Note sul libro dell’ESODO

Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 19:27
CAPITOLO 12
Capitolo 12
«E l’Eterno disse a Mosè: Io farò venire ancora una piaga su Faraone e sull’Egitto; poi egli vi lascerà partire di qui. Quando vi lascerà partire, egli addirittura vi cac­cerà di qui» (Cap. 11:1). Ci vuole un colpo più pesante ancora su questo re e sul suo paese per costringerlo a lasciar andare i beati oggetti della sovrana grazia dell’Eterno.

Invano l’uomo si impunta e si innalza contro Dio; Dio, di certo, può sferzare e ridurre in polvere il cuore più duro e abbattere fin nella polvere lo spirito più altero. «Egli ha il potere di umiliare quelli che camminano superbamente» (Daniele 4:37).

L’uomo può credere di essere qualcosa; nel suo folle orgoglio può andare a testa alta, come se fosse il padrone di se stesso. Uomo vano! Quanto poco co­nosce la sua vera condizione e il suo vero carattere. Non è che un mezzo e uno strumento di Satana che cerca di ostacolare i disegni di Dio. L’intelligenza più brillante, il genio più elevato, l’energia più indomita, a meno che siano sotto la diretta direzione dello Spirito di Dio, altro non sono che strumenti nelle mani di Sa­tana per compiere i suoi oscuri disegni. Nessun uomo è padrone di se stesso: o è governato da Cristo o da Satana. Il re d’Egitto poteva credersi libero agente, e, in­vece, era uno strumento nelle mani di un altro. Dietro al suo trono c’era Satana; di conseguenza Faraone, che si era impegnato ad opporsi ai disegni di Dio, fu la­sciato all’influenza accecante del padrone che si era scelto.

Questo spiega l’espressione che troviamo sovente nei primi capitoli di questo libro: «E l’Eterno indurò il cuore di Faraone» (Cap. 9:12). Non è profittevole cercare di evitare il senso chiaro e completo di questa solenne dichiarazione. Se l’uomo rifiuta la luce della testimonianza divina, è abbandonato, in giudizio, a un induramento e a un accecamento di cuore; Dio lo abbandona a se stesso; e allora viene Sa­tana che lo trascina, a testa bassa, alla perdizione. Ce n’era abbastanza di luce perché Faraone capisse la stra­vaganza e la follia del cammino per il quale si era in­camminato, cercando di trattenere coloro che Dio co­mandava che fossero lasciati andare.

Ma la vera inclinazione del suo cuore era di agire contro Dio, per questo Dio lo abbandonò a se stesso e fece di lui un monumento per manifestare la sua gloria per tutta la terra. Tutto ciò non rappresenta difficoltà alcuna se non per coloro che vogliono contestare con Dio, «sfidare l’Onnipotente» (Giobbe 15:25), e man­dare in rovina la loro anima immortale.

Dio, qualche volta, dà agli uomini ciò che si adatta alle vere tendenze del loro cuore: «E perciò Dio manda loro efficacia d’errore onde credano alla menzogna, af­finché tutti quelli che non han creduto alla verità, ma si son compiaciuti nell’iniquità, siano giudicati» (2 Tessa­lonicesi 2:11-12).
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 19:27
Se gli uomini non vogliono la verità quando è loro presentata, avranno certamente una menzogna; non vogliono Cristo, avranno Satana, non vogliono il cielo, avranno l’inferno (*). L’incredulo troverà da ridire a questo? Incominci a dimostrare che tutti coloro che sono trattati così hanno risposto pienamente alla loro responsabilità: che Faraone, per esempio, per ciò che lo riguarda, abbia agito, in qualche modo, secondo la luce che possedeva; e così via, per tutti gli altri. Incon­testabilmente, l’incarico di dimostrare questo ricade su coloro che vogliono trovar da dire alle vie di Dio verso chi rigetta la verità. Il figlio di Dio, semplice di cuore, giustificherà Dio nelle sue dispensazioni più insonda­bili e, sebbene non possa rispondere in modo soddisfa­cente alle difficili obiezioni degli increduli, trova per­fetto riposo in questa parola: «Il giudice di tutta la terra non farà egli giustizia?» (Genesi 18:25). C’è molta più saggezza in questo modo di risolvere una difficoltà apparente, che nel ragionamento più elaborato; poiché è certo che un cuore disposto a «replicare» a Dio (Ro­mani 9:20) non sarà convinto dai ragionamenti dell’uomo.

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(*) C’è una grande differenza nel modo con cui Dio agisce verso i pagani (Romani 1) e verso quelli che rigettano il Vangelo (2 Tessalonicesi 1:2). Dei primi è detto: «Siccome non si sono curati di ritenere la conoscenza di Dio, Iddio li ha abbandonati ad una mente reproba»; per i secondi la Parola insegna che «poiché non hanno aperto il cuore all’amore della ve­rità per essere salvati, perciò Iddio manda loro efficacia d’errore onde cre­dano alla menzogna... e siano giudicati». I pagani rifiutano la testimonianza della creazione e sono, perciò, abbandonati a loro stessi. Quelli che rifiu­tano l’Evangelo respingono la luce risplendente della croce e, pertanto, un’energia d’errore sarà loro mandata da parte di Dio. Questo è molto serio nei tempi in cui siamo, nei quali c’è tanta luce e tanta professione di cristianesimo
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 19:28
Tuttavia è la prerogativa di Dio rispondere a tutti i ragionamenti orgogliosi dell’uomo e abbassare le super­be immaginazioni dei pensieri dello spirito umano. Egli può pronunciare la sentenza di morte su tutta la natura, nelle sue più belle forme: «È riserbato agli uomini di morire una volta» (Ebrei 9:27). Nessuno può sfuggire a questa sentenza. L’uomo può cercare di coprire la sua umiliazione con mezzi diversi, di nascondere il suo pas­saggio per la valle dell’ombra della morte nel modo più eroico, di dare agli ultimi umilianti giorni della sua carriera i nomi più onorevoli possibili, di indorare con una falsa luce il suo letto di morte, di decorare il corteo funebre e la tomba con una specie di lusso, di pompa, e di gloria, di innalzare sulle sue spoglie contaminate un monumento splendido, sul quale sono iscritti gli an­nali dell’umana vergogna; può fare tutto questo, ma la morte è la morte, e non la si può ritardare di un solo istante, né fare in modo che sia diversa da ciò che è, «il salario del peccato» (Romani 6:23).

Questi pensieri ci sono stati suggeriti dai primi ver­setti del cap. 11: «Ancora una piaga!». Che parola so­lenne! Essa suggellava la sentenza di morte pronunziata sui primogeniti d’Egitto, «le primizie d’ogni loro forza» (Salmo 105:36). «E Mosè disse: Così dice l’Eterno: Verso mezzanotte io passerò in mezzo all’Egitto; e ogni primogenito nel paese d’Egitto morrà; dal primogenito del Faraone che siede sul suo trono, al primogenito del­la serva che sta dietro la macina, e ad ogni primoge­nito del bestiame. E vi sarà per tutto il paese d’Egitto un gran grido, quale non ci fu mai prima né ci sarà di poi» (Cap. 11:4-6). Questa era la piaga finale: la morte in ogni casa. «Ma fra tutti i figliuoli d’Israele, tanto fra gli uomini quanto fra gli animali, neppure un cane muo­verà la lingua, affinché conosciate la distinzione che l’Eterno fa tra gli Egiziani e Israele» (v. 7). C’è solo il Signore che possa distinguere fra chi è suo e chi non lo è. Non è in nostro potere di dire a qualcuno «fatti in là, non ti accostare perch’io son più santo di te» (Isaia 65:5): sarebbe, questa, l’espressione di un fariseo. Ma quando è Dio che fa una distinzione, è no­stro dovere informarci in che cosa essa consista e, nel caso che stiamo studiando, si tratta di vita o di morte. E quella è la grande differenza che Dio fa. Egli traccia una linea di demarcazione: da un lato c’è la vita, dal­l’altro la morte. Molti primogeniti d’Egitto saranno stati belli e cari come quelli di Israele, forse ancora di più; ma Israele aveva la vita e la luce, basate sui disegni d’amore di un Dio Redentore e, come lo vedremo, sul sangue dell’Agnello.
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 19:29
Ecco qual era la beata posizione di Israele; mentre, dall’altro lato, in tutta la distesa del paese di Egitto, dal monarca sul trono alla serva della macina, non si vedeva altro che morte e non s’udiva altro che il grido amaro dell’angoscia strappato dal terribile colpo della verga dell’Eterno. Dio può abbattere lo spirito altero dell’uomo, e far sì che il furore degli uomini ridondi alla sua lode, cingendosi degli ultimi avanzi dei loro furori (Sal­mo 76:10). «E tutti questi tuoi servitori scenderanno da me, e s’inchineranno davanti a me dicendo: Parti, tu e tutto il popolo che è al tuo seguito! E, dopo que­to, io partirò» (Cap. 11:8). Dio porterà a compimento i propri consigli. Bisogna che i suoi disegni di miseri­cordia si effettuino, ad ogni costo; e la confusione della faccia sarà la parte di quelli che si oppongono. «Celebrate l’Eterno perché egli è buono, perché la sua benignità dura in eterno... Colui che percosse gli Egizi nei loro primogeniti, poiché la sua benignità dura in eterno; e trasse fuori Israele dal mezzo di loro, poi­ché la sua benignità dura in eterno; con mano potente e con braccio steso, perché la sua benignità dura in eterno» (Salmo 136).

«L’Eterno parlò a Mosè e ad Aaronne nel paese di Egitto, dicendo: Questo mese sarà per voi il primo dei mesi; sarà per voi il primo dei mesi dell’anno» (Capi­tolo 12:1-2). C’è un interessante cambiamento nell’ordine del tempo. L’anno comune, o civile, seguiva il suo corso ordinario, quando l’Eterno lo interrompe per il suo po­polo, insegnandogli così, in teoria, che doveva incomin­ciare, per lui, un’èra nuova con Lui. La storia prece­dente di Israele, non contava più, ormai; la redenzione doveva costituire il primo passo nella vita reale.
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 19:29
Que­sto ci insegna una semplice verità: la conoscenza di una salvezza perfetta e di una pace stabile e sicura, per mezzo del prezioso sangue dell’Agnello, pone l’uo­mo in mezzo a un nuovo ordine di cose e diventa per lui il principio di una nuova vita con Dio. Fino a quel momento egli è, secondo il giudizio di Dio e l’espressio­ne della Scrittura, «morto nei suoi falli e nei suoi pec­cati», «estraneo alla vita divina» (Efesini 2:1; 4:18). Tutta la sua storia non è che uno spazio vuoto, anche se, a stima umana, è stata piena di febbrile attività. Tutto ciò che attrae l’attenzione dell’uomo del mondo, gli onori, le ricchezze, i piaceri, le attrazioni della vita, tutte queste cose, considerate alla luce del giudizio di Dio, e pesate alla bilancia del santuario, non sono, in fondo, che un orribile vuoto, un nulla, non degno nep­pure di occupare un posto nei racconti dello Spirito Santo. «Chi rifiuta di credere al Figliuolo non vedrà la vita» (Giovanni 3:36). Gli uomini parlano di godere della vita, quando si lanciano nella società, quando viaggiano da un capo all’altro per vedere tutto ciò che si può vedere, ma dimenticano che il solo mezzo vero e reale per «vedere la vita» è di credere al Figliuolo di Dio.

Ma gli uomini la pensano diversamente. Immaginano che la vera vita finisca quando uno diventa cri­stiano, di fatto e in verità, non solo di nome e di pro­fessione esteriore; invece la parola di Dio ci insegna che solo allora possiamo vedere la vita e gustare la vera felicità. «Chi ha il Figliuolo ha la vita» (1 Gio­vanni 5:12). E ancora «Beato colui la cui trasgressione è rimessa e il cui peccato è coperto» (Salmo 32:1). Non possiamo avere la vita e la felicità che in Cristo solo. Al di fuori di lui tutto è morte e miseria, secondo il giudizio del cielo, qualunque sia l’apparenza. Quando lo spesso velo dell’incredulità è stato tolto dal cuore, quando possiamo vedere con gli occhi della fede l’Agnello immolato che porta sul legno maledetto il pe­sante fardello della nostra colpa, entriamo nel sentiero della vita e partecipiamo al calice della felicità divina. Questa vita incomincia alla croce e scorre in un’eter­nità di gloria e la felicità diventa ogni giorno più pro­fonda e più pura, ogni giorno si avvicina sempre più a Dio, riposa su Cristo fino a raggiungere la sua vera sfera, nella presenza di Dio e dell’Agnello. Cercare la vita e la felicità con un altro mezzo è un lavoro an­cora più vano che il fare «mattoni con la paglia».
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 19:30
È vero che il Nemico delle anime sa colorare la scena passeggera della vita presente per far credere al­l’uomo che sia tutta d’oro. Costruisce teatri di mario­nette per divertire una moltitudine incurante e leg­gera, che non vuol sapere che è Satana che tira i fili e il cui scopo è di allontanare le anime da Cristo per trascinarle alla perdizione eterna. Non c’è niente di reale, di solido, di soddisfacente al di fuori di Cristo. Al di fuori di Lui tutto è vanità e un «correre dietro al vento» (Ecclesiaste 2:17). In Lui solo si trovano le gioie vere ed eterne, solo quando cominciamo a vivere in Lui, di lui, con Lui e per Lui. «Questo mese sarà per voi il primo dei mesi; sarà per voi il primo dei mesi dell’anno». Il tempo passato nelle fornaci di mattoni e vicino all’argilla era come non fosse esistito; solo il ricordo doveva servire a Israele per rianimare in lui il sentimento di ciò che la grazia divina aveva compiuto in suo favore, e renderlo più profondo.

«Parlate a tutta la raunanza e dite: Il decimo giorno di questo mese prenda ognuno un agnello per famiglia, un agnello per casa... Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, dell’anno; potrete prendere un agnello o un capretto. Lo serberete fino al quattordicesimo giorno di questo mese e tutta la raunanza d’Israele, congregata, lo immolerà sull’imbrunire» (vers. 3-6). Ecco la redenzione del popolo, basata sul sangue dell’Agnello, secondo il disegno eterno di Dio; ecco ciò che conferisce a questa redenzione la sua divina sta­bilità. La redenzione non è stata, in Dio, un pensiero secondario; prima che il mondo fosse, prima che esi­stessero Satana e il peccato, prima che la voce di Dio avesse interrotto il silenzio dell’eternità per chiamare i mondi all’esistenza, i suoi grandi disegni d’amore esi­stevano già davanti a lui e non potevano mai trovare un fondamento abbastanza solido nella creazione. Tutti i privilegi, le benedizioni, le glorie della creazione, ripo­savano sull’ubbidienza di una creatura e, dal momento che questa ha fallito, tutto è perduto. Ma il tentativo di Satana di turbare e corrompere la creazione servì ad aprirle la via alla manifestazione dei disegni più pro­fondi di Dio nella redenzione.

Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 19:30
Questa meravigliosa verità ci è presentata, in figura, nel fatto che l’agnello era serbato dal decimo al quat­tordicesimo giorno. Quell’agnello, incontestabilmente, era la figura di Cristo, come lo dimostrano chiaramente i passi seguenti: «Poiché anche la nostra Pasqua, cioè Cristo, è stata immolata» (1 Corinzi 5:7); e: «Sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati dal vano modo di vivere traman­datovi dai padri, ma col prezioso sangue di Cristo, come d’agnello senza difetto né macchia, ben preordinato prima della fondazione del mondo, ma manifestato negli ultimi tempi per voi» (1 Pietro 1:18-20).

Tutti i disegni di Dio, da ogni eternità, facevano rife­rimento a Cristo e nessuno sforzo del Nemico ha mai potuto guastarli; al contrario, tutti questi sforzi non hanno fatto che contribuire alla manifestazione della saggezza insondabile e della immutabile fermezza dei consigli di Dio. Se l’Agnello senza difetto né macchia è stato preordinato prima della fondazione del mondo, certamente la redenzione doveva essere nei pensieri di Dio prima della fondazione del mondo. L’Iddio beato non ha avuto bisogno di organizzare un piano per rime­diare al terribile male che il Nemico aveva introdotto nella creazione. No; non ha avuto che da far uscire dal tesoro inesplorato dei suoi meravigliosi consigli la ve­rità concernente l’Agnello senza macchia, che era stato conosciuto da ogni eternità e che doveva essere «mani­festato negli ultimi tempi per noi».

Non c’era bisogno del sangue dell’Agnello nella creazione, quando è uscita giovane e fresca dalle mani del Creatore, mostrando in ognuna delle sue fasi e delle sue parti l’ammirevole impronta della mano di­vina, le prove infallibili della «Sua eterna potenza e di­vinità» (Romani 1:20). Ma quando per mezzo d’un sol uomo il peccato è entrato nel mondo» (Romani 5:12) allora fu rivelato il pensiero più profondo, più perfetto, più glorioso della redenzione, per mezzo del sangue dell’Agnello. Questa meravigliosa verità apparve dap­prima attraverso la densa nube che circondava i nostri progenitori, quando uscirono dal giardino di Eden; i suoi raggi incominciarono a brillare nei tipi e nelle ombre dell’economia mosaica; ma risplendé sul mondo in tutto il suo chiarore quando «l’Oriente dall’alto» (Luca 1:78) apparve nella persona di «Dio manifestato in carne» (1 Timoteo 3:16); e i suoi ricchi e gloriosi risultati si realizzeranno allorché la grande moltitudine vestita di bianco e con le palme in mano si radunerà attorno al trono di Dio e dell’Agnello e la creazione intera si riposerà sotto lo scettro di pace del Figliuolo di Davide.
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 19:30
Così l’Agnello, preso il decimo giorno e conservato fino al quattordicesimo, ci presenta Cristo, precono­sciuto da Dio da ogni eternità, ma manifestato, nel tempo, per noi. Il disegno eterno di Dio in Cristo di­venta il fondamento della pace del credente. Ci voleva nientemeno che quello. Siamo portati ben al di là della creazione, al di là dei limiti del tempo, al di là dell’en­trata del peccato nel mondo, di tutto ciò che poteva intaccare il fondamento della nostra pace. L’espressione «preordinato prima della fondazione del mondo» ci porta indietro, nelle profondità insonda­bili dell’eternità, e ci mostra Dio che formula i suoi piani d’amore e di redenzione e che li fa riposare tutti sul sangue espiatorio del suo immacolato e prezioso Agnello. Cristo fu sempre il primo pensiero di Dio; così, da quando incomincia a parlare o agire, Dio prende l’oc­casione per presentare in figura Colui che occupava il posto più elevato nei suoi consigli e nei suoi affetti. E, proseguendo per la linea di ispirazione, vediamo che ogni cerimonia, ogni rito, ogni ordinanza e ogni sacrificio, annunziava in anticipo «l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo» (Giovanni 1:29, 36), e nessuno in modo sorprendente come «la Pasqua». L’Agnello pa­squale, con tutte le circostanze che gli si riferiscono, costituisce la figura più interessante e profondamente istruttiva della Parola.

Abbiamo a che fare, nell’interpretazione del cap. 12 dell’Esodo, con un’assemblea e un sacrificio. «E tutta la raunanza d’Israele, congregata, lo immolerà sull’imbru­nire» (v. 6). Non è detto molte famiglie e molti agnelli (cosa che, del resto, è vera) ma una sola Raunanza e un solo Agnello. Ogni famiglia non era che l’espres­sione locale della raunanza intera, riunita intorno al­l’agnello, così come la Chiesa di Cristo, radunata dallo Spirito Santo nel nome di Gesù, è costituita da molte assemblee che, dovunque si riuniscono, ne sono l’espres­sione locale.
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 19:31
«E si prenda del sangue d’esso, e si metta sui due stipiti e sull’architrave della porta delle case dove lo si mangerà. E se ne mangi la carne in quella notte; si mangi arrostita al fuoco, con pane senza lievito e con dell’erbe amare. Non ne mangiate niente di poco cotto o di lessato nell’acqua, ma sia arrostito al fuoco, con la testa, le gambe e le interiora» (vers. 7-9). L’agnello pasquale si presenta sotto due differenti aspetti, cioè come fondamento della pace e come cen­tro dell’unità. Il sangue sugli stipiti assicurava la pace a Israele. «E quand’io vedrò il sangue passerò oltre» (v. 13). Non ci voleva altro che l’applicazione del sangue di aspersione per poter godere di una pace garantita ri­guardò all’angelo distruttore. La morte doveva fare il suo lavoro in tutte le case d’Egitto; «è stabilito che gli uomini muoiano una volta» (Ehrei 9:27); ma Dio, nella sua grande misericordia, trovò per Israele un sostituto senza macchia, sul quale fu eseguita la sentenza di morte. Le esigenze della gloria di Dio e il bisogno di Israele trovarono così in una sola cosa, cioè nel san­gue dell’Agnello, ciò che ugualmente li soddisfaceva. Il sangue, al di fuori, diceva che tutto era perfettamente regolato, poiché era stato Dio a intervenire; di conse­guenza dentro regnava una perfetta pace. L’ombra di un dubbio nel cuore di un Israelita sarebbe stato un disonore sul divino fondamento della pace, cioè sul sangue della propiziazione.

Indubbiamente, tutti quelli che erano dentro alla porta cosparsa dal sangue dove­vano, individualmente sentire che se avessero dovuto ricevere loro la giusta retribuzione dei loro peccati, la spada del distruttore li avrebbe certamente colpiti; ma l’agnello aveva subìto, al loro posto, il trattamento che essi meritavano. Era quello il solido fondamento della loro pace. Il giudizio che toccava loro era caduto su una vittima preordinata da Dio; e credendo questo, pote­vano mangiare in pace dentro la casa. Un solo dubbio avrebbe fatto bugiardo l’Eterno che aveva detto: «Quando vedrò il sangue passerò oltre»; questo bastava; non si trattava di meriti personali; l’io era fuori discussione. Tutti quelli che erano al riparo del sangue erano al sicuro. Non erano soltanto in condizione di essere sal­vati, erano salvati. Non avevano da sperare di essere salvati, o da pregare di esserlo; essi sapevano, come un fatto avverato, che lo erano, sull’autorità di quella parola che resterà ferma di generazione in generazione; inoltre non erano in parte salvati, in parte esposti al giudizio: erano completamente salvati.
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 19:32
Il sangue dell’agnello e la parola di Dio costituivano il fondamento della pace di Israele in quella notte terribile, in cui la morte colpì i primogeniti d’Egitto. Se un solo capello di una testa israelita avesse potuto es­sere toccato, la parola di Dio sarebbe stata smentita e il sangue dell’agnello dichiarato inutile.

È molto importante capire chiaramente ciò che co­stituisce il fondamento della pace del peccatore alla presenza di Dio. Si associano tante cose all’opera com­piuta da Cristo, che le anime sono immerse nell’incer­tezza e nell’oscurità per ciò che riguarda la loro accet­tazione. Esse non discernono il carattere assoluto della redenzione per mezzo del sangue di Cristo nella sua applicazione a se stesse; sembrano ignorare che il pie­no perdono dei peccati si basi sul semplice fatto che una espiazione perfetta è stata compiuta, fatto attestato alla presenza di ogni intelligenza creata con la risur­rezione dai morti del «garante» dei peccatori. Esse sanno che non c’è altro mezzo, per essere salvati, all’infuori del sangue della croce, ma questo lo sanno pure i demoni e non giova loro nulla. Esse non sanno che ciò di cui si ha bisogno è di sapere che si è salvati personalmente.

L’Israelita non sapeva soltanto che il sangue era una salvaguardia; sapeva di essere, lui, al sicuro. E perché? Era forse grazie a qualcosa che aveva fatto, sentito, pensato? Certamente no, ma perché Dio aveva detto: «Quando vedrò il sangue passerò oltre». Egli si ba­sava sulla testimonianza di Dio; credeva a ciò che Dio aveva detto poiché era stato Dio a dirlo; «ha confer­mato che Dio è verace» (Giovanni 3:33).

Notate che non su propri pensieri o su sentimenti o su proprie esperienze riguardo al sangue, l’Israelita si basava; sarebbe stato un riposarsi su un misera­bile fondamento di sabbia. I suoi pensieri e i suoi sen­timenti potevano essere profondi o superficiali: ma, pro­fondi o superficiali che fossero, non avevano nulla a che fare con il fondamento della sua pace. Dio non aveva detto «quando vedrete il sangue e lo conside­rerete come va considerato io passerò oltre». Questo sarebbe bastato per far cadere l’Israelita in una pro­fonda disperazione, dal momento che è impossibile al­l’uomo apprezzare sufficientemente il prezioso sangue dell’Agnello. Ciò che dava la pace era il fatto che l’oc­chio dell’Eterno si posava sul sangue e l’Israelita sa­peva che Lui ne apprezzava il valore. «Io vedrò il san­gue»! Era ciò che tranquillizzava il cuore. Il sangue era fuori, sull’architrave della porta e l’Israelita, che era dentro, non lo vedeva; ma Dio lo vedeva e ciò ba­stava, perfettamente.
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 19:32
L’applicazione di tutto questo alla questione della pace di un peccatore è molto semplice. Il Signore Gesù, avendo sparso il suo sangue prezioso in espiazione per il peccato, ha portato questo sangue alla presenza di Dio e là ne ha fatto l’aspersione; e la testimonianza di Dio assicura, al peccatore che crede, che ogni cosa è regolata in suo favore, regolata non in base alla stima ch’egli può fare di quel sangue, ma dal sangue stesso che ha un così elevato valore agli occhi di Dio che, per esso, Dio può, con giustizia, perdonare ogni pec­cato e ricevere il peccatore come perfettamente giusto in Cristo. Come potrebbe l’uomo godere di una pace solida, se la sua pace dipendesse dalla stima ch’egli fa del sangue? La più alta considerazione che lo spi­rito umano potrebbe avere per il sangue sarebbe infi­nitamente al di sotto del suo divino valore; se dunque la nostra pace dovesse dipendere dal nostro giusto ap­prezzamento di ciò ch’esso vale, non potremmo godere di una pace sicura, lo stesso come se cercassimo que­sta pace con le «opere della legge» (Romani 9:32; Galati 2:16; 3:10). Bisogna che nel sangue soltanto ci sia un sufficiente fondamento di pace, se no non l’avremo mai. Mescolare questo sangue con la stima che noi ne facciamo, è distruggere tutto l’edificio del cristianesimo, come se portassimo il peccato ai piedi del Sinai e lo ponessimo sotto il patto delle opere. O il sacrificio di Cristo è sufficiente o non lo è. Se è suf­ficiente, perché questi dubbi e questi timori? Con le parole delle nostre labbra dichiariamo che l’opera è stata compiuta, ma i dubbi e i timori del cuore dicono che non lo è stata. Tutti quelli che dubitano del loro perfetto ed eterno perdono, negano il compimento e la perfezione del sacrificio di Cristo.

Ma molti indietreggerebbero all’idea di mettere in dubbio, apertamente, di proposito deliberato, l’efficacia del sacrificio di Cristo, e tuttavia non godono di una pace sicura. Tali persone si dicono convinte che il san­gue di Cristo basta, perfettamente, ai bisogni del pec­catore soltanto se sono sicure di avere una partecipa­zione a questo sangue, soltanto se hanno la vera fede. Vi sono molte anime in questa triste condizione: sono occupate della loro fede e dei loro sentimenti invece di essere occupate del sangue di Cristo e della parola di Dio; in altre parole, esse guardano dentro a loro stesse, invece di guardare al di fuori, a Cristo. Quella non è fede; di conseguenza esse non hanno pace. L’Israelita, al riparo sotto l’aspersione del sangue, po­teva insegnare a queste anime una preziosa lezione. Egli non era salvato per il valore che dava a quel sangue, ma solo per il sangue. Indubbiamente egli lo apprez­zava, aveva dei pensieri a suo riguardo, ma Dio non aveva detto: «quando vedrò la valutazione che fate del sangue, passerò oltre» ma «quando io vedrò il sangue, passerò oltre». Il sangue, col suo valore e la sua divina efficacia, era posto dinanzi a Israele; e se il popolo avesse voluto mettere anche solo un pezzo di pane senza lievito, vicino al sangue, come fonda­mento di sicurezza, avrebbe fatto Dio bugiardo e ne­gato la perfetta sufficienza del suo rimedio.

Siamo sempre portati a cercare in noi stessi o in ciò che proviene da noi qualcosa che, insieme al san­gue di Cristo, possa costituire il fondamento della no­stra pace. Su questo punto capitale c’è, in molti cre­denti, una grave mancanza di luce e di intelligenza, co­me lo dimostrano i dubbi e i timori da cui sono tor­mentati. Siamo propensi a considerare il frutto dello Spirito in noi piuttosto che l’opera di Cristo per noi, come il fondamento della nostra pace. Avremo l’occa­sione di vedere quale posto occupa l’opera dello Spi­rito Santo nel cristianesimo; ma, nelle Scritture, que­st’opera non è mai presentata come ciò su cui riposa la nostra pace. Lo Spirito Santo non ha fatto la pace, ma Cristo l’ha fatta; non è detto che lo Spirito Santo sia la nostra pace ma che la nostra pace è Cristo. Dio non ha mandato a predicare «la pace per mezzo dello Spirito» bensì «la pace per mezzo di Gesù Cristo» (Atti 10:36; Efesini 2:14-17; Colossesi 1:20). Non si può afferrare con troppa semplicità questa importante distinzione. È per il sangue di Cristo che abbiamo pace, perfetta giustificazione, giustizia divina; è lui che pu­rifica la coscienza, che ci introduce nel luogo santis­simo, che fa sì che Dio sia giusto ricevendo il peccatore che crede; è lui che ci dà diritto a tutte le gioie, gli onori, le glorie del cielo (Romani 3:24-26; Efesini 2:13-18; Colossesi 1:20-22; Ebrei 9:14; 10:19; 1 Pietro 1:19; 2:24; 1 Giovanni 1:7; Apocalisse 7:14-17).
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 19:33
Non si penserà, spero, che esponendo qual’è, davanti a Dio, il valore del prezioso sangue di Cristo io voglia sminuire l’importanza dell’opera dello Spirito. Che Dio non lo permetta! Lo Spirito Santo rivela Cristo, ci fa conoscere Cristo, ci fa godere di lui e ci nutrisce di lui; egli rende testimonianza a Cristo, prende le cose di Cristo e ce le comunica. Egli è la potenza della comu­nione, il suggello, il testimone, la caparra, l’unzione. In altre parole, le operazioni benedette dello Spirito sono assolutamente essenziali. Senza di lui non pos­siamo né vedere, né udire, né sentire, né sperimentare, né manifestare qualcosa di Cristo, né godere di lui. La dottrina dell’azione dello Spirito è chiaramente espo­sta nelle Scritture, compresa e ricevuta da ogni cristia­no fedele e ben insegnata.

Tuttavia, malgrado ciò, l’ope­ra dello Spirito non è il fondamento della pace: se lo fosse, non potremmo avere una pace solida e sicura prima della venuta di Cristo, dal momento che l’opera dello Spirito nella chiesa finirà soltanto allora. Lo Spi­rito continua la sua opera nel credente. Egli «inter­cede per noi con sospiri ineffabili» (Romani 8:26); la­vora per farci raggiungere la «statura» alla quale siamo stati destinati, cioè a una perfetta conformità, in ogni cosa, all’immagine del «Figliuolo»; Egli è l’unico autore di ogni desiderio buono, di ogni santa aspirazione, di ogni affezione pura, di ogni esperienza divina, di ogni sana convinzione; ma, certamente, la sua opera in noi sarà completa soltanto quando avremo lasciato la scena precedente di questo mondo per prendere posto con Cristo nella gloria, così come il servo di Abrahamo ter­minò il suo lavoro riguardo a Rebecca quando la pre­sentò a Isacco.

Ma dell’opera di Cristo per noi non è la stessa co­sa: essa è assolutamente e eternamente completa; Cri­sto ha potuto dire: «Ho compiuto l’opera che tu m’hai data da fare» (Giovanni 17:4), e ancora: «È compìuto» (Giovanni 19:30). Ma lo Spirito Santo non può dire di aver già finito la sua opera. Come il vero vicario di Cristo sulla terra, Egli lavora ancora in mezzo a tutte le in­fluenze ostili che circondano la sua sfera d’azione; Egli lavora nel cuore dei figliuoli di Dio per farli giun­gere, in modo sperimentale e pratico, all’altezza del Modello, all’immagine del quale devono essere resi conformi. Ma non induce mai un’anima a far dipendere la propria pace nella presenza di Dio dall’opera che esso compie in lui. La missione dello Spirito Santo è parlare di Gesù; non parla di se stesso, ma «pren­derà del mio — dice Cristo — e ve l’annunzierà» (Giovanni 16:14). Se dunque è per l’insegnamento dello Spirito che si può comprendere il vero fondamento della pace e se lo Spirito non parla mai di se stesso, è evidente che non può non presentare l’opera di Cri­sto come il fondamento sul quale l’anima deve basarsi per sempre; anzi, è grazie a quest’opera che lo Spirito viene ad abitare e a compiere il suo meraviglioso la­voro nel cuore del credente. Egli non è il nostro Si­gnore benché sia lui a rivelarcelo e a renderci capaci di comprenderlo e di goderne.
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 19:33
Così l’Agnello pasquale, come fondamento della pa­ce d’Israele, è una notevole e splendida figura di Cri­sto, come fondamento della pace del credente. Non c’era nulla da aggiungere al sangue sugli stipiti e sul­l’architrave e non c’è niente da aggiungere al sangue sul propiziatorio. Il «pane senza lievito» e le «erbe amare» erano necessari, ma non costituivano il fonda­mento della pace neanche in parte. Erano per l’interno della casa, costituivano i segni caratteristici della co­munione in questa casa; ma il sangue dell’Agnello era il fondamento di tutto. Esso preservava gli Israeliti dal­la morte e li introduceva in una scena di vita, di luce e di pace. Esso formava un legame fra Dio e il suo po­polo riscattato. Essendo un popolo in relazione con Dio sul fondamento di una redenzione compiuta, era un privilegio per gli Israeliti essere posti sotto certe re­sponsabilità; ma queste responsabilità non costituivano il legame ma derivavano da esso.

Desidero ricordare al mio lettore che la vita di ob­bedienza di Cristo non è presentata nelle Scritture co­me ciò che dà il perdono: è la morte di Cristo sulla croce che dà libero corso al suo amore. Se Cristo aves­se continuato fino ad ora a percorrere le città di Israele «facendo il bene» (Atti 10:38), la cortina del tempio sarebbe ancora intatta e precluderebbe, all’adoratore, il libero accesso presso Dio. È stata la morte di Cristo a strappare quella tenda misteriosa da cima a fondo (Marco 15:38). Per le sue «lividure», non per la sua ubbidienza, siamo stati guariti (Isaia 53:5; 1 Pietro 2:24); e queste lividure le ha subite sulla croce e in nessun altro posto. Le parole che ha pronunciato nella sua vita benedetta sono più che sufficienti per farci capire il senso di questo passo: «V’è un battesimo del quale ho da esser battezzato; e come sono angustiato finché non sia compiuto!» (Luca 12:50). A cosa si riferisce questa dichiarazione se non alla sua morte sulla croce che era il compimento del suo battesimo e che apriva al suo amore una strada per la quale poteva liberamente scendere fino ai colpevoli figli di Adamo? Poi dice ancora: «Se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo» (Giovanni 12:24). Era Lui quel prezioso granello di frumento; e sarebbe rimasto solo per sempre, pur essendo stato fatto carne, se con la sua morte, sul legno maledetto, non avesse tolto tutto ciò che avrebbe potuto impedire l’unione del suo popolo con lui nella risurrezione; «ma se muore, pro­duce molto frutto».
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 19:34
Non è mai troppa l’attenzione che si mette nel me­ditare un soggetto tanto serio e importante. Di due punti bisogna che ci ricordiamo sempre: primo, che non c’era unione possibile con Cristo al di fuori della risurrezione; secondo, che Cristo ha sofferto per i pec­cati solo sulla croce. Non dobbiamo credere che Cristo ci abbia uniti a sé per mezzo dell’incarnazione; sarebbe stato impossibile. Come potrebbe la nostra carne di peccato essere unita in questo modo? Bisognava che il corpo di peccato fosse distrutto con la morte; biso­gnava che il peccato fosse tolto — lo esigeva la gloria di Dio — e che tutta la potenza del nemico fosse abo­lita. Come avrebbe potuto verificarsi tutto questo se non con la sottomissione dell’Agnello di Dio, prezioso e senza macchia, alla morte della croce? «Per condurre molti figliuoli alla gloria, ben s’ad­diceva a Colui per cagion del quale son tutte le cose e per mezzo del quale son tutte le cose, di rendere perfetto(*), per via di sofferenze, il duce della loro salvezza» (Ebrei 2:10). «Ecco, io caccio i demoni e compio guarigioni oggi e domani e il terzo giorno giungo al mio termine(*)» (Luca 13:32). Queste espressioni non si riferiscono a Cristo nella sua persona, in modo astratto, poiché egli era perfetto da ogni eternità come Figlio di Dio e quanto alla sua umanità, ugualmente, assolutamente perfetto. Ma, come «duce di salvezza» e «per portare molti figliuoli alla gloria» e per «portare molto frutto» associandosi un popolo riscattato, ha dovuto arrivare al terzo giorno per essere consumato. Egli discese solo nella «fossa di perdizione, nel pantano fangoso»; ma subito dopo posò «i suoi piedi sulla roccia» della risurrezione e as­sociò a sé molti figliuoli (Salmo 40:1-3). Egli lottò da solo nel combattimento; ma, vincitore, distribuisce a quelli che lo circondano il ricco bottino, frutto della sua vittoria, affinché lo raccogliamo e ne godiamo per sempre.

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(*) In ambedue i casi, il termine greco, tradotto letteralmente, signi­fica «consumare» e «consumato».
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 19:34
Non bisogna, nemmeno, conside­rare la croce di Cristo soltanto come un avvenimento in una vita di sofferenza espiatoria per il peccato. «Egli, che ha portato egli stesso i nostri peccati nel suo corpo, sul legno» (1 Pietro 2:24); non li ha portati in altro posto. Non li ha portati né nella mangiatoia, né nel de­serto, e neppure nell’orto di Getsemani, ma unicamente «sul legno». Sotto questo aspetto non ha mai avuto niente a che fare col peccato se non alla croce; e, sulla croce, chinò il capo e lasciò la sua vita sotto il peso del cumolo dei peccati del suo popolo. Ed anche in nessun altro posto che alla croce ha sofferto dalla mano di Dio; là, Dio gli nascose la sua faccia poiché egli era «fatto peccato» (2 Corinzi 5:21).

Questa successione di pensieri e i vari passi che li hanno suggeriti, aiuteranno il lettore ad afferrare più completamente la divina potenza di queste parole: «quando vedrò il sangue, passerò oltre». Certamente bisognava che l’Agnello fosse senza macchia perché potesse sopportare lo sguardo santo di Dio. Ma se il sangue non fosse stato sparso, Dio non avrebbe po­tuto passare oltre, poiché «senza spargimento di san­gue non c’è remissione» (Ebrei 9:22). Se Dio lo per­metterà, mediteremo più esaurientemente questo sog­getto nelle figure del Levitico; esso merita l’attenzione seria di tutti coloro che amano sinceramente il nostro Signore Gesù Cristo.

Ed ora vediamo la Pasqua sotto il suo secondo aspet­to, cioè come il centro attorno al quale l’assemblea era riunita, in una piacevole, beata, santa comunione. Israe­le, salvato dal sangue, era una cosa; Israele che man­gia l’agnello, è un’altra cosa, completamente diversa. Gl’Israeliti erano salvati solo dal sangue, ma l’oggetto attorno al quale erano radunati era evidentemente l’agnello arrostito. E non è, questa, una distinzione ar­bitraria. Il sangue dell’Agnello costituisce, nello stesso tempo, il fondamento della nostra relazione con Dio, e della nostra relazione gli uni con gli altri. È in quanto lavati da quel sangue che siamo condotti a Dio e gli uni e gli altri. Al di fuori dell’espiazione perfetta di Cristo non può esservi nessuna comunione né con Dio, né con l’Assemblea di Dio. Tuttavia i credenti sono ra­dunati, per mezzo dello Spirito Santo, attorno a un Cristo vivente nei cieli. È a un Cristo vivente che noi siamo uniti, a una «pietra vivente» (1 Pietro 2:4) sia­mo venuti. Egli è il nostro centro. Avendo trovato la pace per mezzo del suo sangue, lo riconosciamo come il grande centro del radunamento e come il legame che ci unisce. «Dovunque due o tre sono raunati nel nome mio quivi son io in mezzo a loro» (Matteo 18:20). Lo Spirito Santo solo è colui che raduna: Cristo è l’unico oggetto attorno a cui siamo radunati; e la nostra assemblea, così riunita, deve essere caratterizzata dalla santità, affinché il Signore Iddio nostro possa abitare fra noi. Lo Spirito Santo non può radunare che attorno a Cristo; non può farlo attorno a un nome, un sistema, una dottrina, un ordinamento. Raduna attorno a una persona che è Cristo glorificato nel cielo. Questo fatto deve comunicare un carattere speciale all’Assemblea di Dio. Gli uomini possono associarsi su un fondamento, intorno a un centro, o in vista di un oggetto di loro gusto; ma quando è lo Spirito Santo che unisce e rac­coglie, lo fa sul fondamento di una redenzione com­piuta, attorno alla persona di Cristo per edificare, per Dio, una santa dimora (1 Corinzi 3:16-17; 6:19; Efesini 2:21-22; 1 Pietro 2:4-5).
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 19:35
Consideriamo ora, dettagliatamente, i principi che ci sono presentati dalla festa della Pasqua. L’assemblea di Israele, al riparo sotto il sangue, doveva essere orga­nizzata dall’Eterno in modo che fosse degna di lui. Per mettere al riparo dal giudizio, come abbiamo visto, non ci voleva altro che il sangue; ma, nella comunione che derivava dalla sicurezza che il sangue procurava, ci voleva altro che non poteva essere impunemente trascurato.

Così leggiamo: «E se ne mangi la carne in quella notte; si mangi arrostita al fuoco, con pane senza lie­vito e con delle erbe amare. Non ne mangiate niente di poco cotto o di lessato nell’acqua, ma sia arrostito al fuoco, con la testa, le gambe e le interiora» (vv. 8-9). L’agnello che la congregazione radunata attorno ad esso mangiava con festa, era un agnello arrostito, un agnello che era passato sotto l’azione del fuoco. In que­sto vediamo «Cristo, la nostra pasqua» (1 Corinzi 5:7), che si espone all’azione del fuoco della santità e del giudizio di Dio che in lui trovarono un oggetto perfetto. Egli ha potuto dire: «Tu hai scrutato il mio cuore, l’hai visitato nella notte; m’hai provato e non hai rinvenuto nulla; la mia bocca non trapassa il mio pensiero» (Sal­mo 17:3). Tutto in lui era perfetto; il fuoco lo ha pro­vato; non c’è stato scarto in lui. «La testa, le gambe e le interiora», cioè la sede dell’intelligenza, del cammino esteriore e di tutti gli affetti da cui esso derivava, tutto subì l’azione del fuoco e lo si trovò perfetto. Il modo con cui l’Agnello doveva essere arrostito era molto si­gnificativo, come lo è ogni particolare nell’ordinamento divino. «Non ne mangiate niente di poco cotto o di lessato nell’acqua». Se l’agnello fosse stato mangiato in quel modo, non sarebbe stato l’espressione della grande e solenne verità che, nell’intento di Dio, doveva raffigurare, cioè che il nostro Agnello pasquale ha do­vuto sopportare sulla croce il fuoco della giusta collera di Dio. Noi non siamo soltanto sotto la protezione eterna del sangue dell’Agnello, ma, per mezzo della fede, ci nutriamo della «persona» dell’Agnello. Molti fra noi mancano sotto questo aspetto. Siamo portati ad accontentarci dell’opera che Cristo ha compiuto per noi, senza mantenerci in una santa comunione con lui. Il suo cuore, pieno di amore, non può accontentarsi di questo.Ci ha avvicinati a lui perché potessimo godere di lui, nutrirci di lui e rallegrarci in lui. Egli si pre­senta a noi come colui che ha sopportato, in tutto il suo rigore, il fuoco intenso della collera di Dio, per essere, sotto questo carattere, l’alimento della nostra anima redenta.
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 19:35
Ma come doveva, quest’agnello, essere mangiato? Con pane senza lievito e con delle erbe amare. Il lie­vito, nella Scrittura, è sempre l’emblema del male. Mai, né nell’Antico né nel Nuovo Testamento, rappre­senta qualcosa di puro, di sano o di buono. Così, in questo capitolo, la festa dei pani senza lievito è la figura della separazione pratica dal male, che deriva dal fatto che siamo lavati dai nostri peccati nel sangue dell’Agnello e che è la necessaria conseguenza della comunione con le sue sofferenze. Soltanto il pane completamente privo di lievito è compatibile con l’agnello arrostito; una sia pur minima quantità di ciò che rap­presenta il male, avrebbe rovinato completamente il carattere morale di tutto l’ordinamento. Come potremo unire il male alla nostra comunione con un Cristo sof­ferente? È impossibile. Tutti coloro che afferrano, per la potenza dello Spirito, il significato della croce, toglie­ranno certamente così, con questa stessa potenza, ogni lievito che è in mezzo a loro. «Poiché anche la nostra pasqua, cioè Cristo, è stata immolata. Celebriamo dun­que la festa non con vecchio lievito, né con lievito di malizia e di malvagità, ma con gli azzimi della sin­cerità e della verità» (1 Corinzi 5:7-8). La festa trat­tata in questo passo è quella che, nella vita e nella condotta della Chiesa, corrisponde alla festa dei pani senza lievito. Quest’ultima durava sette giorni; e la Chiesa, collettivamente, e il cristiano, individualmente, sono chiamati a camminare nella santità pratica durante i sette giorni, cioè, il periodo intiero del loro cammino quaggiù; e tutto questo come risultato diretto del fatto che l’una e l’altro sono lavati nel sangue e hanno comu­nione con le sofferenze di Cristo.

Se l’Israelita toglieva il lievito non lo faceva per essere salvato ma perché era salvato; e se trascurava di togliere il lievito, que­st’errore, per grave che fosse, non comprometteva la sicurezza data dal sangue, ma semplicemente la comu­nione con l’altare e con l’assemblea. «Per sette giorni non si trovi lievito nelle vostre case, perché chiunque mangerà qualcosa di lievitato, quel tale sarà reciso dal­la raunanza d’Israele: sia egli forestiero o nativo del paese» (vers. 19). L’essere reciso dall’assemblea per un Israelita corrisponde, per il cristiano, all’essere tolto di comunione quando si concede qualcosa che è con­traria alla santità della presenza divina. Dio non può tollerare il male. Un solo pensiero impuro interrompe la comunione dell’anima; e finché la contaminazione do­vuta a questo pensiero non è stata tolta con la confes­sione fondata sull’intercessione di Cristo, è impossi­bile che la comunione sia ristabilita (vedere 1 Giovanni 1:5-10; Salmo 32:3-5). Il cristiano col cuore diritto è con­tento che sia così. Egli può sempre celebrare il ricordo della santità di Dio (Salmo 30:4; 97:12). Egli non vor­rebbe, se fosse possibile, diminuire la misura della san­tità, neanche di una briciola. Per lui è una grande gioia camminare in compagnia di qualcuno che non può, nem­meno per un istante, tollerare il contatto col più piccolo «atomo» di lievito.
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 19:36
Noi sappiamo, Dio ne sia benedetto, che nulla può rompere il legame che unisce a lui il vero credente. Noi siamo salvati dall’Eterno, non con una salvezza con­dizionale, ma con una «salvezza eterna» (Isaia 45:17). Ma la salvezza e la comunione non sono la stessa cosa. Vi sono molte persone salvate che non sanno di es­serlo e ve ne sono molte che, pur sapendolo, non ne godono. È impossibile essere felici al riparo di un’ar­chitrave cosparsa di sangue se c’è del lievito nella casa. È un assioma, nella vita divina. Possa essere scritto nei nostri cuori! Pur senza essere il fondamento della nostra salvezza, la santità pratica è intimamente legata al godimento della salvezza. Non era col pane senza lievito che un Israelita era salvato, ma per mezzo del sangue; però, il pane lievitato lo avrebbe privato della comunione. E, per ciò che lo concerne, il cristiano non è salvato dalla santità pratica, ma dal sangue; però, se si concede il male, col pensiero, in parole o in azioni, non avrà nessun vero godimento della salvezza, nes­suna vera comunione con la persona dell’Agnello.

Sono sicuro che da questo dipende gran parte della sterilità spirituale e della mancanza di una pace vera e costante che si riscontra presso i figliuoli di Dio. Molti di loro non praticano la santità, non osservano la festa dei «pani senza lievito» (Esodo 23:15). Il san­gue è sulla porta, ma il lievito dentro la casa impedisce di godere la sicurezza che il sangue dà. La sanzione che diamo al male distrugge la nostra comunione, sebbene non interrompa il legame che unisce eternamente le nostre anime con Dio. Quelli che fanno parte dell’As­semblea di Dio devono essere santi; non sono stati libe­rati soltanto dalla colpa e dalle conseguenze del pec­cato, ma anche dalla potenza, dall’amore del peccato e dal praticarlo. Il solo fatto che Israele fosse liberato dal sangue dell’Agnello pasquale, gli imponeva la respon­sabilità di togliere il lievito. Gli Israeliti non potevano dire, secondo l’orribile linguaggio degli Antinomisti, «ora che siamo salvati possiamo fare ciò che ci pare e piace». Assolutamente no! Se erano salvati per gra­zia, lo erano in vista della santità. Un’anima che si serva della gratuità della grazia divina e della perfe­zione della redenzione che è in Cristo per vivere nel peccato (Romani 6:1), mostra chiaramente di non com­prendere né la grazia né la redenzione.

La grazia non salva soltanto l’anima dandole una sal­vezza eterna, ma le comunica pure una natura che si compiace in tutto ciò che è di Dio, perché è divina. Noi siamo così partecipi della natura divina che non può peccare poiché è nata da Dio (Giovanni 1:13; 3:3-5; 2 Pietro 1:4; 1 Giovanni 3:9; 5:18). Camminare nella po­tenza di questa natura è osservare la festa dei pani senza lievito. Non c’è né «vecchio lievito» né «lievito di malizia e di malvagità» (1 Corinzi 5:8) nella nuova na­tura, poiché è di Dio, e Dio è santo e «Dio è amore» (1 Giovanni 4:8). Così è evidente che, se togliamo il vecchio lievito, non lo facciamo per migliorare la nostra vecchia natura (che è irrimediabilmente malvagia e corrotta) e nemmeno per ottenere la nuova natura, ma perché già la possediamo. Abbiamo la vita e, nella po­tenza di questa vita, rigettiamo il male. Soltanto quan­do siamo liberati dalla colpa del peccato, possiamo com­prendere e manifestare la vera potenza della santità; volerlo fare altrimenti è un lavoro inutile. La festa dei pani senza lievito la si può osservare solo al riparo del sangue.
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 19:36
La stessa necessità morale e una figura ugualmente significativa l’abbiamo in ciò che doveva accompagnare il pane senza lievito, le «erbe amare». Non possiamo godere la comunione con le sofferenze di Cristo senza ricordarci di ciò che ha reso indispensabile queste sof­ferenze; e, ricordarsene, deve necessariamente pro­durre in noi uno spirito mortificato e sottomesso, dispo­sizione rappresentata esattamente dalle erbe amare nel­la festa di Pasqua. Se l’agnello arrostito rappresenta Cristo che sopporta la collera di Dio sulla propria per­sona sulla croce, le erbe amare esprimono la cono­scenza che il credente ha di questa verità, che Cristo ha «sofferto per noi». «Il castigo, per cui abbiam pace, è stato su lui e per le sue lividure noi abbiamo avuto guarigione» (Isaia 53:5).

È utile, data l’eccessiva leggerezza dei nostri cuori, cogliere il profondo significato delle erbe amare. Chi può leggere i Salmi 6, 22, 38, 69, 88 e 109 senza com­prendere, in parte almeno, ciò che rappresenta il pane senza lievito con le erbe amare? La santità pratica della vita, unita a una sottomissione profonda dell’anima, deve derivare da una vera comunione con le sofferenze di Cristo; poiché è impossibile che il male morale e la leggerezza spirituale possano sussistere di fronte a queste sofferenze.

Ma, chiederà qualcuno, non prova forse l’anima una profonda gioia nel sentimento che Cristo ha portato i nostri peccati? che ha vuotato, fino in fondo, al nostro posto, il calice della giusta collera di Dio,? Incontesta­bilmente, è quello il fondamento di tutta la nostra gioia. Non possiamo mai dimenticare che per i nostri peccati, Cristo ha sofferto. Possiamo forse perdere di vista que­sta verità, capace di soggiogare le anime, che l’Agnello di Dio chinò il capo sotto il peso delle nostre trasgres­sioni? Certamente no. Bisogna che mangiamo il nostro agnello con delle erbe amare, che, non c’è bisogno di dirlo, non rappresentano le lacrime di un vano e superfi­ciale sentimentalismo, ma le esperienze reali e profonde di un’anima che afferra, con intelligenza e potenza spi­rituali, il significato e i risultati pratici della croce.
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 19:37
Contemplando la croce, scopriremo ciò che can­cella ogni nostra iniquità e l’anima è riempita così di pace e di gioia. Ma la croce mette così da parte, com­pletamente, la natura; essa è la crocifissione «della carne», la morte del «vecchio uomo» (Romani 6:6; Galati 2:20; 6:14; Colossesi 2:11). Questo, nei suoi risultati pratici, conterrà molte cose amare per la na­tura, ci chiamerà a rinunciare a noi stessi, a mortificare le nostre membra che sono sulla terra (Colossesi 3:5); a considerare l’io morto al peccato (Romani 6:11). Tut­te queste cose possono sembrare terribili, ma quando si è entrati dentro la casa sulla cui porta c’è il sangue, le cose si considerano diversamente. Le erbe stesse che, certamente, sarebbero parse amare a un Egiziano, formavano parte integrante della festa della liberazione di Israele. Coloro che sono riscattati dal sangue dell’Agnello, che conoscono la gioia della sua comunione, stimano una festa rigettare il male e considerare la natura per morta.

«E non ne lasciate nulla di resto fino alla mat­tina; e quel che ne sarà rimasto fino alla mattina, bru­ciatelo col fuoco» (v. 10). Questo comandamento ci insegna che la comunione dell’assemblea non doveva in nessun modo essere separata dal sacrificio sul quale questa comunione era fondata. Bisogna che il cuore con­servi sempre il ricordo vivente che ogni vera comunione è inseparabilmente connessa con una redenzione com­piuta. Credere di poter avere comunione con Dio su un fondamento differente è immaginare che Dio possa ave­re comunione con il male che è in noi; e credere di poter avere comunione con l’uomo su un altro fonda­mento è organizzare semplicemente una riunione im­pura e profana dalla quale non può derivare altro che la confusione e il male. In poche parole, bisogna che tutto sia fondato sul sangue e ad esso inseparabilmente legato. È questo il semplice significato dell’ordine di mangiare l’agnello pasquale nella stessa notte in cui il sangue veniva sparso. La comunione non deve essere separata da ciò che ne è il fondamento.

Che bella immagine ci dà l’assemblea di Israele, messa al riparo dal sangue, che mangia in pace l’agnello arrostito con del pane senza lievito e delle erbe amare! Nessuna paura del giudizio, nessuna paura della col­lera dell’Eterno; nessun timore della giusta vendetta che spazzava via come un uragano, a mezzanotte, tutto il paese di Egitto. Tutto era pace perfetta dietro le porte asperse col sangue. Gli Israeliti non avevano nulla da temere dal di fuori e nulla, nell’interno, poteva turbarli salvo il lievito che avrebbe inferto un colpo mortale alla loro pace e alla loro felicità. Che quadro per la Chiesa! Che quadro per il cristiano! Ci sia dato di comprendere il significato profondo e di sottometterci con spirito mansueto.

Ma non è tutto qui ciò che possiamo imparare dalla Pasqua. Abbiamo considerato la posizione di Israele e il nutrimento di Israele; consideriamone ora l’abbiglia­mento
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Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 19:37
«E mangiatelo in questa maniera: coi vostri fianchi cinti, coi vostri calzari ai piedi e col vostro bastone in mano; e mangiatelo in fretta: è la Pasqua dell’Eterno» (v. 11). Gli Israeliti dovevano mangiare la Pasqua come un popolo sul punto di lasciare dietro a sé il paese della morte e delle tenebre, della collera e del giudizio, per camminare verso il paese della promessa, verso l’ere­dità che gli era destinata. Il sangue che li aveva preser­vati dalla sorte toccata ai primogeniti Egiziani, era il fondamento della loro liberazione dalla servitù d’Egitto; ed ora dovevano mettersi in cammino e camminare con Dio verso il paese stillante latte e miele. Non avevano ancora passato il mar Rosso, è vero; non avevano an­cora fatto il tragitto «di tre giorni»; tuttavia, in prin­cipio, era un popolo riscattato, un popolo separato e pellegrino, un popolo in attesa e dipendente; bisognava che il loro abbigliamento fosse in armonia con la loro posizione attuale e il loro destino futuro. «I fianchi cinti» di Israele denunciavano una separazione rigorosa da tutto ciò che lo circondava e mostravano che era pronto per il servizio. «I calzari ai piedi» dimostravano che Israele era pronto a lasciare la scena presente; «il bastone in mano» era l’emblema di un popolo viaggia­tore che si appoggiava a qualcosa che era al di fuori di se stesso. Piacesse a Dio che questi preziosi caratteri apparissero di più in ogni membro della famiglia dei ri­scattati!

Caro lettore cristiano, occupiamoci di queste cose (1 Timoteo 4:15). Abbiamo provato, per grazia, l’effi­cacia purificatrice del sangue di Cristo e abbiamo di conseguenza il privilegio di nutrirci della sua persona adorabile e di godere delle sue insondabili ricchezze (Filippesi 3:10). Mostriamoci, dunque, con il pane sen­za lievito e le erbe amare, con i reni cinti, i calzari ai piedi, il bastone in mano. Che gli altri ci vedano coi caratteri di un popolo santo, di un popolo crocifisso, vigilante e attivo, che cammina apertamente incontro a Dio, verso la gloria, essendo destinato al regno.

Che Dio ci accordi di penetrare nella profondità e nella potenza di queste cose; che esse non siano solo teorie o questioni di conoscenza e di interpretazioni scritturali, ma realtà viventi, divine, conosciute per esperienza e manifestate nella nostra vita, alla gloria di Dio.
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 19:38
Finiremo questo capitolo con una rapida scorsa sui versetti da 43 a 49. Essi ci insegnano che, mentre era privilegio di ogni Israelita mangiare la Pasqua, nessuno straniero incirconciso ne doveva parteciparvi: «nessuno straniero ne mangi;... tutta la raunanza di Israele ce­lebri la Pasqua». Ci voleva la circoncisione per poter mangiare la Pasqua. In altri termini, bisogna che sulla nostra natura sia passata la sentenza di morte prima che possiamo nutrirci di Cristo in modo intelligente, sia come fondamento della pace, sia come centro di unità. La croce è l’antitipo della circoncisione, questo segno divino del patto di Dio con i Giudei e dello spogliamento della carne (Colossesi 2:11-12). Per far parte del popolo di Dio bisognava essere circoncisi e la circoncisione ha la sua realtà in Cristo. I cristiani, resi partecipi dell’ef­ficacia della sua morte per mezzo della potenza della vita che è in lui, e che è la loro, si considerano morti e si sono spogliati, per fede, di questo corpo di pec­cato; sono crocifissi con Cristo; tuttavia la potenza di Dio stesso, come ha agito in Cristo, opera in loro per dare una nuova vita in Cristo. «E quando uno straniero soggiornerà teco e vorrà fare la Pasqua in onore del­l’Eterno, siano circoncisi prima tutti i maschi della sua famiglia; e poi si accosti pure per farla, e sia come un nativo del paese; ma nessun incirconciso ne mangi». «Quelli che sono nella carne non possono piacere a Dio» (Romani 8:8).

L’ordinanza della circoncisione costituiva una gran­de linea di demarcazione tra l’Israele di Dio e tutte le nazioni che erano sulla faccia della terra; e la croce di Gesù è la linea di separazione fra la Chiesa e il mondo. Poco importavano le qualità personali o la posi­zione di un uomo; finché non si sottometteva a quel­l’operazione nella carne, non poteva avere nessuna parte in Israele. Un mendicante circonciso era più vicino a Dio di un re incirconciso. Ora è lo stesso. Non si può aver parte alle gioie dei riscattati di Dio se non per mezzo della croce di Cristo; e questa croce abbassa tutte le pretese, capovolge tutte le distinzioni, unisce tutti i riscattati in una santa congregazione di adoratori lavati dal sangue. La croce costituisce una barriera così elevata, un muro di difesa così impenetrabile, che nes­sun atomo della terra o della natura umana può attra­versare per venire a immischiarsi con la nuova crea­zione. «Se dunque uno è in Cristo, egli è una nuova creatura (o creazione); le cose vecchie son passate: ecco, son diventate nuove» (2 Corinzi 5:17).
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 19:38
La separazione di Israele da tutti gli stranieri non era mantenuta, così rigidamente, soltanto nell’istitu­zione della Pasqua; là, anche l’unità di Israele era chia­ramente stabilita, in figura. «Si mangi ogni agnello in una medesima casa; non portate fuori nulla della carne d’esso e non ne spezzate alcun osso» (v. 46). Non si potrebbe trovare una figura più bella di ciò che costi­tuisce «un solo corpo e un solo spirito» (Efesini 4:4). La Chiesa di Dio è una. Dio la vede così, la conserva così e così la manifesterà di fronte agli angeli, agli uomini e ai demoni, a dispetto di tutto ciò che è stato fatto per porre ostacolo a questa santa unità. Sia bene­detto Dio! Egli veglia sull’unità della Chiesa, come ve­gliava sul corpo del suo diletto Figliuolo, sopra la croce; sì, l’unità della Chiesa è mantenuta come la sua giusti­ficazione, la sua accettazione, la sua sicurezza eterna. Malgrado la violenza e la durezza di cuore dei soldati romani, Dio ha saputo adempiere la Scrittura che di­ceva, a proposito di Cristo, «niun osso d’esso sarà fiac­cato»; e ancora «Egli preserva tutte le ossa di lui; non uno ne è rotto» (v. 46; Numeri 9:12; Salmo 34:20; Giovanni 19:36); allo stesso modo, a dispetto di tutte le influenze ostili che sono state messe in gioco di secolo in secolo, Dio guarda la sua Chiesa. Il corpo di Cristo è uno e resterà uno (Matteo 16:18; Giovanni 11:52; 1 Corinzi 1:12; 12:4-27; Efesini 1:22-23; 2:14-22; 4:3-16; 5:22-32; Apocalisse 22:17). «C’è un solo corpo e un solo Spirito»; e questo quaggiù, sulla terra. Beati coloro che hanno ricevuto la fede per riconoscere questa preziosa verità e la fedeltà per praticarla negli ultimi giorni, malgrado le difficoltà quasi insormotabili che incontrano sul loro sentiero. Dio riconoscerà e onorerà quelli che saranno, così, fedeli.

Voglia il Signore liberarci da questo spirito di incre­dulità, che ci porterà a giudicare secondo i nostri punti di vista, piuttosto che con la luce della sua immutabile Parola!
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