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21/04/2011 19:35 | |
Ma come doveva, quest’agnello, essere mangiato? Con pane senza lievito e con delle erbe amare. Il lievito, nella Scrittura, è sempre l’emblema del male. Mai, né nell’Antico né nel Nuovo Testamento, rappresenta qualcosa di puro, di sano o di buono. Così, in questo capitolo, la festa dei pani senza lievito è la figura della separazione pratica dal male, che deriva dal fatto che siamo lavati dai nostri peccati nel sangue dell’Agnello e che è la necessaria conseguenza della comunione con le sue sofferenze. Soltanto il pane completamente privo di lievito è compatibile con l’agnello arrostito; una sia pur minima quantità di ciò che rappresenta il male, avrebbe rovinato completamente il carattere morale di tutto l’ordinamento. Come potremo unire il male alla nostra comunione con un Cristo sofferente? È impossibile. Tutti coloro che afferrano, per la potenza dello Spirito, il significato della croce, toglieranno certamente così, con questa stessa potenza, ogni lievito che è in mezzo a loro. «Poiché anche la nostra pasqua, cioè Cristo, è stata immolata. Celebriamo dunque la festa non con vecchio lievito, né con lievito di malizia e di malvagità, ma con gli azzimi della sincerità e della verità» (1 Corinzi 5:7-8). La festa trattata in questo passo è quella che, nella vita e nella condotta della Chiesa, corrisponde alla festa dei pani senza lievito. Quest’ultima durava sette giorni; e la Chiesa, collettivamente, e il cristiano, individualmente, sono chiamati a camminare nella santità pratica durante i sette giorni, cioè, il periodo intiero del loro cammino quaggiù; e tutto questo come risultato diretto del fatto che l’una e l’altro sono lavati nel sangue e hanno comunione con le sofferenze di Cristo.
Se l’Israelita toglieva il lievito non lo faceva per essere salvato ma perché era salvato; e se trascurava di togliere il lievito, quest’errore, per grave che fosse, non comprometteva la sicurezza data dal sangue, ma semplicemente la comunione con l’altare e con l’assemblea. «Per sette giorni non si trovi lievito nelle vostre case, perché chiunque mangerà qualcosa di lievitato, quel tale sarà reciso dalla raunanza d’Israele: sia egli forestiero o nativo del paese» (vers. 19). L’essere reciso dall’assemblea per un Israelita corrisponde, per il cristiano, all’essere tolto di comunione quando si concede qualcosa che è contraria alla santità della presenza divina. Dio non può tollerare il male. Un solo pensiero impuro interrompe la comunione dell’anima; e finché la contaminazione dovuta a questo pensiero non è stata tolta con la confessione fondata sull’intercessione di Cristo, è impossibile che la comunione sia ristabilita (vedere 1 Giovanni 1:5-10; Salmo 32:3-5). Il cristiano col cuore diritto è contento che sia così. Egli può sempre celebrare il ricordo della santità di Dio (Salmo 30:4; 97:12). Egli non vorrebbe, se fosse possibile, diminuire la misura della santità, neanche di una briciola. Per lui è una grande gioia camminare in compagnia di qualcuno che non può, nemmeno per un istante, tollerare il contatto col più piccolo «atomo» di lievito.
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