Berlino, il dono avvelenato di Hitler
Il contrasto fra gli architetti Piacentini e Speer dietro la scelta di fare dell’edificio monumentale un esempio di stile ellenico, ariano e nazista
Berlino, il dono avvelenato di Hitler
di ARTURO CARLO QUINTAVALLE
Ai primi d’aprile l'Istituto centrale del restauro presenterà a Ferrara il recupero da poco compiuto dei portali scolpiti e degli altri pezzi montati come arredo fisso all'interno dell’ambasciata d'Italia a Berlino costruita fra 1938 e 1943, danneggiata dalla guerra, poi abbandonata, infine restaurata e inaugurata il 26 giugno 2003 dal presidente Ciampi. Certo, siamo davanti al recupero di una collezione significativa di sculture del Rinascimento, ma perché proprio a Berlino e dentro quell’ambasciata costruita sotto la sorveglianza di Albert Speer da Friedrich Hetzelt in piena guerra, l'Italia propone un insieme di sculture rinascimentali e non invia scultori contemporanei a realizzare l'arredo architettonico? Prima dunque di analizzare le sculture, che hanno una storia complessa, servirà a comprendere quando matura il progetto di edificare una nuova ambasciata a Berlino e perché.
Gli anni sono quelli del Patto d'acciaio, quelli del viaggio di Hitler in Italia e del dialogo fra le due potenze alleate, della pianificazione di Berlino, futura capitale di un Occidente conquistato. Speer è il progettista dei grandiosi assi attrezzati della città, quello nord-sud, verso l'Italia, quello est-ovest e degli edifici enormi, palazzi, stadi, archi, cupole, colonnati che evocano l'antico, il mondo greco piuttosto che il romano. La nuova arte ariana domina la scena, l'«arte degenerata» ( Entartete Kunst ) è rimossa dai musei e adesso Hitler vuole donare all’Italia la più bella delle ambasciate, presso il Tiergarten, il parco, e dedicare una piazza e un grandioso monumento a Mussolini. Ma, nel progetto per l'ambasciata, le decisioni le assumono Hitler, Goering e Speer, oltre che Hetzelt, agli italiani spettano solo suggerimenti, ad esempio sul rivestimento in travertino.
Ma allora la Grande alleanza, il Patto d'acciaio nascondono una prevaricazione o quantomeno una divergenza d’opinioni fra Germania e Italia? I documenti, le ricerche anche più recenti parlano chiaro: da una parte, in Italia, Marcello Piacentini, dall'altra, in Germania, Albert Speer puntano su due modelli diversi. Piacentini, che costruisce la Città universitaria a Roma (dal 1932), piazza della Vittoria a Brescia (1929-31), il Palazzo di giustizia di Milano (1933-40), propone prima di tutto una mediazione fra architettura razionalista e la citazione del mondo romano e vuole edificare strutture enormi ma non sesquipedali. Piacentini evoca poi anche i modelli del paleocristiano, ad esempio nella disposizione degli edifici della Città universitaria di Roma o nella pianta del Palazzo di giustizia di Milano, e cita naturalmente il Rinascimento; tutto questo significa mediazione, appunto, fra romanità, origini cristiane e Rinascita.
Nulla di tutto questo in Speer: il pianificatore di Berlino evoca quella che pensa possa essere stata l'antichità greca ma in dimensioni ciclopiche e, per l’ambasciata d'Italia, propone un tempio appiccicato, a doppio livello, sulla grande fronte la quale poi riprende, con modifiche, il Palazzo della consulta a Roma, opera di Ferdinando Fuga (1732), palazzo, guarda caso, che a Hitler era molto piaciuto.
Così questo dono all'Italia, in apparenza generoso ma, sotto sotto, avvelenato, della nuova, grande ambasciata, ben diecimila metri quadrati, come poteva essere trasformato in idea di nazione, rappresentare, almeno negli spazi interni, l'originalità della civiltà italica? Scrive proprio nel 1938 Giuseppe Bottai su «Critica fascista» che «fra i tanti valori che il fascismo ha scoperti e portati in primo piano, si riconosce all'arte un posto essenzialissimo nella personalità politica del popolo italiano, un posto fondamentale e costitutivo in quella civiltà italiana che il fascismo è sorto a difendere, che vuole sviluppata e affermata nel mondo». Ma come realizzare, a Berlino, tutto questo?
Per rispondere dobbiamo adesso ripercorrere l'altra storia, quella del non casuale recupero di un blocco di opere del Rinascimento che erano sul mercato in Germania ma che avrebbero potuto felicemente finire al Kaiser Friedrich Museum (oggi Bode Museum), dove avrebbero trovato numerosa compagnia e che invece vennero acquistate e sistemate dentro la nuova ambasciata. Un'altra storia, dunque, che si innesta su quella del confronto-conflitto fra Piacentini e Speer, fra l'Italia e la Germania, della architettura intesa come immagine simbolica dei due regimi. Sulla Victoriastrasse a Berlino, dove era la prima sede della nostra ambasciata, stava anche la villa di Eduard Simon, un antiquario che, come molti collezionisti fra '800 e '900, usava disporre le sculture come arredo fisso; Simon, amico dell'antiquario Stefano Bardini a Firenze, amico del direttore del Kaiser Friedrich Museum Wilhem von Bode, fa acquistare a Bode decine di pezzi italiani ma ne conserva per sé una parte, restaurandoli e anche ricomponendoli, come allora si usava.
Certo il confronto fra Berlino e Roma, inteso come distinte culture, era allora molto evidente. Un giovane critico, Luigi Lenzi, nel 1939 scrive su «Architettura», la rivista di Piacentini, nel numero dedicato alle costruzioni del III Reich, a proposito delle sovradimensionate strutture di Speer: «Anche le cornici e i dettagli trattati dal masso vivo ispirandosi al nostro Rinascimento non hanno il sapore che poteva imprimere loro anche un modestissimo artigiano del nostro Cinquecento». Dunque pesantezza, retorica, schematicità di quei progetti germanici. Del resto, poco dopo, Roberto Longhi in «Arte italiana e arte tedesca» (1941), respingendo ogni teoria che collega razza e prodotti artistici, contrapponeva «lo strazio orrendo, insoffribile, come si esprime nella scultura tedesca fin dal Trecento» all'arte italiana del Rinascimento: «Non è poi bisogno di rammentare come da codeste strade perigliose noi ci togliessimo decisamente ad un tratto e facessimo piazza pulita, fin dai primi anni del nuovo secolo, col Brunelleschi, con Donatello, su tutti, con Masaccio… qui veramente si rinasce alla vita, a una vita del tutto nuova».
Ecco il quadro storico e il confronto ideologico entro cui collocare l'acquisto e la collocazione nella ambasciata di una quindicina di pezzi del '400 e '500, tutti finora poco studiati. Fra questi voglio ricordare qui l'opera più importante, il portale proveniente dal Palazzo Ducale di Federico da Montefeltro a Gubbio che ha un pendant al Victoria and Albert di Londra, pezzo probabilmente, come molti altri, uscito clandestinamente dall’Italia e databile agli anni 70 del secolo XV, opera di finissima fattura. E ancora un portale con architrave centinato, di ambito padovano, vicino alla cultura di Niccolò Pizolo (1460 circa); e un portale genovese sempre del secondo '400; un altro in pietra rossiccia con al centro dell’architrave un tondo con aquila inserito a posteriori in un complesso che pare lombardo di fine '400. Ricordo un camino composto da pezzi diversi secondo un tipico gusto antiquariale; un architrave forse quattrocentesco ma con due piedritti di pieno '500 e sopra una cornice forse rifatta. Di ricomposizione è anche la fontana, opera probabilmente veneta di tardo '500, mentre la coppia di leoni, più che trecentesca come si sostiene, appare rinascimentale con ritocchi persino ottocenteschi. Dunque un blocco interessante di pezzi, recuperati da Giuseppe Basile e dall'Icr.
Ma torniamo al senso storico di questa vicenda singolare. Il regime fascista riceve a Berlino un dono avvelenato, la identificazione dell'Italia fascista e romana con l'architettura nazista e greco-ariana; ma la nostra identità, lo scrive Bottai, lo scrive Longhi, sta nel Rinascimento, lontanissimo dalle sculture contorte e violentemente espressive dell'arte tedesca. Rinascimento dunque come idea di nazione, spazi aulici calibrati in funzione di un racconto di civiltà altissima, quello delle grandi corti dell'Italia centrale o settentrionale. Che volesse essere, questa, una risposta, intelligente, polemicamente pacata, di Piacentini a Speer? Si potrebbe supporlo.
Corriere della Sera 02.02.2005[Modificato da Il Ghibellino 22/03/2005 23.31]