Premessa: tratta argomenti abbastanza crudi.
Lucas aveva un fratello. Un gemello. Omozigote.
Lui non lo ricorda, ma avrebbero dovuto nascere alla vita assieme, in quella sala operatoria, sotto uno sguardo sfinito ma felice della madre ed uno soddisfatto del medico.
Questo era tanto tempo fa, il fratello venne partorito già morto, sformato dalle spinte vivaci del feto che aveva accanto. Doveva chiamarsi Eric.
Nessuno nella famiglia ne parlò mai con lui, almeno fino a quando non raggiunse l’età maggiore, ma era tuttavia probabile che avrebbero preferito evitare di farlo anche allora. Fu soltanto per affrancare la coscienza dal sospetto che quel segreto rivelato Lucas lo avesse già intravisto sotto il telo degli sguardi a passati infranti, delle parole dedicate a giorni infausti e nomi proibiti.
Questo sospetto, del resto, acquisì trame addirittura inquietanti quando il piccolo Lucas prese ad affezionarsi ad un basso abete del loro giardino. Non era piacere di gioco o altro che lo legava a quel piccolo albero, era decisamente affetto fraterno.
Lo curava la mattina, quando faceva freddo e gli lasciava qualche giocattolo la notte, prima di andare a dormire. Lo abbracciava, per quanto potessero le sue braccia, e portava i suoi amici ad ammirarlo, a conoscerlo. Quasi fosse una persona. E, proprio come una persona del resto, aveva la buona educazione di presentarlo con un nome. Methìas, diceva. Lui è Methìas il silenzioso.
In verità questo comportamento in un primo momento fu assimilabile alla reazione che poteva aver assunto in risposta ad una primaria mancanza infantile come può esserlo quella del padre. Questi era un dottore di grande fama e non si faceva vedere spesso in casa (e nemmeno troppo all’ospedale, ma questa è un’altra storia).
Se dunque subito fu incoraggiato ad una amicizia simpaticamente fantasiosa, come la si considerava, il tutto assunse tratti poco incoraggianti quando ci si rese conto che le amicizie reali, o meglio quelle prettamente umane soccombevano una ad una in favore di un basso arbusto dalle foglie aghiformi di nome Methìas.
Il piccolo Lucas diventava ogni giorno più taciturno, e quando non era fuori in giardino il suo mutismo si faceva più strenuo, finendo spesso per costringere il suo sguardo a volgersi verso la finestra più vicina, in cerca dell’amico.
Un giorno la madre decise di affrontare l’argomento in maniera civile e diretta. Si stava consumando un abbondante pranzo di Natale a casa della famiglia di Lucas, il quale aveva da poco compiuto diciannove anni. L’abete luminoso che avevano in casa, vicino al camino, per adempire ai doveri della tradizione non era ovviamente Methìas, ma fu comunque un ottimo spunto dal quale cominciare:
“Ti piace come abbiamo addobbato l’abete, quest’anno?” Domandò la madre abbassando un momento la forchetta e pulendosi gli angoli della bocca.
“Non molto. Mi sembra una cosa inutile.”
Sempre quella voce, pensò lei. Solida ed atona.
“E’ un albero. Non credo che si lamenterà.” Fece notare.
“No, immagino di no.” Quindi alzò il mento in direzione della finestra e guardò fuori. Neve ovunque, neve taciturna, ispiratrice. Neve sopra ogni cosa, imparziale.
E sotto quella coltre il forte Methìas, anch’esso taciturno, in attesa.
Il padre, nella sua eccezionale presenza natalizia, borbottò qualcosa di incomprensibile mentre la vecchia nonna continuava a mangiare a testa bassa. Non per indifferenza, sia chiaro, più per sordità. Del resto, sebbene non avesse parte al discorso, anche lei non apprezzava avere un nipote idiota, non disponendo dunque di molti mezzi per decantarlo alle amiche moriture.
Intervenne a quel punto lo zio, da sempre considerato il più ragionevole in famiglia:
“Lucas, pensi forse che Methìas sia tuo fratello morto?”
Ragionevole un cazzo, pensò la madre. Ma ormai l’equilibrio era stato spezzato ed attese anche lei, impaziente, la risposta del giovane il quale, lentamente, riportò lo sguardo verso la tavolata.
“No, perché dovrei crederlo?”
Lo zio fu un po’ spiazzato da quella risposta, pronunciata in maniera così limpida ma dopotutto non è che si fidasse particolarmente delle parole del nipote.
Scemo era, e tale rimaneva. (chi?)
“Pensi sia umano, allora?”
“No. Non sarei forse un folle a credere che sia così?”
Infatti lo sei, stupido idiota. Il pensiero dello zio fu fin troppo evidente dalla smorfia di cui si macchiò il suo volto. A tal punto chiara che il padre decise di prendere in mano la situazione, da capofamiglia e garante della prole quale era. Cominciò così:
“Stai zitto, per la miseria. Mio figlio non è uno psicotico né soffre di qualche malanno schizoaffettivo. Nessuna nevrosi o psicosi.” Si concedette un attimo di autocelebrazione mentale. “E dunque ti proibisco di insinuare certe cose.” Poi si rivolse a Lucas. Con un tono severo ma a tutti i costi conciliante continuò: “Non credi faremmo meglio a liberarcene? Ormai sta seccando, non pensò durerebbe un altro anno.”
“Non sta affatto seccando.” Rispose metodicamente il ragazzo. “E’ saldo e forte, anche se non conosce i propri limiti e non sa fin dove potrà arrivare, né cosa fare di sé stesso.”
La nonna abbassò il cucchiaio e smise di succhiare il brodo. Che avesse anche lei sentito quel delirio? Non che a qualcuno importasse beninteso, ma tutti gli altri certo lo avevano udito perfettamente e guardavano ora il povero Lucas con sguardi affranti, accusatori, alcuni timidi, altri vergognosi. Qualcosa fra il “povero idiota” ed il “forse me ne dispiaccio” finanche al “proprio parente mio doveva essere?”.
“Lasciamo perdere questo argomento.” Fu la madre a parlare e quelle parole secche non volevano chiaramente ammettere repliche. Né ve ne furono, dato che tutti, cugini inutili compresi, avevano ormai inteso dove avrebbe condotto il discorso se fosse continuato.
Ed era pur sempre Natale.
La giornata proseguì senza altri intoppi, a parte un tentativo vano da parte della vecchia nonna di lasciare nipoti e parenti in mano a notai e pompe funebri a causa di un pezzo di panettone e di una epiglottide ormai sfiancata dal lavoro di una vita.
“Se non ci fossi stato io…” annunciava orgogliosamente e stolidamente il padre.
E tutti ridevano. Poi arrivava in visita altra gente, parenti e non. Ed altri brindisi.
Lucas trovava quei riti annuali pressoché superflui.
Non aveva nulla da spartire con quelle voci intonate in maniera così precisamente dottrinale, quei sorrisi misurati al millimetro eppure così inconsciamente naturali. Era come guardare attori nati e cresciuti senza la conoscenza di un mondo fuori dalle regole della respirazione e della pronuncia. Si trattava di ombre inconsistenti, che a poco a poco sparivano, Natale dopo Natale. A cui venivano dedicati di quando in quando pensieri di consuetudine e di norma, per cui si spendeva una lacrima sentitamente e fieramente estranea. Una perla straniera, ma invocata per familiarità.
Ponendo anche che quel pezzo di panettone avesse compiuto fino all’ultimo il suo mortifero incarico, che avrebbe portato di più o di meno? Oggi, o domani, o la settimana avanti, o il mese successivo, anni più tardi, anche decenni. Un minuscolo sospiro, in confronto all’eternità del cosmo, che eterno sia o meno, ma pur assolutamente longevo.
Tirata pigramente da queste immagini, la notte si portò sulle spalle del cielo ed in quei momenti, dalla sua camera Lucas osservava una luce lattiginosa appoggiarsi su Methìas. E guardando la sua sicurezza sotto la neve pensava agli occhi che non aveva mai visto di suo fratello, ma di cui forse era l’unico a serbare un’autentica memoria intima. Era l’unica altra essenza che quel piccolo feto abbia mai conosciuto.
Mai aveva saputo cosa fosse la luce del sole ed il caldo dell’estate, mai vittima od artefice dell’amore di una ragazzina o della passione di una sconosciuta. Mai assaporato il tepore che accompagna il sonno dopo una lunga corsa al freddo dell’inverno.
Quegli occhi…
“Lucas” la voce di sua madre si insinuò attraverso lo spiraglio che dava sul corridoio.
Lucas non rispose.
Vivere la propria vita pareva sempre più equivalere a vivere un giorno in ripetizione. Lo stesso, per giunta. Lo stesso, perdio.
La meccanicità dell’azione era fin troppo palese e pesante agli occhi e sulle spalle di un giovane che trovava sempre meno motivi per far bruciare quotidianamente la resistenza del circuito ed illuminare qualche via non considerata. Qualcosa stava scattando, qualcosa si sarebbe presto perduto. E l’occasione per concretizzare questo qualcosa lo travolse un piacevole giorno di agosto. Lucas aveva ormai ventidue anni e stava seduto in giardino, non troppo distante da Methìas, con il quale parlottava di argomenti vari passando dalla morte, quello stesso gennaio, di Albert Camus, ad una lettura non ortodossa delle sue opere.
Meursault doveva aver certo affrontato il quesito del suicida posto nel Sisifo, portandosi alla condizione di farsi condannare e suicidare. Una parte dedicata all’ombra del niente, una parte dedicata all’ombra del “perché dovrei?”.
E sé stesso? Bisogna considerare Sisifo felice. Di nuovo: e sé stesso?
Lucas avrebbe voluto sparare contro un corpo inerme. Senza un perché. Giusto per vedere quale sarebbe stato il suono prodotto dal piombo che penetra il cuscino di carne, sotto un sole rovente ed un fastidio aguzzo ed insopportabile.
Di lontano vide la nonna avanzare verso il fienile, portava con sé un lungo panno. Anzi, lo stesso panno che da mesi continuava a rattoppare.
“Ha una storia lunga, quasi quanto la mia” le aveva sentito dire un pomeriggio di appena due settimane prima.
Il colore della stoffa avrebbe convinto chiunque a temere una qualche infezione virale non debellabile, ma era pur sempre solido e non si negava facesse particolarmente caldo nelle notti d’inverno. Puzza a parte.
Lucas seguiva i movimenti rattrappiti della vecchia con poco interesse, continuando il discorso sommessamente ma qualcosa lo convinse ad alzarsi in piedi.
La nonna varcava la soglia del fienile proprio nel momento in cui lui decise di seguirla.
Arrivato al portone Lucas prese atto che era stato chiuso dall’interno. Un piccolo fuoco di interesse si accese in lui. Si spostò di lato cercando di scorgere qualcosa attraverso la finestrella lì accanto. Il vetro appannato non aiutava ma comunque non notò alcun movimento.
Sentì invece un tonfo sordo provenire dall’interno, come di un sacco di patate che veniva svuotato a terra e poi gemiti di dolore, di agonia.
Il giovane decise di provare dall’entrata sul retro che, fortunatamente, trovò aperta. All’interno il caldo soffocante gli causò un momento di nausea. Non gli era mai piaciuto quell’odore di deterioramento.
Inciampò sul corpo della nonna, in evidenti spasmi di dolore.
Attorno al collo aveva una fune a cui aveva legato il panno come una serpe che stringe una preda. Una sedia rivoltata giaceva lì accanto, ma non pareva fosse riuscita nemmeno a salirvi sopra. Pietà per un tempo in cui non ci si può nemmeno suicidare in pace.
“Lucas…” si sentì chiamare e, di risposta, egli guardò, senza pronunciare parola, il viso rugoso che lo stava fissando. “Voglio morire.”
Lucas scrutò profondamente quegli occhi.
Quegli occhi…sì, proprio quelli.
“Lo desideri?” Non gli interessava il perché. Non aveva bisogno di un perché. Aveva bisogno di una risposta.
“Sì. Lo voglio.” E continuava ad ansimare. Doveva essersi rotta un braccio dato che teneva quello sinistro inerme e tremante, stretto dalla mano destra.
Lucas si mosse lentamente, con cura ed attenzione. Afferrò il cappio. Prese il panno fra le mani e cominciò a tirare. La morsa si stringeva attorno al collo di sua nonna che allargò gli occhi, da un lato sognando di qualcosa di impalpabile, dall’altro stupendosi forse della implacabile decisione del nipote. Magari, chissà, ora si stava vedendo in una sala a bere del tè caldo con biscotti di pasta frolla e accanto le sue amiche, fantasmi in procinto di esser scordati, tutte in ammirazione mentre lei annunciava fieramente: “sì, mio nipote ha saputo uccidermi, quando l’ho desiderato. Che bravo figliolo.”
Gli occhi le si spegnevano in volto, con ultimi rantoli ed un timido filo di saliva che le scivolava dalla bocca. I capelli scompigliati e grigi si spargevano a terra, e parevano di tela sottile. Il panno assumeva l’aspetto di una macabra sciarpa ben stretta.
Sia chiaro, ancora non era avvenuto ciò che poi avrebbe scosso Lucas perché fu invece quando in ultimo poche parole, sussurrate, vennero pronunciate dalla vecchia forse già morta, che lui sentì qualcosa dentro di sé strapparsi e cominciare a vedere:
“tutti…(rantolo)…viviamo con il nostro…(altro rantolo)…panno sulle spalle…sulle spalle…”
Lucas mollò la presa ed il capo che nello sforzo del giovane era stato sollevato piombò sul terreno con un rumore sordo. Gli occhi della nonna erano rimasti aperti, ma insospettabilmente sereni. Come una notte di foschia dietro il cui velo si scorgono una per una le stelle fluttuanti.
I momenti successivi a tutto questo furono per Lucas miniera di domande e pensieri. Non aveva molto interesse delle questioni che la gente soleva porgli e sapeva benissimo che di lì in avanti, come Meursault, avrebbe dovuto affrontare un lungo itinerario inutile che avrebbe condotto all’inevitabile condanna da parte della giustizia umana, e richieste di pentimenti e testimonianze. Forse sarebbe anche lui rimasto in silenzio? Senza far nulla per la propria salvezza? A che pro, del resto? Morire oggi, o domani, o chiuso in un ricovero fra altri dimenticati senza esser coscienti della propria esistenza, perdendo giorno dopo giorno i ricordi che lo hanno costruito fino a quel momento, rimanendo soli con le proprie mura attorno. Isolandosi di controvoglia, e per altrui piacere. Stanco di non morire. Aggrappato al sorriso di chi ci vuole ancora qui, prosciugando fino all’ultimo istante estremo la vita amorfa di chi ormai ce la costruisce attorno e ci espone come addobbo di egoismo. E milioni di vigilie di Natale e pranzi e cenoni di capodanno e parenti, e rituali e finzioni. Lucas si graffiò un orecchio quasi provasse già il dolore di una vita ad ascoltare parole ficcate di forza lì dentro, imbevute di paura, senza sentimento e senza motivazione.
Che inutile spreco di tempo.
E poi gli balenò alla mente il manoscritto di Jan Potocki. Non ricordava quando e dove ebbe modo di leggerlo, ma del resto in quel momento era preso dalla vita del suo autore, piuttosto che dal suo capolavoro.
Si alzò in piedi ed uscì all’esterno dall’ingresso principale dopo averlo sbloccato, lasciando il corpo della nonna ad altrui cura. Qualcuno l’avrebbe presto trovato.
Si infilò dentro alla costruzione lì accanto e ne uscì brandendo un’accetta. Andò a passo spedito e sicuro verso Methìas e senza un momento di esitazione cominciò ad incidere la corteccia con colpi forti e sinistri. Il rumore sboccava fino ai piani superiori della casa e quando la madre si affacciò ad una finestra, fu felice, tremendamente felice, nel vedere suo figlio liberarsi da quell’ombra di follia. Il padre era disperso nei meandri dell’ospedale, o forse in qualche stanza sgualcita di un hotel ad ore ma ormai nessuno ne avvertiva più nemmeno la presenza, quando c’era.
Forse presto sarebbe arrivato Leopold, il nuovo amico della madre. Ma per allora tutto sarebbe stato concluso.
Il basso arbusto cadde a terra frusciando laconico, ma anche allora Lucas non smise di colpire. Dopotutto era veramente secco, molto secco, pensò il giovane. Fece in modo di ottenere un ceppo di discrete dimensioni, lo prese in mano e lo portò con sé in cantina, sotto l’abitazione. Lì aveva a disposizione ogni genere di utensile e scelse fra tutti il seghetto più acuminato, lo scalpello più duro, una pialla per le rifiniture ed infine un piccolo coltello. Lavorò per qualche ora, senza che qualcuno ebbe modo di disturbarlo.
A metà lavoro da lontano giunse un urlo disumano, di donna, evidentemente dal fienile. Nonna è stata trovata da mamma, si disse Lucas con indifferenza.
Continuò imperterrito nel suo lavoro. Instancabile, quasi ossessionato, ma estremamente lucido.
Già sentiva il proprio nome gridato da più parti quando completò l’acuminato paletto con l’ultima incisione alla base.
T
Mentre il sangue gli scivolava fuori dalla profonda ferita al petto pensò a malincuore: ognuno vive il proprio Methìas. Si nasconde agli occhi benpensanti, e di passo svelto sfugge alle proposte dogmatiche. Si china al cospetto della prospettiva e si svaluta a quella della permanenza, si svuota a quella della perdita. Perde contrasto per chi lo vede di rado e del resto non vale molto per chi lo osanna. Scema di volta, e ci corre accanto, si sistema sulle nostre spalle. Ma non è mai del tutto nostro, piuttosto ci concede un soffio della sua lemma, per riprendersela a fatti ormai risolti. In miliardi di circonvoluzioni lui si affretta a battere un ciglio e non si cura pur di me o di una vecchia o di un feto nato morto. Tutto gli risulta uguale, batte i suoi colpi con il sonno e la veglia, che siano esse eterne o meno. Capita infino alle regge e bastioni e striscia fra l’olezzo di piscio nelle più orrende bettole. E sei tu, ora, adesso, e quando non sarai, niente per lui varrà meno che un pensiero ad un’essenza mancata. O forse, chi lo sa, esso è Methìas stesso e mi aspettava nascendo con me per venir meno con me. Prima di me che cosa c’era e che cosa ci sarà? Secoli ed uomini e donne?
Forse niente
E forse, del resto, poco me ne importa.
§Johan Razev§
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"Possiamo solo decidere cosa fare con il tempo che ci viene concesso" Gandalf
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"Venite amici che non è tardi per scoprire un mondo nuovo.
Io vi propongo di andare più in là dell'orizzonte
E se anche non abbiamo l'energia
che in giorni lontani
mosse la terra e il cielo,
siamo ancora gli stessi,
unica eguale tempra di eroici cuori
indeboliti forse dal fato
ma con ancora la voglia di combattere
di cercare
di trovare
e di non cedere." A. Tennyson - Ulysses -
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Veramente Immenso