da www.gazzettino.it
Il Venezia calcio non paga gli stipendi
da sei mesi: sfrattati i calciatori morosi
Mentre la squadra lotta per la salvezza nei playout la società, una tra le più antiche d'Italia, rischia di sparire per sempre
VENEZIA (2 giugno) - Ci sono calciatori che fanno le bizze sul prezzo: un milione d’ingaggio in più o se ne vanno. Altri che non riescono nemmeno a pagare l’affitto di casa e domani saranno sfrattati. Accade ai giocatori del Venezia che sono morosi perché da sei mesi non ricevono parte dei compensi. Anche questo è il calcio che stupisce in tempi di crisi: da una parte la disoccupazione, le fabbriche che chiudono; dall’altra offerte milionarie anche dall’estero. Più scivoli lontano dalle luci della serie A, più scopri un mondo in difficoltà che s’arrangia, che s’arrampica come può, che paga con cambiali e spesso non paga.
Il Venezia è nel guado, lotta per salvarsi dalla retrocessione: ha già vinto la prima partita dei play-out, ma potrebbe rischiare di sparire. Se a fine campionato dovesse fallire dovrebbe ricominciare dalla Terza Categoria. Un bel derby con Burano e non se ne parla più. Se non si troveranno acquirenti, gli attuali proprietari hanno annunciato che porteranno libri e squadra al sindaco e se ne andranno. Forse mister Golban, un siriano-londinese che si è fatto avanti, riuscirà nel miracolo di risollevare il Venezia. È l’ultima speranza, altrimenti una delle società più antiche del calcio italiano chiuderà per sempre.
Il Venezia è nato una notte di metà dicembre del 1907 in un’osteria in Corte dell’Orso. La pioggia bagnava il campo dietro e lavava la statua di Carlo Goldoni. Mister Aemisseger era l’unico svizzero che appena sentiva la parola "ombra" allungava il bicchiere per il vino. Faceva tutto da solo, arrivava in vaporetto a Sant’Elena e scaricava le reti, i paletti, le bandierine e la calce per disegnare le linee del campo. Le leggende nascono così.
Giocare a Venezia è speciale, diverso che al San Paolo di Napoli, al San Nicola di Bari, al Sant’Elia di Cagliari. Sarà anche per fronteggiare tutti questi santi che i veneziani prima hanno battezzato il loro stadio "Penzo", poi lo hanno sempre chiamato Sant’Elena. Ora, se vorranno uscire dall’inferno, avranno bisogno di molti santi del calendario.
Venezia è speciale perché è il solo posto al mondo dove il calcio si gioca sull’acqua, proprio dove la laguna quasi diventa mare. Il solo campo che si raggiungere in vaporetto, ma anche in gondola. E se un calcio più forte manda il pallone oltre la tribuna, c’è sempre in acqua qualcuno che lo rispedisce indietro. Venezia arancio-nero-verde perché da allora la città si è ingrandita e sdoppiata; più colori per fare capire che la squadra è anche Mestre e la campagna, è passato e futuro, fabbriche e turismo.
Venezia che calcisticamente è stata a un passo dal paradiso, quando c’era la guerra e la squadra conquistò la Coppa Italia e sfiorò lo scudetto. Siccome anche allora funzionava la sudditanza psicologica, il titolo doveva andare a Roma. Era la squadra di Mazzola e Loik, un lombardo e un fiumano che avrebbero fatto poi il Grande Torino. Valentino Mazzola era un marinaio magro e povero che non aveva nemmeno le scarpette e per far vedere quanto fosse bravo palleggiò scalzo col pallone di cuoio scuro chiuso con un laccio che lasciava i segni sulla fronte. Forse anche questa è leggenda.
Da allora sono stati salite e cadute, limbo e inferno. Niente come il calcio segna nel bene e nel male la crescita e il declino di una città; ne sottolinea le ambizioni e gli errori, i sogni e le piccinerie. Forse per questo la gloria del Venezia si è esaurita con la Venezia popolare degli Anni Sessanta, quando aveva un porto, una zona operaia, quando nelle calli c’era vita e non solo turisti e l’acqua alta non aveva invaso primi piani e provocato l’esilio di decine di migliaia di abitanti. Forse quello era l’ultimo confine di un calcio tra mare e cielo. C’è stato un ritorno col cuore e coi soldi di Zamparini e i gol di Recoba e Maniero, poi il buio.
Il "caso Venezia" riflette non soltanto la ricchezza e gli eccezionali numeri delle presenze turistiche, ma anche l’invecchiamento della città e le ambizioni rimosse di chi, aggrappato al passato, non investe nel futuro. Ormai sono in pochissimi sulle tribune del campo che sta laggiù tra isola e mare. Le grandi del calcio non sbarcano più a Sant’Elena.
Dell’anima calcistica della città è rimasto poco, da anni qualcuno ci prova senza fortuna: chi con illusioni, chi con veri imbrogli. Come quelli trovati con la valigia piena di soldi dopo un pasticcio genoano. Come gli altri che si stupirono per un gol nella nebbia fatto da un brasiliano che nessuno aveva avvertito della combine. Sempre più giù, in un calcio che diventa più avido, che marca la distanza tra ricchi e poveri, che fa finta d’arrabbiarsi e di punire gli imbroglioni ma salva sempre i soliti noti. Una casta nella quale è difficile è entrare e che lega se stessa ai diritti televisivi, distacca per legge la serie A dalla serie B e disprezza quasi il calcio minore.
Questo Venezia disperatamente lotta per salvarsi e i suoi giocatori anche per la dignità, una doppia dignità: di calciatori e di uomini. Non hanno vetrine famose, non hanno telecamere. Da oggi nemmeno casa.