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Ultimo Aggiornamento: 03/06/2010 17:06
15/11/2006 14:50
 
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due interventi sulla questione ricerca universitaria


Il prof. Giavazzi
http://rassegnastam pa.unipi. it/rassegna/ archivio/ 2006/11/14SIC200 0.PDF

Marco Bascetta, today on the manifest

http://www.stampa. cnr.it/RassegnaS tampa/06- 11/061115/ index.htm


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Georg Buchner, nella Morte di Danton , atto quarto: "Il Nulla è il Dio mondiale nascituro".
15/11/2006 15:10
 
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Re: due interventi sulla questione ricerca universitaria




Diè, nun me se aprono manco cor "Sesamo"...
15/11/2006 15:21
 
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ci riprovo


ferretti mi ha dato le passwords SUPREMEDIVINE.

Giavazzi

mentre qui dovete andare sul link del manifesto, "il master del prof giavazzi", di marco bascetta.



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Georg Buchner, nella Morte di Danton , atto quarto: "Il Nulla è il Dio mondiale nascituro".
15/11/2006 15:40
 
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Re: ci riprovo

Scritto da: ongii 15/11/2006 15.21


ferretti mi ha dato le passwords SUPREMEDIVINE.

Giavazzi

mentre qui dovete andare sul link del manifesto, "il master del prof giavazzi", di marco bascetta.




Grazie, Ongii.
Ma il .tif di Bascetta non riesco a visualizzarlo bene. Ci provo.

Mi interessava sapere cosa scrive il Bascetta. Soprattutto ora che la moglie non è in giro a Dusseldorf per simposi vari, sequestrandomi una ricercatrice a me cara. [SM=g27827]:
15/11/2006 15:47
 
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prova ad aprirlo con "anteprima imaging", se hai windows.è in predefinita.
altrimenti con qualsiasi programma di visualizzazione immagini che ti permetta di estrarre testo(nn so adobe acrobat)

se aspetti domani, lo trovi sul manifesto honlain.
e comunque, smonta il prof. Giavazzi punto per punto.Holè.


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Georg Buchner, nella Morte di Danton , atto quarto: "Il Nulla è il Dio mondiale nascituro".
16/11/2006 10:32
 
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è una lettera, non è un'articolo
Per voi, Gianni Baget Bozzo.




Siamo giunti a una situazione in cui l’accordo con l’Iran e con la Siria è la condizione della pace irachena. La questione israeliana e palestinese viene vista come implicata e condizionata dalla trattativa globale. Ma allora avevano ragione i pacifisti, che non volevano la guerra e gli stati europei, che volevano le ispezioni in quadro Onu? L’alleanza tra la cristianità che combatte e Israele che resiste è scritta sull’acqua, la “coalizione dei volenterosi” è finita nel nulla? Le sue ragioni appaiono chiare anche adesso, nell’ora in cui è sconfitta la linea dell’esportazione della democrazia. Ma occorre guardare a questa vicenda, non tanto nel contesto politico militare quanto in quello dello scontro di civiltà. Perché di questo si tratta, cristianità e islam si sono combattute da quando esiste l’islam e l’incontro stesso delle religioni è avvenuto nello scontro delle civiltà. Per chi guarda la storia come storia di civiltà questa guerra tra cristianità e islam è la realtà più evidente. E’ un passato che ritorna. L’11 settembre è la dichiarazione dello scontro di civiltà contro gli Stati Uniti, la nazione più cristiana e più occidentale della cristianità. Una componente significativa e potente del mondo islamico ha dichiarato riaperto lo scontro. Non in quanto sistema di stati ma in quanto civiltà. Civiltà simili, fatte tutte con il medesimo materiale, quasi integrate nella loro storia culturale eppure divise proprio da ciò che hanno di simile e persino di comune. Alla sfida alla morte con cui l’islam ha cominciato la sua nuova guerra contro la cristianità occorreva rispondere con un’altra sfida a morte. Proponendo un evento quasi impossibile ma in cui esisteva il punto d’onore dell’occidente: l’universalità della libertà e della democrazia e quindi anche nel mondo islamico.Ciò che sembra una sconfitta sul piano politico e militare non lo è invece sul piano della risposta di civiltà a civiltà, della cristianità all’islam. Di qui il singolare valore di Nassiryah, della partecipazione italiana alla “coalizione dei volonterosi”, visto che siamo un paese il più storicamente coinvolto nella grande guerra tra cristianità e islam. E qui appare anche il nesso tra cristianità e Israele per una volta unite nella medesima lotta. La lettura millenaristica propria di tante comunità protestanti che vedono nel ritorno di Israele nella sua terra la preparazione, l’evento previo del ritorno di Gesù Cristo sulla terra promesso dall’Apocalisse e dei mille anni di pace, non è propria del cattolicesimo. Ma essa ha un significato nell’esprimere l’unità di Israele e della cristianità dinnanzi alla forza che, omologa a loro, vuole assorbirle in sé. La “coalizione dei volonterosi” può essere sconfitta, ma spesso le sconfitte fanno la storia dalla parte degli sconfitti.


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Georg Buchner, nella Morte di Danton , atto quarto: "Il Nulla è il Dio mondiale nascituro".
23/11/2006 12:11
 
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La notte delle schede bianche scomparse
Brogli, l'inquietante ipotesi del film di Deaglio


ROMA - Caccia a Bianca, la scheda scomparsa. Come in un thriller, con il rischio di scoprire che le elezioni del 10-11 aprile 2006 sono state truccate e manipolate forse con un programmino elettronico inserito nel sistema del Viminale e, poi, fatto sparire senza lasciare traccia. Con il rischio di abbattere anche uno dei pochi tabù rimasti in questo paese: la sacralità del voto.

Eppure, Enrico Deaglio e Beppe Cremagnani, giornalisti di lungo corso, con la mano preziosa del regista Ruben H. Oliva, hanno provato a compiere a ritroso il percorso di quel voto: di quel lunedì 11 aprile quando i risultati partirono in un modo, cambiarono durante lo scrutinio con un ritmo graficamente incredibile e finirono, in una notte di tregenda, per sancire la risicatissima vittoria del centrosinistra. Il frutto del lavoro dei tre è un film che s'intitola "Uccidete la democrazia!", il settimanale "Diario" di Deaglio ne distribuirà il Dvd venerdì nelle edicole. L'operazione rischia di far scoppiare un notevole terremoto politico: già ieri sono partite richieste per una commissione d'inchiesta mentre il centrodestra affila le armi e minaccia querele. Ieri sera, alla proiezione organizzata al "Capranichetta" (due passi da Montecitorio) dall'associazione "Articolo 21" di Beppe Giulietti e Federico Orlando, c'era tanta gente e almeno una quindicina di parlamentari del centrosinistra compreso il portavoce di Prodi, Silvio Sircana.

Il film pone una questione tanto chiara quanto drammatica: le ultime elezioni politiche dovevano essere truccate trasformando le schede bianche in altrettanti voti a Forza Italia (gli unici due dati "sbagliati" dai sondaggisti), ma l'operazione venne fermata all'ultimo momento perché, probabilmente, lo stesso ministro degli Interni, Beppe Pisanu, se ne rese conto e la bloccò. La "rimonta truccata" del centrodestra, dunque si sarebbe arenata a poche decine di migliaia di voti dal sorpasso, col risultato e le conseguenze politiche che tutti conosciamo.

Ma Deaglio e i suoi vanno oltre e, grazie a una "Gola profonda" (magistralmente interpretata da Elio De Capitani, il "Caimano" di Nanni Moretti) raccontano anche quello che accadde nella notte: con i tre "viaggi" di Pisanu a palazzo Grazioli, l'ira di Berlusconi e il tentativo di far annullare le elezioni rifiutato da Ciampi. Sullo sfondo l'incredibile andamento del voto, l'angoscia e la confusione del centrosinistra che dura fino al momento in cui Marco Minniti (deputato Ds) arriva "trafelato" e agitatissimo al Viminale e, poi si placa quando riceve una telefonata. Una telefonata nella quale, qualcuno potrebbe avergli fatto sapere che il giochetto era stato scoperto e che Pisanu aveva deciso di intervenire. Solo allora, Piero Fassino, con aria quasi mesta e occhi spaventati annuncia a una piazza sull'orlo della disperazione, che il centrosinistra ha vinto le elezioni " con venticinquemila voti" di differenza.

Qui, il film lascia aperta una domanda: perché il centrosinistra se aveva scoperto o, quantomeno capito l'imbroglio, non ha reagito e denunciato? Perché si è lasciato strappare dal Cavaliere anche questa arma? Una risposta, secondo gli autori, potrebbe stare nel timore dell'Unione di rovesciare il tavolo di finire per dare una mano a screditare tutto, a "uccidere davvero la democrazia".

Sullo sfondo si muovono altri personaggi. A partire dall'informatico americano Clinton Curtis che preparò un programmino che altri, a sua insaputa, usarono per truccare le elezioni in Florida nel 2001. Curtis, che oggi si batte per il "voto pulito", mostra e dimostra come, con l'elettronica, ormai, l'elettore conta davvero poco. Il potere ce l'ha chi i voti li conta e può manipolarli nel mondo virtuale dei sistemi informatici. Perché la carta delle schede sulla quale il cittadino segna o non segna (scheda bianca) il suo voto, finisce chissà dove. I risultati ufficiali sono costruiti con l'elettronica e con l'elettronica si può fare tutto. Compreso prendere i voti di una città come Roma e modificarli nel trasferimento dalla Prefettura al Viminale in modo che un certo numero di schede bianche "trasmigrino" a una delle due coalizioni in lizza determinandone la vittoria. Nel film, Curtis, intervistato da Deaglio, fornisce una dimostrazione di come questo si possa ottenere con una certa facilità: "Bastano quattro o cinque persone - spiega - e senza lasciare la minima traccia".

E quella che Deaglio e Cremagnani chiamano la "grande centrifuga": il misterioso "buco nero" che si sarebbe mangiato oltre un milione di schede bianche trasformandole in voti per Forza Italia. Una centrifuga che ha "lavato" l'Italia dando vita a un risultato che gli esperti definiscono "incredibile" se non impossibile. Nel 2001, infatti, le schede bianche totali furono 1 milione e 692mila (4,2%); nel 2006 sono scese a 445 mila. Non solo, alle politiche del 2001, ogni regione aveva una sua percentuale "caratteristica" di "bianche": oscillante dal 2 all'8 per cento. Questa volta no: la percentuale, oltre a scendere ai minimi (1,1%), si appiattisce e diventa praticamente la stessa in tutte le regioni. Come se gli italiani della Campania si fossero messi d'accordo con quelli del Piemonte o della Liguria.

Politica o fantapolitica? Adesso il film è pubblico. Basteranno gli anatemi o le querele per spegnere il suo inquietante messaggio? Partiranno le inchieste? E, soprattutto, sapremo mai davvero cosa è accaduto la notte dell'11 aprile? E il Viminale (dove oggi comanda il centrosinistra), tirerà fuori i dati ufficiali delle schede bianche? Perché oggi, a sei mesi dalle elezioni, quei dati non ci sono. Sul sito del Ministero degli Interni si trovano i risultati delle elezioni, i voti per i partiti e gli eletti. Ma il dato delle "bianche" e delle "nulle" non c'è, non si trova. In passato questi numeri erano noti e ufficiali un mese dopo il voto. Se li conosciamo è solo perché qualcuno è riuscito ad averli per vie traverse. Il Viminale ci fornisce solo le schede bianche del 2001: solo la prima parte di un paragone impossibile. Un paragone che, a questo punto, andrebbe fatto a partire dalle buste che contengono davvero "Bianca" e le sue compagne per vedere se il loro numero corrisponde al risultato ufficiale o se qualcuno ci ha messo in mezzo un programmino come quello di mr. Curtis.

(23 novembre 2006)





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come puttana fragile in cerca d'occasioni
23/11/2006 12:39
 
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Se ne parlò...
http://www.anpi.it/documenti/pansa_081106.htm

L'ANPI su La grande bugia di Giampaolo Pansa


L’Associazione nazionale partigiani d’Italia, ANPI, ritiene opportuno formulare una valutazione delle tesi e dei contenuti che compaiono nell’ultimo libro del giornalista Giampaolo Pansa La grande bugia, considerata la diffusione mediatica che esso ha di recente avuto e affinché si conosca l’opinione di coloro che, oltre 60 anni or sono, alla lotta di Liberazione nazionale hanno direttamente partecipato spesso in forme e attraverso esperienze diverse.

È il caso di considerare in primo luogo le cosiddette “bugie” che a detta dell’autore concorrerebbero a creare la “grande bugia”, che investirebbe tutta la Resistenza, vale a dire il percorso storico, doloroso e drammatico, attraverso il quale gli Italiani, dall’8 settembre 1943 alla fine delle seconda guerra mondiale si batterono contro il nazismo ed il fascismo della Rsi aprendo la strada ad una nuova Italia, un’Italia democratica.
Il nucleo essenziale del pensiero di Pansa consiste nell’affermazione secondo cui i dirigenti e i militanti della componente politica comunista che partecipò come forza essenziale all’organizzazione e alla conduzione della Resistenza, avrebbero inteso la lotta contro i nazisti che erano divenuti occupanti spietati del nostro Paese e contro i fascisti di Salò che si erano posti al loro servizio, soltanto come una prima fase alla quale avrebbe dovuto seguire, con la forza delle armi, l’instaurazione di un regime autoritario di stampo sovietico anziché una democrazia parlamentare di tipo occidentale. Essenzialmente per questo la Resistenza, così come rappresentata, descritta e celebrata dalla cosiddetta “vulgata antifascista” sarebbe una bugia.
Si tratta, con evidenza, di affermazioni prive di qualsiasi fondamento storico, in quanto contraddette dallo svolgimento dei fatti di quell’epoca, così come sono offerti alla nostra valutazione e alla stessa memoria dei superstiti della lotta di allora.
In realtà la componente comunista della Resistenza, così come il Pci, hanno sempre assunto decisioni volte all’instaurazione di un sistema politico pluralistico e democratico di tipo occidentale e non certo di una qualsiasi forma di dittatura proletaria. Ciò è dimostrato dalla loro partecipazione paritaria ai Comitati di Liberazione Nazionale sorti dopo l’8 settembre 1943 in tutta l’Italia occupata con il compito di riunire in uno sforzo unitario i partiti politici antifascisti (liberale, d’azione, democratico-cristiano, socialista, comunista); dalla loro partecipazione, pur essa paritaria con gli altri partiti, al secondo governo Badoglio e ai governi Bonomi che ebbero vita nell’Italia liberata del Sud; dal loro concorso all’elaborazione del percorso istituzionale attraverso il quale, particolarmente dopo la Liberazione di Roma avvenuta nel giugno 1944, fu progettato e attuato il mutamento della forma istituzionale dello Stato da monarchia a repubblica e infine dal loro contributo al progetto costituente e alla formulazione della nuova Costituzione repubblicana sotto la guida presidenziale del comunista Umberto Terracini. Non senza ricordare che tutti i partiti antifascisti, compresi i comunisti, furono d’accordo nell’attribuire il comando unitario del Corpo Volontari della Libertà (CVL) al generale Raffaele Cadorna, ufficiale di carriera, a-politico, designato congiuntamente dal governo del Sud e dagli alleati anglo-americani.
Per altro verso, tutti noi rappresentanti dell’ANPI siamo in grado di ricordare e testimoniare che oltre 60 anni or sono facemmo la scelta di passare alla lotta armata contro l’occupante tedesco della nostra Patria e contro il secondo fascismo spinti non dalla prospettiva, in un secondo tempo, di instaurare una dittatura comunista, bensì interpretando l’aspirazione semplice e profonda alla libertà e alla pace di un popolo stanco e prostrato dalla guerra, che aveva aperto gli occhi sulla reale essenza del fascismo.
La storia può essere costruita e scritta soltanto sui fatti realmente accaduti che sono quelli sopra richiamati e non, come fa Pansa, sulle irrealizzate intenzioni che possono esservi state di alcuni dirigenti o militanti comunisti.

Di problematica conciliazione risulta poi l’iniziale affermazione dell’autore – «rammento che la Resistenza è, da sempre, la mia patria morale» – con un’opera divenuta da subito vessillo di coloro che coltivano antiche e profonde nostalgie.
La metodologia della ricerca impone che le intenzioni dei soggetti storici siano messe in relazione e interpretate alla luce della temperie generale di specifici periodi, quali gli anni del dopoguerra e della Guerra fredda, caratterizzati dall’amnistia di Togliatti, l’oblio sul collaborazionismo, la progressiva riabilitazione delle persone compromesse col regime, l’insabbiamento e archiviazione dei procedimenti giudiziari a carico dei responsabili delle stragi naziste, i processi penali e forme di discriminazione politica e sociale a carico degli ex partigiani. Addebitare allo spirito resistenziale la responsabilità morale di violenze e omicidi avvenuti in un contesto storico decisamente mutato rispetto agli anni precedenti a causa della rottura dell’unità antifascista, significa voler ignorare la volontà di liberare il Paese dal nazifascismo che accomunò tutte le forze patriottiche, fossero esse comuniste o cattoliche, socialiste o liberali, azioniste o monarchiche.

Secondo Pansa le altre “bugie” riguarderebbero il consenso popolare al fascismo che fu grande e maggioritario anche dopo l’entrata in guerra dell’Italia; il numero effettivo dei partecipanti alla lotta partigiana che sarebbe stato inferiore a quello celebrato dalla “vulgata antifascista”; l’ampiezza della cosiddetta “zona grigia” di coloro che non si schierarono a favore di nessuna delle parti in lotta, che sarebbe stata superiore a quanto generalmente ammesso dagli storici; il sostegno alla Resistenza delle popolazioni contadine che a sua volta sarebbe stato minore di quanto celebrato dall’antifascismo; il grado di coesione fra le varie componenti della Resistenza armata, che spesso sarebbe venuto meno con conseguenze anche tragiche.
Tutte queste affermazioni sono affidate a valutazioni approssimative, ignorando che almeno da vent’anni a questa parte la storiografia più seria e accreditata ha approfondito criticamente ciascuno dei suddetti argomenti, fornendo dati e valutazioni esenti da ogni amplificazione retorica. A fronte di queste problematiche l’autore si presenta come un cavaliere con la lancia in resta che tende a sfondare porte ormai da tempo aperte.
Gli storici contemporaneisti non hanno infatti aspettato le sollecitazioni di Pansa per operare seri e analitici studi sul biennio 1943-’45. L’aspetto più anacronistico di La grande bugia è che il suo autore sembra avere come riferimento una produzione storiografica ormai decisamente superata e forse da lui poco o per nulla conosciuta. Basti osservare come alcune tra le opere più significative e documentate di questi ultimi anni – da Una guerra civile di Claudio Pavone a La repubblica delle camicie nere di Luigi Ganapini, da La Resistenza in Italia di Santo Peli alla copiosa produzione saggistica della rete degli Istituti storici della Resistenza – abbiano sviscerato, con rigore scientifico, temi e vicende che Pansa presenta come inedite e mai trattate.

Un’ultima osservazione. Noi “uomini di marmo”, come Pansa ci definisce, siamo oggi qui a discutere e confrontarci con lui. Se avessero vinto “loro”, da tempo le nostre bocche (e anche quella di Pansa probabilmente) sarebbero state tappate. Per sempre.

Roma, 8 novembre 2006


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Scritto da: Agrumica 23/11/2006 12.11
La notte delle schede bianche scomparse
Brogli, l'inquietante ipotesi del film di Deaglio


ROMA - Caccia a Bianca, la scheda scomparsa. Come in un thriller, con il rischio di scoprire che le elezioni del 10-11 aprile 2006 sono state truccate e manipolate forse con un programmino elettronico inserito nel sistema del Viminale e, poi, fatto sparire senza lasciare traccia. Con il rischio di abbattere anche uno dei pochi tabù rimasti in questo paese: la sacralità del voto.

Eppure, Enrico Deaglio e Beppe Cremagnani, giornalisti di lungo corso, con la mano preziosa del regista Ruben H. Oliva, hanno provato a compiere a ritroso il percorso di quel voto: di quel lunedì 11 aprile quando i risultati partirono in un modo, cambiarono durante lo scrutinio con un ritmo graficamente incredibile e finirono, in una notte di tregenda, per sancire la risicatissima vittoria del centrosinistra. Il frutto del lavoro dei tre è un film che s'intitola "Uccidete la democrazia!", il settimanale "Diario" di Deaglio ne distribuirà il Dvd venerdì nelle edicole. L'operazione rischia di far scoppiare un notevole terremoto politico: già ieri sono partite richieste per una commissione d'inchiesta mentre il centrodestra affila le armi e minaccia querele. Ieri sera, alla proiezione organizzata al "Capranichetta" (due passi da Montecitorio) dall'associazione "Articolo 21" di Beppe Giulietti e Federico Orlando, c'era tanta gente e almeno una quindicina di parlamentari del centrosinistra compreso il portavoce di Prodi, Silvio Sircana.

Il film pone una questione tanto chiara quanto drammatica: le ultime elezioni politiche dovevano essere truccate trasformando le schede bianche in altrettanti voti a Forza Italia (gli unici due dati "sbagliati" dai sondaggisti), ma l'operazione venne fermata all'ultimo momento perché, probabilmente, lo stesso ministro degli Interni, Beppe Pisanu, se ne rese conto e la bloccò. La "rimonta truccata" del centrodestra, dunque si sarebbe arenata a poche decine di migliaia di voti dal sorpasso, col risultato e le conseguenze politiche che tutti conosciamo.

Ma Deaglio e i suoi vanno oltre e, grazie a una "Gola profonda" (magistralmente interpretata da Elio De Capitani, il "Caimano" di Nanni Moretti) raccontano anche quello che accadde nella notte: con i tre "viaggi" di Pisanu a palazzo Grazioli, l'ira di Berlusconi e il tentativo di far annullare le elezioni rifiutato da Ciampi. Sullo sfondo l'incredibile andamento del voto, l'angoscia e la confusione del centrosinistra che dura fino al momento in cui Marco Minniti (deputato Ds) arriva "trafelato" e agitatissimo al Viminale e, poi si placa quando riceve una telefonata. Una telefonata nella quale, qualcuno potrebbe avergli fatto sapere che il giochetto era stato scoperto e che Pisanu aveva deciso di intervenire. Solo allora, Piero Fassino, con aria quasi mesta e occhi spaventati annuncia a una piazza sull'orlo della disperazione, che il centrosinistra ha vinto le elezioni " con venticinquemila voti" di differenza.

Qui, il film lascia aperta una domanda: perché il centrosinistra se aveva scoperto o, quantomeno capito l'imbroglio, non ha reagito e denunciato? Perché si è lasciato strappare dal Cavaliere anche questa arma? Una risposta, secondo gli autori, potrebbe stare nel timore dell'Unione di rovesciare il tavolo di finire per dare una mano a screditare tutto, a "uccidere davvero la democrazia".

Sullo sfondo si muovono altri personaggi. A partire dall'informatico americano Clinton Curtis che preparò un programmino che altri, a sua insaputa, usarono per truccare le elezioni in Florida nel 2001. Curtis, che oggi si batte per il "voto pulito", mostra e dimostra come, con l'elettronica, ormai, l'elettore conta davvero poco. Il potere ce l'ha chi i voti li conta e può manipolarli nel mondo virtuale dei sistemi informatici. Perché la carta delle schede sulla quale il cittadino segna o non segna (scheda bianca) il suo voto, finisce chissà dove. I risultati ufficiali sono costruiti con l'elettronica e con l'elettronica si può fare tutto. Compreso prendere i voti di una città come Roma e modificarli nel trasferimento dalla Prefettura al Viminale in modo che un certo numero di schede bianche "trasmigrino" a una delle due coalizioni in lizza determinandone la vittoria. Nel film, Curtis, intervistato da Deaglio, fornisce una dimostrazione di come questo si possa ottenere con una certa facilità: "Bastano quattro o cinque persone - spiega - e senza lasciare la minima traccia".

E quella che Deaglio e Cremagnani chiamano la "grande centrifuga": il misterioso "buco nero" che si sarebbe mangiato oltre un milione di schede bianche trasformandole in voti per Forza Italia. Una centrifuga che ha "lavato" l'Italia dando vita a un risultato che gli esperti definiscono "incredibile" se non impossibile. Nel 2001, infatti, le schede bianche totali furono 1 milione e 692mila (4,2%); nel 2006 sono scese a 445 mila. Non solo, alle politiche del 2001, ogni regione aveva una sua percentuale "caratteristica" di "bianche": oscillante dal 2 all'8 per cento. Questa volta no: la percentuale, oltre a scendere ai minimi (1,1%), si appiattisce e diventa praticamente la stessa in tutte le regioni. Come se gli italiani della Campania si fossero messi d'accordo con quelli del Piemonte o della Liguria.

Politica o fantapolitica? Adesso il film è pubblico. Basteranno gli anatemi o le querele per spegnere il suo inquietante messaggio? Partiranno le inchieste? E, soprattutto, sapremo mai davvero cosa è accaduto la notte dell'11 aprile? E il Viminale (dove oggi comanda il centrosinistra), tirerà fuori i dati ufficiali delle schede bianche? Perché oggi, a sei mesi dalle elezioni, quei dati non ci sono. Sul sito del Ministero degli Interni si trovano i risultati delle elezioni, i voti per i partiti e gli eletti. Ma il dato delle "bianche" e delle "nulle" non c'è, non si trova. In passato questi numeri erano noti e ufficiali un mese dopo il voto. Se li conosciamo è solo perché qualcuno è riuscito ad averli per vie traverse. Il Viminale ci fornisce solo le schede bianche del 2001: solo la prima parte di un paragone impossibile. Un paragone che, a questo punto, andrebbe fatto a partire dalle buste che contengono davvero "Bianca" e le sue compagne per vedere se il loro numero corrisponde al risultato ufficiale o se qualcuno ci ha messo in mezzo un programmino come quello di mr. Curtis.

(23 novembre 2006)




domani lo compro, sempre che riesca a trovare "Diario"...
spero che non sia vero, figa anche le elezioni no!


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scorci&riflessi
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Scritto da: Agrumica 23/11/2006 12.11
La notte delle schede bianche scomparse
Brogli, l'inquietante ipotesi del film di Deaglio


A luglio avevo letto il libro che ha ispirato il film (Agente italiano - Il broglio), scritto sotto forma di romanzo anonimo
23/11/2006 19:16
 
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Strafalcioni nel calcio
[SM=g27828]

Tutto ha avuto origine con Oronzo Pugliese celebre allenatore della Roma degli anni '60 che per incoraggiare i suoi giocatori sosteneva: "Ventidue gambe hanno loro, ventidue gambe abbiamo noi, il pallone è rotondo, la porta è quadrata e l'arbitro è cornuto". Da allora le frasi assurde e gli errori grossolani avrebbero riempito le pagine dei quotidiani sportivi e fatto la fortuna delle trasmissioni televisive come Mai dire gol. Protagonista indiscusso degli anni '90 è stato l'allenatore della Sampdoria Vujadin Boskov. Tra le sue uscite memorabili: "Rigore è quando arbitro fischia" oppure "Un giocatore con due occhi deve controllare il pallone, e con due il giocatore avversario" e ancora "Palla a noi, giochiamo noi, palla a loro, giocano loro". La sua perla resta però: "Il mio cane gioca meglio di Perdomo", con riferimento alle dubbie qualità tecniche del centrocampista uruguaiano del Genoa.

Il vecchio Vujadin aveva in Giovanni Trapattoni un degno rivale. L'allenatore di Juve, Inter, Fiorentina e poi della Nazionale amava stravolgere le frasi fatte. Sue la celebri: "Non mettiamo il carro davanti ai buoi, ma lasciamo i buoi dietro al carro", "C'è maggior carne al fuoco al nostro arco, anche se l'arco lancia le frecce", "La palla non è sempre tonda, a volte c'è dentro il coniglio", "L'Inter non ha vie di mezzo: o sta sulla luna o va nel pozzo" e "Non compriamo uno qualunque per fare qualunquismo". Il suo cavallo di battaglia resta però: "Non dire gatto se non l'hai nel sacco".

Anche gli allenatori del momento hanno qualcosina da farsi perdonare. Fabio Capello ora tecnico del Real Madrid affermava: "Siamo rimasti col rammarico in bocca" e "Il rigore era nettamente netto". Carlo Ancelotti, ai tempi sulla panchina della Juve, sosteneva che un suo giocatore avesse riportato "la frattura del sesso nasale" e diceva ancora: "Speriamo di esserci evolti". Il rapporto tra Roberto Mancini e i direttori di gara è da sempre problematico per questo il tecnico dell'Inter affermava: "Quando si parla di arbitri, è meglio stare zitti". Zeman è un uomo di poche ma sensate parole come: "Certe volte si vince, certe volte si perde".
Con i giocatori la situazione non migliora. Da citare le dediche di Totò Schillaci e Sandro Altobelli. L'attaccante siciliano della Juve diceva: "E' un gol che dedico in particolare a tutti", mentre lo Spillo nerazzurro: "Per la mia carriera devo ringraziare i miei genitori, specialmente mio padre e mia madre". Celebre anche l'affermazione del difensore della Roma Luigi Garzya che sosteneva d'essere "pienamente d'accordo a metà col mister". Un giornalista si rivolse a Totti per commentare la convocazione in Nazionale con la frase: "Totti, carpe diem..." e il fantasista giallorosso replicò: "Lo sai che io non parlo inglese".

[SM=g27827]:


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Il destrosio è uno zucchero un pò amaro
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il riscaldamento centralizzato più riscalda e più conviene
23/11/2006 19:56
 
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Ah, che ricordi... [SM=g27828]

Onore a te, ReDittatore


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TU_______________________________________QUOQUE____________________________________PUNK?
Comitato Contro le Costruzioni Paragrammaticali
24/11/2006 20:25
 
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Ieri se n'è andato il Perotti. Sul serio, stavolta...

Gastone Moschin, su La Stampa di oggi, lo ricorda così...

"Dunque sono rimasto soltanto io. Dopo Adolfo Celi e Tognazzi, è toccato a Philippe Noiret. Il gruppo di Amici miei non esiste più. Non mi aspettavo la morte di Philippe. Passò da Roma tempo fa, mi telefonò, disse: dobbiamo vederci. Non ci riuscimmo. Non ci incontravamo dal ‘76, da quando avevamo lavorato in Grecia a Una donna alla finestra. Conservavamo un buon ricordo.

Philippe resta legato a una delle più belle avventure della mia vita. Bella dal punto di vista umano e professionale, bella per l’armonia che ci legava. Nel film eravamo degli scapestrati, ma nella realtà eravamo diversi. Ricordo di Philippe un fondo di riservatezza che mi sorprese. Sì, era cordiale, ma se ne stava in disparte. Ci confidò che era stato aggredito dalla depressione. Aiuto, diceva, aiutatemi, statemi vicini.

Ricordo che con lui parlavo di teatro. Io meditavo qualche progetto, ma lui non ne voleva più sapere. Ne aveva fatto tanto in gioventù, ma adesso non se la sentiva, forse perché dopo il cinema, e soprattutto dopo il successo al cinema, è dura rimettersi in gioco con il teatro, occorre ricaricarsi. Ecco, nella finzione cinematografica ne combinavamo di tutti i colori, nella vita reale eravamo l’esatto contrario: un gruppo molto rispettoso. Di quel film ricordo in particolare un momento, quello in cui Noiret recitava la sua morte. Per «smontare» la drammaticità del momento qualcuno disse: «Ma in fondo, chi era? Non era niente, era solo un giornalista». E uno di noi rispose: «Perché? Bisogna essere speciali per vivere?»."


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Comitato Contro le Costruzioni Paragrammaticali
27/11/2006 15:19
 
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Stavo leggendo un po' di articoli sull'argomento. Certi dati e numeri fanno venire i brividi



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Migliaia di donne in marcia. «Il killer non bussa, ha le chiavi»
di Laura Eduati

«Il killer non bussa... ha le chiavi». Ossia: se una donna muore assassinata il colpevole spesso non è un intruso, bensì l’uomo che ha libero accesso alla sua intimità e al suo amore. Urlano lo slogan centinaia di donne riunite nella piazza Torre Argentina di Roma, che nel corso della manifestazione invaderanno la strada e fermeranno il traffico. In mano, o sulla testa, portano casette di legno e di cartapesta per evidenziare che «la famiglia è il luogo del delitto». Altro slogan: “Bindi se l’è scordato, la famiglia è reato”.

Per la prima volta in Italia il 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza sulle donne, conquista le piazze e le prime pagine dei giornali. A Bologna, Milano, Firenze, Palermo e Brescia le manifestazioni più visibili organizzate dai collettivi femministi e dai centri anti-violenza che da anni ricordano come nel 90% dei casi le donne siano vittime dei mariti, dei compagni, degli amici maschi. Molti uomini per solidarietà sfoggiano un nastro bianco sulla giacca, resuscitando l’iniziativa nata in Canada nel 1991 dopo l’omicidio a Montreal di 14 studentesse. Il Coordinamento giornaliste della Rai denuncia il sessismo dell’azienda.

Un gruppo di donne dei Verdi prende al volo l’occasione e scrive una durissima lettera contro Alfonso Pecoraro Scanio, accusandolo di usare le dirigenti per le foto-ricordo ma escludendole dalla segreteria. Sempre per la prima volta, la politica rilascia una girandola di dichiarazioni: «Le leggi vigenti devono essere rigorosamente applicate e, se necessario, adeguate» (Napolitano); «occorrono iniziative volte a diffondere una reale cultura della non violenza e del rispetto della dignità della donna» (idem); «Approvare la legge è una priorità» (Fassino); Vendola propone la creazione di un’authority rosa in Puglia che garantisca alle donne l’accesso alle cariche politiche; Viviana Beccalossi di An propone di equiparare lo stupro all’omicidio.

Riassumendo: la politica promette pene più dure e repressione. Ed è anche nell’ottica sanzionatoria che a breve la ministra per le Pari Opportunità Barbara Pollastrini presenterà una normativa anti-violenza che prevede tra le altre cose un Osservatorio, la tutela delle vittime e campagne di sensibilizzazione per il rispetto dell’immagine e del corpo femminili.

Il modello, facile da intuire, è la legge sulla violenza domestica voluta da Zapatero ed entrata in vigore nel 2005. Una legge che però, scriveva ieri El Paìs, non dà i frutti sperati. La Violenza persistente, questo il titolo dell’editoriale, nel 2006 ha già ha provocato la morte di 60 donne. «Questi dati mostrano che il problema è molto più esteso e profondo di ciò che sembra», osserva il quotidiano da anni impegnato nella campagna. Una normativa non basta per cambiare la testa degli uomini incapaci di «assumere cambiamenti culturali irreversibili».

E’ ciò che sostengono i collettivi femministi e femminili. Come a Bologna, dove 2mila persone hanno dato vita ad un corteo vivace, con l’adesione del sindaco Cofferati e di tutti gli enti locali. «Pene più severe, stai scherzando?» interviene Betti di Sexy shock, il gruppo impegnato nella campagna di informazione macho free zone. «La battaglia è certamente culturale e va combattuta nelle scuole, negli uffici e negli spazi pubblici». Più consultori e meno vittimizzazione delle donne, «rappresentate purtroppo come soggetti deboli da tutelare e che invece devono imparare a darsi valore». Quello che viene chiamato empowerment. La serata bolognese si è molitplicata in dibattiti, proiezione di video, spettacoli teatrali, mostre e concerti.

Anche a Milano le donne di Usciamo dal Silenzio hanno mischiato politica e arte, con un palco nella Stazione Centrale alle 21 e la partecipazione di gruppi musicali e teatrali. A Brescia Arcilesbica e Arcigay hanno ricordato che la violenza maschilista colpisce spesso gli omosessuali e le lesbiche, come è accaduto a una coppia di Mazzano. «Siamo contente perché finalmente abbiamo visto che le donne si stanno riappropriando delle piazze, e non c’è la paura di usare la parola “patriarcato”», commenta il collettivo romano A-matrix. La rete femminile della Sinistra Europea El-fem ha annunciato che presenterà un appello al Parlamento europeo l’8 marzo per una direttiva più incisiva che stimoli l’eliminazione del machismo dal panorama europeo.

Giornata mondiale, si diceva. In Germania 800 palazzi pubblici hanno tenuto la bandiera a mezz’asta in segno di lutto, Berlino e decine di altre città hanno ospitato spettacoli teatrali, readings, cineforum e dibattiti. Ad Atene il partito aderente alla Sinistra Europea Synapsismos ha tenuto a battesimo eventi di strada e manifesti. In Perù, dove 18mila donne l’anno vengono violentate e 9 ogni ora subiscono violenza domestica, il collettivo 25 novembre critica aspramente il presidente Alan Garcia, per il quale la questione è strettamente privata e va risolta nelle case, punto. A Buenos Aires le donne hanno sfilato a Plaza de Mayo.

E a Ciudad de Juarez (Messico), ormai tristemente nota per l’assassinio di oltre 400 donne negli ultimi 13 anni - torturate, violentate, mutilate - gli esperti ormai parlano di “femminicidio sessuale sistemico”: vari uomini senza alcuna relazione tra di loro che si dedicano all’uccisione delle donne. Mica solo a Ciudad de Juarez, verrebbe da dire.

Liberazione, 26.11.2006


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Usciamo dal silenzio
di Barbara Pollastrini

Vorrei conoscere i risultati di un sondaggio. Vorrei sapere quante persone sanno che una donna su tre nel mondo e una su quattro in Europa ha subito almeno un tentativo di violenza o molestia grave. Vorrei sapere quanti lettori di questo giornale sanno che la violenza costituisce la prima causa di morte delle donne tra i sedici e i cinquant’anni. Più delle malattie e degli incidenti. Vorrei sapere quanti padri, mariti, fratelli sanno che in Italia una donna su due nell’arco della vita è vittima di una o più molestie a sfondo sessuale. E vorrei sapere quanti ignorano che un omicidio su quattro avviene tra le mura domestiche.

Di queste vittime il settanta per cento sono donne e bambini. Vorrei sapere quanti sono a conoscenza del fatto che oltre il novanta per cento delle vittime di violenza o di molestie non denuncia il fatto. Per paura di ritorsioni, per vergogna, per l’incubo di una nuova insopportabile ferita psicologica.

Questo sondaggio sulla percezione reale del problema non c’è, anche se i dati citati sono statistiche ufficiali. Siamo davanti a una incomprensibile e insopportabile rimozione che interroga prima di tutto le coscienze maschili e le élites di questo Paese. Ma le donne ci sono. Esistono. E sanno reagire. Lo fanno perché vivono su di sé, sul proprio corpo, nella propria mente, il senso della propria dignità di fronte a una società - e spesso, una politica - che fa troppo poco per difendere sicurezza, libertà e diritti. Oggi molte di queste donne lo diranno. Lo faranno in centinaia di eventi e manifestazioni convocati nella giornata che l’Unione Europea ha promosso contro la violenza sulle donne. Un evento che riguarda tutti, perché oggi nel mondo parlare dei diritti delle donne significa affrontare la pagina più drammatica e irrisolta dei diritti umani. Sulle donne - sul corpo e sulla vita delle donne - vecchi e nuovi fondamentalismi giocano, infatti, una partita decisiva per il potere in quel processo complesso che va sotto il nome di globalizzazione. È uno scontro cruento che investe popolazioni, civiltà, spesso nel silenzio assordante della comunità internazionale.

Anche per questo la giornata di oggi non è un atto di testimonianza. È un grido d’allarme e l’espressione di un impegno. Potrà accendere dei riflettori e segnalare in tanti paesi l’urgenza di leggi e provvedimenti adeguati. Ma sfida aperta su questo fronte sarà lunga e faticosa. Anche perché le donne, per quanto forti e solidali tra loro, non possono farcela da sole. Servono le istituzioni sovranazionali, servono i parlamenti, servono i partiti e i movimenti, soprattutto servono regole e cultura. L’Italia - va detto con sincerità - è in ritardo. Altri paesi in Europa e nel mondo su questo terreno decisivo per la civiltà e la democrazia hanno fatto di più. Hanno varato leggi severe contro ogni violenza e molestia, ma azioni complessive che affrontano l’emergenza sotto il profilo sociale, culturale, economico. Interventi che insistono sulla prevenzione e sull’educazione, sulla convivenza e sul rispetto del principio «sacro» della inviolabilità del corpo di ogni donna e di ogni essere umano. Per noi è giunto il tempo di colmare questo ritardo.

Abbiamo iniziato a farlo - anche come ministero dei Diritti e della Pari Opportunità - con la finanziaria per il 2007. Sarà istituito un Osservatorio contro la violenza di genere in ogni sua espressione. Con la manovra si rinnova l’impegno contro le mutilazioni genitali femminili, contro la tratta e ogni forma di sfruttamento e segregazione. Avrei voluto maggiori risorse e al Senato continueremo la nostra battaglia per un’attenzione e un impegno maggiori. Tutto questo però non basta. Ciò che serve, e che stiamo costruendo, è un piano ampio e integrato contro la violenza sulle donne e a causa dell’orientamento sessuale e di genere. Un progetto ambizioso che mobiliti risorse, competenze diverse a partire dai centri antiviolenza, dalle case e associazioni delle donne.

Un programma mirato a una svolta sul terreno della cultura, della formazione al rispetto della persona, dell’informazione e dell’immagine della donna nella comunicazione, del costume e del linguaggio. In questa cornice si colloca anche la legge contro le molestie per la tutela delle vittime a cui stiamo lavorando intensamente. Lo stiamo facendo, come è giusto, ascoltando i pareri e proposte delle donne.

Sono convinta che solo una riflessione ampia può aggregare intorno a una legge di civiltà il consenso necessario a farla vivere come un patrimonio del paese e non come il risultato di una parte o di una maggioranza.

Questa è anche la ragione che ci spinge a cercare nel Parlamento una intesa larga a sostegno della legge. Lo dico perché la nostra battaglia può essere - anzi, dovrebbe essere sul terreno delle regole e dei diritti umani la - una battaglia di tutte e di tutti. La giornata di oggi per queste ragioni è un’occasione che cittadini, istituzioni e classi dirigenti non devono sprecare. Dare seguito coi fatti alle parole di oggi è un dovere morale prima che politico.

L'Unità, 25.11.06
30/11/2006 08:21
 
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Ritornado serio, consiglio vivamente di leggerlo.

[...] La questione dei beni comuni è essenziale. Il senso della battaglia, di cui parlava Tocqueville, è profondamente cambiato. Non riguarda soltanto un conflitto intorno a risorse scarse, oggi l’acqua più ancora che la terra. Nella dimensione mondiale assistiamo ad una creazione incessante di nuovi beni, la conoscenza prima di tutto, rispetto ai quali la scarsità non è l’effetto di dati naturali, ma di politiche deliberate, di usi impropri del brevetto e del copyright, che stanno determinando un movimento di «chiusura» simile a quello che, in Inghilterra, portò alla recinzione delle terre comuni, prima liberamente accessibili [...]

Abbiamo tutti un doppio corpo
Pubblichiamo una sintesi della "conferenza inaugurale" tenuta nei giorni scorsi all’Ecole doctorale de droit comparé dell’università Paris Panthéon-Sorbonne, con il titolo "Diritti fondamentali, globalizzazione, tecnologie".

di Stefano Rodotà (la Repubblica, 29.11.2006)

Verso la fine del 1847, quattro mesi prima della pubblicazione del Manifesto del Partito comunista, Alexis de Tocqueville annotava nei suoi Souvenirs: «presto la lotta politica si svolgerà tra chi possiede e chi non possiede: il grande campo di battaglia sarà la proprietà». Quel conflitto è continuato, ininterrotto, e continua ancora, anche se al centro dell’attenzione non è più la terra, ma piuttosto il vivente e l’immateriale.

Il campo di battaglia si è allargato. E’ diventato il mondo intero, e abbraccia molti altri diritti. Viviamo in un mondo che si proietta «oltre lo Stato», dove ritroviamo un «diritto sconfinato». Sopravviveranno i diritti fondamentali della persona in questo nuovo contesto? Proprio la dimensione mondiale, non accompagnata da istituzioni adeguate, li minaccia. L’irresistibile marcia della tecnica sembra svuotarli della loro funzione di garanzia della libertà e dell’autonomia individuale. La transizione verso il post-umano rischia d’indebolirli nella loro stessa natura, nel loro essere diritti dell’uomo, «human rights».

Movimenti contraddittori. La globalizzazione allarga anche la scena sulla quale condurre «la lotta per il diritto». L’innovazione scientifica e tecnologica ha portato ad un allungamento del catalogo dei diritti. L’evoluzione, che si coglie in documenti internazionali e leggi nazionali, induce giustamente a parlare di una «costituzionalizzazione della persona». E l’attenzione sempre più intensa per i diritti fondamentali modifica i termini della discussione, fa affiorare nuove questioni e nuovi soggetti.

Di questo tema non ci si può liberare con una mossa ideologica o guardando ad una realtà in continuo mutamento con schemi giuridici invecchiati. Non si può ridurre la presenza dei diritti fondamentali sulla scena del mondo ad un tentativo di colonizzazione culturale e politica di chi vive fuori del cerchio stretto dell’Occidente. Non si può ritenere irrilevante la previsione di vecchi e nuovi diritti in documenti come la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea solo perché non hanno ancora un formale valore giuridico formalmente vincolante.

Lo stesso modo di affrontare criticamente i problemi della globalizzazione si è, almeno in parte, modificato. Al rifiuto radicale («no global») si va sostituendo una strategia più articolata: non una globalizzazione attraverso i mercati, ma appunto attraverso i diritti. Un segnale chiaro in questa direzione era venuto dalle parole con le quali l’Unione europea aveva motivato la necessità di una carta dei diritti, sottolineando che questi rappresentano una «condizione indispensabile per la sua legittimazione». Conosciamo le difficoltà che la costruzione europea continua ad incontrare. Ma quelle parole vogliono dire proprio che essa non può proseguire se continua a legarsi soltanto alla logica di mercato. Senza una vera fondazione nei diritti, l’Europa non continuerà soltanto a soffrire d’un deficit di democrazia, ma addirittura di legittimità. Un problema, questo, che si avverte ormai nel vero spazio planetario unificato dalla tecnologia, Internet, per il quale si è appena chiesta proprio una carta dei diritti.

La tutela globale della persona, dunque, non può fermarsi agli spazi nazionali, ai soli spazi materiali, e neppure al modo abituale di segnare i confini del suo corpo. Anche questo appare sconfinato, con le informazioni che ci riguardano disperse in mille banche dati nei luoghi più diversi del mondo.

Di nuovo la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea può servirci da guida, riformulando le regole sull’integrità fisica e mentale in forme adeguate alle innovazioni scientifiche e tecnologiche e affiancando ad esse un diritto autonomo, quello alla protezione dei dati personali, che dà evidenza e tutela al «corpo elettronico». Siamo di fronte ad una nuova idea integrale della persona, che ne comprende le tre dimensioni - fisica, psichica, virtuale. Nel mondo mutato, il «doppio corpo» non è più quello rivelato per il re medievale da Ernst Kantorowicz, ma diviene attributo e problema d’ogni persona.

Nuovi spazi, diritti, oggetti. Ma pure soggetti nuovi. Negli spazi giuridici compaiono le generazioni future, portatrici di diritti legati alla biosfera, alle risorse materiali, all’ambiente. E accanto a loro, sulla scena del mondo si materializza l’umanità. Questa è indicata come titolare di nuovi patrimoni comuni, la spazio extra-atmosferico e il fondo degli oceani, l’Antartide e il genoma umano, i siti indicati dall’Unesco; dà il nome al diritto d’«ingerenza umanitaria» e ai «crimini contro l’umanità». Ma immediatamente pone un problema: chi può parlare e agire in nome dell’umanità o delle generazioni future?

Il rischio di derive autoritarie è evidente, testimoniato dall’uso del diritto di ingerenza umanitaria come nuovo fondamento delle guerre d’aggressione. Un’ombra difficile da dissipare, ma che non può cancellare il fatto che il riferimento all’umanità significa anche limite alla sovranità degli Stati, che non possono impadronirsi di una porzione della luna o dell’Antartide, e ostacolo alla rapacità degli interessi economici che vogliono distruggere un ambiente o brevettare il vivente in qualsiasi sua forma. Si trasforma in impegno di solidarietà dei paesi più ricchi. Si affida a corti internazionali competenti per crimini contro l’umanità. Significa allargamento del principio di precauzione, e creazione di nuovi beni comuni e di nuove possibilità di accedervi. Dietro l’astrattezza della nozione di umanità scopriamo così diritti, obblighi e responsabilità di soggetti concreti.

La questione dei beni comuni è essenziale. Il senso della battaglia, di cui parlava Tocqueville, è profondamente cambiato. Non riguarda soltanto un conflitto intorno a risorse scarse, oggi l’acqua più ancora che la terra. Nella dimensione mondiale assistiamo ad una creazione incessante di nuovi beni, la conoscenza prima di tutto, rispetto ai quali la scarsità non è l’effetto di dati naturali, ma di politiche deliberate, di usi impropri del brevetto e del copyright, che stanno determinando un movimento di «chiusura» simile a quello che, in Inghilterra, portò alla recinzione delle terre comuni, prima liberamente accessibili.

Dobbiamo ripetere che la tecnologia apre le porte e il capitale le chiude? Certo è che intorno al destino di nuovi e vecchi beni comuni si gioca una partita decisiva per l’eguaglianza. Protagonisti di questa vicenda non sono singoli o gruppi. E’ un’entità anch’essa nuova che, mimando la formula «economia mondo» di Immanuel Wallerstein, è stata definita «popolo mondo». Un popolo mobile, che si aggira nel mondo globale sempre più alla ricerca dei luoghi che più offrono opportunità, in un incessante «turismo dei diritti», che dalle sue forme più antiche, l’emigrazione e la ricerca d’asilo politico, si trasforma in turismo procreativo o in richieste d’asilo da parte di donne che, se rimandate nel paese d’origine, rischierebbero mutilazioni sessuali.

Sono dunque persone in carne ed ossa che, anche a prezzo di discriminazioni e persecuzioni, si fanno banditori nel mondo di diritti percepiti come parte dell’umanità di ciascuno. Nasce così una carta dei diritti spontanea e diffusa, specchio di esigenze reali, frutto di un ininterrotto dialogo tra culture, e non imposizione dall’alto. Anche con qualche paradosso. Il turismo dei diritti è reso possibile dal fatto che diversi Stati regolano in maniera diversa le stesse situazioni, rendendo possibile l’accesso alle tecnologie della riproduzione o la ricerca sulle cellule staminali che altri proibiscono. La sovranità nazionale come strumento della globalizzazione dei diritti?

Ma vi è chi percorre il mondo per trovare le maglie deboli della rete di protezione dei diritti. Gli antichi «paradisi» fiscali sono accompagnati da quelli che vanificano la protezione di dati personali. Imprese vanno alla ricerca dei luoghi dov’è facile lo sfruttamento dei lavoratori, nulla la tutela dei minori, agevole la sperimentazione dei farmaci sull’uomo. Astuti agenti di viaggio organizzano l’orribile «turismo sessuale». La prospettiva è completamente rovesciata. La pura logica di mercato aggredisce la persona nei luoghi dove maggiore è la sua debolezza. Si parla di paradisi, si trova l’inferno.

Torna il bisogno di punti fermi di riferimento solidi, di una rinnovata attenzione per dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, nel tempo della tecnica e del mondo globale. Tutto questo evoca un altro soggetto, i giudici e le corti che, in assenza di un governo mondiale, si presentano come quelli che già possono offrire tutele anche in situazioni difficili, ricercando ogni strumento disponibile. Lo stanno facendo quei magistrati che danno più forte tutela ai diritti sociali ricorrendo alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Di fronte alle debolezze della politica, saranno i giudici a promuovere l’Europa dei diritti?


30/11/2006 15:35
 
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«Dio-mercato va all’inferno», disse Tremonti... di Rina Gagliardi



I nostri venticinque lettori si saranno accorti del piccolo ma esemplare scoop realizzato ieri da "Liberazione": un intellettuale di area liberale, il professor XY, che definisce il precariato una “forma di schiavitù” e la fase attuale del capitalismo, più in generale, una regressione all’era delle “ferriere”. Non è una notizia spettacolare, d’accordo. Non rinvia a un appassionante dibattito sull’orientamento sessuale delle toilettes, e nemmeno a uno dei tanti possibili brogli elettorali immaginati, sospettati o agognati. Però, ci dice molte cose in una: che perfino nelle aree moderate, o di destra, si vanno incrinando alcune delle più granititiche certezze ideologiche che hanno dominato la fine del secolo scorso. La “flessibilità” del lavoro, la fine del posto fisso, l’addio ai contratti, l’abbattimento dei diritti come nuovi valori assoluti, anzi come nuove frontiere del “progresso” sociale. Volete un altro segnale? Ieri, su "Repubblica", si potevano leggere le ultimissime elaborazioni di Giulio Tremonti: «Il mercatismo è finito, è l’ora della sinistra antagonista» ha detto l’ex-super ministro dell’economia berlusconiana nel corso di un dibattito pubblico. Ha aggiunto che la politica non è una “azienda”, ma, in sostanza, il suo contrario. E ha avvertito gli astanti che sì, questi pensieri sono sorprendenti perfino per lui. D’accordo, Tremonti non è mai stato, soprattutto nelle sue pratiche, un liberista “puro”, tanto da esser tacciato di vocazione “colbertista” (da Colbert, ministro economico del re di Francia Luigi XIV, che inventò un’originale miscela di mercantilismo, protezionismo doganale, dirigismo economico). D’accordo, nel suo passato c’è anche una collaborazione al “manifesto”. D’accordo, la “Casa delle libertà” non gode più di grande salute, e ciascuno si sente libero di esprimersi come meglio gli aggrada. Tuttavia, nemmeno Tremonti aveva finora osato una provocazione tanto spinta: ma, a maggior ragione, anche questo è un segno dei tempi. Negli anni ’80-90 del ‘900, quando imperversava la dittatura culturale del “pensiero unico”, chi mai, soprattutto se collocato a destra ed anzi in Forza Italia, sia pure con un occhio alla Lega, avrebbe mai pensato di attaccare così frontalmente i paradigmi del Mercato? E si presti attenzione al linguaggio. Forza Italia era nata – per nostra disgrazia – una quindicina d’anni fa come il prodotto estremo della subordinazione della politica alle leggi del mercato, oltre che a quelle del amrkenting e della pubblicità: addirittura, era, e\o si presentava, come un “Partito-Azienda”. Ora, uno dei massimi leader di questo partito non solo dichiara il fallimento di un progetto politico ed economico-politico (già per altro sancito dall’elettorato italiano il 10 aprile scorso), ma boccia proprio l’idea originaria. In breve: senza peccar troppo di ottimismo, è ben leggibile, qui, l’inizio del tramonto di un’egemonia.
Ma, se questo ragionamento ha un qualche fondamento, ovvero se non è nè propagandistico nè autoconosolatorio (nè, tantomeno, “ideologico”, come si usa liquidare ogni pensiero sgradito), non possiamo sfuggire ad un interrogativo di fondo: di questa crisi se ne sono accorti soltanto i nostri venticinque lettori o, magari, è ragionevole sperare che se ne stia accorgendo l’insieme delle sinistre, e in particolare coloro che si dicono “riformisti”? Qui, conviene fermarsi un attimo a riflettere, anche nella prospettiva della così detta “fase due” che – ce lo ripetono spesso – dovrebbe allietare la nostra prossima primavera.
Il fatto è che la cultura politica a tutt’oggi dominante, nei gruppi dirigenti di Ds e Margherita, nonchè nella intellettualità (economica e giornalistica) che li circonda, resta di tipo neoliberale. Dopo l’Ottantanove, dopo la così detta fine della “prima repbblica” e del sistema di partiti che l’avevano retta per quasi cinquant’anni, dopo il grande sbandamento seguito alla svolta della Bolognina (e alla frantumazione della Dc), è intervenuto un processo di “reidentificazione” anche ideologica (questa sì), che ha rovesciato brutalmente tutte le antiche certezze.

In particolare, questa “omofobia” ha colpito la sinistra: non è stato buttato via soltanto lo statalismo (che del resto il Pci non aveva mai assunto in forme sovietiche), ma la validità stessa dell’intervento pubblico in economia; non si è rinunciato soltanto agli schemi tradizionali “veteroclassisti”, ma si è messo in discussione il legame organico con il mondo del lavoro dipendente; non si è abbandonata soltanto l’idea della “piena occupazione” come una meta virtuosa da perseguire, ma ci si è fatti prendere dalle sirene, appunto, della flessibilità, della logica d’impresa, delle privatizzazioni come panacea di tutti i mali dell’economia e della società italiana. Non solo il comunismo o il socialismo, ma la socialdemocrazia (e con essa il sindacato) è stata assunta come “residuale”, come un ferrovecchio della storia di due secoli. Questo processo, certo, non è stato – non è – lineare, ma cosparso di contraddizioni, correzioni parziali, ripensamenti, frutto delle lezioni della realtà: per esempio, oggi nessuno, neppure Piero Fassino e Francesco Rutelli, se la sentono di cantare, come si usava anni fa, le lodi delle “magnifiche sorti e progressive” della globalizzazione capitalistica, a suo tempo vissuta in toto come modernità da abbracciare. E basti il tormento della discussione in corso sul Partito Democratico per capire che l’ipotesi di sganciamento “definitivo” dalla sinistra, radici, storia, valori e meta finale, sarà tutto fuorché indolore in un’ampia parte del “popolo dell’Unione”. Tuttavia gli stilemi della cultura neoliberale, magari temperata e “adattata” al contesto italiano, continuano ad esercitare nel gruppo dirigente del futuro Piddì una grande fascinazione: l’idea che il privato è comunque sempre migliore del pubblico, e che dunque la modernità sta sempre e comunque nel privatizzare; l’idea che la spesa pubblica va comunque limitata, perché lo Stato Sociale appartiene al passato; l’idea che la previdenza pubblica – come la scuola e la sanità pubbliche – vanno ridotte, ridimensionate, privatizzate. E che la precarietà del lavoro è, alla fin fine, il prezzo necessario, lo scotto da pagare non solo agli interessi d’impresa, o di Confindustria, ma alla “modernizzazione” stessa, al suo modello americano. Alla fine, quando i riformisti parlano di “riforme”, proprio di questo parlano – e la “fase due” come viene intesa se non come un balzo nell’era delle privatizzazioni e delle pensioni negate?
Conclusione provvisoria: stiamo rischiando di assistere all’ennesimo paradosso della politica italiana? Mentre, a destra, in alcuni dei suoi esponenti più avvertiti, si prende atto del fallimento del neoliberismo, a sinistra si resta “fedeli” , nella sostanza, ai suoi dettami - e talora alle sue ricette. Mentre la cultura neoliberale tramonta, i suoi più convinti supporter militano nell’Unione, e cercano di spingerla in questa direzione. Sarebbe davvero il colmo se i giovani che si affacciano (?) alla politica, avendo maturato una sfiducia radicale nelle virtù salvifiche del mercato e della precarietà, trovassero in Tremonti, o in chi per lui, un interlocutore, o magari un riferimento più convincente di tutti leader riformisti messi insieme...


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Una domanda per Obama. Ci invadete spontaneamente o dobbiamo proprio rifarlo tutto, il fascismo?

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La palla che lanciai giocando nel parco non è ancora scesa al suolo.
30/11/2006 15:54
 
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un'intervento: per quel che ce(ve) ne può importare

DAL BLOG DI BEPPE GRILLO:


"Caro Beppe,
nello stesso momento in cui veniva diffusa la notizia che la Magistratura non conterà le schede bianche, il Sottosegretario di Stato Nando Dalla Chiesa pronunciava, durante una conferenza a Milano, queste parole:

'[…] forse abbiamo sbagliato noi, ma non credo…non credo…però è significativo che ci sia stato chiesto, a tutti, di andare nelle prefetture…questo è avvenuto alle 11 di sera. Poi che cos'è accaduto? Questa è la mia tesi: se è vero che c'è stata una manomissione delle schede bianche credo che il problema sia stato, infatti, cos'è accaduto dal momento in cui le prefetture hanno spedito i voti al momento in cui sono arrivati a Roma, lì è il mistero. E devo dire: avrebbero vinto loro se non ci fosse stata la vituperata forza del vecchio Partito Comunista; perchè cos'hanno fatto? Quando vedevano che cominciavano a mangiare mezzo punto, mezzo punto, mezzo punto, mezzo punto e sono rimaste le 280-300 sezioni di cui dovevano arrivare i risultati, chi aveva l'organizzazione ha chiesto alle sezioni di trasmettere immediatamente i risultati dello spoglio, i risultati dello spoglio sono arrivati direttamente da quelli che avevano assistito a chi organizzava, dei DS, il monitoraggio dello spoglio; a quel punto Prodi e Fassino hanno detto 'abbiamo vinto noi' e lì hanno rotto l'incantesimo. Per quello Berlusconi è impazzito, perchè sono stati loro a dire 'abbiamo vinto', non l'ha detto il Ministro degli Interni, e Pisanu non si è sentito, sapendo che loro avevano i dati veri delle sezioni, non si è sentito di smentirli perchè sapeva che avevano contato i voti veri di quelle sezioni e quei voti non erano passati attraverso il filtro possibile di manomissione informatica. Questo è stato quello che è accaduto, allora io credo che quello che è stato rimproverato a Prodi e a Fassino ci abbia salvati, cioè il fatto che loro sulla base dei dati ricevuti dai loro militanti siano andati a dire 'abbiamo vinto noi'; così questa vicenda si è chiusa, con Berlusconi che impazziva perchè c'era stato un'altro modo di contare i voti."
Marco Canestrari.


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Georg Buchner, nella Morte di Danton , atto quarto: "Il Nulla è il Dio mondiale nascituro".
30/11/2006 16:38
 
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Non riesco a trovare più l'articolo di Luisa lmmsdt da cui è nata la navigazione, fatto sta che leggendola mi era venuto in mente di andare a vedere cosa fosse la Rivoluzione Italiana di Paolo Guzzanti. Lo sconcerto mi aveva incuriosito.

Ho appena letto il blog del suddetto. Gli innumerevoli errori di battitura mi hanno rassicurato: non devono aver letto in tanti quel fiume di cazzate.

Commento: tra i Guzzanti il più comico è ancora, indiscutibilmente, Paolo.


P.S. Sto pensando di organizzare l'invenzione dell'automobile in Italia. Non mi risulta che da noi sia mai stata inventata (bei tempi quelli in cui ingaggiarono D'Annunzio per decidere se l'auto fosse maschio o femmina...bei tempi, come "quandu 'ncera Iddu!")
30/11/2006 19:07
 
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Un tempo "amavo" i Gesuiti, quando credevo d'essere un Buon Cattolico: per i cattolici non c'è niente di meglio che avere come faro quest'ordine religioso.
Ignazio Loyola quando fondò La Compagnia di Gesù doveva essere molto illuminato.

Sto leggendo a tappe il libro di Augias, di Pesce ho letto un paio di libri tra i quali il meraviglioso Le parole dimenticate di Gesù:
fatemelo dire: dissento totalmente da ciò che, con una presa di posizione, a dir poco, di intolleranza censoria, la Civiltà Cattolica adduce per stroncare il libro di Augias.
Mi piacerebbe leggere per intero le argomentazioni che ha posto in essere l'autore dell'articolo "recensione" della rivista dei Gesuiti.

Una questione di Fede, certo.
Benedetta Fede!
E non sapete quanto "invidio" e rispetto le persone che la posseggono: quella che smuove le montagne!

Intanto vi riporto questo articolo:



"Inchiesta su Gesù", scritto insieme al biblista Mauro Pesce, stroncato da "Civiltà cattolica"

Il volume, tra i best seller dell'anno, è una ricostruzione della figura storica di Cristo

I gesuiti contro il libro di Augias
"Attacco frontale alla fede cristiana"


ROMA - Ai gesuiti non è piaciuto il libro su Gesù. La Civiltà Cattolica, autorevole rivista della Compagnia di Gesù, pubblica nel prossimo numero una dura recensione di Inchiesta su Gesù di Corrado Augias e Mauro Pesce, pubblicato nel settembre scorso da Mondadori, uno dei volumi più venduti della stagione.

A firmare l'articolo, che suona come una vera e propria stroncatura, è padre Giuseppe De Rosa che definisce il libro "un attacco frontale alla fede cristiana". "Soprattutto dispiace il fatto, storicamente ed esegeticamente ingiustificato - scrive il critico gesuita - che in tale volume sia contenuto obiettivamente, quali che siano state le intenzioni dei due autori, un attacco frontale alla fede cristiana".

Secondo Civiltà Cattolica, il libro di Augias e Pesce sostiene che il cristianesimo abbia falsato la figura di Gesù "cristianizzandolo" e facendone quello che egli non sarebbe stato. Sarebbe perciò falso tutto ciò che la fede cristiana professa riguardo a Gesù. A questa presentazione, padre De Rosa muove alcuni rilievi critici che contestano le principali affermazioni del volume.

Il più forte di questi rilievi riguarda il fatto che nel libro di Augias e Pesce "viene negato il cristianesimo nella sua totalità: sono negate, infatti, tutte le verità cristiane essenziali, quali la divinità di Gesù, la sua incarnazione, la sua concezione verginale, il carattere redentivo della sua morte, la sua risurrezione dalla morte". Padre De Rosa definisce poi "assolutamente inaccettabile proprio sul piano della storia" la frattura che il professor Pesce (uno dei massimi biblisti italiani, ndr) pone tra il "Gesù della storia" e il "Gesù della fede", perché "in realtà questa frattura non esiste".

Una critica che Augias, già oggetto di una dura presa di posizione del quotidiano dei vescovi l'Avvenire, non sente di condividere. "Privato del suo mantello teologico - spiega - Gesù diventa una figura più affascinante, perché più drammatica, più fragile, una figura da amare, che si capisce molto meglio senza fede". Quanto all'accusa di "attaccare frontalmente" la fede, la replica di Augias è altrettanto ferma: "Noi ci limitiamo ad analizzare Gesù dal punto di vista storico, al pari di Alessandro Magno o Giulio Cesare, altre grandi figure che hanno cambiato il corso degli eventi: se davanti a questo la fede barcolla, povera fede".

"Si tratta comunque - conclude l'autore riferendosi anche alle attenzioni dell'Avvenire - di reazioni che rivelano intolleranza, come lo sono state quelle sul libro di Dan Brown, che pure dal punto di vista delle verità storica è facile da smontare, e questo non va affatto bene".

(30 novembre 2006)
13/12/2006 14:55
 
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Titoli e parole, chi è il vero mostro? Di Marco Bucciantini(L'Unità)


Sono state le parole di un uomo straziato a fermare l´infame corsa senza freni verso i peggiori istinti.

Carlo Castagna ha spezzato l´onda di razzismo, qualunquismo, fanatismo che stava montando come si trattasse di una folle competizione fra giornalisti, politici, inquirenti avventati.

«Marzouk era in Tunisia. Non è stato lui, non avrebbe mai mosso un dito contro il bambino». L´uomo cui toccherà dividere con il dolore tutto ciò che resta da vivere ha concesso un alibi "umano" a colui che pareva il carnefice della sua figlia e di suo nipote. Una frase semplice, vera. Che ridicolizza il "circo" piombato sul delitto con "religiose" sicurezze e ancestrali paure da assecondare.

Tocca essere duri, ma non c´è da aver scrupoli davanti a questo lancio di agenzia, del mattino di ieri - quando i dubbi sulla dinamica già si facevano largo nelle verità impostate: «Un uomo di estrema pericolosità, violento e senza regole. In sintesi l´identikit di Azouz Abel Marzouk, il 25enne tunisino ricercato in tutta Italia con il sospetto di essere l'autore della strage di Erba dove avrebbe sgozzato la convivente, il figlioletto di due anni, la suocera, una vicina e poi dato fuoco alla casa...Lui con una sfilza di precedenti per droga e rapine, che spesso massacrava la convivente di botte, era stato scarcerato in luglio grazie all´indulto...Un uomo con alle spalle un "curricula-criminis" da brividi. Un uomo tanto cattivo». E cadono anche i condizionali: «Raffaella era diventata mamma di Yousuf nel 2004 e con il piccino e quello che diventerà il suo carnefice, si era trasferita al primo piano della vecchia cascina ristrutturata...Di quel disperato amore restano i corpi carbonizzati, la rabbia della gente contro l´indulto. La sensazione di impotenza».

La vera impotenza è davanti a questi che uno medico fisiologo russo (Ivan Pavlov, lavorando sull´appetito dei cani) chiamava riflessi condizionati. Stimolo e risposta.
Quello che condiziona è l'efferatezza del delitto, così sanguinario che è opera degli "altri". Come già a Novi Liguri (Erika e Omar) o a Brescia (famiglia sterminata in villa), il primo colpevole è sempre il pezzente extracomunitario. Se il convivente non è fra i morti ed è africano, lo stimolo chiama la risposta e la notizia è fatta e commentata: marocchino esce per indulto e fa strage in villa. Questi i titoli delle agenzie di lunedì sera. Poi il marocchino è diventato tunisino. Giusto in tempo per i titoli sui giornali. Dove l´età del tizio variava fra i 24 e i 36 anni. Attori così governati dai meccanismi primigeni si scagliano quindi contro l´indulto, che è perdono, concessione un po´ distante dagli istinti e troppo vicino ai colpevoli : «L´indulto gli aveva restituito la libertà... Lui, in un gesto tragico di violenza e follia ha tolto la vita a quattro persone». Questo l´attacco di un pezzo su un quotidiano importante. Si eccepirà: tutto remava da quella parte. Alibi che non regge davanti alla ripetuta definizione di «convivente di Raffaella» con cui si indica Marzouk. Per poi scrivere: «Si erano sposati con rito civile». Si chiama matrimonio, e lui diventa marito. O forse una brianzola e un tunisino sono "coppia di fatto" finchè morte non li separi? Adesso i tg e le agenzie hanno spostato il mirino: tocca ai tossicodipendenti vendicativi. L´unica vendetta - sacrosanta - per ora è in quella frase così umana, così superiore ed evoluta che ha fatto tragica beffa delle nostre disumane convinzioni.

Ps.: l´ordine dei giornalisti non ha ritenuto di intervenire. Ci sono diffamati importanti da tutelare e da indignarsi e diffamati «tanto cattivi» e chi se ne frega.



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Una domanda per Obama. Ci invadete spontaneamente o dobbiamo proprio rifarlo tutto, il fascismo?

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La palla che lanciai giocando nel parco non è ancora scesa al suolo.
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