Racconti

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Johan
00giovedì 18 settembre 2008 04:09
Vedete voi...
La capacità di ragionare non gli apparteneva più, o forse più probabilmente aveva una coscienza maggiore riguardo la sua ininfluenza in certi ambiti di illogicità confusa, di assurdo, e tenue candore di mani. In fondo, però, sapeva ancora pensare. Si sarebbe addirittura riuscito a vedere, a ridisegnare, nell’oscurità. Era una sagoma appena accennata, fasci di tagli di buio nel buio più nero delle pareti spente. Una linea bianca di mento ed il luccicare di un occhio alla luce della luna che, timida, entrava da un piccolo spiraglio fra le tende, ma sporcata da gialle luci sfocate, ben più vicine. E fuori lo scorcio del cielo. Di grandi palazzi senza anima, che si rimiravano ebeti, in ghirlande di lampade e lampadine. E qualche stella, forse ormai esplosa, forse spenta, che allungava il suo ultimo grido fin dove l’universo ancora poteva udirla. E lui le vedeva. Due. No, tre. Dietro tutto, al di sopra di ogni cosa. Quei tetti parevano scalfirne una, grattarla, come a volerle dire di scendere, come a tentare di strattonarla verso il mondo smorto ed ipocrita in cui loro tenevano le fondamenta. Ma lei non ascoltava, quel grido puro e lontano, echi cosmici di assolutezza, giravano e contrastavano in un cielo sbiadito.
Piano, d’istinto, si disse che doveva alzarsi e scostare più a lato la tenda. Voleva vedere. Vederne ancora. Sperava che altre sarebbero spuntate, da dietro le nubi, solo perché c’era finalmente qualcuno che desiderava ammirarle, e assortamente ascoltarle.
Scostò la mano che era poggiata alla sua. Leggermente, giusto il minimo indispensabile per potersi allontanare, non sentito. Carezzò la pelle che sapeva esser bianca, e non trovò parole che un solo semplice soffio fra i neri capelli.
Lo scricchiolio del divano fu docile, anche se pressante, mentre si alzava. Poi fece un passo.
“Dove vai?” la voce femminile che adesso lo accompagnava verso la finestra era calma, pur essendo in un certo qual modo intimorita dal suo movimento.
“Alla finestra.” Rispose sussurrando, mentre con la mano allargava quel taglio di luce lunare. “Dormi ancora. Ora torno da te.”
“Mi accorgo quando non ci sei.” Fra i bisbigli si riconobbe una piccola risata vivace, da bambina. Ugualmente sincera ed ugualmente fiera.
Alla luce perlacea e a quella sconvolta dei neon fuori, ora si stagliavano perfettamente le linee di un ragazzo dai lunghi capelli. Si appoggiava con la fronte al vetro, e gli pareva di sentir freddo, ma non ebbe ad importarsene. Aveva il torso nudo, e portava unicamente lunghi pantaloni di tela. Si passò una mano sul petto, quasi a sincerarsi avesse ancora qualcosa addosso a sè stesso, distesa sui suoi muscoli, o sulle ossa, o di sbieco sopra l’anima. O nel niente. Controllava che non fosse sparito dietro quelle stelle che così insistentemente lui voleva stare a guardare. E poi quella frase, e quelle dita.
Svaniva tutto attorno a lui e rimaneva da solo con punti di luce verso un vergognoso infinito di scientifica nullità. Credete, pensò, che un mio ricordo possa dimorare fra di voi? E se anche fosse, riuscireste a portarlo ovunque sulla terra? Forse invece dovrei concederlo alla luna. Sarebbe lei così cara da recapitarlo ad ogni essere vivente che scalpita in ardore su di un pianeta insignificante? Forse, dico, saprebbe tenerlo con sé per secoli e generazioni di uomini e donne. Avrebbe la capacità, dite, di mantenere stretto a sé questo mio pensiero? O, forse, se sarete voi a concedermi questa grazia, sareste capaci di gridarlo ancora, come gridate la vostra luce, ad interminabili spazi ed infinite velocità?
Ma dove lo stavano portando quei sentieri. Si ripeté che non poteva regalare un ricordo. E pure lo avrebbe voluto donare a tutti, fuori che tenerlo per sé, così inutile e fastidioso. Forse, piuttosto, avrebbe voluto dire: così senza speranza.
“Amore…” la voce gli giunse come l’eco del riflesso di un suono. Sbattuto in mezzo a piogge di meteore fiammeggianti, nel gorgogliare di un pianeta scontroso. Ma la udì, e ne fu lieto. Non era corso troppo lontano, dopotutto.
Si voltò verso l’interno della camera e scorse il viso della ragazza. Stava quella appoggiata ad un basso mobile di legno e lo guardava fisso ma di sottecchi, tenendo con una mano una folta ciocca di capelli a lato del viso. L’aria indispettita. “Che cosa succede?”
“Temo di aver sognato.” Rispose il ragazzo, con noncuranza malcelata.
“E cosa c’è di male in questo? Niente. Niente per cui temere di farlo.” Eppure anche lei avvertiva qualcosa di indefinito nell’indifferenza sibilante della voce e dietro quelle poche parole.
“Ed il sogno era un ricordo.” Concluse l’altro, tornando a guardare il cielo di fuori. “Niente fantasie immaginifiche.” Riprese parlando più a sé stesso che a lei. “C’ero io, quel luogo, quella notte. E fu tutto istante.”
“Edward, di che cosa stai parlando?” Le uscirono di bocca parole amare, e da qualche parte sentì che forse avrebbe dovuto sputargliele addosso, invece che levigargliele sulla guancia. Eppure lei era lì, avvicinatasi, dolce e quieta, all’amato capo, accarezzando i capelli lisci che gli parlavano di notti senza sonno e movimenti selvaggi. E le labbra sulla pelle fredda e le verdi parole imploranti.
“Di una persona che ho visto. Che ho conosciuto. E che stanotte ha spostato menti e costellazioni, palazzi e sospiri, per giungere dove sono ora e farmi domandare: dove mai si troverà, in questo preciso momento?”
Edward, teneramente, abbracciò la ragazza, e volle per lei il meglio che lui potesse darle. Desiderò per quel cuore grato tutto quello che di bello un uomo vorrebbe dare alla propria amata. Si disse che amava e che di altro Amore veniva ricambiato, ma non in egual misura. Sebbene di infiniti ancora si trattasse. Ed in quella notte lo avvertii più finemente. Un battito irregolare lo scuoteva e recava un altro nome, molto lontano ma davvero ancora così forte. Non avrebbe potuto amare più di così. A nessun altro avrebbe concesso o promesso di concedere tanto.
La ragazza si irrigidì. Quale persona?
“Anita,” disse il ragazzo, con tono fermo. Ma quella non rispose, nascondendo il proprio viso sotto il mento di Edward. “Anita, io ti amo.” E lo disse con assoluta sincerità. Sentiva chiaramente il proprio cuore scaldarsi con garbo a tali parole. Era libero, come se nessuna altra fosse mai esistita a parte la sua dolce Anita. Ma c’era.
“Chi aspetti, Ed? Cosa ancora speri?” La voce di Anita era timida, ma fresca, di nuovo. Forse intuiva, forse capiva.
“Io, sinceramente, non lo so.” Qualcosa che non ha da essere sperato, né aspettato, concluse fra sé e sé.
“Edward, anche io ti amo. Dal profondo del mio cuore.” Anita si alzò sulle punte, dopo aver deciso di mostrargli nuovamente il viso. Lo baciò. Come sempre, con trasporto.
Forse era proprio quello il punto in cui lui sarebbe venuto meno. Nel profondo del proprio cuore. Egli aveva già nascosto qualcuno nell’ultima cella dell’ultima ala della rocca. E non avrebbe certo ardito a tornarvici e raccattare da quei luoghi sconfinati altro Amore per Anita.
“Mi ami davvero? Più di ogni altra donna pensata con Amore?” La domanda innocente della ragazza lo stupì ed in verità lo colse alla sprovvista. L’unica risposta che seppe trovare fu: “Ti amo infinitamente, piccola mia.”
Alla giovane bastarono quelle parole, si volse indietro e trascinando Edward da una mano lo spinse di nuovo a sedere, sul panno sgualcito al caldo del quale fino a pochi minuti prima entrambi dormivano, abbracciati, chiusi nell’intimità di una stanza vuota, solo per loro. La festa di capodanno era stata lunga e gli altri avrebbero dormito ancora molto.
Lei per prima si sdraiò.
“Vieni.” Disse con finta malizia.
Risero entrambi.
L’ombra era passata, e forse mai era davvero calata sulle fronti di quei due sinceri amanti.
“Signorina, la sua voce mi comunica intenzioni poco consone al suo rango.” Scherzò Edward, caricando il tono di una nobiltà fraudolenta.
“Oh, mio giovane signore, la carne è pur sempre carne e pure le principesse hanno bisogno di sfogare umani istinti, non crede? Per cui, quale migliore opportunità di un nobile cavaliere quale voi siete.”
“E’ ben tardi, o ben presto. Forse c’è chi non si è ancora addormentato. Chi magari sta per svegliarsi. Tutto questo è rischioso, principessa.”
L’eco dell’ultima parola che aveva pronunciato fu stoicamente tenuto a tacere. Il sorriso sarebbe voluto venir meno, ma egli lo trattenne eroicamente incastrato fra le sue guance.
Per un ultimo istante visse in un mondo fatto di lei, ancora di lei. Quella persona lontana, mai dimenticata, mai dimenticabile, che avrebbe condiviso senza saperlo ogni suo pensiero, a cui lui avrebbe dedicato un bel mattino, o un romantico tramonto. Il cui nome sarebbe stato nominato in silenzio dietro ad occhi indagatori, fra sorrisi informi, e nell’ipocrisia dilagante di un mondo fatto di ipocriti che negano la propria ipocrisia. Le celle, per un solo indomabile attimo, furono tutte spalancate ed egli vide visi, espressioni, sentimenti fatti in musica, cornici, chiacchiere sotto un cielo che schernisce ma non riesce a colpire, iridi senza ritorno, viaggi senza méta, notti senza sonno, mattini senza voglia, onde gobbe e dalle voci gutturali, bianchi baci, sincere carezze, vogliose intensità d’occhi, lacrime d’abbandono, momenti inattesi, minuti insperati, tempi che rimanevano a mezzo passato e futuro, presenti solfeggianti di decisa volontà, fiammelle di feste e sale spiegate, odori invitanti, parole appena accennate, tentati passi incerti e poi presi di forza, litigi, incomprensioni, risa di pronta guarigione, speranze ininterrotte, speranze infrante, delusioni, indulgenze, menzogne, verità saettanti, fulmini e tuoni in una notte di pioggia e due mani che si stringevano fra loro, diverse ma dello stesso calore, occhi nell’oscurità ma che mai, nemmeno persi in essa, mancavano del loro colore, sorrisi che colpiscono fin dentro le ossa e fanno tremare, coscienza di fortune che mai nessuno nel lungo corso della storia ha potuto assaporare a quel modo, e conoscenza, esperienza, sentenziosa vita.
“Ti amo.” Disse, alfine.
“Anche io ti amo.” Gli rispose Anita, e dunque lo prese dai fianchi, tirandolo a sé. Cominciò a baciarlo sul fianco destro, profondamente, salendo poi fino al petto e prima di arrivare al collo indugiò sulla spalla. Forti brividi percorrevano il corpo dell’amante il quale, piano piano, ricominciava ad assaporare il calore delle labbra della ragazza. A quella piacevole sensazione lui dimenticò di nuovo tutto, riponendo ogni cosa, però, con il consueto riguardo entro le rispettive mura.

Il guardiano delle carceri dell’ultima ala della rocca stava sapientemente armeggiando con le chiavi dei lucchetti quando volle ancora una volta, prima di chiudere il portone, guardare all’interno. Ammirò i cieli e le terre, dai colori inusitati, ed ebbe a chiedersi se mai avesse potuto entrarvi, vivere in quei giardini che brillano perché due soli e due lune vi danzano screziando i propri raggi del colore dell’erba. Assaggiare rosse mele, bianche sul fianco. E fiumi di acqua impalpabile, liscia e tesa, che avresti paura a doverne assaggiare un poco per non doverne morire alla vista. E foreste oscure, fronde sospinte da un vento caldo che le smuove e le fa risuonare di imperioso tormento.
Ma il guardiano ben sapeva quale fosse il suo compito, chiudere quel lontano e sofferto prigioniero entro limiti nascosti, eppure in lui restava quella speranza inaudita, saputa assurda, coscientemente impossibile a realizzarsi, ma continuava ad esserci, come il richiamo di un tempo troppo lontano per essere considerato. E’ laggiù che la speranza brilla ancora, dove il tempo forse più non conterà, ai limiti di baie e faraglioni, mari in tempesta, sul punto estremo di spazio, stelle e cielo. Una speranza impossibile diventa forse probabile nello spazio e nel tempo impossibile? Dubitando di questo egli chiudeva il portone e serrava i lucchetti. Ma già da dentro gridavano i mille cieli e le grandi terre, d’estetismo ridente vivevano queste ultime ed d’un testardo agnosticismo si eran ripieni i primi.

“Ti amo.” Disse Edward, ansimando, goduto l’amplesso. E accarezzava con mani affettuose il caldo seno di Anita, salendo di quando in quando fino al mento. E la guardava.
Lei già dormiva, vinta dal torpore di un piacere fino in fondo goduto ed ora coccolata entro braccia forti e caldi pensieri d’Amore.
Le stelle stavano svanendo, l’alba era vicina. Lui diede un altro sguardo alla volta che si schiariva, stemperando dietro ai monti alle spalle dei palazzi. Proprio non lo volete, il mio ricordo? Pensò tristemente.
“Una speranza impossibile diventa forse probabile nello spazio e nel tempo impossibile?” Edward pronunciò queste parole con reverenza, dando forma al mulinello di pensieri che l’avevano ossessionato durante la notte, dopo il sogno e durante, sì, anche il rapporto con Anita.
“Una speranza…impossibile…spazio e tempo…impossibile…” era perso in quella domanda così perdutamente irrazionale. Aveva davvero perduto la capacità di ragionare.
E attorno a lui la vita tornava. Una risata nella stanza di fianco gli annunciò che Eileen era sveglia.
L’indifferenza lo colse di slancio.
Impossibile, si disse. Ma aspettava una casa sul mare, mentre viveva la sua vita senza volerla.

[SM=x346125]
§Johan Razev§
Lorentzgang
00giovedì 18 settembre 2008 11:41
molto bello ghebbo [SM=x346134]
Magic Guaiz
00giovedì 18 settembre 2008 15:33
Veramente poetico! [SM=g27822]
E poi questa frase potrebbe tranquillamente essere una grande citazione: “Una speranza impossibile diventa forse probabile nello spazio e nel tempo impossibile?”
rijkaard
00venerdì 19 settembre 2008 17:40
Troposferico
Johan
00martedì 2 dicembre 2008 16:46
Ditemi se volete leggere un racconto esistenzialista.
Non è per tutti, e lo dico già ora.
O, comunque, presupponete la definizione che ne ho dato, cioè esistenzialista e valutate se sia un bene leggerlo o meno.

[SM=x346125]
§Johan Razev§
Lorentzgang
00martedì 2 dicembre 2008 18:44
beh io voto per leggerlo, o comunque io lo leggerei.
Johan
00martedì 2 dicembre 2008 21:03
Methìas
Premessa: tratta argomenti abbastanza crudi.

Lucas aveva un fratello. Un gemello. Omozigote.
Lui non lo ricorda, ma avrebbero dovuto nascere alla vita assieme, in quella sala operatoria, sotto uno sguardo sfinito ma felice della madre ed uno soddisfatto del medico.
Questo era tanto tempo fa, il fratello venne partorito già morto, sformato dalle spinte vivaci del feto che aveva accanto. Doveva chiamarsi Eric.
Nessuno nella famiglia ne parlò mai con lui, almeno fino a quando non raggiunse l’età maggiore, ma era tuttavia probabile che avrebbero preferito evitare di farlo anche allora. Fu soltanto per affrancare la coscienza dal sospetto che quel segreto rivelato Lucas lo avesse già intravisto sotto il telo degli sguardi a passati infranti, delle parole dedicate a giorni infausti e nomi proibiti.
Questo sospetto, del resto, acquisì trame addirittura inquietanti quando il piccolo Lucas prese ad affezionarsi ad un basso abete del loro giardino. Non era piacere di gioco o altro che lo legava a quel piccolo albero, era decisamente affetto fraterno.
Lo curava la mattina, quando faceva freddo e gli lasciava qualche giocattolo la notte, prima di andare a dormire. Lo abbracciava, per quanto potessero le sue braccia, e portava i suoi amici ad ammirarlo, a conoscerlo. Quasi fosse una persona. E, proprio come una persona del resto, aveva la buona educazione di presentarlo con un nome. Methìas, diceva. Lui è Methìas il silenzioso.
In verità questo comportamento in un primo momento fu assimilabile alla reazione che poteva aver assunto in risposta ad una primaria mancanza infantile come può esserlo quella del padre. Questi era un dottore di grande fama e non si faceva vedere spesso in casa (e nemmeno troppo all’ospedale, ma questa è un’altra storia).
Se dunque subito fu incoraggiato ad una amicizia simpaticamente fantasiosa, come la si considerava, il tutto assunse tratti poco incoraggianti quando ci si rese conto che le amicizie reali, o meglio quelle prettamente umane soccombevano una ad una in favore di un basso arbusto dalle foglie aghiformi di nome Methìas.
Il piccolo Lucas diventava ogni giorno più taciturno, e quando non era fuori in giardino il suo mutismo si faceva più strenuo, finendo spesso per costringere il suo sguardo a volgersi verso la finestra più vicina, in cerca dell’amico.

Un giorno la madre decise di affrontare l’argomento in maniera civile e diretta. Si stava consumando un abbondante pranzo di Natale a casa della famiglia di Lucas, il quale aveva da poco compiuto diciannove anni. L’abete luminoso che avevano in casa, vicino al camino, per adempire ai doveri della tradizione non era ovviamente Methìas, ma fu comunque un ottimo spunto dal quale cominciare:
“Ti piace come abbiamo addobbato l’abete, quest’anno?” Domandò la madre abbassando un momento la forchetta e pulendosi gli angoli della bocca.
“Non molto. Mi sembra una cosa inutile.”
Sempre quella voce, pensò lei. Solida ed atona.
“E’ un albero. Non credo che si lamenterà.” Fece notare.
“No, immagino di no.” Quindi alzò il mento in direzione della finestra e guardò fuori. Neve ovunque, neve taciturna, ispiratrice. Neve sopra ogni cosa, imparziale.
E sotto quella coltre il forte Methìas, anch’esso taciturno, in attesa.
Il padre, nella sua eccezionale presenza natalizia, borbottò qualcosa di incomprensibile mentre la vecchia nonna continuava a mangiare a testa bassa. Non per indifferenza, sia chiaro, più per sordità. Del resto, sebbene non avesse parte al discorso, anche lei non apprezzava avere un nipote idiota, non disponendo dunque di molti mezzi per decantarlo alle amiche moriture.
Intervenne a quel punto lo zio, da sempre considerato il più ragionevole in famiglia:
“Lucas, pensi forse che Methìas sia tuo fratello morto?”
Ragionevole un cazzo, pensò la madre. Ma ormai l’equilibrio era stato spezzato ed attese anche lei, impaziente, la risposta del giovane il quale, lentamente, riportò lo sguardo verso la tavolata.
“No, perché dovrei crederlo?”
Lo zio fu un po’ spiazzato da quella risposta, pronunciata in maniera così limpida ma dopotutto non è che si fidasse particolarmente delle parole del nipote.
Scemo era, e tale rimaneva. (chi?)
“Pensi sia umano, allora?”
“No. Non sarei forse un folle a credere che sia così?”
Infatti lo sei, stupido idiota. Il pensiero dello zio fu fin troppo evidente dalla smorfia di cui si macchiò il suo volto. A tal punto chiara che il padre decise di prendere in mano la situazione, da capofamiglia e garante della prole quale era. Cominciò così:
“Stai zitto, per la miseria. Mio figlio non è uno psicotico né soffre di qualche malanno schizoaffettivo. Nessuna nevrosi o psicosi.” Si concedette un attimo di autocelebrazione mentale. “E dunque ti proibisco di insinuare certe cose.” Poi si rivolse a Lucas. Con un tono severo ma a tutti i costi conciliante continuò: “Non credi faremmo meglio a liberarcene? Ormai sta seccando, non pensò durerebbe un altro anno.”
“Non sta affatto seccando.” Rispose metodicamente il ragazzo. “E’ saldo e forte, anche se non conosce i propri limiti e non sa fin dove potrà arrivare, né cosa fare di sé stesso.”
La nonna abbassò il cucchiaio e smise di succhiare il brodo. Che avesse anche lei sentito quel delirio? Non che a qualcuno importasse beninteso, ma tutti gli altri certo lo avevano udito perfettamente e guardavano ora il povero Lucas con sguardi affranti, accusatori, alcuni timidi, altri vergognosi. Qualcosa fra il “povero idiota” ed il “forse me ne dispiaccio” finanche al “proprio parente mio doveva essere?”.
“Lasciamo perdere questo argomento.” Fu la madre a parlare e quelle parole secche non volevano chiaramente ammettere repliche. Né ve ne furono, dato che tutti, cugini inutili compresi, avevano ormai inteso dove avrebbe condotto il discorso se fosse continuato.
Ed era pur sempre Natale.

La giornata proseguì senza altri intoppi, a parte un tentativo vano da parte della vecchia nonna di lasciare nipoti e parenti in mano a notai e pompe funebri a causa di un pezzo di panettone e di una epiglottide ormai sfiancata dal lavoro di una vita.
“Se non ci fossi stato io…” annunciava orgogliosamente e stolidamente il padre.
E tutti ridevano. Poi arrivava in visita altra gente, parenti e non. Ed altri brindisi.
Lucas trovava quei riti annuali pressoché superflui.
Non aveva nulla da spartire con quelle voci intonate in maniera così precisamente dottrinale, quei sorrisi misurati al millimetro eppure così inconsciamente naturali. Era come guardare attori nati e cresciuti senza la conoscenza di un mondo fuori dalle regole della respirazione e della pronuncia. Si trattava di ombre inconsistenti, che a poco a poco sparivano, Natale dopo Natale. A cui venivano dedicati di quando in quando pensieri di consuetudine e di norma, per cui si spendeva una lacrima sentitamente e fieramente estranea. Una perla straniera, ma invocata per familiarità.
Ponendo anche che quel pezzo di panettone avesse compiuto fino all’ultimo il suo mortifero incarico, che avrebbe portato di più o di meno? Oggi, o domani, o la settimana avanti, o il mese successivo, anni più tardi, anche decenni. Un minuscolo sospiro, in confronto all’eternità del cosmo, che eterno sia o meno, ma pur assolutamente longevo.
Tirata pigramente da queste immagini, la notte si portò sulle spalle del cielo ed in quei momenti, dalla sua camera Lucas osservava una luce lattiginosa appoggiarsi su Methìas. E guardando la sua sicurezza sotto la neve pensava agli occhi che non aveva mai visto di suo fratello, ma di cui forse era l’unico a serbare un’autentica memoria intima. Era l’unica altra essenza che quel piccolo feto abbia mai conosciuto.
Mai aveva saputo cosa fosse la luce del sole ed il caldo dell’estate, mai vittima od artefice dell’amore di una ragazzina o della passione di una sconosciuta. Mai assaporato il tepore che accompagna il sonno dopo una lunga corsa al freddo dell’inverno.
Quegli occhi…
“Lucas” la voce di sua madre si insinuò attraverso lo spiraglio che dava sul corridoio.
Lucas non rispose.

Vivere la propria vita pareva sempre più equivalere a vivere un giorno in ripetizione. Lo stesso, per giunta. Lo stesso, perdio.
La meccanicità dell’azione era fin troppo palese e pesante agli occhi e sulle spalle di un giovane che trovava sempre meno motivi per far bruciare quotidianamente la resistenza del circuito ed illuminare qualche via non considerata. Qualcosa stava scattando, qualcosa si sarebbe presto perduto. E l’occasione per concretizzare questo qualcosa lo travolse un piacevole giorno di agosto. Lucas aveva ormai ventidue anni e stava seduto in giardino, non troppo distante da Methìas, con il quale parlottava di argomenti vari passando dalla morte, quello stesso gennaio, di Albert Camus, ad una lettura non ortodossa delle sue opere.
Meursault doveva aver certo affrontato il quesito del suicida posto nel Sisifo, portandosi alla condizione di farsi condannare e suicidare. Una parte dedicata all’ombra del niente, una parte dedicata all’ombra del “perché dovrei?”.
E sé stesso? Bisogna considerare Sisifo felice. Di nuovo: e sé stesso?
Lucas avrebbe voluto sparare contro un corpo inerme. Senza un perché. Giusto per vedere quale sarebbe stato il suono prodotto dal piombo che penetra il cuscino di carne, sotto un sole rovente ed un fastidio aguzzo ed insopportabile.
Di lontano vide la nonna avanzare verso il fienile, portava con sé un lungo panno. Anzi, lo stesso panno che da mesi continuava a rattoppare.
“Ha una storia lunga, quasi quanto la mia” le aveva sentito dire un pomeriggio di appena due settimane prima.
Il colore della stoffa avrebbe convinto chiunque a temere una qualche infezione virale non debellabile, ma era pur sempre solido e non si negava facesse particolarmente caldo nelle notti d’inverno. Puzza a parte.
Lucas seguiva i movimenti rattrappiti della vecchia con poco interesse, continuando il discorso sommessamente ma qualcosa lo convinse ad alzarsi in piedi.
La nonna varcava la soglia del fienile proprio nel momento in cui lui decise di seguirla.

Arrivato al portone Lucas prese atto che era stato chiuso dall’interno. Un piccolo fuoco di interesse si accese in lui. Si spostò di lato cercando di scorgere qualcosa attraverso la finestrella lì accanto. Il vetro appannato non aiutava ma comunque non notò alcun movimento.
Sentì invece un tonfo sordo provenire dall’interno, come di un sacco di patate che veniva svuotato a terra e poi gemiti di dolore, di agonia.
Il giovane decise di provare dall’entrata sul retro che, fortunatamente, trovò aperta. All’interno il caldo soffocante gli causò un momento di nausea. Non gli era mai piaciuto quell’odore di deterioramento.
Inciampò sul corpo della nonna, in evidenti spasmi di dolore.
Attorno al collo aveva una fune a cui aveva legato il panno come una serpe che stringe una preda. Una sedia rivoltata giaceva lì accanto, ma non pareva fosse riuscita nemmeno a salirvi sopra. Pietà per un tempo in cui non ci si può nemmeno suicidare in pace.

“Lucas…” si sentì chiamare e, di risposta, egli guardò, senza pronunciare parola, il viso rugoso che lo stava fissando. “Voglio morire.”
Lucas scrutò profondamente quegli occhi.
Quegli occhi…sì, proprio quelli.
“Lo desideri?” Non gli interessava il perché. Non aveva bisogno di un perché. Aveva bisogno di una risposta.
“Sì. Lo voglio.” E continuava ad ansimare. Doveva essersi rotta un braccio dato che teneva quello sinistro inerme e tremante, stretto dalla mano destra.
Lucas si mosse lentamente, con cura ed attenzione. Afferrò il cappio. Prese il panno fra le mani e cominciò a tirare. La morsa si stringeva attorno al collo di sua nonna che allargò gli occhi, da un lato sognando di qualcosa di impalpabile, dall’altro stupendosi forse della implacabile decisione del nipote. Magari, chissà, ora si stava vedendo in una sala a bere del tè caldo con biscotti di pasta frolla e accanto le sue amiche, fantasmi in procinto di esser scordati, tutte in ammirazione mentre lei annunciava fieramente: “sì, mio nipote ha saputo uccidermi, quando l’ho desiderato. Che bravo figliolo.”
Gli occhi le si spegnevano in volto, con ultimi rantoli ed un timido filo di saliva che le scivolava dalla bocca. I capelli scompigliati e grigi si spargevano a terra, e parevano di tela sottile. Il panno assumeva l’aspetto di una macabra sciarpa ben stretta.
Sia chiaro, ancora non era avvenuto ciò che poi avrebbe scosso Lucas perché fu invece quando in ultimo poche parole, sussurrate, vennero pronunciate dalla vecchia forse già morta, che lui sentì qualcosa dentro di sé strapparsi e cominciare a vedere:
“tutti…(rantolo)…viviamo con il nostro…(altro rantolo)…panno sulle spalle…sulle spalle…”
Lucas mollò la presa ed il capo che nello sforzo del giovane era stato sollevato piombò sul terreno con un rumore sordo. Gli occhi della nonna erano rimasti aperti, ma insospettabilmente sereni. Come una notte di foschia dietro il cui velo si scorgono una per una le stelle fluttuanti.
I momenti successivi a tutto questo furono per Lucas miniera di domande e pensieri. Non aveva molto interesse delle questioni che la gente soleva porgli e sapeva benissimo che di lì in avanti, come Meursault, avrebbe dovuto affrontare un lungo itinerario inutile che avrebbe condotto all’inevitabile condanna da parte della giustizia umana, e richieste di pentimenti e testimonianze. Forse sarebbe anche lui rimasto in silenzio? Senza far nulla per la propria salvezza? A che pro, del resto? Morire oggi, o domani, o chiuso in un ricovero fra altri dimenticati senza esser coscienti della propria esistenza, perdendo giorno dopo giorno i ricordi che lo hanno costruito fino a quel momento, rimanendo soli con le proprie mura attorno. Isolandosi di controvoglia, e per altrui piacere. Stanco di non morire. Aggrappato al sorriso di chi ci vuole ancora qui, prosciugando fino all’ultimo istante estremo la vita amorfa di chi ormai ce la costruisce attorno e ci espone come addobbo di egoismo. E milioni di vigilie di Natale e pranzi e cenoni di capodanno e parenti, e rituali e finzioni. Lucas si graffiò un orecchio quasi provasse già il dolore di una vita ad ascoltare parole ficcate di forza lì dentro, imbevute di paura, senza sentimento e senza motivazione.
Che inutile spreco di tempo.

E poi gli balenò alla mente il manoscritto di Jan Potocki. Non ricordava quando e dove ebbe modo di leggerlo, ma del resto in quel momento era preso dalla vita del suo autore, piuttosto che dal suo capolavoro.
Si alzò in piedi ed uscì all’esterno dall’ingresso principale dopo averlo sbloccato, lasciando il corpo della nonna ad altrui cura. Qualcuno l’avrebbe presto trovato.
Si infilò dentro alla costruzione lì accanto e ne uscì brandendo un’accetta. Andò a passo spedito e sicuro verso Methìas e senza un momento di esitazione cominciò ad incidere la corteccia con colpi forti e sinistri. Il rumore sboccava fino ai piani superiori della casa e quando la madre si affacciò ad una finestra, fu felice, tremendamente felice, nel vedere suo figlio liberarsi da quell’ombra di follia. Il padre era disperso nei meandri dell’ospedale, o forse in qualche stanza sgualcita di un hotel ad ore ma ormai nessuno ne avvertiva più nemmeno la presenza, quando c’era.
Forse presto sarebbe arrivato Leopold, il nuovo amico della madre. Ma per allora tutto sarebbe stato concluso.

Il basso arbusto cadde a terra frusciando laconico, ma anche allora Lucas non smise di colpire. Dopotutto era veramente secco, molto secco, pensò il giovane. Fece in modo di ottenere un ceppo di discrete dimensioni, lo prese in mano e lo portò con sé in cantina, sotto l’abitazione. Lì aveva a disposizione ogni genere di utensile e scelse fra tutti il seghetto più acuminato, lo scalpello più duro, una pialla per le rifiniture ed infine un piccolo coltello. Lavorò per qualche ora, senza che qualcuno ebbe modo di disturbarlo.
A metà lavoro da lontano giunse un urlo disumano, di donna, evidentemente dal fienile. Nonna è stata trovata da mamma, si disse Lucas con indifferenza.
Continuò imperterrito nel suo lavoro. Instancabile, quasi ossessionato, ma estremamente lucido.

Già sentiva il proprio nome gridato da più parti quando completò l’acuminato paletto con l’ultima incisione alla base.
T





Mentre il sangue gli scivolava fuori dalla profonda ferita al petto pensò a malincuore: ognuno vive il proprio Methìas. Si nasconde agli occhi benpensanti, e di passo svelto sfugge alle proposte dogmatiche. Si china al cospetto della prospettiva e si svaluta a quella della permanenza, si svuota a quella della perdita. Perde contrasto per chi lo vede di rado e del resto non vale molto per chi lo osanna. Scema di volta, e ci corre accanto, si sistema sulle nostre spalle. Ma non è mai del tutto nostro, piuttosto ci concede un soffio della sua lemma, per riprendersela a fatti ormai risolti. In miliardi di circonvoluzioni lui si affretta a battere un ciglio e non si cura pur di me o di una vecchia o di un feto nato morto. Tutto gli risulta uguale, batte i suoi colpi con il sonno e la veglia, che siano esse eterne o meno. Capita infino alle regge e bastioni e striscia fra l’olezzo di piscio nelle più orrende bettole. E sei tu, ora, adesso, e quando non sarai, niente per lui varrà meno che un pensiero ad un’essenza mancata. O forse, chi lo sa, esso è Methìas stesso e mi aspettava nascendo con me per venir meno con me. Prima di me che cosa c’era e che cosa ci sarà? Secoli ed uomini e donne?
Forse niente
E forse, del resto, poco me ne importa.

§Johan Razev§
Volant
00martedì 2 dicembre 2008 21:49
pesus.
ma intrigante.
complimenti [SM=g27811]
Lorentzgang
00giovedì 4 dicembre 2008 16:18
bello, però non ho capito cos'è il panno che tutti si portano sulle spalle e il soggetto dell'ultima parte... uno pensa che possa essere un senso di colpa, per il fratello morto, ma in realtà il protagonista è abbastanza indifferente alla morte sia degli altri che propria; quindi non ho capito.
Johan
00giovedì 4 dicembre 2008 20:15
Infatti non lo è.
E' qualcosa che abbiamo da sempre, che accudiamo (quando si è coscienti della sua presenza), e che è sempre causa della nostra morte.

Edit: Ed è l'emblema dell'insensibilità. Dell'indifferenza.

[SM=x346125]
§Johan Razev§
Lorentzgang
00giovedì 4 dicembre 2008 20:49
le cause della nostra morte possono essere tante, anche se certamente questa è ineluttabile.
ipotizzando che un essere umano possa essere biologicamente immortale, ovvero non sia soggetto ad invecchiamento e abbia una totale capacità di rigenerazione, in fondo nell'eternità del tempo prima o poi deve per forza capitare qualcosa che lo uccida, o se il tempo non è infito, la sua morte avverrà comunque alla fine del tempo: quindi possiamo dire che la causa ultima della nostra morte è il tempo, o perlomeno se questo non ci fosse non ci sarebbe nemmeno la morte (anche se certo, forse non ci sarebbe nemmeno la vita, o magari ci sarebbero entrambe, contemporaneamente e la coscienza umana potrebbe passare a piacere dalla vita alla morte, in maniera reversibile e ovviamente istantanea, non essendoci il tempo; però in questo modo la morte avrebbe un significato molto diverso, percui non sarebbe nemmeno corretto definirla tale).
Johan
00giovedì 4 dicembre 2008 20:53
Precisamente.
L'esistenza della vita e la prerogativa della morte è qualcosa che consegue necessariamente al loro spettatore primario, che del resto di spettatore ha ben poco. Se non che, si possa valutare un qualche senso di vita in assoluto o di morte in assoluto (leggile con le maiuscole: Vita e Morte) ed allora proprio come dici esse hanno effettualità proprio per l'esistenza stessa del tempo. Se non ci fosse il tempo non ci sarebbe la morte nè la vita. Dunque è a lui che tutto tende e che estende a chi lo guarda come lo guarda Lucas un senso di totale insoddisfazione, di insensibilità. Che cosa lo spinga ad un suicidio è la risposta ad una, in realtà, ineluttabilità allegorica. Non si uccide, è ucciso dal tuo tempo. Che è Methìas, appunto.

[SM=x346125]
§Johan Razev§
Generale Heinric
00venerdì 5 dicembre 2008 15:01
Re: Infatti non lo è.
Johan, 04/12/2008 20.15:

E' qualcosa che abbiamo da sempre, che accudiamo (quando si è coscienti della sua presenza), e che è sempre causa della nostra morte.

Edit: Ed è l'emblema dell'insensibilità. Dell'indifferenza.

[SM=x346125]
§Johan Razev§



E' anche il panno della nonnina? [SM=g27813]


Johan
00venerdì 5 dicembre 2008 18:02
E' esatto.
[SM=g27811]

[SM=x346125]
§Johan Razev§
Johan
00domenica 7 dicembre 2008 19:48
10 Poesiole d’Amore in Nascita, Vita e Morte dello Stesso.
1 Mancanza

Saria ben pago della piena giornata di sole,
Se del resto potessi, non solo, goder la stagione.
Scalpicciar per il sentiero del giardino o il mio,
Ma in mancanza, “patetico adombro nell’eco” diss’io (io io io)

2 Ricerca

Scalciavo l’occhio onde potessi non dirmi del resto,
E vedevo bianche trecce e braccia pallide e tese
Pii seni rigonfi e sinuosità entro cui l’occhio s’arrese
Ma fin’anco di quivi e di là vedevo nient’altro, a presto
Speravo d’incontrar forma sola di pieno stupore.
Forma summa d’este forme partitive, di molto superiore.

3 Incontro

Era d’uno di questi giorni assenti, uguali l’un l’altro
Che io camminava per la via dell’isolato accanto
Non che mi aspettassi qualcosa di sacro o profano
Ma inciampai dietro lo sguardo di vostro viso santo
Decisi allora di seguir vostro agile piede, vostra candida mano
E dietro l’angolo sbattei per vostra insaputa nel vostro “l’altro”.
E vi baciava le labbra, e scivolava d’in sulle proprie mani
A luoghi inaccessibili senza parimenti vostro consenso.

4 Ossessione

Perdevo di gusto l’impronta del vero, ostentavo in credibile opposto
Sottostavo del resto al prevedibile arrestarsi del forse e del mai.
Non mi avvinceva più di tanto il sapore dell’ora e di un finto rimorso.
Credetti giorno dopo giorno di fantasticare di voi ed invece sperai.
Volevo ferire la carne mia viva, strisciando lama rovente e seta sottile
Aspettavo dietro ombra pesante e luce smembrante, aspettavo di noi
Che tanto, fuorviava, presto o tardi mi toccava comunque di morire
Ed allora, diceva, ben meglio svanire prima sperante che scorato poi.
E non mi si ingannava né mi si portava alla vivace concretezza
Mi scippava il volto oscurato e carezzava i manchevoli sospiri
Perché in fondo niente altro mi serviva e mi salvava che la certezza
Di essere del resto già perso, eppur mal accolto da incolti pensieri

Vedevovi sulle creste del cielo, e pure tra i fili dei pascoli.
Nasceva dal nulla il tuo pensiero nomade e cresceva assai svelto.
Prendeva possesso della trista ombra e parimenti del sole
Che fuori rotolava per aria, senza senso di vita né aria d’ardore.
E calava d’incanto dietro nuvole e croci, dietro monti e abeti.
Con lui dileguava la furtiva calamità che come Cristo riviveva

E mi riacciuffava con mani affamate.
Prima del sonno
Nei sogni e negli incubi
Al risveglio
Nella terribile veglia
E di nuovo col sole (lucente viso)
E con la notte (soffici capelli)
E con le stelle (stentate porzioni d’iride)
E con i lampi (unghia saettanti)

Credevo d’esser perduto e del resto non lo ero affatto
Per l’effetto stesso dell’esserlo totalmente.

5 Possibilità

Io sostava spesso alla tua porta, chissà che mi si credeva di poter fare
Eppure fu a tal luogo che decise Destino di volger la sua mano
Non che mai ebbi a dar credito a fandonie di attese prescritte e bonarie
Ma non fosse per mia malattia indolore e scorticante, non avrei atteso tua venuta.
Fu un incontro particolare, assai conteso ed estenuante.
Perdevo sovente le fila della ragione e scordavo facilmente quelle della parola.
Eppure tu ridevi e chiedevi e sapevi e capivi. Sì, dissi infine, ero qui per te.
Per me? E qual mai fu la motivazione di tale attesa? Hai domandato.
Non ebbi a saperlo prima d’oggi, temo. O forse t’attenderò meglio domani.
La tua risata fu presto un suono d’intarsi precisi e sgombri di olezzo sociale.
Abbassai il capo per rispetto a cotal regime sopra il tuo capo lucente
E di forza domandai: ho da attenderti molto o un solo pranzo m’è dato?
Non esisteva domanda che scivolasse su quel bruto senza nome e troppi fatti.
Ho visto dar diamanti in mano a increduli briganti. Ma tu sei troppo
E la sua mano invalida a mantener tale piacere ed onore. Meglio io.

6 Amante

M’imperlavo la fronte di sudore per le nostre notti bandite.
Soffrivo d’uno squarcio fra orecchio ed orecchio, come un sorriso.
Ma questo mi si richiedeva e non mi era dato di farlo capitolare.
Ero il tuo amico, quello dell’ufficio, quello sposato.
Tre buone menzogne, mia tetra Amante di sguardi.
Richiedevo una sentenza di morte dovendo lasciarti in altrui mani.
E la rimangiavo quando penetravo in casa tua, nel buio del silenzio.
C’eri sempre, e lui non c’era mai. Fascinoso e imperituro.
E ridevo di convincente salute all’insistenza del tuo Amore.
Ugualmente ridevo di convincente pena ai tuoi: ora torna.
Sarei morto e vivo alla stessa misura. Sia chiaro ben poca.
La misura assoluta l’aveva la mia inconsistenza di larva.
L’Amore trionfava a tratti di sistema, un’ora su dieci.
Per il resto non ho più capacità a ricordar cosa fosse di me.

7 Abbandono

Non mio, sia di prima importanza dar atto di ciò.
Hai abbandonato chi fu tra noi motivo di cordoglio.
In ultima analisi hai decretato la sua dipartita per la mia permanenza.
Ringraziamenti sentiti, mia dolce amante insicura.

8 Libertà

Sono felice. Tanto felice.
Non c’è niente di meglio di quel che sento ora.
Sono felice.

Felicità.
Assoluta.
Sì, felicità.

9 Crisi

Nel tempo trascorso non ebbi tempo né modo né voglia di scrivere,
Non perché non mi fosse più dato il saper definire me stesso,
Piuttosto nella consapevolezza che non vi era motivazione a farlo.

Una poesia mi vien richiesta dal tempo di crisi?
Ed allora mi accorgo dolorante dell’ispirazione del sangue.
Speravo le mie grida volgessero in me toni sconfinati,
E senza udir parola sicura balzavo in aria senza sentirla
Pur sbattendo forte i piedi nell’indiscreta rovina.
Troppo forte blaterava il cuore e così si annichiliva indefesso.
E’ stato come un lungo bacio e due artigli sulle palpebre chiuse.
Chinavo il capo e le spalle portavano speranze inaudite.
Abbiamo abbattuto il volere dell’”altro”, di voi e di altri
Ma siamo stati indebitamente abbattuti dalla nostra insondabilità.
Noi come primi ed unici veri nemici, banale a dirsi.
Ed entrambi alleatisi con il tempo sovrano e dispotico.
Abbassiamo di nuovo il capo e questa volta accettiamo
La realtà che io non voglio te, e tu non vuoi me.
Che torni pure quell’altro, tornino in mille, un dietro l’altro.
Io non sono più divelto al pensiero dal pensare.
Credimi, non t’amo.
Ti credo se mi dici che non ami me.
Fu un sogno adorabile e gentile, di compagnia.
Cosa dici? Le parole che abbiamo pronunciato?
Son nate e morte sulle nostre labbra.
Amore è ineffabile.
Niente di altro noi sappiamo su di lui.
Sfruttiamo sottilmente parole incontrollabili.
E non fu quel che si sperava e si credeva.
E’ stata solo un’altra baldanzosa eternità affrettata.

10 Apatia

Non vi avvicinate, né provate pietà per me.

Ero nato da signora Speranza e di lei mi nutrirò a morte avvenuta.
Io sono colui che, assonnato, ora ha scovato una ferita infetta
Non si cura più molto a volerla rimarginare e si sollazza al suo bruciore.
Punge con un ago le labbra ingiallite e lascia scorrere il sangue scuro.

Scrive in attesa, per ingiusta pretesa, per crudele contesa.
Si perde in ore di vano pensiero che al tempo disarma e svanisce.
Rinchiude il proprio intelletto entro margini regali ed assoluti
Avverte il nullificante morbo che gli viene sputato addosso
E si innalza a méte di immagini sconvolte, traslate e prospettivate.
Allunga una mano ove la sentenza è ormai colta e sicura.
Strappa un mucchio di sabbia fumante dalle mani del Santo
Con aureola insaccata dietro la schiena e morbosa bonarietà.
Qualcuno del resto è rimasto, qualcuno lo convince e lo rallegra.
In un mondo che abbandona e che sarebbe meglio abbandonare
C’è chi ancora soffia un canto quieto, saldo che lui vuole assaporare.
E con il capo annuisce sapendo di essere l’ultimo dei primi.
Quello che vivrà passioni distruttive,
Di cui ora non ha traccia alcuna.
Crudele Realtà lo informa in appunto che c’è del vero dietro di sé.
Quindi si volge e scorge una storia in frantumi e tanti incantesimi
Troppe mele avvelenate e troppe belle da svegliare con un bacio.
Parrebbe contrario a sé stesso se non ritrovasse la Madre.
Ride della propria solitudine senza fondamenta,
Del sapore che solo l’abitudine gli mette in bocca.
L’Apatia sa di tutte le cose del mondo,
L’inconsistenza in cui si sta riposando risuona dei rumori del vero.
E l’Idea, la Speranza, spezza i legami con l’insensibile.

Mi è cara, la Morte.
Sentenza la Sorte.
E’ immagini distorte.
E’ speranze risorte.

Cammina inveendo.
Sospetta dicendo:
“Quel che diedi, io non rendo.”
Morte, vive uccidendo.

L’immagine del mio vero in Lei risiede.
Perché sa esser velo oscuro di possibilità.
Come la mia sordida Vita reale.
Stendono le loro risate assieme,
E dell’una e dell’altra io ascolto la gioia.

Dieci poesiole di poco valore, per annunciare
Che d’Amore, di Morte e di Vita,
Non ha motivo essenziale d’esserci divario
Che d’Amore, di Morte e di Vita,
Io sospetto la trama e l’assetto patetico e teatrale.

Vivo morendo d’Amore.
Muoio vivendo l’Amore.
Sofismi di poco valore.
Orpelli di vivido lucore.
Oggi son costretto al rancore.
Domani confido nel bianco candore.

Oggi, Domani.
Ben prima e ben meglio il domani.
Ma Angelo o Demone, io vivo una morte in attesa.

Riprendo il titolo e mi correggo:
10 Poesiole d’amore in Nascita, Vita e Morte dello stesso
O in attesa del vero Amore

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Ecco, di questo ti parlavo, Lorenzo.

§Johan Razev§
Lorentzgang
00lunedì 8 dicembre 2008 14:47
beh in effetti è un ghebbo più cupo del solito l'autore...
la felicità si intitola "libertà", e non contiene niente altro che se stessa, come a dire che è vuota. nella sostanza non è molto diversa dall'apatia che viene dopo; la felicità, o liberazione dall'esigenza, è un pò come sentire qualcosa quando in realtà non c'è niente, invece apatia è non sentire niente anche quando c'è qualcosa. ma in fondo però la speranza resta, e magari perchè l'amore non è veramente morto, nel senso che non è morto un amore vero.
beh io magari non ho capito niente in realtà, ma avevo sentito dire che le poesie sono pò come la musica, percui ognuno può coglierci quello che preferisce...
Johan
00lunedì 8 dicembre 2008 16:02
Ed invece quel che dici è proprio un ottimo spunto.
Il concetto di unica mini-raccolta sta anche nel fatto che al di là delle poesie di per loro stesse anche la loro vicinanza, la loro connessione è parte stessa del progetto iniziale (e, sia chiaro, non sto parlando della mia in toni così alti..il mio è un tentativo, parlavo piuttosto di altre raccolte...come ad esempio quella di Michele Mari appunto).

[SM=x346125]
§Johan Razev§
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