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Capitolo 2 - I preparativi

Ultimo Aggiornamento: 18/05/2007 23:10
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16/05/2007 19:54
 
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LEVERET

Il guerriero aveva raccontato brevemente ciò che ricordava e ciò che gli era stato raccontato sui fatti accaduti nella radura. Li aveva esposti freddamente, come se non fossero accaduti a lui ma ad un’altra persona di cui non se ne sapeva nulla.
Leveret non era un oratore, e parlare in pubblico non gli era mai piaciuto, anzi, lo detestava. Anche adesso che aveva terminato di esporre il suo incontro con Roweena sembrava freddo e distaccato. Una sola cosa lo tradiva: i suoi occhi balenavano da una parte all’altra, scrutando ed osservando tutti i nuovi venuti. Li guardava intensamente, li fissava, senza timore di togliere lo sguardo, quasi a sfidarli. Ma il suo atteggiamento non era dettato dalla sfrontatezza, ma dal nervosismo. Troppe volte si era trovato innanzi gente che lo scherniva per l’orrenda cicatrice che gli deturpava il volto e per quella pronuncia sibilante di alcune parole... Era come se con il suo sguardo volesse ammonirli... “Attenti a voi...”

Leveret portava addosso gli abiti che aveva quando era giunto a Granburrone: pantaloni di lana nera, una giacchetta dalla stessa fibra e tinta, una cappa bianca con un balsone raffigurante una torre nella cui base si apriva un passaggio per un fiume. La cappa aveva visto sicuramente giorni migliori: era lisa e consumata in molti punti, l’insegna appariva scolorita e vi si notavano anche molti rattoppi. Completavano l’abbigliamento dell’uomo un paio di stivaloni di cuoio ed una lunga cintura.
Leveret doveva avere all’incirca un’età compresa fra i tretacinque ed i quarant’anni (i suoi capelli, tagliati assai corti, alla maniera di militari, cominciavano a tingersi di bianco), non troppo alto misurava all’incirca 6 piedi, forse qualche cosa di più ed occhi azzurro giaccio. I suoi tratti somatici non erano caratteristici di nessun ceppo umano, ed ovviamente lui si era ben guardato da raccontare la sua storia, le sue origini, la sua provenienza... limitandosi a raccontare solo della disavventura con il troll.
La cosa che più colpiva in Leveret, erano le sue cicatrici, segno della sua professione. Era assai evidente che quell’uomo si guadagnava da vivere con le armi. Le sue nodose mani erano ricoperte da una fitta ragnatela di cicatrici, e molte erano anche quelle sul suo viso, ma la più sorprendente e scioccante era quella che gli devastava la guancha sinistra: una profonda ed estesa ferita che partiva dallo zigomo e scendeva in verticale terminando sotto la mascella. La carne, i muscoli ed i tendini erano statati asportati, lasciando parte della mascella e della mandibola (incredibilmente illese) allo scoperto. Il colpo che lo aveva sfigurato gli aveva anche strappato alcuni denti. Ora, il viso di Leveret era perennemente contratto in una terribile smorfia, un ghigno inquietante, pauroso a vedersi, che dava all’uomo un’aria poco raccomandabile. DI contro, l’assenza di parte della dentatura e l’impossibilità di serrare le labbra sul lato sinistro della bocca gli avevano procurato un curioso e spesso comico difetto di pronuncia. Per lui tutto questo era assai difficile da accettare: per anni ha dovuto convivere con quello sfregio e quell’assurdo sibilo che storpiava quasi tutte le sue parole... dovendo poi sopportare sguardi, risatine ed atteggiamenti di scherno da parte delle altre persone. Ed era probabilmente questo timore che lo rendeva nervoso: stava scrutando quegli estranei perché temeva o si aspettava da loro quanto altri gli avevano già riservato in passato.
Come un automa, la sua mano correva spesso alla profonda cicatrice sulla guancia, come a cercarla per constatarne l’effettiva presenza... Sì, Leveret era chiaramente nervoso.
Quell’ambiente, che durante la sua degenza gli parve risanare tutte le sue ferite interiori, ora lo assillava, lo soffocava, lo tormentava... Dopo il suo incontro con sire Elrond vedeva in ogni membro della razza elfica una sorta di minaccia: magia, spiriti, poteri oscuri... tutto questo non lo capiva, e come per molti, ciò che non capiva lo temeva. Ora vedeva la possibilità di andarsene, di uscire da quel ambiguo regno che era chiamato Granburrone, e per farlo aveva dato la sua parola ad Elrond di aiutare un gruppo di uomini a compiere una strana e misteriosa missione.
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18/05/2007 17:13
 
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La riunione proseguì solo per alcuni minuti, il tempo di fornire le ultime spiegazioni e confrontare informazioni, opinioni e sensazioni sulla missione da intraprendere.
Era ormai chiaro che il gruppo principale non sarebbe partito l'indomani: alcuni esploratori erano stati inviati nei dintorni e tutti furono concordi nell'attendere qualche giorno il loro ritorno.

L'indomani partirono però Gwaeron ed Isilion, che si congedarono dai loro compagni nella tenue luce dell'alba, sulla scalinata che dava sul portico d'ingresso.
Mentre i loro due cavalli scalpitavano sul sentiero, Meneldir si avvicinò ai due amici e li salutò in silenzio, abbracciandoli con forza.
Arrivati a quel punto le parole non servivano più: ma sia il dùnadan, che l'elfo e l'uomo del nord trassero forza da quel saluto.
Anche Olin non era in vena di discorsi: si limitò a abbracciare i due compagni borbottando qualcosa di incomprensibile a testa bassa, e tornò accanto a Yeras.
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18/05/2007 23:09
 
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LEVERET

Con la partenza così imminente, Leveret passò diverso tempo a preparare il necessario per affrontare al meglio quell’incarico.
Al contrario di tutti gli altri, Leveret non percepiva quella missione come un incarico di importanza capitale, una missione da cui dipendevano le sorti di genti, popoli, regni... Per lui era un incarico come un altro, come quelli a cui era abituato: uno scontro fra clan, la scorta ad una carovana o l’eliminazione di un signorotto locale a favore di un altro nobilotto... Si sbagliava? Un po’ era curioso, e le notizie frammentarie che aveva ricomposto gli avevano fatto capire che si sarebbero dovuti incamminare per l’antico regno dei nani, Moria. In passato aveva udito vari racconti e leggende su quelle miniere, e non tutte erano benauguranti. No, non gli importava se fosse stato pericoloso: sin da quando era nato aveva dovuto lottare ogni giorno della sua sporca vita, e nulla sarebbe stato più terribile che affrontare i fantasmi che gli martoriavano l’anima. Forse era questa prospettiva che non gli faceva pesare quell’incarico.
Affilò la sua fidata lama ed i coltelli, oliò le maglie della sua cotta, ispezionò la robustezza del suo scudo... Gli elfi non gli avevano ancora procurato un nuovo elmo. Si appuntò mentalmente di richiederne uno nuovo, possibilmente una calottina o una barbuta.
Verificò il contenuto della sua sacca da viaggio: croste di formaggio, pane vecchio, qualche benda ed alcuni medicamenti, pietre focaie, un piccolo oggetto avvolto in un panno di lino bianco e rosso... lo prese delicatamente fra le sue mani... socchiuse gli occhi... lo portò sul petto, poi sulle labbra, lo baciò e sospirò tristemente. Non versò, però, nemmeno una lacrima: quelle le aveva già versate tutte.

[Modificato da monfa72 18/05/2007 23.10]

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