www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2012/08/25/news/francesco_de_gregori-4...
L'INTERVISTA
De Gregori on the road
"Il mio canto sulla strada"
L'artista romano annuncia il nuovo album: dieci brani che usciranno a novembre.
Canzoni come "Belle epoque" o "Passo lento" che parlano della vita e dei sentimenti di oggi con evocazioni di Kerouac, Fellini e McCarthy
di ANNA BANDETTINI
ROMA - Sono passati quarant'anni dall'album d'esordio che sono molto più di un anniversario, sono una vita, sono musica, ricerca espressiva, arte e canzoni straordinarie come La leva calcistica del '68, La donna cannone, Atlantide...dove anche i ragazzini di oggi trovano nelle parole eleganti
un po' di se stessi.
Sulla strada uscirà a novembre, dieci brani, il segno di un momento felice, dice, e preparato intrepidamente nel mezzo della doppia tournée estiva, una con Ambrogio Sparagna e l'altra col suo "Factory tour", autentico percorso d'artista in 25 canzoni, e con in più l'impegno di Venezia il 7 settembre per la presentazione alle Giornate degli autori di Finestre rotte, affettuoso video-ritratto di Stefano Pistolini, e la sfida di avviare, lui che odia gli sproloqui, sul sito
www.francescodegregori.net un suo "Post Office", dove rispondere ai lettori su temi più disparati, da come smettere di fumare all'Ilva di Taranto.
È sempre difficile dire cosa faccia di più un grande artista, se il talento, la fortuna, il perfezionismo, l'intelligenza, la cultura, il feeling con il pubblico, e De Gregori li raccoglie un po' tutti. "Ho aspettato quattro anni per fare un disco nuovo perché scrivere canzoni è difficile. Nella tua testa scatta subito il già detto, il già visto... E poi forse, sì, ora c'è anche la preoccupazione di mettere su carta cose che pensi possano stare al livello di quello che hai già scritto", dice con quella sua voce lenta, arcana, seduto nello studio di Michele Mondella, amico e storico addetto stampa, stessa figura alta di sempre, la faccia barbuta, il famoso cappello e gli occhiali scuri, un bel sorriso e l'aria prudente ma come discrezione necessaria, buon gusto, non diffidenza.
Partiamo da Kerouac?
"Un'anomalia, lo so, averlo letto così tardi. Ma ho mancato molti appuntamenti canonici della mia generazione. Per esempio non ho mai letto Siddharta. È che non mi è mai piaciuto fare le cose obbligatorie. "On the road" mi è capitato. Partivo per le vacanze, l'ho pescato dalla libreria. Il vecchio Oscar Mondadori, prova che comunque a suo tempo l'avevo comprato".
Non l'ha delusa?
"Anch'io pensavo fosse per sentimenti giovanili, invece a 61 anni credo di averne tratto il senso autentico del viaggio, della ricerca. Il romanzo è la ricerca del padre, evocato, cercato, è Denver.... Ma tutto questo non c'entra poi molto col mio disco".
E allora perché "Sulla strada"?
"È che non ho trovato titoli più convincenti. L'appartenere alla strada piuttosto che alla propria stanza penso sia il sentimento di molte delle cose che ho scritto nel disco. Che riverberano Kerouac, ma anche Fellini e Cormac McCarthy che mi ha fatto conoscere mio fratello, da "Cavali selvaggi" in poi, e di cui ho amato tutto, meno proprio "La strada" che, da appassionato di fantascienza, mi ha deluso".
Lei sulla strada c'è mai stato?
"Quella americana, solitaria dove l'individuo vede la sua ombra noi europei ce la sogniamo. La strada per me è la disponibilità agli altri. E il disco parla del mio star bene o meno al mondo, ma non è un concept, sono canzoni diverse per temi e ambienti musicali diversi. Una, Belle epoque, per esempio, è la storia di un sergente che festeggia il passaggio dall'Ottocento al Novecento, in un delirio di alcol e sesso, vino e bordelli. È la canzone meno personale ma riflette la mia visione del mondo".
Così disastrosa?
"Sono un uomo del '900 e non posso fare a meno di vedere il mondo attraverso quel secolo, incubatrice di mali e di disastri, due guerre mondiali, i campi di concentramento... E ancora oggi non vedo tutti questi scenari di pace".
E la canzone dell'album che sente più "sua"? "Passo d'uomo. Vuol dire lentezza, ma anche la misura con cui camminare nella vita, un passo da esseri umani. Spero che anche la musica esprima tutto questo".
Che vuol dire?
"Da anni con i miei musicisti lavoro per arrivare a una linea povera di suoni, contrappunti... Avevo 15 anni quando i primi grandi gruppi rock, Beatles e Rolling Stones, hanno seminato nella mia testa. Mi piace fare dischi in quella direzione ma con la semplicità della canzone con quattro accordi e uno strumento come nella musica popolare che da ragazzo ascoltavo al Folkstudio di Roma".
Essenziale.
"Mi piace togliere gli stereotipi: del rock come del genere "cantautore", parola che odio,
innesto linguistico sgraziato che evoca un mondo di ragazzetti supponenti, reclini sulla loro chitarra a narrare le loro disperate storie sentimentali".
E allora lei cos'è?
"Un artista e basta, uno che va sulla strada, ha i calli alle dita... dopodiché un cantautore lo sono, visto che me le scrivo e me le canto".
Contento?
"Sì, di fare musica sì. E se capita, come in questo tour, di suonare e sentire che quello che fai ingrana, che quello che pensavi è in sintonia con la gente, allora capisci che questo è uno dei più bei mestieri del mondo. Perché puoi sentirti compreso".
(25 agosto 2012