chiunque faceva i soldi coi traffici si affrettava a procurarsi armi e cavalli, a fortificare la sua casa in città, a comprare terre in campagna, a imparentarsi con famiglie più antiche, avvezze a comandare e combattere. Solo allora era riconosciuto come un cittadino eminente, in grado di competere con gli altri nella gara per gli uffici e per i profitti. Proprio qui sta la novità cruciale dell'interpretazione di Maire Vigueur in Cavalieri e cittadini. Nel corso del Novecento già altri studiosi hanno proposto una lettura del Medioevo italiano che si discostava radicalmente da quella tradizionale, enfatizzando il ruolo delle famiglie di origine nobiliare e feudale nella direzione del primo comune, e la precedenza data ai valori guerrieri e cavallereschi su quelli borghesi. C'era il rischio, però, di perdere di vista la specificità della società comunale italiana, ridotta a una variante di quella società nobiliare e gerarchica diffusa, allora, in tutta Europa. Cavalieri e cittadini è destinato a restare una pietra miliare nella storiografia sull'Italia medievale, proprio perché dimostra come il ceto dominante dei comuni abbia incarnato una novità rivoluzionaria, nel momento stesso in cui si organizzava intorno a comportamenti e valori di natura militare e cavalleresca. Era rivoluzionario il fatto che nobili fieri del loro sangue, vassalli di principi e vescovi, padroni di castelli e contadini, investissero il loro denaro nei traffici, armando navi, importando derrate, prestando denaro, senza per questo smettere d'essere, e di sentirsi, cavalieri. Ed era rivoluzionario che anche il primo venuto, impegnandosi con successo in queste attività, potesse gareggiare con quei nobili e diventare un cavaliere al pari di loro. Capiamo, allora, l'incomprensione di Ottone di Frisinga, portavoce della mentalità e dei pregiudizi della corte imperiale. Per lui, la cavalleria era una condizione privilegiata e quasi sacra, ottenuta mediante rituali elaborati e riservata a chi vantava sangue nobile, in una società irrigidita in gerarchie volute da Dio. Non capì mai che in Italia bastava avere i mezzi per mantenere cavalli da guerra perché la comunità riconoscesse a una famiglia il rango cavalleresco; che essere cavaliere e trafficare col denaro, lì non era una contraddizione impensabile; che in quelle città murate, irte di torri e campanili, era nata una società nuova, dove nessuno voleva restare immobile nella condizione in cui era nato, e dove non c'era niente che non potesse essere comprato.


(recensione de Cavalieri e cittadini. Guerra, conflitti e società nell'Italia comunale di Jean-Claude Maire Vigueur, trad. di Aldo Pasquali, Il Mulino, pp. 556, € 35, in ttL tuttoLibri p. 7 suppl. de La Stampa del 19 02 05 )

nhmem
00giovedì 24 febbraio 2005 18:28
Una nuova Rivista segnalata dal "Corriere"


IL SOMMARIO


La nuova rivista


Il primo numero di «Mondo Contemporaneo» in uscita in questi giorni pubblica, fra l’altro, saggi di Renato Moro (sul cattolicesimo italiano di fronte alla sacralizzazione fascista della politica), di Maurizio Serra (su Drieu La Rochelle, Aragon e Malraux) e un intervento di René Rémond («Qualche riflessione sulla nozione di contemporaneità nella storia»). Il quadrimestrale (pagine 208 16) è edito da Franco Angeli (per gli abbonamenti contattare www.francoangeli.it).


(da http://www.corriere.it/edicola/index.jsp?path=CULTURA&doc=BIOG)

Ecco il sommario completo:

2005, Fascicolo 1



Renato Moro, Religione del trascendente e religioni politiche. Il cattolicesimo italiano di fronte alla sacralizzazione fascista della politica
Maurizio Serra, Drieu La Rochelle, Aragon, Malraux. Letteratura e impegno politico: gli inizi
René Rémond, Qualche riflessione sulla nozione di contemporaneità nella storia
François Cochet, Pace e guerra nel ventesimo secolo. Un bilancio storiografico della ricerca francese
Daniele Fiorentino, Falchi, colombe o gufi? Alcune nuove interpretazioni sugli Stati Uniti e la guerra
Alberto Cavaglion, Gli ebrei e l'occupazione italiana nella Francia meridionale (1940-1943). A proposito di un libro recente

(da http://www.francoangeli.it/Riviste/mon.asp

Il Ghibellino
00venerdì 25 febbraio 2005 19:09
Da acquistare a scatola chiusa!

L'ho preso questa mattina durante un fugace passaggio in libreria ([SM=g27817]):





Walter Friedrich Otto
Le muse e l'origine divina della parola e del canto
122 p., Fazi 2005, collana Le terre, € 14,00


L'originalissima trattazione sulle Muse costituisce uno dei più bei testi scritti da Walter Friedrich Otto, il grande autore de Gli dèi della Grecia e del primo Dioniso novecentesco. Testo riuscitissimo per altezza stilistica e per intelligenza concettuale, l'argomentazione de Le Muse verte, come recita il sottotitolo, sulla convinzione dell'origine divina del canto e della parola; Otto ipotizza cioè il carattere divino dell'autentica parola poetica e della musica, chiamate entrambe a esprimere il ritmo originario dell'esistente; la sua tesi è sostenuta tramite l'esperienza di grandi poeti classici e moderni, oltre che attraverso la propria accorata e personale rivelazione. La vasta rassegna di Otto è sorretta da una conoscenza accorta e sensibile delle testimonianze della civiltà greca e dei più misteriosi rapporti tra le divinità; il percorso inizia infatti dalla presenza (nel mondo e nella poesia) delle Ninfe, le cui apparizioni preludono al canto altisonante delle Muse. Otto articola questo percorso offrendo scorci suggestivi della grande poesia e dell'antica sapienza greca, per metà apollinea e luminosa, per metà enigmatica e oscura. La narrazione di Otto ci offre, insomma, una preziosa e rara riflessione sull'essenza lirica della realtà, di cui la Musa è raffigurazione: su quanto il mondo, umano e divino, sia fatto di poesia e di canto.

L'AUTORE - Walter F. Otto, uno dei massimi filologi e grecisti del Novecento, la Fazi Editore ha pubblicato Il volto degli dèi (1996; ed. tasc. 2004). Da Adelphi sta per uscire Gli dèi della Grecia. Altri libri in commercio sono Dioniso (Il Nuovo Melangolo, 1997) e Il mito (Il Nuovo Melangolo, 2000).



E sempre su Fazi è disponibile quest'altro bel testo sempre di Otto:




Walter Friedrich Otto
Il volto degli dei. Legge, archetipo e mito
XV-79 p., Fazi 2004, collana Tascabili saggi, € 9,00


Venti tesi sull'essenza del mito, sulla civiltà degli antichi, sul mondo moderno e sulla lontananza del divino: in queste pagine, Walter Otto, filologo classico e storico delle religioni, ripercorre il cammino dell'Occidente sul filo di parole fondamentali quali legge, archetipo e mito, che diventano altrettante stazioni di un'ermeneutica complessiva del mondo antico e dei suoi aspetti più emblematici. Otto riconosce nell'uomo la facoltà di disporsi verso quella luminosità dell'essere e dello spirito che assume la forma del divino nella Storia, il volto degli dèi, senza però avere di mira una filosofia, una teoria del mito: la conoscenza del divino per Otto è visione e, se il mito esiste per l'uomo, questo accade tuttavia senza l'intervento umano.

[Modificato da Il Ghibellino 25/02/2005 19.10]

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