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31/08/2007 17:50 | |
COPPA Montella fa volare la Samp anche in Europa
UEFA L’aeroplanino trasforma il rigore, inutile pareggio dell’Hajduk. Mirante si fa sorprendere. Ovazione per Cassano in tribuna
SAMPDORIA-HAJDUK SPALATO 1-1
SAMPDORIA ( 3- 4- 2- 1): Mirante 5.5; Campagnaro 6.5, Sala 6, Lucchini 6.5; Maggio 6.5, Volpi 6.5, Palombo 6, Pieri 6 ( 44’ st Zenoni ng); Sammarco 6, Bellucci 6.5 ( 35’ st Delvecchio ng); Montella 6.5 ( 27’ st Caracciolo ng). A disp.: Fiorillo, Bastrini, Franceschini, Foti. All.: Mazzarri 6.5.
HAJDUK ( 4- 1- 4- 1): Tomic 6.5; Pelaic 6, Buljat 6, Zivkovic 6, Hrgovic 6.5; Ljubicic 6; Rubil 5.5 ( 1’ st Peraic 5.5), Linic 6, Cernat 5.5, Bartolovic 5.5 ( 1’ st Verpakovkis 5.5), Kalinic 6 ( 33’ st Rukavina ng). A disp.: Balic, Sablic, Pandza, Oremus. All.: Kresic 6.
ARBITRO: Kralovec ( Rep. Ceca) 6.
MARCATORE: pt 34’ Montella rig.; st 37’ Hrgovic.
NOTE: 21.637 spettatori per un incasso di 230.655. Ammoniti Lucchini, Sala e Hrgovic per gioco falloso. Angoli: 6-4 per l’Hajduk. Recupero: pt 0’, st 3’.
GENOVA. La Sampdoria accede al tabellone principale della Coppa Uefa con un pizzico di sofferenza ma assoluto merito. All’ 1- 0 ottenuto a Spalato, i blucerchiati hanno affiancato l’ 1- 1 di ieri sera a Marassi, determinato dal rigore trasformato attorno alla mezz’ora del primo tempo da Montella - per la prima volta in campo dall’inizio - al quale ha risposto nel finale Hrgovic con una punizione che ha sorpreso Mirante, schierato a sostituire l’acciaccato Castellazzi. Per quanto si è visto nei centottanta minuti della sfida, la Samp ha dimostrato d’essere superiore per valori tecnici e consistenza: l’Hajduk, infatti, è apparso una pallida copia della formazione aggressiva e determinata ammirata nella gara d’andata, e questo soprattutto per merito dell’attenta disposizione tattica di Walter Mazzarri, che può festeggiare il primo obiettivo della stagione e allungare la serie di risultati positivi ( non perde dal 31 marzo, quand’era ancora alla Reggina: con la Sampdoria quattro vittorie e un pareggio).
I tifosi blucerchiati hanno dedicato una lunga ovazione ad Antonio Cassano, che ha salutato la Sud sventolando una sciarpa della Samp prima di accomodarsi in tribuna a seguire una partita subito vivacissima. Mazzarri a sorpresa ha escluso Delvecchio, oltre a Caracciolo, lanciando dunque dal primo minuto sia Montella, sia Sammarco. Il tecnico non ha cambiato sistema di gioco, tuttavia, opponendo il canonico 3- 4- 2- 1 al 4- 1- 4- 1 di Kresic, costretto a sostituire il portiere Balic ( infortunatosi nella rifinitura del mattino) con Tomic. Prima del vantaggio Montella ha avuto due opportunità, ma è scivolato ( 7’, colpo di testa su punizione di Volpi) e poi ha cincischiato invece di concludere a rete, consentendo a Pelaic e Buljat di recuperare ( 21’, cross di Bellucci). L’Hajduk ha spinto soprattutto sulla destra, affidando al gioiellino Kalinic le conclusioni più insidiose, entrambe attorno al quarto d’ora: una è finita fuori di poco, l’altra ha costretto Mirante a volare per deviare in angolo ( sui cui sviluppi Pelaic, di testa, ha sfiorato il palo). Al 34’ su una punizione battuta da Volpi, Montella ha impegnato di testa Tomic, sulla cui respinta s’è avventato Maggio, travolto da Ljubinic: ineccepibile il rigore trasformato con bravura da Montella, che ha mandato il portiere a sinistra e la palla a destra. Kresic si è giocato due cambi in avvio di ripresa, mantenendo lo stesso modulo ma rendendolo più offensivo - un 43- 3 in fase di possesso palla - con Peraic a destra e, soprattutto, Verpakovskis dall’altra parte. Ma le azioni più incisive sono state offerte ancora dalla Sampdoria, con il mobilissimo tridente d’attacco a tenere in costante apprensione la difesa croata. Splendida la chance capitata a Montella al 25’ dopo che l’ennesima galoppata di Pieri sventata dal portiere gli aveva fatto finire la palla tra i piedi: il bomber ha controllato e calciato con forza, ma Tomic ha ribattuto. Col passare dei minuti, l’Hajduk si è inevitabilmente gettato in avanti alla ricerca dei due gol necessari a conquistare la qualificazione: dopo un salvataggio quasi sulla linea di Volpi, il pari è arrivato grazie a una punizione battuta dai trenta metri ( e posizione defilata) di Hrgovic, sulla quale Mirante si è lasciato sorprendere, distendendosi in ritardo sulla palla che ha colpito il palo alla sua destra ed è finita dentro. Ma neppure l’ 1- 1 ha dato agli spalatini la grinta necessaria per ribaltare il risultato, e la Sampdoria ha difeso senza ulteriori affanni la qualificazione ( oggi conoscerà la prossima avversaria, che affronterà il 20 settembre e il 4 ottobre), festeggiata dalla Sud che alla fine ha cantato a squarciagola l’inno dell’Eurovisione.
GIOVANNI TOSCO tuttosport
LE PAGELLE
Per Sala e Lucchini squalifica in arrivo
Sampdoria.
Mirante 5.5: al posto dell’acciaccato Castellazzi, se la cava quasi sempre bene ma si fa sorprendere dalla punizione di Hrgovic.
Campagnaro 6.5: aggressivo, offre una prova senza sbavature.
Sala 6: Kalinic è un brutto cliente che riesce a contenere. Un anticipo sbagliato gli costa l’ammonizione e, di conseguenza, la squalifica.
Lucchini 6.5: dalla sua parte l’Hajduk spinge parecchio, ma l’ex empolese è sempre attento. Anche lui sarà squalificato.
Maggio 6.5: spinge come una furia sulla corsia di destra, pur con qualche imprecisione. Guadagna il rigore trasformato da Montella.
Volpi 6.5: dirige il gioco con lucidità, sacrificandosi anche in un continuo lavoro di copertura.
Palombo 6: combatte su ogni palla con la solita determinazione.
Pieri 6: convince per la continuità con cui sale sulla fascia. Zenoni (44’ st) ng.
Sammarco 6: schierato a sorpresa tra le linee, interpreta il ruolo con disinvoltura.
Bellucci 6.5: al servizio della squadra, con lanci belli e precisi. Delvecchio (35’ st) ng.
Montella 6.5: non sfrutta due buone opportunità, ma è freddo nell’esecuzione del rigore. Nella ripresa regala tocchi d’alta scuola che mandano in visibilio Marassi e impegna Tomic poco prima d’essere sostituito. Caracciolo (27’ st) ng.
All. Mazzarri 6.5: centra il primo obiettivo stagionale, con un’altra prestazione nel complesso convincente.
Hajduk.
Il nuovo tecnico Kresic si è affidato a un 4-1-4-1 poco convincente nella fase di non possesso. Considerato lo 0-1 dell’andata, era lecito attendersi una squadra più offensiva nello schieramento e nella mentalità: solo nella ripresa i croati hanno attaccato con decisione, per altro andando a segno solo con la bella punizione di Hrgovic.
Tomic 6.5; Pelaic 6, Buljat 6, Zivkovic 6, Hrgovic 6.5; Ljubicic 6; Rubil 5.5 (1’ st Peraic 5.5), Linic 6, Cernat 5.5, Bartolovic 5.5 (1’ st
Verpakovkis 5.5), Kalinic 6 (33’ st Rukavina ng). A disp.: Balic, Sablic, Pandza, Oremus. All.:
Kresic 6.
Arbitro.
Kralovec 6: vede bene sul rigore, tollera qualche rudezza di troppo dei croati. G.T. |
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18/08/2007 18:45 | |
Tecnici senza panchina: due imprese in due stagioni, ma è rimasto fuori
«I miracoli non bastano»
Beretta: «A spasso dopo aver salvato Parma e Siena. Il mio procuratore è il lavoro»
«In gialloblù senza società sono arrivato in Uefa e ho valorizzato giocatori. De Luca mi disse: restare in A, vale come uno scudetto.
Ne ho vinti due, mi hanno cercato solo in B...»
Fiorentina-Siena: Farina espelle Beretta, seguirono polemiche (Ansa)
«Tifo Milan, un sogno la prima volta a San Siro. Misi ko l’Inter e in sala stampa scattò l’applauso. Gli arbitri non rispettano gli allenatori, Farina mi mise le mani addosso»
ANDREA DI CARO
Capello un po’ lungo, occhiale da sole, barba di due-tre giorni, nodo della cravatta allentato, aria un po’ stropicciata di chi la sera prima ha dormito poco, ma si tiene su con l’adrenalina e un caffè forte, in perfetto stile detective nei polizieschi america¬ni. Al Pacino in Heat, Seduzione pericolosa, Insomnia o coach in
Ogni maledetta domenica? No, Mario Beretta durante e dopo le partite. Non avesse fatto il calciatore prima e l’allenatore poi, Beretta con quella faccia poteva provare col cinema: «Ho un look un po’ casual e spero non condizioni e non si guardi tanto quello, quanto il valore come tecnico. Comunque gli amici me lo dicono spesso, anche lo scorso anno quando ho fatto crescere la barba per coprire un’assurda varicella presa a 47 anni: ”Sembri Al Pacino in Serpico”. Per me è un complimento, anche se il mio film preferito è italiano,
Marrakech Express. Lì ho ritrovato momenti della mia gioventù, gli scherzi, l’ironia e... il pallone. In una scena bellissima c’è una partita sulla spiaggia con in sottofondo La leva calcistica
di De Gregori. Comunque Al Pacino può stare tranquillo, non gli farò concorrenza. Al grande schermo, preferisco la panchina, anche se per adesso ho solo una sdraio...».
In vacanza con la famiglia vicino ad Alassio, in Liguria, Beretta si gode, si fa per dire, le vacanze: «E’ la mia prima estate senza squadra, e un po’ mi pesa. Provo a distrarmi...». Lo aiutano la musica di Springsteen e Ligabue, qualche libro: «L’ultimo che ho letto è ”Memorie dalla clandestinità” autore anonimo, è la storia di un ex terrorista anni ’70», e piccoli progetti: «Vorrei prendere la patente nautica». In attesa di una chiamata: «Non ho mai preso squadre in corsa, ma penso di essere abbastanza duttile per adattare le mie idee alle caratteristiche dei giocatori».
Beretta, due anni fa c’era riuscito De Canio ed è rima¬sto a spasso, l’anno scorso c’è riuscito lei, stessa sorte. Salvare il Siena è un demerito?
«Visto il destino... No, è un grande merito, perché, come diceva il povero presidente De Luca ”salvare una squadra che lotta per non retrocedere è come vincere lo scudetto”. E allora, forzando un po’, posso dire che io vengo da due scudetti con Parma e Siena. E sono orgoglioso di questi due miracoli».
Perché ha lasciato il Siena?
«Tecnicamente è stata una separazione consensuale, ma sono ancora a libro paga. La nuova proprietà ha scelto un altro tecnico. Però siamo rimasti in buoni rapporti. Non lo nego, al Siena sarei rimasto volentieri».
Chi l’ha cercata in questi mesi?
«Ho parlato con Pisa e Piacenza, ma i programmi non collimavano...».
Due squadre di B... Dopo due salvezze consecutive, non pensava di meritare club di A?
«Premesso che sento abbastanza mia anche la salvezza del Chievo di tre anni fa, penso di essere in ottima compagnia. Ci sono tanti tecnici molto più illustri di me che al momento non allenano. Fa parte del nostro mestiere. Poi magari cambia tutto in una settimana».
Lei ha un procuratore?
«No, non so se pago questa scelta e non mi importa. Credo nel lavoro, che resta sotto gli occhi di tutti. E’ quello il mio procuratore ».
A Siena e Parma ha convissuto con complicate situazioni societarie: le difficoltà la esaltano?
«Sono uno che non molla. A Siena nel momento cruciale del gi¬rone di ritorno sono entrate nel vivo le trattative per la cessione del club, distraendo l’ambiente. Poi è venuto a mancare il presidente De Luca. L’inizio a Parma fu ancora più difficile, la società era commissariata, i riferimenti pochi. Tra i possibili acquirenti c’erano Valenza, che se fosse arrivato si sarebbe portato Zeman, e Sanz, anche lui con un tecnico pronto a subentrarmi. Sembravo un traghettatore. Però dopo il 31 gennaio, quando il commissario Biondi dichiarò che fino alla fine della stagione non ci sarebbe stata la cessione del club, abbiamo ritrovato la serenità e preso il volo».
Grazie soprattutto a un centrocampo di livello.
«Costruimmo in mezzo al campo i nostri successi: Simplicio e Bresciano, che segnarono molto, poi Marchionni, Morfeo, Grella, Bolano. Ma voglio ricordare anche Corradi, fece 10 gol e lavorò molto per la squadra, permettendo gli inserimenti dei compagni».
Valorizzò gente che poi ha ingrassato le casse del club.
«Alcuni sono stati venduti bene, lanciai anche Dessena e feci esordire Cigarini. Ma soprattutto il Parma si salvò con un mese e mezzo di anticipo e, con la classifica post calciopoli, entrò in Uefa».
Ma non bastò per restare...
«Aspettai tanto, ma dopo la salvezza, nessuno del Parma si fe¬ce vivo per parlare di futuro. Quando mi chiamarono, ormai era troppo tardi».
Dopo la vittoria contro l’Inter al Tardini fu accolto in sala stampa da un applauso.
«Non mi era mai accaduto prima. Fu più bello della vittoria in sé. Una delle emozioni più grandi da quando alleno».
Me ne citi un’altra...
«Quando sono entrato per la prima volta a San Siro. Un’emozione che si ripete ogni volta che ci rimetto piede. Io da ragazzo ero tifoso del Milan, allo stadio ci andavo con gli amici, mi ricordo i tragitti in autobus o con la metropolitana, i commenti pre e post partita. Ritrovarmi lì, da tecnico, mi è sembrato un sogno realizzato».
Magari ora sogna che diventi il suo stadio...
«Coltivare le ambizioni non significa per forza allenare una squadra al top mondiale. Basta anche una squadra da migliorare e con cui migliorarsi».
Ma pensa di avere le qualità
per allenare l’Inter o il Milan?
«Se me le offrono, di certo non le rifiuto... Però mi rendo conto che per allenare certi club oltre alle conoscenze tecnico tattiche bisogna avere qualità manageriali, capacità di gestire i campioni e le pressione della stampa, tenere sotto controllo l’ambiente e lo stress. Quelli che dicono: datemi quel club che vinco tutto anch’io, la mettono un po’ trop¬po facile...».
Lei però ha cominciato a prepararsi all’eventualità: ”Organizzazione e struttura delle squadre di alto livello”, era la sua tesi al corso di Coverciano.
«L’ho fatta 10 anni fa, oggi modificherei qualcosa, ma parecchie idee le ho ritrovate concretizzate in certe realtà».
Quali?
«Lo scorso anno il giorno di Pasquetta ho portato moglie e figli a Milanello. Gita da... tifosi. Ho visto le strutture. Un’organizzazione impressionante».
Non è stato un grande calciatore, ha trovato difficoltà a farsi ascoltare dalle squadre?
«No, e comunque sono arrivato fino alla B, conosco le dinamiche di uno spogliatoio. Il calciatore valuta quello che fai in campo: non lo freghi».
Sacchi diceva: per essere fantino non devi essere stato cavallo...
«Sacchi è stato ed è un maestro. Per il tipo di lavoro sul campo, il metodo, la professionalità. Quel¬li della mia generazione gli de¬vono moltissimo. Non nego di essermi ispirato a lui per tanti aspetti, tattici e non solo».
Altre... ispirazioni?
«Radice ai tempi del Toro era all’avanguardia, mi piaceva molto Scala a Parma, andai a studiare Zeman a Foggia: è stato un innovatore. Per carattere cerco di prendere da tutti. A volte trovi spunti anche in posti meno noti. Quest’estate sono stato in Svezia a studiare i metodi di allenamento dell’Helsingborg...».
Parlo con un presidente, come gli descrivo Beretta?«Come un tecnico che ha sposa¬to il 4-4-2, ma è rimasto flessibile. A Siena per metà campionato ho schierato un trequartista e due punte. A Varese facevo la difesa a tre. Punto sul gioco e mi piacciono i piedi buoni».
Quali gradirebbe allenare?
«Vado a braccio. Maldini come difensore: unico e inimitabile. A centrocampo: Kakà, Stankovic, Seedorf. In attacco Ibra e Totti».
La squadra che lo scorso anno ha giocato meglio?
«Due: il Catania, nella prima parte della stagione, e la Roma».
Ci attende un altro campionato scontato?
«No, affatto. L’Inter parte più
avanti delle altre, ma di poco».
Come ha vissuto Calciopoli?
«All’inizio ho seguito, poi mi ha cominciato a nauseare e ho cercato di staccarmene evitando di tirare conclusioni. Mi resta l’impressione che non sia stata fatta del tutto chiarezza».
Le è capitato spesso di storcere la bocca dopo una desi¬gnazione arbitrale?
«Mi è capitato lo scorso anno quando seppi che Fiorentina Siena l’arbitrava Farina. Mi aveva già espulso una volta. Si è ripetuto in quella gara».
E lei non le mandò a dire: «Farina mi ha messo le mani addosso. Non lo facevano i miei genitori, figurarsi se lo accetto da un arbitro».
«Noi tecnici a volte veniamo trattati come bambini e questo è inaccettabile. Ci vuole più rispetto e comprensione: giocatori e direttori di gara corrono in campo, scaricano lo stress, noi siamo relegati in una gabbietta, col recinto e accumuliamo tensioni. Io a volte protesto, ma non ho mai insultato nessuno o detto parolacce, non è mia abitudine. Alcuni arbitri invece ti impediscono anche di parlare. Proprio per evitare di rispondere a Farina mi girai. Lui, per richiamarmi, mi ha tirato per un braccio. E poi mi ha espulso. Co¬sì non va bene...».
Farebbe l’opinionista in tv?
«Sì, sarebbe un’esperienza».
Può migliorare una cosa nel calcio: cosa sceglie?
«I settori giovanili».
Bussano alla sua porta Moratti e Berlusconi... Quale proposta accetta?
«Prima chiedo se hanno sbagliato indirizzo... Poi forse prevarrebbe quella fetta di cuore che è ancora rossonera».
Fonte: Tuttosport
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14/08/2007 16:59 | |
Tecnici senza panchina: l’ex del Toro controcorrente, spera di non essere chiamato
«Per favore, non cercatemi»
Zaccheroni: «Non mi farò convincere. Basta squadre in corsa, non fa per me»
«I presidenti di oggi fanno il mercato coi procuratori e spendono a casaccio. Poi al primo intoppo cacciano l’allenatore. Il dopo Calciopoli? E’stato fatto poco e male» «Il mio 3-4-3 non è un modulo vecchio, ma so farne altri. Lo scudetto al Milan: impresa sottovalutata di un buon sarto di sinistra» «La stampa di Torino esalta o demolisce, quella di Roma remava contro. Ho perso 5-1 il derby, ma pochi sanno che Nesta...» «Se resta flessibile, l’Inter può vincere tutto.
Con me Adriano era il più forte del mondo.
Juve da quarto posto, Milan vecchio. Pato?
Meglio Huntelaar. Cassano? Solo se gratis»ANDREA DI CARO
L’APPUNTAMENTO all’ora della piadina ci fa temere il classico «possiamo sentirci tra un’oretta », invece Alberto Zacchero¬ni non dà ”buca”: «Rappresento un’eccezione, io la piadina non la mangio. E per parlare di calcio sono sempre disponibile, ma l’avverto: niente Toro. C’è un nuovo allenatore e sono ancora a libro paga. Non sarebbe né giusto, né elegante». Peccato perché di cose da dire ne avrebbe. Il Toro di oggi, con investimenti sul mercato e svecchiamento della rosa, è forse quello che lui aveva sperato di ricevere da Cairo. Zac non raccoglie l’assist («Chi ha seguito il Toro sa cosa volevo, ma davvero, mi chieda altro»), però l’esperienza in granata può servire per inquadrare il suo desti¬no negli ultimi anni dalla Lazio, all’Inter fino al Torino.
Zac, l’uomo giusto nei momenti sbagliati?
«Non lo so. All’Inter ho preso la squadra in corsa e l’ho portata in Champions. Andai via io un mese dopo la fine del campiona¬to: Moratti, sebbene me lo aves¬se smentito, aveva già un impe¬gno con Mancini. E a me di fare il traghettatore non andava. Ca¬pivo l’imbarazzo e l’indecisione del Presidente: avevo chiuso al¬la grande valorizzando molti giocatori».
Tra cui Adriano: con lei im¬pazzava, ora è in crisi.
«Non so spiegarmi il perché. Lo reputo ancora oggi il più forte centravanti in circolazione. Può vincere le partite da solo. Gli ho visto fare cose straordinarie: prendeva palla e andava dritto in porta scaraventando via chiunque gli si parasse contro. Un mix perfetto di tecnica e po¬tenza. E lo ricordo anche come un bravo ragazzo. Arrivò a gennaio e si mise subito a disposizione»
Ancora non conosceva la movida milanese...
«Parma non è distante da Mila¬no. Certi locali magari li cono¬sceva anche prima. Ma io sono sempre stato un bel martello sul rispetto dei ruoli e delle norme di convivenza...».
Non riuscì a far coesistere Vieri e Adriano.
«Bisognava lavorarci sopra e non avevo tempo. Dovevo far punti: Vieri non era al meglio e la coppia Adriano-Martins si completava. I tifosi si divisero, i giornalisti no: tutti convinti che potevano giocare insieme...».
Milan, Roma, Torino: i suoi rapporti con la stampa?
«Non frequento molto i giornali¬sti e forse lo pago. A Torino esal¬tano troppo la squadra quando vince e la deprimono quando perde. Siamo passati spesso da eroi a brocchi, mentre vittorie e sconfitte bisogna saperle legger¬le. Niente: altare o polvere. A Mi¬lano solo nell’ultimo periodo di Inter ci fu un giornale che scris¬se cose false. A Roma invece una parte non ha fatto informazione partecipando a un progetto: de¬stabilizzare. Il diritto di critica è sacro, ma senza inventare le no¬tizie o riportare falsi spifferi di spogliatoio».
Un esempio?
«Quando perdemmo il derby con la Roma 5-1, un importante gior¬nale sportivo scrisse che avevo schierato la difesa a tre senza averla mai provata e che Nesta, il capitano, alla vigilia chiedeva ai compagni se davvero volessi giocare così. Invece non solo du¬rante la settimana provai i tre dietro, ma dello schieramento parlai con i più rappresentativi, Nesta compreso, e scegliemmo insieme».
Nesta uscì alla fine del pri¬mo tempo. Ci fu polemica.
«Ora posso dirlo. Mi chiese lui di uscire, Montella con tre gol in 45 minuti, lo aveva distrutto. Io mi accollai la responsabilità del cambio: avevo il dovere di difen¬dere il mio capitano e di pren¬dermi le responsabilità della di¬sfatta ».
Cosa le ha lasciato la Lazio?
«Rammarico. Arrivai quando le risorse economiche erano finite. L’anno dopo tutti ad applaudire gruppo di Mancini che giocava senza prendere lo stipendio, ma anche noi ne vedevamo pochi... Cragnotti cedette suo malgrado Nedved e Veron. Senza la loro personalità, la squadra si sentì orfana oltre che indebolita. La Curva era in polemica, il clima era teso. Dopo il derby, con stam¬pa e tifosi contro, rischiavamo la B. Invece finimmo a due punti dalla Champions, centrando l’Uefa».
E togliendo lo scudetto al¬l’Inter...
«Una situazione surreale: tutto lo stadio contro perché con la sconfitta sfumava l’Uefa, ma la Roma faceva i preliminari senza entrare dritta in Champions. Durante la settimana i tifosi ci minacciarono: guai a chi tira in porta. La formazione la fece il medico: erano tutti malati... Sembrava tutto scontato, chiesi solo di giocare una partita di¬gnitosa. La facemmo, fu l’Inter a non giocare. Nel secondo tempo non avrebbe segnato neanche se fossimo usciti al campo. Erano paralizzati, inchiodati al terre¬il no, non si parlavano. Morti in campo. Mi spiacque per l’Inter: meritava quello scudetto. Cra¬gnotti invece mi offrì di restare come dt ma rifiutai: sono un al¬lenatore ».
Lo scudetto col Milan non le è bastato per farla inserire nel gotha dei tecnici con Sacchi, Capello e Ancelotti.
«Loro hanno vinto anche in Eu¬ropa e nel Mondo, ma con orga¬nici superiori. Quella nostra im¬presa fu sottovalutata. Il Milan veniva da stagioni nere, non ci furono grandi acquisti: Helveg e Bierhoff li aveva già scelti Ca¬pello, il resto era contorno. Riu¬sta a rimotivare la squadra nel¬la quotidianità, l’unico tallone d’Achille del Milan anche oggi. I campioni abituati ai grandi pal¬coscenici, a volte si perdono gio¬cando con le piccole. Non fatevi ingannare dalla storia del duo¬polio Milan-Juve: dal 1996 al 2007 i rossoneri hanno vinto so¬lo 2 scudetti».
Come ”preparò” lo scudetto? « L’ambiente era depresso, Gal¬liani non organizzò neanche un’amichevole di lusso e fu una fortuna. Giocammo a Milanello e dintorni. Potei spiegare i nuovi concetti e provare il mio calcio con calma. Poi furono grandi gio¬catori come Maldini e Costacur¬ta, davanti a un tecnico che veni¬va dall’Udinese, senza passato da calciatore, e che proponeva di passare dalla storica difesa a 4 a quella a 3, a mettersi a disposi¬zione: ”Mister abbiamo 6 setti¬mane per provare, ci dimostri che ha ragione”. I mediocri hanno preconcetti, i grandi sono aperti. Nello spogliatoio ascoltavano senza parlare: davano l’esempio coi comportamenti. Dopo Natale, senza infortuni, volammo».
Insomma, fu un buon sarto...
«Alla famosa battuta di Berlu¬sconi rispose la Curva con un enorme striscione: questo sarto su questa stoffa ha cucito uno scudetto. In rossonero sono stato bene. Con Galliani avevo un rap¬porto straordinario, mi ha difeso 3 anni. Al Milan c’è un’organiz¬zazione perfetta, unica al mon¬do ».
Nel rapporto con Berlusconi pesarono le sue idee extra calcistiche?
«Non faccio politica, non sono un attivista ma ho le mie idee. A do¬manda rispondo: non sono mai stato un comunista, ma sono di sinistra. Dovevo nasconderlo?».
Quest’anno tanti big della panchina sono fuori.
«Gli italiani sono i migliori alle¬natori del mondo, lo dicono i ri¬sultati. Magari non quelli che fanno giocare meglio le squadre, ma tatticamente siamo i più preparati. Oggi ci sono tanti gio¬vani in A perché oltre a una for¬te cultura calcistica, costano po¬co. Un vantaggio per i presiden¬ti, vista la frequenza con cui cambiano i tecnici. I nostri diri¬genti non hanno grande stima dell’allenatore, pensano conti poco e sbagliano. Una volta il mercato lo facevano i ds su indi¬cazione del tecnico, oggi lo fanno direttamente i presidenti con i procuratori. Risultato: vita com¬plicata al tecnico e bilanci sem¬pre in rosso. E’ evidente che c’è un errore, perché con tutti i sol¬di che entrano nel calcio è im¬possibile chiudere in rosso. Nel¬le loro altre aziende perché i bi¬lanci sono sani?».
Provi a spiegarlo lei...
«Forse vedono la squadra come un giocattolo. Se devono com¬prare un’azienda o uno stabile per 30 milioni di euro, chiamano gli esperti, valutano ogni cosa. Se nel calcio un osservatore ami¬co di un amico consiglia un ra¬gazzo di Belo Horizonte che co¬sta 20 milioni, prendono, stacca¬no l’assegno e lo vogliono in campo la domenica. Ma per gio¬care in un grande club, non ba- avere qualche colpo ed esse¬re bravo per 10 partite, devi es¬serlo per 50. Un acquisto va stu¬diato bene: partite, gol, presta¬zioni, caratteristiche, carattere, continuità di rendimento...».
Oggi l’Inter vince perché ha giocatori bravi per 50 parti¬te?
«Esattamente. Giocatori di ren¬dimento e di personalità, sem¬pre. Non tolgo meriti all’Inter per aver vinto un campionato senza Juve e con le penalizzate. Hanno fatto una grande stagio¬ne con un organico forte e com¬pleto: non ci sarebbe stata co¬munque storia».
E quest’anno?
«Lo stesso. Non vedo come le al¬tre possano competere. Da quando c’è Mancini, Moratti non spende più a caso, non compra più i giocatori migliori dell’anno prima, i presunti campioni, ma i migliori degli anni prima. Gente come Suazo e Chivu che gioca bene da 4 anni».
Può centrare l’accoppiata?
«Sì. Credo punterà soprattutto all’Europa e rivincerà lo scudet¬to se andrà avanti in Champions, altrimenti rischia di perdere le motivazioni. Mancini ha una ro¬sa sterminata e varia: nessun doppione. Se giochi con una dife¬sa alta e aggressiva, mette Sua¬zo e ti ammazza con la profon¬dità. Se giochi con una difesa bas¬sa, ecco Cruz e Ibrahimovic che vengono a prendere palla tra le linee... Se resta flessibile, Manci¬ni può vincere tutto».
E le altre?
«Il Milan tecnicamente è l’alter¬nativa più credibile, ma è vec¬chiotto. Al suo livello c’è la Ro¬ma, una squadra che col gioco ot¬tiene più di quello che gli con¬sentirebbe la rosa. Ha un pro¬getto tecnico, si distingue da tut¬te le altre, ritmi altissimi, massimo uno o due tocchi. Ma ha giocatori insostituibili. Sa chi è il centravanti della Roma?
Che domanda, Totti!
«No, è Perrotta. Alla fine di ogni azione è sempre lui davanti al portiere. Totti non va in profon¬dità, col suo gioco ci manda Per¬rotta e gli esterni. Il problema di Spalletti è migliorare la rosa perché è complicatissimo inse¬rirsi. Se prende un big, deve sa¬dere persi rimettere in gioco, altri¬menti meglio lasciar perdere. E anche chi si applica ha difficoltà, come Vucinic che pure è fortissi¬mo. Farebbe 20 gol in qualsiasi squadra. Andrebbe preso ora che è deprezzato...».
Capitolo Juve...
«Mi aspetto una Juve combatti¬va. Stimo moltissimo Ranieri, assurdo sia arrivato così tardi in una grande. Però c’è più di un interrogativo da risolvere. Allo stato attuale se la gioca con la Fiorentina per il quarto posto».
Peserà l’assenza di Toni?
«Avevano tre possibilità per sosti¬tuirlo, ne hanno scelte due. Pren¬scii Vieri: se sta bene fisicamen¬te ed è motivato, hanno fatto un affare. Puntare su Pazzini: per me il più bravo tra i giovani, il futuro della Nazionale. Feci inutilmente fuoco e fiamme con Cairo per prenderlo a gennaio. Se Vieri però farà ombra a Pazzini, non avran¬no costruito per il futuro. Se si in¬tegrano, bingo!».
La terza ipotesi?
«Prendere Huntelaar. All’estero non ce ne è uno più forte».
Meglio di Pato?
«Come centravanti, sì. E vai sul sicuro...».
E la Samp con Cassano va sul sicuro?
«Quando aveva 18 anni e costava 60 miliardi, Galliani lo voleva, ma lo sconsigliai. Troppe incognite. Cassano ha dimostrato di non aver capito tante cose. Se Maz¬zarri fosse nella Samp da più tempo... Tecnico alla prima sta¬gione e Cassano alla prima sta¬gione: qualche rischio c’è. Però se arriva gratis, avrei detto di sì an¬ch’io. Non a cuor leggero, però».
Per qualcuno il suo 3-4-3 non va più. Ma i moduli invec¬chiano?
«Un modulo fa parte della tatti¬ca e si costruisce sul regolamen¬to. Gli allenatori al top conosco¬no tutti i moduli, poi devono adattarli ai giocatori. All’Inter vinsi le prime sette partite su ot¬to giocando a tre dietro con Ada¬ni e Gamarra, perché erano adatti a quel modulo. Poi si infortunò Coco, fui costretto a cambiare e cominciai a giocare a quattro...».
Per Zeman il 4-3-3 non si tocca.
«Zeman però si costruisce la squadra dall’inizio. Molti riten¬gono il 4-3-3 il modulo che copre meglio il campo. Ma il calcio non è il subbuteo: i moduli devono essere elastici. Se Zeman ha gli esterni che rientrano, come Rambaudi o Paulo Sergio, allora il suo modulo è equilibrato, al¬trimenti soffre. Il problema non è il modulo, ma l’interpretazione del modulo».
Pronto a rientrare in corsa?
«No stavolta no. Devo avere la squadra dall’inizio per far capi¬re il mio calcio. Non sono un ge¬store da squadra in corsa. Spero di restar fuori e non farmi con¬vincere da nessuno a rientrare».
Allora la vedremo in tv...
«Amo fare l’allenatore, non l’opi¬nionista. Però non mi dà fastidio chi lo fa. Vivi e lascia vivere, sba¬glia chi si offende»
Calciopoli un anno dopo: è stato fatto abbastanza?
«No. E’ stato fatto poco e male».
L’allenatore traccia il bilancio del ritiro e sposa la linea del club sul mercato
« Già mi rispecchio nel Toro»
Novellino: « Sono sorpreso, subito squadra a mia immagine e somiglianza»
NOSTRO INVIATO
MARCO BONETTO
ACQUI TERME
Novellino, il presidente Cai¬ro ha detto che è stato fin sorpreso da lei: «Spesso le etichette sono sbagliate. Il nostro mister non è solo un grande allenatore tutta grin¬ta, ma è anche un sapiente psicologo», eccetera eccete¬ra. Quanto danno fastidio le etichette a lei?
«E’ così, è il mondo. Io sono spes¬so giudicato per come vivo le partite, con enorme impegno e intensità. Per cui, talvolta, dan¬no un’immagine del sottoscritto riduttiva, sbagliata. In realtà Novellino è quella persona che non brucia mai l’erba dove pas¬sa: l’esatto opposto. In tutte le città e gli ambienti in cui ho la¬vorato, ho sempre lasciato amici cari, buoni ricordi, ottimi rap¬porti. Anzi, non ho lasciato pro¬prio nulla, perché da anni posso vantare amicizie vere dapper¬tutto. Rapporti umani che per¬mangono. E sono sempre sere¬no, positivo, costruttivo. Sono anche maturato, è chiaro. Per sentito dire, però, nel calcio si appioppano etichette a destra e a manca».
I sergenti di ferro, gli allena¬tori di ghiaccio...
«Figurarsi! Altro che ghiaccio: ci sono dei tecnici che in panchina fanno i buoni, ma in realtà fin¬gono soltanto».
Accetti la battuta: è perico¬loso entrare nel suo spoglia¬toio, dopo una sconfitta?
«No, no, non è pericoloso... (e sor¬ride, ndr). Però è ovvio che subi¬to dopo un ko stai male, sei in¬cavolato ».
I giocatori del Torino parla¬no benissimo di lei. Anche a taccuini chiusi, come si dice gergalmente.
«Mi fa piacere, penso che abbia¬no potuto apprezzarmi, subito. Ed era fondamentale farmi co¬noscere come uomo, non solo co¬me tecnico. In questo senso cito per primi i Melara, i Cioffi, gli Stellone, i Franceschini. Coloro di cui si parla sovente sui gior¬nali, negli articoli di mercato. Ebbene, hanno toccato con mano come io non lasci nessuno in di¬sparte, ma coinvolga sempre tutti. Perché io ho davanti degli uomini. Dei padri di famiglia, spesso. E per me il rispetto... ri¬spetto da dare e da ricevere... è la prima legge. Parliamo ancora dei giocatori già citati. Io sono un uomo-società, condivido tutti gli obiettivi del club: si sa che quei 4 ragazzi potrebbero parti¬re, ma in questo mese di ritiro non ho mai lasciato fuori nessu¬no. E loro hanno mostrato di¬sponibilità immensa».
Un primo bilancio, in gene¬rale.
«Mi aspettavo di inserirmi in questa maniera, ma sono stato anche fortunato, agevolato dalla bontà della rosa, dal valore uma¬no dei giocatori. Per un allena¬tore avere nello spogliatoio gen¬te come Corini, Comotto, Baro¬ne, Di Michele, Natali, Sereni, Lanna e via dicendo è impor¬tantissimo. Seminano anche lo¬ro. Mi hanno dato una bella ma¬no: è doveroso dirlo».
Comotto capitano.
«All’inizio la fascia poteva pe¬sargli, ora invece la indossa da padrone. Miglior complimento non potrei fargli. E Comotto se lo merita tutto».
E poi c’è Corini: un altro ca¬pitano, giusto?
«Corini raggruppa tutto ciò che un giocatore può sperare di ave¬re in sé. Carisma e doti tecniche. Così come il Toro è già una squa¬dra vera, così Corini sa dirigere la macchina in mezzo al campo. E’ già al 100 per cento, quanto a padronanza nel Torino. E’ dispo¬nibile, ha un consiglio per ogni compagno ed è molto ascoltato, difatti. Questo è un vantaggio per tutti. E noi, di uomini guida, ne abbiamo uno in ogni reparto. Anzi: più di uno».
Il progetto.
«Il progetto è anche essere coin¬volti dall’entusiasmo del presi¬dente. Ecco il progetto più im¬portante: tutti vogliono far bene, a ogni livello, e tutti hanno le idee chiare».
Quanto le è dispiaciuto sen¬tire esprimere in tv così tan¬te sentenze, tutt’attorno alla vicenda Recoba? Come se voi, nel Torino, foste divisi.
«Altro che divisioni! Siamo tutti partecipi, in un clima di straor¬dinaria sintonia. E, se possibile, la società mi fa sentire così coin¬volto, da avermi fatto aumenta¬re persino gli stimoli».
E Recoba?
«Recoba è un grandissimo gio¬catore che può fare comodo a tutti. Ed è naturale che sia ab¬binato a me, dopo la sua esplo¬sione nel mio Venezia e a fronte della stima reciproca che dura da anni. Gli voglio anche bene. Ma resta il fatto che il Toro ha già fatto le sue scelte. Mai dire mai, nel calcio. Però il Toro ha già Rosina e ha dei progetti net¬ti delineati da tempo».
Il presidente ha parlato di Amoruso come di «un gioca¬tore importante».
«Okay, ma io penso ad allenare i giocatori importanti che ho: co¬me Ventola e Bjelanovic, ad esempio. E di loro sono contento. Come di Di Michele, natural¬mente ».
Ma è squalificato sino a fine ottobre.
«Ovvio che sarebbe meglio, se lo potessi utilizzare anche a inizio stagione: ma, come sapete, il suo stop era preventivato. Non sono preoccupato. Ventola e Bjelano¬vic possono veramente dare mol¬to, credetemi, sia se giochiamo a una punta sola, col 4-4-1-1, sia se in certi casi occorrono due at¬taccanti di peso. Le qualità di Ventola sono ben note e Bjela¬novic non solo è bravo a tener palla e a far salire la squadra, ma è un altro che può segnare parecchio. Poi c’è Barone che si inserisce in velocità e vede la porta, poi c’è Rosina che cre¬scerà, giocando tra le linee. Aspetteremo Di Michele. Ma fin da subito possiamo fare bene. Cioè molto male agli altri. E’ quanto dico e pretendo: non mi basta avere una difesa forte».
Comunque il Toro segna su azione quando in campo c’è (anche) Di Michele.
«E’ vero. Ma sarebbe strano se non fosse così: ha giocato molto, è bravo, è un attaccante su cui puntiamo».
In attesa del suo rientro, il Torino potrebbe ingaggiare un attaccante in più. Il pre¬sidente non l’ha negato.
«La società sa che cosa deve fa¬re, di qui a fine agosto. Intanto tutti hanno già visto come il To¬rino abbia operato bene sul mer¬cato. Io sono contento di chi ho a disposizione. E di come si è lavo¬rato. Fisionomia tattica precisa, belle sorprese come Rubin, la stessa crescita di Di Loreto: se¬gnali importanti. Onestamente, non credevo che dopo un mese saremmo già stati così avanti. Si vede la mia mano, tatticamente. Controllo, copertura del terreno di gioco, sempre. E possesso pal¬la. E si vede il mio carattere: non mollare mai, colpire, reagire. Sì, è già un Toro a mia immagine e somiglianza. Mi sento a casa mia da ogni punto di vista. Inol¬tre non abbiamo avuto infortu¬ni... veri: bisogna ringraziare an¬che lo staff atletico e medico».
Un’altra bella realtà è Vai¬latti.
«Vero. E se l’ho tolto dopo poco a Marassi, è stato solo per motivi tattici. Capita di dover corregge¬re una gara, sacrificando un gio¬catore. Pensate che gli ho anche chiesto scusa per la sostituzione obbligata».
Campo e mercato: il Torino ha già il suo secondo portie¬re? E’ Fontana, dunque?
«Era partito come terzo, ma con le sue qualità ha scalato posizio¬ni. Si ha fiducia in lui. E finora io non ho chiesto alla società un al¬tro portiere».
Il ciclo.
«Con saggezza e umiltà da par¬te di tutti, il presidente per pri¬mo vuole un ciclo vincente. Io in¬tendo raggiungere qualcosa di veramente bello. Il Toro non può essere un punto di partenza: è troppo importante. Il Toro è una svolta. E tutto il nuovo Toro, dal¬la società allo spogliatoio, vuole aprire un ciclo. Ora affrontiamo un torneo molto difficile e quin¬di doppiamente bello, stimolan¬te. Ma io non conosco le cose fa¬cili, ho dovuto conquistare e me¬ritare tutto. Questo deve essere il modo di pensare pure del Toro, sul campo. E lo spirito di gruppo dovrà essere il motore. Abbiamo una grande società: tutti assie¬me, siamo come una pigna chiu¬sa. Ci sentiamo protetti».
Lanna, Grella e Rosina sono in ritardo nella forma.
«C’è una spiegazione per ciascu¬no. E al momento giusto, per il campionato, saranno pronti tut¬ti ».
L’esordio con la Lazio.
«C’è già un po’ di ansia, di emo¬zione: normale. Sarà un campio¬nato molto più difficile del solito. E’ lotta aperta anche per lo scu¬detto. Sarà dura raggiungere ogni obiettivo, per tutti. Non ci sono penalizzazioni. E sono ve¬nute in A piazze grosse come Napoli e Genoa».
E la Juve?
«Non c’era bisogno che citassi la Juve: era ovvio».
L’Europa è un’illusione o una possibilità?
«La squadra mi ha già sorpreso, l’ho detto. Lavoriamo, facciamo punti. Poi vedremo».
Di Michele ha detto che ri¬troverà il Toro, tra due mesi e mezzo, nella parte sinistra della classifica.
«Di Michele è un ragazzo molto intelligente. E’ proprio bravo in tutto». E giù un altro bel sorriso.
Si sente invidiato da tanti al¬lenatori?
«Positivamente invidiato? Sì. Non può non essere così: alleno il Toro. Un Toro ambizioso. E poi sembra tutto pazzesco: quasi 40 anni fa giocavo nel vivaio gra¬nata, sono cresciuto al Filadel¬fia, ho esordito in A al Comuna¬le e al Comunale, 35 anni dopo, sono tornato per la presentazio¬ne ufficiale del nuovo Toro. Una serata bellissima: 20 mila cuori granata in festa e la vittoria fi¬nale col Bruges. Ma dovranno arrivarne altre di serate così».
Una confidenza... intima.
«Una confessione di mia moglie. Mi ha detto: “Da quando ti cono¬sco, non ti avevo mai visto tanto sereno, pieno di entusiasmo, di voglia, di fiducia”. Una bella con¬fidenza, vero?».
Tecnici senza panchina: da10 anni non allena in Italia, ora è pronto a rientrare
«Mi sono perso il peggio»
Scala: «Doping, bilanci, scandali. Hanno distrutto il calcio, per fortuna non c’ero»
«Nel ’94 il Parma andava a pane e salame, la Juve invece... Vivevamo in simbiosi con la città e la gente, poi Tanzi ha rovinato tutto.
Il declino con l’arrivo dei grandi manager» «Il presidente della Colombia mi telefonò per far giocare Asprilla. Le partite d’oggi: zero spettacolo e nessuna novità. Adesso faccio il contadino, ma se mi chiamano...»
ANDREA DI CARO
«IO SENZA panchina? Ma no, si sbaglia. Ne ho una bellissima nella mia azienda agricola... Mi ci siedo spesso mentre vedo cre¬scere il tabacco, nostra principa¬le produzione, il mais, il grano». Non si è smentito Nevio Scala, lui l’aveva sempre detto: «Alle¬nare è una passione, non un’os-sessione. Se ricevo la proposta giusta, metto a disposizione il mio entusiasmo e la mia espe¬rienza, altrimenti, torno a fare il contadino». Un contadino un po’ atipico però. Non ce ne sono tan¬ti che hanno girato il mondo e parlano correttamente «italiano, francese, inglese, tedesco, spa-gnolo e un po’ di cirillico. Il tur¬co? No, quello no, della mia espe¬rienza in Turchia voglio dimen¬ticare tutto...».
Scala, come sta?
«Da Dio, grazie. Manca solo la pioggia. Il tempo è come il calcio: negli ultimi anni è cambiato tut¬to e non ci si capisce più un gran¬ché. Ma abbiamo acqua a suffi¬cienza per irrigare i campi. E sia¬mo gente che si accontenta».
Azienda a conduzione fami¬liare?
«La gestisco con mio fratello, ab¬biamo tre lavoranti fissi, solo du¬rante la raccolta si sale quasi a quindici».
Sembra il suo primo Parma.
«Eh sì: due segretarie, una cen¬tralinista, Pastorello dirigente, io a capo del settore tecnico, un medico e un massaggiatore. Però sono bastati insieme a un grup¬po di ragazzi straordinari, per scrivere una bellissima storia di sport durata sei anni. Non erano tutti grandi campioni, ma tutti erano grandi uomini».
Il Parma dei miracoli...
«Adesso sì, sembra un miracolo, ma era ”semplicemente” il frut¬to del lavoro quotidiano, c’era il rispetto, l’entusiasmo, la voglia di stupire, di divertire e diver¬tirsi ed eravamo perfettamente calati nella realtà circostante, in simbiosi con la città e la gente. Era ancora un calcio vero, non inquinato, anche se alla fine del mio ciclo si cominciavano a sen¬tire le prime avvisaglie dei pro¬blemi che poi hanno sconvolto il pallone...».
La stagione 1994-1995 fu un lungo duello Juve-Parma: voi secondi in campionato e Coppa Italia, bianconeri ko nella finale di Coppa Uefa. Ora sappiamo che quella Ju¬ve abusava di farmaci...
«Una cosa è certa: noi andavamo a pane, salame e un buon bic¬chiere di vino. Ho sempre voluto pensare che arrivavamo secondi perché non eravamo abbastanza bravi per arrivare primi. La sto¬ria e le inchieste hanno aggiunto anche altri elementi. In quegli anni si è cominciato ad abusare dell’aiuto che possono fornire la medicina, i farmaci, la scienza. E oggi si fa fatica a trovare uno sport che non sia inquinato».
Se ne esce?
«Si deve, si può. Ma devono vo¬lerlo tutti. A partire da chi legi¬fera, poi chi controlla, quindi i medici, la componente fonda¬mentale, e gli atleti. Prevenzio¬ne, sanzione, repressione».
Ha lasciato il calcio italiano nel 1996: si è perso il peggio...
«Ringrazio la stella che mi ha portato fuori dall’Italia. Non so se sarei stato così abile da non cadere, anche involontariamen¬te, nelle vicende che sono segui¬te. Tutto quel che è successo, dal doping farmaceutico a quello dei bilanci fino a calciopoli, l’ho visto dall’esterno. Sono felice di non essere mai stato coinvolto né in¬terrogato da nessuno. Ho evita¬to il peggio del calcio, è vero, ma non ne siamo ancora completa¬mente fuori. Se e quando rien¬trerò spero di contribuire al cambiamento. Il mondo del cal¬cio è diventato il regno dell’esa¬sperazione. In 10 anni si è avve¬lenato tutto, è cresciuta la vio¬lenza. Apri un giornale e leggi solo di polemiche, liti, scandali. Questo non è più sport».
C’è un preciso momento in cui il crack ha avuto inizio?
«Quando sono arrivati i grandi manager: i maghi della finanza, della Borsa, del marketing, del¬lo sfruttamento del marchio. Tutte quelle cose che dovrebbe¬ro essere generate dal risultato sportivo, hanno cominciato ad anticiparlo. Abbiamo messo il carro davanti ai buoi. Sono cre¬sciuti gli indebitamenti e, con lo¬ro, gli artifizi di bilancio, le plu¬svalenze, i trucchi. Con il risul¬tato finale di dover vincere a tut¬ti i costi per non rischiare il fal-limento. E a volte non è bastato più neanche vincere».
Sembra la parabola del Par¬ma...
«Quando c’ero io, non si percepi¬va ancora la potenza della Par¬malat. Tra i giocatori non c’era¬no divi. Si stava insieme, a fine allenamento magari andavamo a trovare i ragazzini negli ospe¬dali, tutto all’impronta. Quando fummo eliminati al primo turno di Coppa Uefa, la gara successi¬va in campionato, festeggiammo con i tifosi l’eliminazione con pa¬ne, salame e lambrusco. La pri¬ma Coppa Italia sembrò un trionfo e a Wembley per la fina¬le di Coppa Coppe ci seguirono 13.000 tifosi. Ma ce ne sono mil¬le di episodi. Poi si è cominciato a debordare».
L’avvocato Agnelli disse: «In certi anni a vendere il latte si guadagna più che a ven¬dere automobili» .
«Tanzi iniziò a comprare di tut¬to, a spendere centinaia di mi¬liardi, sponsorizzava dieci club nel mondo, e Parma, da città di provincia coi piedi per terra, si scoprì crocevia internazionale. Sono arrivati grandi campioni, che però con Parma non aveva¬no niente a che fare e cercavano altri palcoscenici. Ingaggi farao¬nici e che macchine davanti al campo d’allenamento... Ma io ero già andato via, noi ci allena¬vamo tra i vecchi che giocavano a carte e le mamme con le car¬rozzine. Lo sa anche Capello...».
Che c’entra Capello?
«Aveva quasi firmato per Tanzi, venne a vedere il centro sporti¬vo: scoprì quella realtà e disse: ”non fa per me”. E se ne andò al Real Madrid».
Lei invece il Real Madrid l’ha rifiutato...
«Due volte. La prima, dopo due anni di Parma, perché non mi sentivo pronto. La seconda dopo l’esperienza al Borussia Dort¬mund: poco prima del ritiro, Sanz cacciò Camacho e mi chiamò. Ma era tutto già fatto, calciomercato e squadra. Non avrei potuto inci¬dere su niente. Non me la sentii e feci bene. Fu assunto Hiddink, durò tre mesi».
Era già campione del mon¬do.
«Presi il Borussia campione di Germania e d’Europa. Il proble¬ma fu motivare giocatori con la pancia piena. Faticavano in campionato con le piccole, ma erano abituati ai grandi palco¬scenici e non fallimmo l’Inter¬continentale a Tokyo».
Le altre esperienze estere?
«L’unica amarezza l’ho vissuta in Turchia. Non nomino nean¬che la squadra, i dirigenti si comportarono malissimo con me, voglio dimenticare tutto di quella esperienza».
In Ucraina andò meglio...
«Un’esperienza meravigliosa, prima ancora che sportiva. Vin¬cemmo per la prima volta nella storia del club campionato e cop¬pa nazionale. Ma splendido fu il rapporto con la gente, con i gio¬catori, con il presidente Akma¬tov. Ricchissimo e generosissi¬mo: mi dava il suo aereo perso¬nale per tornare in Italia e mi mise a disposizione il suo parco macchine extralusso. Io invece comprai solo una jeep per anda¬re a caccia: una Lada Niva usa¬ta, che era stata l’orgoglio nazio¬nale in passato. I tifosi mi han¬no visto subito come uno di loro. Lo Shaktar era come il primo Parma, lì ho inciso davvero. Ai giocatori cucinavo la pasta, loro che prima della gara mangiava¬no solo caviale... L’anno succes¬sivo siamo stati eliminati in Ue¬fa, e il presidente ha preferito cambiare, ma mi ha saldato tut¬to. Ora lo Shaktar è come l’ulti¬mo Parma di Tanzi. Spende e spande...».
Da Donetsk a Mosca.
«Allo Spartak ho vinto una Cop¬pa di Russia ma vissuto una sta¬gione sfortunata: club subito in vendita, Titov, l’uomo migliore, fuori per doping. Sono andato via dopo 8 mesi: prima però ho visto l’opulenza che può offrire Mosca, ma anche la povertà di chi vive solo 20 metri fuori città».
Torniamo a Parma: ha più incontrato Tanzi?
«No, non ho avuto il coraggio. Ho stimato e ho voluto bene al Cava¬liere: mi ero riproposto di andare a trovarlo, ma ho temuto che non mi sarebbero uscite le parole nel¬l’affrontare certi discorsi. Andare da lui e limitarmi ai convenevoli, non avrebbe avuto senso. Non mi ergo a giudice, ma l’amarezza e la delusione per quanto è successo e per gli errori commessi non pos¬so nasconderle».
Se le dico Tino Asprilla?
«Apre una ferita. Se la società l’a¬vesse fatto gestire a me, avrebbe giocato a lungo in Italia. Invece gli permisero di tutto e lui andò fuori giri. Prima della finale di Coppa delle Coppe con l’Arsenal tornò dalla Colombia con una fe¬rita alla gamba, forse da arma da fuoco. Ricevetti pressioni di ogni tipo per farlo giocare, mi chiamò anche il presidente della Colom¬bia: ”C’è tutto il paese davanti al¬la tv”. Tino non era pronto e lo tenni fuori. Da quel giorno rom¬pemmo i rapporti».
Un tecnico che le piace?
«Mi piacciono le belle donne non i tecnici... Comunque trovo Spal¬letti bravissimo e molto equili¬brato ».
Guidolin non gradisce i tec¬nici opnionisti tv, lei?
«Io non accetto il fastidio di Gui¬dolin. Ognuno deve vivere la propria vita o il ruolo che rico¬pre senza essere condizionato. Se un mio collega dice che la mia squadra non gli piace è libero di farlo, io non farei mai polemica».
Lei ha mai avuto un agente?
«No, anche se un intermediario mi ha offerto lo Shaktar. Non so¬no contrario per principio: tra gli agenti come in tutte le categorie ci sono gli onesti e i disonesti».
Ma questo calcio la diverte? E nota qualche novità?
«No, su tutta la linea. Anche ai mondiali, qualità pochissima e nessuna novità tattica».
Scelga tre campioni...
«Kakà, che non ha rivali, Buffon, il migliore portiere del mondo e Totti: oltre alla classe ho ap¬prezzato la sua autoironia con i libri di barzellette. Molto meno l’addio alla Nazionale».
Ma se le offrissero una squa¬dra, saprebbe già come farla giocare?
«Se me la fanno anche costruire sì. Come il mio primo Parma, un regista davanti alla difesa tipo Zoratto, esterni alla Di Chiara e Benarrivo, un centrale come Grun che si inserisce, un tre¬quartista stile Zola e una punta».
Funzionerebbe ancora?
« Se mi danno una squadra, glie¬lo faccio vedere...».
tratto da tuttosport |