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Ultimo Aggiornamento: 03/06/2010 17:06
27/02/2007 19:47
 
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Re:

Scritto da: astrodanzante 27/02/2007 18.56
Cor, mi svisceri Sofri su Repubblica di oggi?

Dici che gli si possa applicare quella massima che parlava di travi e pagliuzze?



Sto tornando da via Delle Botteghe Oscure (e sì, eh!), Astro. Mi son perso tra i libri e la musica di "Rinascita".

Appena mi riprendo dalla "botta" datami dall'ascolto del Lamento funebre di una madre per la morte di un figlio (crf. Nuove in Musica) ... vedrò che "pippe" si fa Adriano.

Sono turbato. Straziato.
un semplice FANS va bene, dotto'?
28/02/2007 15:56
 
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Re:

Scritto da: astrodanzante 27/02/2007 18.56
Cor, mi svisceri Sofri su Repubblica di oggi?

Dici che gli si possa applicare quella massima che parlava di travi e pagliuzze?



QUI è contenuto l'articolo di cui si parla. Dategli un'occhiata.

_____________________________________

Dunque, Marco. Vediamo un po’ se col poco tempo a disposizione riesco a dire qualcosa che non sia qualche stronzata (ne dico tante ultimamente, sai?)

Alla prima lettura ieri dell’articolo di Sofri mi son chiesto: ma dove vuole andare a parare? Nel senso che non riuscivo ad entrarci dentro, non riuscivo a “svisceralro”, come hai ben detto tu.

Certo, non è un articoletto che si legge en passant, distrattamente. Mi ci è voluto uno sforzo di attenzione per riuscire a muovermi in questo “tipo” di lessico Sofriano.

Ho riletto, a casa, con attenzione: mi è sembrato, al primo acchito, che Sofri abbia voluto fare il verso, abbracciandone certe teorie, al Bobbio di “Destra e Sinistra”, un “libretto” di poche pagine che mi ha illuminato su determinati aspetti inerenti le “radici” di entrambi gli schieramenti.

Il linguaggio dell’articolo, infatti, richiama un po’ lo scrivere “politico” di Bobbio.

Ma torniamo a noi.

“Trave e pagliuzza”? Debbo dirti che ci ho pensato e mi son lasciato tentare … ma a ben vedere, riflettendo, ho cercato di “decifrare” il messaggio di Sofri nel seguente modo:

Che ci siano “due sinistre” è un dato di fatto.
Che entrambe siano portatrici rappresentanti di legittimi interessi di una nutrita schiera di rappresentati è sicuro.

Ora il discorso spinoso risulta essere questo: come si riesce a trovare un equo bilanciamento affinché vengano tutelati quei legittimi interessi di quella folta schiera che si sente rappresentata - e che quindi ti ha votato - da te rappresentante?

Sofri tenta di dare una risposta cercando, credo, di rendere “evidente” ciò che evidente non sembra, e cioè che esistano interessi legittimi i quali sono (dovrebbero essere, meglio) “più legittimi” degli altri.
Corollario: dovrà essere sacrificata, almeno per il momento, (mettendola in “pausa” o…?), la tutela di alcuni legittimi interessi rispetto ad altri, in virtù della “improcrastinabilità” della tutela degli uni rispetto agli altri.

Il discorso è complesso. Molto. Gli spunti di riflessione sono tanti, come tanti sono i passaggi dell’articolo che bisogna che io “riveda”.

Alcuni passaggi dell’articolo li trovo illuminanti. E ne condivido la sostanza.
Ma mi restano, comunque, dei giganteschi punti di domanda.

Sarà confusione?
28/02/2007 17:59
 
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La Rossanda alimenta la mia confusione.


Scritto da: astrodanzante 27/02/2007 11.09
Autogol, di R. Rossanda.

Pag.3 de Il Manifesto di oggi (sicuro che domani lo dimentico)



Articolo interessantissimo.

La chiusa è formidabile.



Autogol

Rossana Rossanda

Ammesso che domani o doman l'altro passi anche al Senato, il governo Prodi bis è già spostato al centro. I dodici punti che il nostro premier ha preteso e che gli sono stati rapidamente concessi, pena il suo ritiro e lo scioglimento delle Camere, questo sono. E di questo è significativo il voto annunciato di Marco Follini. Ma è un equilibrio fragile. E non solo per i numeri, che pur qualcosa significano, ma perché è venuto in luce che quel che lo ha messo e lo tiene insieme è l'urgenza di togliere di mezzo la Casa della Libertà, non una idea condivisa del che fare per l'Italia. La stessa urgenza lo ha ricomposto adesso, a contraddizioni irrisolte.
E' un caso particolare in Europa, una coalizione di centronistra che ha bisogno di tutta la sinistra, incluso il voto dei movimenti radicali, mentre quella del centrodestra non pone limiti a destra fino alle sue forme estreme fasciste e razziste - cosa che non avviene in nessun altro paese dell'occidente europeo, tanto da produrre figure atipiche come Berlusconi o alleanze indigeste a Bruxelles come l'asse Berlusconi-Bossi. Sta di fatto che, come ha detto - non so se con qualche rincrescimento - il presidente Napolitano, non appare possibile una Grosse Koalition fra due blocchi così opposti, nessuno dei due ha voglia di andare alle elezioni (malgrado gli stramazzi, anche il Cavaliere ha i suoi problemi a tener insieme una divisa Casa della Libertà), né è maturo quel centro del quale si sente precursore Marco Follini.
E tuttavia è in fibrillazione l'arruffato bipolarismo italiano. Primo, è ricorrente l'incapacità di quella che chiamavamo la borghesia di darsi una leadership pulita almeno sotto il profilo democratico, ed è permamente la sua tentazione di ricorso a populismi come la Lega e la parte più vecchia di An. La così anomala presenza fin nelle istituzioni di personaggi fascisti viene di qui. E dopo gli anni '80 e la fine della Democrazia cristiana, i cosiddetti poteri forti più moderni occhieggiano alle ex sinistre perché siano loro a fornirgli una figura di sostituzione. Secondo, e derivato, quando le sinistre tutte riescono a unirsi è per la priorità di togliersi di torno destra o centrodestra impresentabili, rimandando il confronto sulle discriminanti non da poco che esistono fra loro. E' un rinvio possibile finché si è all'opposizione o in campagna elettorale, ma diventa impraticabile appena si è al governo, dove le scelte stringono e si è responsabili davanti alla propria base elettorale. E' quel che è successo anche nel corso della prima esperienza Prodi, e tenderà a succedere nella seconda.
I ricorrenti infarti dell'Unione non hanno origini secondarie. Malgrado il mare di personalismi, imprudenze e pochezze di cui si sono circondati per il giubilo della stampa, hanno cause molto serie. Due di esse comuni a tutta l'Europa occidentale - la pressione esercitata dalla globalizzazione liberista sul «modello europeo», o renano, o come lo si voglia chiamare, che ha presieduto dal 1945 alla strutturazione delle nostre società - e la collocazione da assumere nei confronti degli Stati Uniti una volta caduta l'Urss e finita la guerra fredda. Il terzo è del tutto italico, ed è il peso che esercita dopo il 1989 la chiesa cattolica sulla nostra scena politica.
E' su questi problemi che ogni volta affiora una rottura ed è su di essi che Prodi ha dato un giro di vite nel patto prendere-o-lasciare in dodici punti. La prima volta è stato con la finanziaria, dove la priorità data al risanamento del debito pubblico imposto dalla Banca centrale e dalla Commissione - strumenti continentali della deregulation - ha messo limiti cogenti a un riequilibrio nella distribuzione che sarebbe stato necessario alla base delle sinistre e del sindacato. Di fatto, da un lato ha significato bloccare la spesa pubblica e dall'altro non ha toccato in alcun modo le imprese, puntando su un aumento del salassato potere d'acquisto attraverso i risparmi che verrebbero dalle liberalizzazioni di settori secondari (Bersani, taxi, farmacie, eccetera) invece che da un aumento dei salari, e garantendo loro il rifinanziamento attraverso la sottrazione del Tfr ai lavoratori e l'obbligo di versarlo ai fondi pensione - operazione geniale di persuasione dei medesimi che è meglio una gallina (eventuale) domani che un uovo (sicuro) oggi. Ma lo scoglio più difficile da eludere sarà quello delle pensioni.
Paradossale, e determinato più da propensioni e idiosincrasie interne che da un ragionamento sulle tendenze effettive della scena internazionale, la collocazione dell'Italia rispetto all'amministrazione americana. Diversamente da alcuni anni fa, quando l'attacco dell'11 settembre e la risposta di Bush con la guerra all'Afghanistan e poi all'Iraq parevano obbligare il pianeta al «siamo tutti americani», l'impantanamento in Medioriente, l'aggravarsi in Iraq della guerra civile e il degradarsi crescente della questione israelo-palestinese, nonché la scelta iraniana di dotarsi del nucleare civile, hanno gettato la quotazione di Bush al livello più basso mai raggiunto da un presidente Usa. Minoritario nell'opinione e nelle elezioni del Senato e del Congresso, è la sua escalation che è messa radicalmente in causa, e le conseguenze che il Patriot Act ha avuto nella vita interna degli States e nei suoi rapporti con il resto del mondo.
E' sembrato che Massimo D'Alema, come ministro degli esteri, cercasse di disincagliarsene senza una plateale rottura - così si è mantenuto l'impegno dell'Unione sul ritiro dall'Iraq, sono state rinviate al mittente le pressioni dei sei ambasciatori e si sarebbe dovuta articolare una discontinuità dall'Afghanistan, meno facile a causa della copertura che all'impresa aveva dato a cose fatte l'Onu - ma non è chiaro, a chi è fuori dal palazzo, perché Romano Prodi abbia d'improvviso avallato la concessione di Berlusconi di una seconda base americana a Vicenza e messo come condizione al suo restare in scena il rifinanziamento della nostra presenza in Afghanistan. Alla prima non lo obbligava alcun trattato, contava solo la partecipazione a una Nato i cui compiti saranno sicuramente ridiscussi alla scadenza di Bush, e la seconda non tiene in alcun modo dei nuovi sviluppi della situazione in Afghanistan. Perché manifestare disprezzo, egli stesso e Giuliano Amato, ai pacifisti di Vicenza, i cui voti gli erano stati necessarissimi?
Ma qui si sono cumulati gli errori: perché, se il governo si è mosso con arroganza, non risulta che le sinistre in parlamento abbiano avanzato alcuna iniziativa di discussione e aggiornamento sulla situazione internazionale che forse avrebbe portato a uno scontro, ma senza la quale non era possibile neanche una mediazione su un terreno, come si diceva una volta, più avanzato. Il governo è stato per cadere all'ombra d'un Afghanistan mentre - ma pare che nessuno lo abbia notato - Karzai era oggetto dell'attacco non dei talebani ma dei signori della guerra suoi alleati, e come lui assassini di Massud, nonché, come lui, profittatori del papavero.
Con chi stiamo in Afghanistan, per quale fine concreto ci siamo, quali alleanze sosteniamo oltre che essere contro i talebani e fino a ieri - ma non sarà così domani - in zone relativamente difese dalla loro guerriglia? Ne discute mai il parlamento, ne discutono fra loro i gruppi dell'Unione, ne discutono i partiti in qualche sede? Da fuori, l'impressione è che tutto, in Italia, si riduca ai numeri della politica interna e nient'altro.
Ultimo, per quale ragione fra i dodici punti voluti da Prodi sta il ritiro di quei Dico, versione edulcorata dei Pacs, dopo che era stato raggiunto un accordo fra le parti, la cattolica Bindi e la fin troppo mitemente laica Pollastrini? Quando i Pacs sono stati votati in Francia i vescovi non erano contenti né lo era Giovanni Paolo II, ma non sono stati minacciati fulmini e saette su chi li votava, eppure è un paese cattolico - di tiepidi cattolici, tale e quale noi. I soli ferventi di ubbidienza stanno, si direbbe, nel ceto politico, che dopo il 1948 aveva rifiutato di inginocchiarsi di fronte al sacro seggio e dopo il 1989 ha ricominciato a farlo. Più oltre, che idea ha l'Unione della separazione dei poteri fra stato e chiesa, «abc» delle moderne democrazia? Ratzinger può tuonare tutti i giorni contro il governo italiano perché, differentemente da quello francese e da quello spagnolo, questo dà all'oltretevere libertà di pascolo.
E' in atto un raddrizzamento al centro del voto del 2006, cui danno fiato i grandi giornali, in primis La Repubblica e Il Corriere della Sera. Essi premono esplicitamente su Prodi perché sbarchi Rifondazione e i Comunisti italiani, convinti che questo faciliterebbe lo scioglimento del sacro vincolo della Casa della Libertà. La gazzarra che s'è levata contro Turigliatto e Rossi, e il rispettoso silenzio sul voto delle vecchie volpi Andreotti e Cossiga (tipico l'editoriale dell'abitualmente ragionante Ezio Mauro) ha superato i limiti del ridicolo, parevano due inaspettati pugnalatori della Repubblica. Chi sostituirebbe i voti di Rifondazione e Pcdi? I grandi editorialisti non si soffermano su questa piccolezza, come se Berlusconi fosse un ostacolo minore. Né su chi sostituirebbe Prodi, che non è uomo per tutte le stagioni: forse hanno già un candidato. La brusca accelerazione del Partito democratico ne è un ulteriore segnale. Quel che conta è liberarsi di ciò che resta di rappresentanza del conflitto sociale, nelle istituzioni in modo da dare en passant anche un colpo decisivo ai sindacati.
E qui viene al dunque un discorso anche fra quelli di noi, per i quali visibilità e agibilità del conflitto sociale è la sola ragione di essere faticosamente ma ancora in scena. La storia del Novecento dovrebbe averci insegnato che una sinistra classista, sia pur vagamente marxista, in Italia è sempre stata minoritaria. Siamo un paese moderato che non ha mai dato una maggioranza neppure a comunisti, socialisti e socialdemocratici tutti assieme, e che sia stato così perché i comunisti erano troppo forti, è un ragionamento che lasciamo a il Riformista. E' un fatto che, finché c'è stato, il Partito comunista ha condizionato dall'opposizione molti e decisivi sviluppi del paese, e appena si è liquefatto in meno d'una socialdemocrazia siamo precipitati in un'inedita avventura di destra.
Adesso, all'inizio del terzo millennio e in piene declamazioni liberiste, da noi le sinistre radicali arrivano sì e no al 10 per cento del voto. Sono assai più forti nella società, perché, diversamente dalla massa atomizzata, sono fortemente motivate, ma quella storia ci ha insegnato anche che non è augurabile eludere quell'esprimersi indifferenziato che è il momento elettorale, a rischio di degradare al di qua d'una democrazia formale.
Non se ne deve conseguire che la sinistra-sinistra deve operare principalmente sulla società, conoscendola, imparandone e conquistandola e badando in pari tempo che la scena istituzionale non degeneri? Essa infatti non le rappresenterà mai nella loro interezza e potenzialità ma può precluderne ogni spazio ed espressione. Anche a non prevedere facili ritorni al fascismo, a questa chiusura siamo andati molto vicini con Berlusconi.
Ne viene, mi pare, che si tratta di muoversi sui due livelli senza confonderli. Alle camere i gesti eroici del tipo «Muoia Sansone con tutti i filistei» buttano di regola nella morte di Sansone e i filistei più vispi di prima. Sia detto senza offesa per nessuno, il voto dei due ribelli di Rifondazione comunista e dei Comunisti italiani, questo è stato. Siamo andati felicemente indietro. Inutile strillare; ma la destra, ma Andreotti, ma Prodi, ma D'Alema - non siamo nati ieri. Ancora più sciocco agitare la propria luminosa coscienza. Chi vuole difendere quella in uno splendido isolamento, non si metta in politica - che è un fare collettivo, o non è. Più seccamente, in Italia una sinistra che conti va ricostruita, e credo anche altrove. La fine del secolo è passata su di noi come uno tsunami. Non ci ha distrutti. Minoranze importanti crescono. Ma minoranze. Vediamo di coltivarle invece che affogarle. Anche il lievito è minoritario rispetto alla farina. Ma se non fa crescere l'impasto che lievito è?






28/02/2007 18:41
 
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Re: La Rossanda alimenta la mia confusione.

Scritto da: CorContritumQuasiCinis 28/02/2007 17.59



Articolo interessantissimo.

La chiusa è formidabile.



Autogol

Rossana Rossanda

Anche il lievito è minoritario rispetto alla farina. Ma se non fa crescere l'impasto che lievito è?





Però dalla farina si può fare il lievito, il lievito senza la farina non fa il pane....


Concordo con molte delle cose che dice la Rossanda.


[Modificato da lemiemanisudite2. 28/02/2007 18.54]



__________________________________________________
Una domanda per Obama. Ci invadete spontaneamente o dobbiamo proprio rifarlo tutto, il fascismo?

*********************
La palla che lanciai giocando nel parco non è ancora scesa al suolo.
01/03/2007 15:59
 
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Ieri in Laterano il convegno su Dan Brown e Augias

"Ritengo che si capisca molto meglio proprio se si prescinde dalla fede"

"Io, processato dalla Chiesa per il mio libro su Gesù"
di CORRADO AUGIAS


Ho assistito nei sontuosi palazzi lateranensi al "processo" contro i libri che pretendono di esaminare la figura di Gesù fuori dall'ortodossia della Chiesa: imputati impliciti o dichiarati Il Codice da Vinci e l'Inchiesta su Gesù che ho scritto con Mauro Pesce. Naturalmente non è stato un processo vero e proprio, ma una reprimenda. Affidata alla grande dottrina di monsignor Romano Penna che credo di poter così condensare: non si può parlare di Gesù senza misurarsi con le fonti.

Queste fonti sono al 99 per cento scritti di fede; ergo non si può parlare di Gesù senza la fede. Più volte, nel corso di questi mesi, ho sentito ripetere la tesi che non si può capire Gesù se si prescinde dalla fede, cioè valutandolo solo in base ai documenti e alla storia.
La mia idea è opposta: ritengo che Gesù si capisca molto meglio proprio se si prescinde dalla "fede" ovvero dalla teologia che nel corso dei secoli è stata costruita su di lui fin quasi a nasconderlo sotto un pesante mantello. La costruzione di una dottrina ha richiesto lo sforzo immane di rendere coerente ogni dettaglio della sua esistenza, anche nei periodi meno documentati.

La dottrina è complicata, ma Gesù è semplice. Egli parlava agli umili, per la gran parte poveri contadini analfabeti, il suo messaggio era diretto, le sue metafore prese dalla vita dei campi, dal succedersi delle stagioni. Si prova un profondo sollievo quando si esce dai fumi della teologia per avvicinarsi direttamente a lui. L'approccio di tipo storico è del resto giustificato dalla straordinaria riscoperta, negli ultimi sessanta anni, di molti documenti ebraici e cristiani antichi. Anche i vangeli canonici, letti alla luce di questa nuova documentazione, acquistano un senso diverso. Opporre la ricerca storica alla fede, renderle per così dire, nemiche, non è un giusto. Ha scritto il professor Pesce: "La ricerca storica non dipende né dalla fede, né dalla non-fede. Non impedisce di credere e non costringe a credere. E' una cosa diversa. Negare una conoscenza razionale indipendente dalle fedi, significa condannare la nostra società a una radicalizzazione dello scontro tra credenti e non credenti o tra credenti di fedi diverse".

Trovo appropriate queste parole del professor Norelli (Università di Ginevra): "La conoscenza storica ha le sue regole. Una di esse è che non è lecito allo storico pronunziarsi sulla realtà di Dio e sulla sua azione nella storia".

Un'altra accusa che mi è stata rivolta più volte è di aver insinuato la possibilità di rapporti omosessuali nella cerchia intorno a Gesù. Io ho fatto solo domande su un tema da qualche tempo ipotizzato. Il professor Pesce ha risposto che le voci sono infondate. Era mio dovere di cronista fare anche domande scomode. Insistere sull'argomento rivela a mio parere la difficoltà di trovare obiezioni più fondate. Ma la cosa che forse ha offeso di più il professor Pesce e me è averci accomunato nel biasimo a Dan Brown. Il suo libro è un romanzo, a mio parere mediocre. Il nostro è stato un tentativo di ritrovare in Gesù un affascinante connotato umano che spesso proprio la teologia gli ha sottratto.


(La Repubblica)
01/03/2007 16:15
 
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Ma cosa c'è di difficile nell'interpretare CON LA FEDE la frase
"è più facile che un cammello entri per la cruna di un ago che un ricco nel regno di Dio"?






Dovevo una risposta alle due analisi della Rossanda e di Sofri che ho tirato in ballo qualche giorno fa.

La Rossanda c'entra un punto che invece manca del tutto a Sofri: bisogna capire che cosa vogliamo fare, e dopo decidere come farlo.

In modo frammentario ho mosso più volte le mie critiche alla sinistra-sinistra (che a sua volta è composta da almeno due anime, a loro volta suddivise in spiriti e spiritelli): non ha ben chiaro cosa vuole e non ha la più pallida idea di come farlo.

Ma la sinistra-centro non ha molto da stare allegra: di certo ha le idee più chiare sul come, ma sul cosa mi pare che navighi a vista.
Cosa diavolo significa (cito a memoria) "il socialismo non si esaurisce nel partito democratico ma il partito democratico non si esaurisce nel socialismo"?

Il PD è un mezzo o un fine???
02/03/2007 20:39
 
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Prima di loro il diluvio

La canzone salvata dai Cantacronache

Quest’anno si celebra il compleanno di un importante progetto, e vogliamo essere fra i primi a sottolinearlo.
So che si preparano pubblicazioni e spettacoli e che in particolare Giovanni Straniero (oltre che affermato giornalista, il nipote di Michele L.) sta preparando una bella serie di iniziative con prestigiosi editori, coinvolgendo (addirittura) importanti istituzioni.
Prima ancora però che possiate scoprire o ri-scoprire il fenomeno dei Cantacronache per il suo proprio lavoro, mi piace dedicare questo articolo alla situazione da cui nacquero. Ho sempre pensato che accanto all’indiscutibile bellezza di alcune cose del loro repertorio e all’enorme importanza storica del progetto in sé, particolarmente eroico fu il valore creaturale del loro intervento. Per questo – per me che scrivo – la data del 1957 corrisponde esattamente alla nascita di una moderna canzone d’autore in lingua italiana.
Cantacronache è un nome che suona arcaico, distante, irraggiungibile; questo nome viene citato come una citazione obbligatoria, viene pronunciato senza riflessione e spesso con un po’ di spocchia. Questo nome viene ancora rivestito di molti pregiudizi a destra e anche a sinistra: “Furono velleitari, pionieristici, distaccati dalla realtà. Furono dei borghesi illuminati, ma sostanzialmente distanti dalle vere radici e preoccupazioni popolari”, ecc..
No compagni. Io penso che furono seminali. E a maggior ragione sono imprescindibili.
Nell’inverno fra il ’57 e il ’58 questo gruppo un po’ bohème di intellettuali, musicisti e scrittori di belle speranze, si era stancato di quello che passava il convento, e mai frase idiomatica esprime più acutamente il controllo sulla musica – cosiddetta leggera – che un asfittico panorama culturale perbenista e ottuso riusciva a conservare… una specie di radiovaticana su tutte le onde.
La letteratura italiana viveva il pieno del suo fulgore, era l’epoca in cui erano vivi e attivi Fenoglio, Calvino, la Ginzburg, Sciascia, Silone, Vittorini,… Il cinema splendeva ancora dei bagliori del neorealismo e di tutti i suoi mostri sacri.
Giusto la canzone era confinata e negletta a razzolare sul fondo senza storia delle mamme, delle edere, dei papaveri e delle papere. Per questo è anche giusto tentare di vederci chiaro e capire come mai mentre – per restare nel campo della francofonia, che come sapete mi è particolarmente caro – altrove la canzone era già un genere maturo, d’autore direbbe Enrico De Angelis, invece qui in Italia questo genere era rimasto così indietro e tanto faticava ad affermarsi.
Agli inizi del ’900, l’Italia, da meno di mezzo secolo unificata, si trova in mano una bella tradizione profondamente radicata, erede com’è del melodramma e della romanza (il lied in versione nostrana), ma comunque altissima e feconda. Consideriamo anche come la straordinaria esperienza della canzone partenopea in quegli anni sia proprio all’apice del suo splendore per merito di una nutrita coorte di artisti quali Di Giacomo, Murolo (Ernesto, il padre di Roberto), E. A. Mario, Armando Gill.
Proprio questi poeti sono sostanzialmente pronti a convertirsi, preso atto della necessità – anzitutto commerciale – di una unificazione linguistica, nella canzone in italiano, prova ne sia che il padre dei due capolavori della canzone napoletana e italiana d’inizio secolo, rispettivamente Reginella e Signorinella, risponde al medesimo nome di Libero Bovio e che Armando Gill scrisse (e interpretò) Come pioveva.
Però sui primi timidi tentativi, ancora ovviamente datatissimi e retrò, di uscire dal tema sentimentale o patriottico e di affrontare descrizioni esistenziali e sociali (Addio tabarin e Scettico blu, quest’ultima condita persino di un pizzico – più enunciato che praticato – di esotismo musicale: blu si doveva leggere come un’italianizzazione di blues), si abbattè il Min. Cul. Pop., perversamente intelligentissimo!
Ben più che i libri degli intellettuali antifascisti, colti ma sostanzialmente inoffensivi sul piano sociale, quali Benedetto Croce lasciato libero di pubblicare durante il ventennio con la Laterza, l’occhiuto ministero sa che deve presidiare, con la più grande e meschina attenzione, i meccanismi di comunicazione popolare, che senza darlo a vedere corrono di bocca in bocca per strade e piazze, virtualmente inarrestabili: il cinema e soprattutto, per la sua facilità di diffusione, la canzone.
Il cinema dei cosiddetti telefoni bianchi trova ancora i suoi estimatori, e in ogni caso intrattiene un più virtuoso rapporto con i film prodotti all’estero, pur recando chiaramente le tracce di un pesante controllo. La canzone invece viene realmente distrutta, fa un balzo indietro perdendosi in un’arcadia stucchevole e irritante, e diseduca pesantemente l’orecchio del pubblico con l’ammorbante riproposizione di stilemi che terranno botta fino appunto agli anni ’60, per certi versi ancora fino a oggi.
Arriva la liberazione, la speranza, la rivincita (che in verità sul piano culturale appare decisamente meno tradita che sul piano politico). Le arti ne hanno una straordinaria rivitalizzazione, dicevamo – soprattutto la narrativa e il cinema –, per la canzone però il tempo sembra non passare.
Nasce il Festival di Sanremo, e pur con le frontiere aperte all’importazione del jazz, per non parlare di quello che avviene oltre il vicinissimo confine francese, Grazie dei fiori è una canzone che non sarebbe dispiaciuta alla trista memoria del Ministero della Cultura Popolare.
Qualcosa però doveva pur cambiare: nel ’58 sarebbe arrivato Modugno, con la sotterranea travolgente forza del canto popolare, un canto gutturale, mutuato dai cantastorie, dai pescivendoli salentini, che invece di tenersi le mani sul cuore sospiroso, le avrebbe spalancate nell’affanno sensuale di Volare!
Ma se di questa rivoluzione formale tutti ne ebbero contezza, del fatto che una schiera di anticipatori lavorava, anche sul piano dei contenuti, all’ombra della Mole, pochi lo sapevano.
Erano senz’altro tutti sinistrorsi, ma nemmeno troppo organici al partitone comunista: Michele L. Straniero proveniva dai cattolici del dissenso, e per tutta la vita sarebbe rimasto profondamente interessato al tema della religiosità popolare e ai problemi della fede; Fausto Amodei era un giovane socialista dalle idee piuttosto radicali e profondamente imbevuto dei temi del pacifismo alla Bertrand Russell, e quanto alla canzone, essendo Brassens il suo nume tutelare, molto dell’umanesimo anarchico di quest’ultimo si specchiava nella sua vocazione; Margot, al secolo Margherita Galante Garrone, la grande interprete del gruppo, era la figlia di Alessandro, il magistrato e storico antifascista.
Sergio Liberovici, musicista colto e raffinato, fu colui che nutrì il progetto con le sue intuizioni: “…l’idea di fare delle canzoni di valore critico-contingente… ma come le scrivo queste canzoni? Facilone, per grosso pubblico, tipo canzonette? Oppure tipo lieder? (…) A San Donaci, un paesino in provincia di Brindisi, i contadini protestano per la diminuzione del prezzo delle uve all’ammasso: abbandono delle campagne, cortei, comizi, polizia che spara sulla folla, morti per le strade e nei campi, tutto finito. L’episodio mi colpì enormemente e sentii l’esigenza di trasferire quella emozione in una composizione musicale; una composizione che non fosse però qualcosa di solito (almeno per me), come una cantata o un’opera lirica o un balletto, bensì un brano agile, scorrevole, in grado magari di raggiungere quelle stesse popolazioni del sud e di acquisire alle loro orecchie ed alle loro menti il valore di una testimonianza, di una concreta solidarietà (…)” (S. Liberovici, diario, settembre ’57).
Le linee guida erano chiare; i primi protagonisti, quelli più disponibili a sobbarcarsi la fatica e i contatti, c’erano. Cominciò febbrile la ricerca di nuove collaborazioni, cominciò a stendersi un progetto multiculturale che voleva attrarre giovani musicisti (Giacomo Manzoni e Piero Santi), scrittori (Calvino, Fortini), uomini di teatro (Parenti, Fo, Durano), ma anche grafici che disegnassero copertine e manifesti. Insomma, un tentativo di arte totale che rompesse gli schemi esistenti.

Il debutto discografico e l’attività concertistica del gruppo ebbe sviluppo a partire dall’anno successivo, dal ’58, e senz’altro a dire esattamente il quid dei Cantacronache, ad analizzare le loro opere, dedicheremo dei futuri articoli, ma volevo anticipare l’atmosfera generale, la contingenza storica, l’assenza di ogni cosa, la melassa commerciale da cui questi ragazzi fecero germogliare – nel silenzio e forse nell’incomprensione – un genere nuovo, che si caratterizzò per la sua vocazione a confrontarsi con la storia, a sporcarsi le mani con la realtà.
Ma cosa ce ne può fregare oggi? Parlare di Cantacronache oggi non equivarrà a fare un’operazione nostalgica?
Anche oggi ci troviamo immersi nella melassa e circondati da un infestante rumore che assomiglia molto al silenzio, anche oggi pare che a volersi muovere in quel senso si gettino colpi di spada nell’acqua. In meno dei Cantacronache abbiamo giusto la speranza. Però, sappiamo anche che dei Cantacronache ci sono già stati, e che l’esempio e la memoria sono gli stimoli per ricominciare

Alessio Lega

(A - Rivista Anarchica)
06/03/2007 16:06
 
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E' un po' lungo ... ma ne vale la pena (?)




... la primavera, intanto, tarda ad arrivare.
06/03/2007 16:43
 
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Parliamone?
Mi piacerebbe parlarne, o meglio, ascoltarne...


Giusto per scrollarmi via la sensazione che il latte sia ormai versato.


Poter criticare le strategie militari NATO senza sentirmi dare dell'antiamericano, e parlare di strategie militari senza sentirmi dare del guerrafondaio imperialista.


Da qualche giorno, leggendo i giornali, ascoltando la televisione, sento la parola "rappresaglia" venir pronunciata con leggerezza, en passant.

Ho i brividi.

Quando ho imparato il significato della parola "rappresaglia" ero un bambino di neanche dieci anni, la sentii pronunciare dalla mia bisnonna che mi raccontava l'episodio delle Fosse Ardeatine.


Se guardi troppo l'abisso...
12/03/2007 16:56
 
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Son paranoico io, o ci vedete un ricatto anche voi?

http://ilrestodelcarlino.quotidiano.net/art/2007/03/12/5466940
12/03/2007 18:41
 
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14/03/2007 09:22
 
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18/03/2007 02:35
 
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Un articolo proprio per CorContritumQuasiCinis
e per conoscenza al forum tutto.


"Le sfaccettature dell'individuo impigliato nell'individualismo"
di Evelyne Pieiller

su Le Monde Diplomatique di Marzo 2007 (edizione italiana)


Procurate(ve)lo.


Qualcuno lo avrebbe potuto intitolare "Sai che fortuna essere liberi essere passibili di libertà che sembrano infinite"
19/03/2007 10:07
 
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Re: Parliamone?

Scritto da: astrodanzante 06/03/2007 16.43
Mi piacerebbe parlarne, o meglio, ascoltarne...


Giusto per scrollarmi via la sensazione che il latte sia ormai versato.


Poter criticare le strategie militari NATO senza sentirmi dare dell'antiamericano, e parlare di strategie militari senza sentirmi dare del guerrafondaio imperialista.


Da qualche giorno, leggendo i giornali, ascoltando la televisione, sento la parola "rappresaglia" venir pronunciata con leggerezza, en passant.

Ho i brividi.

Quando ho imparato il significato della parola "rappresaglia" ero un bambino di neanche dieci anni, la sentii pronunciare dalla mia bisnonna che mi raccontava l'episodio delle Fosse Ardeatine.


Se guardi troppo l'abisso...



1 - Ma è così importante ciò che giudicherebbero altre persone che in linea generale hanno la tua stessa propensione al pensiero di sinistra. Non potrebbero accettare una critica o l'insinuarsi di un dubbio?

2 - I Giornali usano i termini anche a seconda della loro direzione politica.
Una frase di qualcuno diceva:"non mi piace la letteratura tedesca perchè si sente sempre in dovere di pensare al passato facendosi i conti del macellaio con la storia".

Detto questo, credi che possa dire di sentirmi d'accordo con questa frase senza sentirmi dire che sono un Nazista o un Fascista o peggio un Conservatore?
19/03/2007 17:01
 
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Un video proprio per batto
Video


E a quelli interessati alle disavventure della futurista terra pontina, sede di interessanti esperimenti sociali.
21/03/2007 14:53
 
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Re: Un articolo proprio per CorContritumQuasiCinis

Scritto da: astrodanzante 18/03/2007 2.35
e per conoscenza al forum tutto.


"Le sfaccettature dell'individuo impigliato nell'individualismo"
di Evelyne Pieiller

su Le Monde Diplomatique di Marzo 2007 (edizione italiana)


Procurate(ve)lo.


Qualcuno lo avrebbe potuto intitolare "Sai che fortuna essere liberi essere passibili di libertà che sembrano infinite"




Ho letto l’articolo, caro AstroPe(n)sante. E grazie per averc(m)elo proposto.
Avevi ragione: molto interessante.

Interessante e non privo di spunti per un’attenta riflessione su quella pratica di individualismo sempre più … individuale e sul legame tra concezione contemporanea dell’io, dei suoi obiettivi, della sua libertà e le democrazie basate sull’economia liberista.

E sarei quasi tentato di procurami i saggi di Olivier Rey, Daniel Bougnoux e altri, sui quali si basa l’analisi di cui si parla.

Alla prima lettura e in particolar modo in alcuni passaggi, facendo da strumento i miei “azzardati” voli pindarici che mi contraddistinguono, ci ho letto un po’ di quel Pasolini di progresso e sviluppo. Ma lascio a chi lo leggerà di confutare quanto testè da me affermato.
Sarei tentato, altresì, di approfondire il discorso, ma non è questo il luogo, credo, adatto né tanto meno ho il tempo materiale per farlo.

Comunque, in tema di pensatori francesi (… prima o poi dovrò riparare in Francia) vi riporto il seguente articolo.

Però non prima di avervi proposto la lettura di un articolo, per me interessantissimo e propedeutico alla comprensione dello status quo di determinate problematiche, di Stefano Rodotà riportato da La Repubblica di oggi.

____________________________________________________


J’accuse di René Girard


Gli intellettuali sono castratori di significato: “Dopo il linguaggio stanno decostruendo l’uomo”. Microeugenetica, un sacrificio umano. “La sessualità è il problema, non la soluzione”. Le idee spietate di un grande pensatore


Nonostante gli ottantaquattro anni, René Girard non ha perso niente della fibra di pensatore radicale, quasi terminale. Sta lavorando a un nuovo saggio su Karl von Clausewitz. Autore di opere capitali del pensiero contemporaneo come “La violenza e il sacro” e “Il capro espiatorio”, eletto fra i quaranta “immortali” dell’Académie française, René Girard è il più grande antropologo vivente insieme a Claude Lévi-Strauss.

In questa intervista al Foglio, Girard torna su quella che ha definito “la grande questione antropologica del nostro tempo”.

Apre con una domanda: “Può esserci una antropologia realistica che precede la decostruzione? In altre parole: è lecito e ancora possibile affermare una verità universale sul genere umano? L’antropologia contemporanea, strutturalista e postmoderna, nega quest’accesso alla verità. Il pensiero attuale è la castrazione del significato. Sono pericolosi questi tentativi di mettere in discussione l’uomo”.

E’ questa l’origine, secondo Girard, dello “skandalon” della religione nell’epoca della neosecolarizzazione. “A partire dall’illuminismo, la religione è stata concepita come puro non sense. August Comte aveva una teoria precisa sull’origine della verità e il suo intellettualismo ottocentesco ricorda molto quello in voga oggi. Comte diceva che ci sono tre fasi: religiosa, che è la più puerile; filosofica e infine scientifica, la più vicina alla verità. Oggi nel discorso pubblico si mira a definire la ‘non verità’ della religione, indispensabile invece per la sopravvivenza della specie umana. Nessuno si domanda quale sia la funzione della religione, si parla solo di fede: ‘Io ho fede’. Ma poi? La teoria rivoluzionaria di Charles Darwin sperava di aver dimostrato l’inutilità di una istituzione antica quindicimila anni come la religione. Oggi ci si prova nella forma del caos genetico enunciato dal neodarwinismo. Si prenda uno scienziato come Richard Dawkins, è un pensatore estremamente violento e vede la religione come qualcosa di delinquenziale”.

La religione ha una funzione che va oltre la fede e la veridicità del dono monoteista: “La proibizione dei sacrifici umani. Il mondo moderno ha deciso che è la proibizione il non sense. La religione è tornata a essere concepita come il costume del buon selvaggio, uno stato primitivo di ignoranza sotto le stelle. La religione è invece necessaria a reprimere la violenza. L’uomo è una specie unica al mondo: l’unica che minacci la propria sopravvivenza attraverso la violenza. Gli animali durante la gelosia sessuale non si uccidono a vicenda. Gli esseri umani sì. Gli animali non conoscono la vendetta, la distruzione della vittima sacrificale legata alla natura mimetica delle moltitudini plaudenti”.

Oggi si accetta solo una definizione di violenza come pura aggressione: “E’ perché si vuole renderla innocente. La violenza umana è invece desiderio e imitazione. Il postmodernismo non riesce a parlare di violenza: la pone fra parentesi e semplicemente ne ignora l’origine. E con essa la verità più importante: la realtà è da qualche parte accessibile”.

René Girard proviene dal radicalismo francese. “Mi sono riempito la testa con le pagliacciate e il semplicismo mediocre e stupido dell’avanguardia. So bene quanto la negazione postmoderna della realtà possa condurre al discredito della domanda morale dell’uomo. L’avanguardia un tempo relegata in ambito artistico oggi si estende a quello scientifico che ragiona sull’origine dell’uomo. In un certo senso, la scienza è diventata una nuova mitologia, l’uomo che crea la vita. Così, ho accolto con grande sollievo la definizione di Joseph Ratzinger di ‘riduzionismo biologico’, la nuova forma di decostruzione, il mito biologista. Mi ritrovo anche nella distinzione dell’ex cardinale fra scienza e scientismo”.
L’unica grande differenza fra l’uomo e la specie animale è la dimensione religiosa. “E’ questa l’essenza dell’esistenza umana, è l’origine della proibizione dei sacrifici e della violenza. Dove si è dissolta la religione, lì è iniziato un processo di decomposizione. La microeugenetica è la nuova forma di sacrificio umano. Non proteggiamo più la vita dalla violenza, schiacciamo invece la vita con la violenza. Per cercare di appropriarci del mistero della vita a nostro beneficio. Ma falliremo. L’eugenetica è il culmine di un pensiero iniziato due secoli fa e che costituisce il più grande pericolo per la specie umana. L’uomo è la specie che può sempre distruggere se stessa. Per questo ha creato la religione”.

Oggi ci sono tre aree in cui l’uomo è in pericolo: nucleare, terrorismo e manipolazione genetica. “Il Ventesimo secolo è stato il secolo del classico nichilismo. Il Ventunesimo sarà il secolo del nichilismo affascinante. Aveva ragione C. S. Lewis quando parlava di ‘abolizione dell’uomo’. Michel Foucault aggiunse che l’abolizione dell’uomo sta diventando un concetto filosofico. Non si può più parlare oggi dell’uomo. Quando Friedrich Nietzsche annunciò la morte di Dio, in realtà stava annunciando la morte dell’uomo. L’eugenetica è la negazione della razionalità umana. Se si considera l’uomo come mero e grezzo materiale da laboratorio, un oggetto manipolabile e malleabile, si può arrivare a fargli qualsiasi cosa. Si finisce per distruggere la fondamentale razionalità dell’essere umano. L’uomo non può essere riorganizzato”.

Secondo Girard, oggi stiamo perdendo di vista anche un’altra funzione antropologica, quella del matrimonio. “Una istituzione precristiana e valorizzata dal cristianesimo. Il matrimonio è l’indispensabile organizzazione della vita, legata alla richiesta umana di immortalità. Creando una famiglia, è come se l’uomo perseguisse l’imitazione della vita eterna. Ci sono stati luoghi e civiltà in cui l’omosessualità era tollerata, ma nessuna società l’ha messa sullo stesso piano giuridico della famiglia. Abbiamo un uomo e una donna, cioè sempre un’opposizione. Alle ultime elezioni americane del 2006, la vera vittoria è stata del matrimonio naturale ai referendum”.

La noia metafisica dell’Europa

L’Europa è immersa in quella che l’arabista della Sorbona Rémi Brague chiama noia metafisica. “E’ una bella definizione, anche se mi pare che la superiorità del messaggio cristiano diventi ogni giorno più visibile. Quando è più attaccato, il cristianesimo brilla di maggiore verità. Essendo la negazione della mitologia, il cristianesimo splende nel momento in cui il nostro mondo si riempie di nuove mitologie sacrificali. Lo skandalon della rivelazione cristiana l’ho sempre inteso in maniera radicale. Nel cristianesimo, anziché assumere il punto di vista della folla, si assume quello della vittima innocente. Si tratta di un capovolgimento dello schema arcaico. E di un esaurimento della violenza”.

Girard parla di ossessione per la sessualità. “Nei Vangeli non c’è nulla di sessuale e questo fatto è stato completamente romanticizzato dalla gnosi contemporanea. La gnosi da sempre esclude categorie di persone e le trasforma in nemici. La cristianità è l’esatto contrario della mitologia e della gnosi. Oggi avanza una forma di neopaganesimo. Il più grande errore della filosofia postmoderna è aver pensato che potesse gratuitamente trasformare l’uomo in una macchina di piacere. Da qui passa la disumanizzazione, a cominciare dal desiderio falso di prolungare la vita sacrificando beni più grandi”.

La filosofia postmoderna si basa sull’assunzione che la storia sia finita. “Da qui nasce una cultura schiacciata sul presente. Da qui origina anche l’odio per una cultura forte che afferma una verità universale. Oggi si crede che la sessualità sia la soluzione a tutto, invece è il problema, la sua origine. Siamo continuamente persuasi da una suggestiva ideologia del fascino. La decostruzione non contempla la sessualità all’interno della follia umana. La nostra pazzia è dunque nel voler banalizzare la sessualità facendone qualcosa di frivolo. Spero che i cristiani non seguano questa direzione. Violenza e sessualità sono inseparabili. E questo perché si tratta della cosa più bella e turpe che abbiamo”.

E’ in corso un divorzio fra umanità e sintassi, realtà e linguaggio. “Stiamo perdendo ogni contatto fra il linguaggio e le regioni dell’essere. Oggi crediamo solo al linguaggio. Amiamo le favole più che in qualunque altra epoca. La cristianità è una verità linguistica, logos, Tommaso d’Aquino è stato il grande promulgatore di questo razionalismo linguistico. Il grande successo della cristianità angloamericana e dunque degli Stati Uniti si deve non a caso a straordinarie traduzioni della Bibbia. Nel cattolicesimo oggi c’è fin troppa sociologia. La chiesa è troppo spesso compromessa con le lusinghe del tempo e il modernismo. In un certo senso i problemi sono iniziati con il Concilio Vaticano II, ma risalgono alla precedente perdita dell’escatologia cristiana. La chiesa non ha abbastanza riflettuto su questa trasformazione. Come possiamo giustificare la totale eliminazione dell’escatologia persino nella liturgia?”.

Da Il Foglio - 20 marzo 2007


21/03/2007 17:25
 
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Se il mio è la criticità, il tuo potrebbe essere la proposta.

Il suo punto di forza è l'aver funzionato per almeno un paio di millenni.

La sua debolezza è l'aver smesso di funzionare.



Giò, questi son discorsi da vino rosso, non da pagine verdi [SM=g27828]
22/03/2007 15:42
 
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Scritto da: CorContritumQuasiCinis 21/03/2007 14.53




Però non prima di avervi proposto la lettura di un articolo, per me interessantissimo e propedeutico alla comprensione dello status quo di determinate problematiche, di Stefano Rodotà riportato da La Repubblica di oggi.






Credo e spero che a qualcuno possa interessare:


Il conflitto tra Stato e Chiesa e i diritti "non negoziabili"

di Stefano Rodotà

La Repubblica, 21 marzo 2007

Spero che anche i più pigri e distratti si siano resi conto che siamo ormai di fronte ad un conflitto tra due poteri, lo Stato e la Chiesa, non governabile con le categorie tradizionali dell’ingerenza più o meno legittima delle gerarchie ecclesiastiche o con il riferimento al Concordato. E il terreno dello scontro è sostanzialmente quello dei diritti fondamentali della persona, a loro volta parte di una più generale questione dei diritti, quelli legati all’innovazione scientifica e tecnologica e quelli sociali, tema centrale della discussione pubblica in moltissimi paesi (e con il quale dovrebbe misurarsi chi continua a porre interrogativi su significato e sopravvivenza delle categorie di destra e sinistra, come hanno fatto negli ultimi tempi il mensile inglese “Prospect” e quello francese “Philosophie Magazine”).
Il conflitto tra poteri emerge dalle ultime prese di posizioni della Chiesa, che più nitide e radicali non potrebbero essere. Benedetto XVI ha indicato una serie di valori che "non sono negoziabili" e che impongono ai legislatori cattolici " di "presentare e sostenere leggi ispirate ai valori fondanti della natura umana" (13 marzo). La Pontificia Accademia per la vita ha "raccomandato una coraggiosa obiezione di coscienza" a tutti i credenti, e in particolare a "medici, infermieri, farmacisti e personale amministrativo, giudici e parlamentari ed altre figure professionali direttamente coinvolte nella tutela della vita umana individuale, laddove le norme legislative prevedessero azioni che la mettono in pericolo" (16 marzo). In concreto, questo significa che i valori di riferimento dei legislatori non devono più essere quelli definiti dalla Costituzione, ma quelli di un diritto naturale di cui la Chiesa si fa unica interprete. A questo si accompagna un esplicito rifiuto dell’ordine civile, rappresentato dalla legittima legislazione dello Stato ritenuta non conforme a quei valori, che persino i giudici non dovrebbero applicare. La rottura è netta. Viene posto un limite esplicito al potere del Parlamento di decidere liberamente sul contenuto delle leggi, con l’ulteriore ammonimento che, qualora quel limite non fosse rispettato, si troverebbe di fronte alla rivolta dell’intera società cattolica.
Esplosa negli ultimi tempi, questa posizione ha avuto una lunga incubazione, è stata colpevolmente sottovalutata e non può essere spiegata con riferimenti solo alla fase più recente. So bene che le autocitazioni non sono eleganti. Ma in un mio articolo, apparso il 26 settembre 1991 su questo giornale con il significativo titolo "La restaurazione del Cardinale Ruini", sottolineavo proprio che nei discorsi di Ruini si trovava un "impegnativo programma politico", costruito intorno a "valori a difesa dei quali i cattolici, compatti, dovrebbero schierarsi", e al quale i cattolici in Parlamento dovevano conformarsi. Già sedici anni fa chi avesse occhi per vedere poteva ben rendersi conto di quel che sarebbe successo.
Ora le cose sono andate assai più avanti, e l’analisi della situazione attuale non può essere condotta limitandosi a ripetere che bisogna respingere l’interferenza dei vescovi (ne ero convinto già nel 1991). Siamo di fronte ad un modo d’essere della Chiesa che si presenta e si organizza in forme ritenute necessarie per salvaguardare valori che lo Stato non sarebbe più in grado di garantire. La contrapposizione è frontale, la strategia è quella propria di un soggetto politico. E’ una realtà scomoda per chi ha ignorato i segnali che si accumulavano negli anni per il timore d’un conflitto con la Chiesa, e che oggi si trova di fronte ad un conflitto assai più profondo di quello che si è cercato di schivare. E’ una realtà scomoda per chi vorrebbe vedere nelle parole delle gerarchie ecclesiastiche nient’altro che la manifestazione della sua vocazione pastorale. Ed è una realtà che negli ultimi giorni ha assunto una tale evidenza, per la schiettezza con cui parla la Chiesa, che diventa sempre più difficile negarla parlando di forzature interpretative "laiciste".
La prima vittima di questo stato delle cose è il dialogo, che a parole molti dichiarano di volere. Ma il dialogo non è possibile quando una delle parti afferma d’essere depositaria di valori appunto "non negoziabili", e prospetta una rivolta permanente contro lo Stato. Vi è chi, come il cardinale Martini, cerca di rompere questo schema, ricordando che le parole della Chiesa non devono cadere "dall’alto, o da una teoria". Ma, come già era avvenuto per la sua posizione sul caso Welby, anche questa volta l’ufficialità ecclesiastica ne respinge le indicazioni. In questo modo, però, non è una opinione personale ad essere cancellata. Quando il dialogo scompare, quando la verità assoluta esclude l’attenzione per il punto di vista altrui, è la logica democratica ad essere sacrificata.
Ma, si dice, la non negoziabilità di quei valori nasce dal fatto che essi sono radicati nella natura stessa, fanno parte di un diritto naturale che l’uomo, dunque il legislatore, non può scalfire. In tempi non sospetti, tuttavia, Norberto Bobbio ha opportunamente ricordato che, "purtroppo, ‘natura’ è uno dei termini più ambigui in cui sia dato imbattersi nella storia della filosofia" e che sono almeno otto i significati di natura, e di diritto naturale. Chi scioglie questa ambiguità, chi sceglie tra le molte accezioni possibili? In definitiva, chi può parlare in nome della natura? E’ evidente che la pretesa d’avere il monopolio in questa materia rivela una attitudine autoritaria, non compatibile con le regole d’un sistema democratico. Non a caso, per evitare che l’azione pubblica fosse sottomessa a tavole di valori fissate in modo arbitrario o autoritario, si è affidata alle costituzioni la determinazione in forme democratiche dei valori comuni di riferimento, passando così ad uno "Stato costituzionale di diritto". Sostituire ai valori costituzionali quelli attinti ad una natura costruita in modo autoritario porta con sè una regressione culturale che, di nuovo, nega la logica della democrazia.
Altro è, evidentemente, sottolineare le novità, anche antropologiche, che il nuovo contesto scientifico e tecnologico propone, e chiedere che di questo si discuta apertamente. Presente e futuro sono carichi di incognite che richiedono una comune ricerca. Ma, per fare questo, bisogna appunto ricostruire le condizioni del dialogo tra persone di buona volontà, liberarsi dei dogmatismi, non rinserrarsi nelle proprie certezze e pretendere di imporle agli altri.
Le distorsioni della discussione sono evidentissime se si guarda ai problemi specifici. Si dice, ad esempio: invece di pensare al testamento biologico occupiamoci delle terapie antidolore, evitiamo l’abbandono e la solitudine dei morenti; invece di pensare ai Dico mettiamo a punto adeguate politiche della famiglia. Ma non v’è alcun contrasto tra queste iniziative, e le incompatibilità prospettate sono solo un modo per mascherare l’ostilità ai nuovi strumenti che si vogliono introdurre nella nostra legislazione.
Se si vuol discutere seriamente, bisogna ricordare che riconoscimento del testamento biologico e attenzione per le cure palliative convivono in molti paesi, anzi si sostengono reciprocamente, poiché il testamento biologico è un documento che consente di manifestare anche le proprie volontà sulle terapie contro il dolore. E in Francia, tanto per fare un solo esempio, la legge sui Pacs (ben più incisiva e chiara delle nostre proposte sulle unioni di fatto) convive con una delle più avanzate politiche di sostegno alla famiglia.
Se si vuol fare riferimento all’umanità e comprendere davvero le necessità e le sofferenze della gente, come ci incita a fare il cardinal Martini, bisogna abbandonare il dogmatismo e parlare di cose concrete. Cure palliative al primo posto? Benissimo. Si sappia, allora, che in Italia i centri specializzati sono 102 da Roma in su, e solo 5 nel resto del paese; e che a Milano un grande ospedale ha chiuso il reparto per le cure contro il dolore perché economicamente non rendeva. Politiche per la famiglia? Benissimo. Si legga, allora, quel che Massimo Livi Bacci scrive con il consueto rigore sulla situazione francese, mostrando quali debbano essere le azioni da condurre e quali gli investimenti necessari.
Liberi da dogmatismi e pretese autoritarie, possiamo meglio cogliere i valori di riferimento e le politiche da intraprendere. Da una parte, riconoscimento alle persone del diritto di governare liberamente la propria vita e di organizzare le relazioni personali, come già nitidamente ci dice la Costituzione. Dall’altra, rinnovata e forte attenzione pubblica, che è la condizione perché le scelte possano essere compiute responsabilmente e al riparo da ogni costrizione. Ma le politiche pubbliche, in queste materie, sono fatte di investimenti e di servizi, esattamente l’opposto delle derive privatistiche e liberistiche alle quali ogni giorno qualcuno incita.
















12/05/2007 09:36
 
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NON SOLO IL PAPA MA BENIGNI, DALLA, FERRETTI







Davide Rondoni




Insieme al Papa arrivano anche loro, se così si può dire. Benigni, Dalla, la Merini, Lindo Ferretti, e altri… Strana, misteriosa contemporaneità. Il Papa fa un libro su Gesù e anche artisti vari, con le loro storie le sensibilità e i loro talenti, parlano di Gesù. Lo fanno da artisti, con la loro piccola o strana fede, ma lo fanno, e fanno volgere gli occhi di tanti alla presenza e al mistero di Lui.




Non è marketing, e non è però nemmeno un caso. Sembra che di Gesù Cristo pensavamo di saper tutto e invece no, c'è da sapere tutto di nuovo. Come se non fosse un racconto che è finito ieri, ma una storia che continua oggi e allora c'è da comprendere, da gustare bene di che si tratta. L'altra sera Roberto Benigni ha avuto la cortesia di invitarmi ad assistere a Roma a uno dei suoi show intorno a Dante, e di citarmi durante la serata. Per telefono mi aveva ringraziato perché usa cose prese dai miei scritti. E, tra l'altro, il commento al fatto con cui inizia il cristianesimo. Il sì libero che Maria dice a Dio, il Quale dall'eternità era lassù perso nel pensiero di come fare a salvare l'uomo. Voleva farlo attraverso un amore libero, poiché a farsi amare obbligatoriamente non c'è senso. Finché, appunto, vede quella ragazza di sedici anni, e lei dice liberamente sì… C'è questo, e molto altro a riguardo di Gesù, nelle due ore e mezze di spettacolo, concluse con il pubblico in piedi commosso e ammutolito mentre applaudiva. Benigni innalza un inno tenerissimo e simpatico, audace e appassionato all'animo italiano capace di grandezze in ogni campo e formato dal cristianesimo. E con continui riferimenti al Vangelo, mischiato come dev'essere con la vita di oggi, tra battute e momenti da brivido e di magone, invita il pubblico a rendersi conto della irripetibilità di ogni persona, del fascino e del rischio della libertà, del miracolo di incontrare l'amore.
Uno spettacolo da morir dal ridere, e da zittirsi. Un viaggio tra le miserie della vita quotidiana sociale e politica - ma m ai trattate con acidità, sempre con una ultima specie di simpatia - e dentro il capolavoro dantesco, visione umanissima della vita e del problema del destino.
Negli stessi giorni un altro amico, noto artista, Lucio Dalla, mi invitava a Parma ad assistere alla lettura da lui musicata, ad opera del bravo Marco Alemanno, di un testo di Alda Merini dedicato alla passione di Cristo. Un testo, lieve e profondo, amato e restituito dai due artisti con lo sfondo musicale della Orchestra Toscanini. E anche lì, pubblico stupito e commosso per quel che aveva ascoltato, cosa antica e nuovissima. Poche settimane fa, infine, Lindo Ferretti, icona del rock estremo italiano, ha letto davanti a centinaia di persone, un mio poema dedicato al Compianto per il Cristo morto.
Insomma, che cosa sta succedendo? Perché numerosi artisti, e con loro, numerose persone si mettono a guardare Gesù Cristo? Qualcuno dirà: non è una novità, gli artisti han sempre fatto attenzione alla Chiesa e alla fede, se non altro per problemi di committenza. Ma appunto, invece ora non c'è nessun motivo esteriore, non si tratta di opere che questi artisti sono in qualche misura "obbligati" a fare, ma si tratta di loro personali e particolari percorsi. E non mi pare che esistano leggi di mercato che consigliano di trattare il tema Gesù, anzi…Ma loro arrivano, come è arrivato anche il Papa, proponendo il loro personale, discutibile e appassionato modo di affrontare Gesù. Non vogliono insegnare niente, né devono esibire fedi perdute o ritrovate.
Insieme al Papa che parla di Gesù arrivano anche loro, gli artisti. Meno noiosi dei filosofi, dei commentatori, più bizzarri e geniali, più criticabili e incostanti. Un po' come tutti, in fondo.

Avvenire 29 aprile 2007


B.

...sfuggo per un attimo al mondo della divisione ed entro nel mondo dell'unità,
dove una cosa, una creatura dice all'altra
"questo sei tu".



" Soltanto chi non ha bisogno nè di comandare nè di
ubbidire è davvero grande ".

J.W.Goethe
24/05/2007 11:19
 
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La sindrome del Palazzo
di Stefano Rodotà

Repubblica, 22 maggio 2007

L’immagine del Palazzo è antica, parla di distanza, privilegi, addirittura di sopraffazione. Entra nella pubblica discussione italiana quando se ne impadronisce Pier Paolo Pasolini e la brandisce come un’arma per denunciare corruzione politica e abusi di potere, invocando per il massimo responsabile, all’epoca indicato nella Dc, un Processo. Nessuno, già allora, poteva dire "non so", ma quasi tutti si comportavano come se non sapessero.
Anzi, chi invocava "austerità" e parlava di "questione morale" veniva accusato di volere una politica triste, di cedere al moralismo, parola in Italia usata con disprezzo per affrancarsi anche dagli obblighi minimi della moralità. Era Enrico Berlinguer che lanciava quei moniti, e so bene che questo è un ricordo scomodo per chi vuole entrare nel futuro senza memoria, costruirsi un pantheon di comodo, affannarsi alla ricerca di qualsiasi legittimazione. Ma è un ricordo importante proprio perché oggi si discute del rapporto tra politica e società, tanto logorato da far temere una catastrofe. Quando Berlinguer morì, un’onda di emozione attraversò il Paese, che non era solo un fatto di sentimenti (che pure contano assai), ma che si tradusse in consenso politico nelle elezioni europee di poco successive, guadagnando al Pci uno storico sorpasso sulla Dc. Rigore, misura, onestà erano percepiti e dichiarati come valori dai quali la politica non doveva separarsi.
Dopo di allora cominciò un’altra stagione. Il realismo cinico faceva scuola, i machiavelli si compravano a un tanto al chilo, ai massimi livelli di governo si proclamava che la politica era "sangue e merda", che la tangente doveva essere legalizzata, che alla politica si doveva applicare la logica del supermercato dove, più che arrestare i ladri, si scarica sui prezzi il costo dei furbi. Sappiamo come è andata a finire. Man mano che si smagliava la rete di protezione pazientemente costruita negli anni, e i vecchi equilibri venivano spazzati via dalla caduta del Muro, cominciavano a comparire sulla ribalta giudiziaria vicende per lungo tempo tenute al riparo dall’attenzione della magistratura da un sapiente gioco di dinieghi, di autorizzazioni a procedere, e spostamenti di inchieste e processi. E fu Mani pulite.
Negli anni successivi la tesi del complotto, del colpo di Stato giudiziaria ha progressivamente preso il sopravvento. Questo è stato il vero colpo di spugna con l’oblio fatto cadere sull’abisso di corruzione pubblica e privata che era stato scoperchiato. Le responsabilità erano tutte dalla parte dei giudici e non dei politici, che hanno così potuto tornare a tessere robustissimi fili di corruzione e ritenersi legittimati da una privatizzazione senza precedenti del denaro pubblico. Alla corruzione più o meno nascosta si è così affiancato il saccheggio delle risorse dello Stato.
Ed eccoci qua a stracciarci le vesti, a scrivere libri sul costo della politica, chiedendo che si recuperino risorse tagliando qui e là, cosa sacrosanta, ma che rischierebbe d’esser un esercizio inutile se non sarà accompagnato da un recupero della risorsa sostanziale, la moralità pubblica perduta e dileggiata che è anche questione di misura, sobrietà, rispetto degli altri.
Ho visto il pomposo Chirac in una mattina di domenica invernale, scendere da una macchina accompagnata da un’unica auto di scorta e, solo, senza codazzi e turbinii di guardie di corpo, entrare nel grande anfiteatro della Sorbona per celebrare i vent’anni del Comitato nazionale di bioetica. Vedo quasi ogni giorno davanti a Sant’Andrea della Valle passare rombanti, con palette agitate e sirene spiegate, auto di piccoli potenti, impediti da tutto quel frastuono di ascoltare le maledizioni loro rivolte dalle persone che si trovano sui marciapiedi.
L’apparire sfarzoso, o solo chiassoso, sostituisce il potere declinante. La disoccupazione è lenita dagli stipendi ai consiglieri circoscrizionali. Le Camere soffrono di emarginazione, compensata da bonus aggiuntivi e riduzione dei carichi di lavoro.
Anni fa, proprio su questo giornale, suggerivo una piccola riflessione. Che cosa accadrebbe se un imprenditore, proprietario di due aziende, scoprisse che una di esse produce lo stesso numero di pezzi con metà dei dipendenti dell’altra? E’ proprio quel che accade in Parlamento, dove il Senato fa esattamente lo stesso lavoro della Camera con metà degli "addetti". Calcolavo poi che i parlamentari attivi, quelli che mandano avanti la baracca, sono poco più di un quinto dei componenti delle Camere, sicché insieme a Luigi Ferrajoli si organizzò un convegno polemicamente intitolato "Una Camera cento rappresentanti".
Detesto le logiche aziendalistiche trasferite nella politica e so bene che il Parlamento ha una funzione rappresentativa che va bene al di là della produttività legislativa. Quando però la funzione rappresentativa è sequestrata da oligarchie che si riproducono la macchina legislativa si inceppa, diviene forte il bisogno, non dirò la tentazione di tagliare senza troppi riguardi.
La riduzione del numero dei parlamentari sarebbe un segnale importantissimo, anche se non si può vivere di soli segnali. Ma sarebbe pure una misura insufficiente, se i restanti parlamentari continuassero ad essere selezionati come è avvenuto in questi anni, a venir sommersi da decreti legge, a essere prigionieri di quella macchina produttrice di corruzione istituzionale che è divenuta la legge finanziaria, a non avviare e sperimentare forme nuove di rapporto con la società.
Ma il dialogo con l’opinione pubblica, il recupero della fiducia non possono essere affidati solo ad una politica dell’immagine. E soprattutto a quel modo di intendere l’immagine di cui la politica italiana sembra ormai rassegnata prigioniera. In tutti i paesi che frequento non ho mai registrato una bulimia televisiva pari a quella italiana, una overdose di politici (non di politica, che è altra cosa) nei più disparati talk show, da quelli sportivi a quelli in cui si tirano e si prendono torte in faccia. Forse vi sono politici che, senza questo continuo apparire si sentirebbero morti. E invece è proprio un’immagine di morte, o almeno di rinuncia alla dignità quella che proiettano, essendo giustamente percepiti come una logora compagnia di giro, con le sue maschere fisse e che porta in tournée i suoi battibecchi, solo nelle apparenze e nelle parole legati ai problemi delle persone e del mondo. Il Palazzo sembra essersi tutto dissolto nei network televisivi.
Attenzione, però. Ilvo Diamanti ha opportunamente messo in guardia contro frettolosi paralleli tra le cause che portarono al collasso dei primi anni ‘90 e la situazione attuale. Ma il discredito che avvolge la politica sta rafforzando gli altri poteri, da quelli economici a quelli criminali, soprattutto per quanto riguarda la loro legittimazione sociale. E’ da lì che si attingono modelli, sono quelli i Palazzi che si vogliono frequentare.
Il sedimentarsi di questo modo di sentire produce una fuga dalla politica, rendendo ancor più difficile un vero rinnovamento della classe dirigente. Se l’entrata in quel Palazzo diventa un marchio d’infamia, un segno permanente di impurità, chi vorrà varcarne la soglia? E chi lo avrà fatto con spiriti diversi dalla pura carriera e dall’arricchimento, da quel mostruoso connubio con il denaro e la corruzione, dovrà essere additato in eterno come partecipe di una congrega che ha perduto per sempre il diritto di essere presente sulla scena pubblica? In questo modo non si favorirà chi nell’ombra dei poteri, ha coltivato una finta indipendenza?
La politica è una cosa sporca, ha sempre proclamato un perverso senso comune. Per evitare che questo si consolidi come l’unico modo di guardare alla politica bisogna non dare segnali ma avviare azioni concrete. Ristabilire la legalità, prima di tutto: può uno specifico Palazzo, quello di Montecitorio, continuare ad essere il rifugio di chi, condannato in via definitiva dovrebbe da tempo averlo lasciato? Abbandonare i fasti di Palazzo: le Camere devono lavorare o organizzare mostre? Rinunciare all’immagine a favore della trasparenza: presenza televisiva o presenza di soggetti nuovi che seguano da vicino una serie di scelte e ne certifichino la correttezza? Denunciare gli abusi e cominciare ad accompagnarli con l’indicazione precisa di chi li rifiuta e li combatte: è illusorio pensare che la moneta buona possa cominciare a scacciare quella cattiva?
E, soprattutto, spazio parola e mezzi proprio ai moralisti, per avviare quella ricostruzione di un’etica pubblica senza la quale è vana la ricerca di ogni consenso tra i cittadini.

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Per chi volesse approfondire, questo è il link















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