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Royaume d'Outremer

Ultimo Aggiornamento: 04/01/2011 20:39
27/07/2010 12:26
 
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Questo è in senso assoluto il mio primo post. Ho letto con interesse e piacere le varie cronache finora apparse e mi sono detto: perché non farne una anche io? Così propongo la campagna che ho fatto qualche tempo orsono con i Crociati. La difficoltà è bassa e bellum era ancora alla versione 5.0. Spero che sia di vostro gradimento e sono aperto a qualunque genere di consigli e/o suggerimenti.



Royaume d’Outremer



Fase I – Soli e circondati (1155-1180)

Anno del Signore 1155, Gerusalemme – Baldovino III dovrebbe essere profondamente fiero di ciò che è: il Rex Latinorum, il custode dei Luoghi Santi contro la marea degli infedeli. Ma egli sa bene che sono passati i tempi di Goffredo di Buglione e della gloriosa Prima Crociata: ora il suo regno, l’Outremer, è circondato da stati giovani e desiderosi di gloria, assetati del sangue dei franchi. A settentrione il sultanato selgiuchide sta riemergendo da un periodo di difficoltà e la potenza più apparente che reale dell’Impero Bizantino non sembra capace di arginarne l’ascesa. A meridione giace l’Egitto che, nonostante la non più illuminata guida fatimide, è ancora un vecchio leone fiero. Più pericoloso di ogni altro, a oriente si erge il giovane sultanato di Aleppo e Mosul, diventato punta di diamante contro i franchi dopo aver strappato loro la città di Edessa, ora rinominata Urfa.
Per contrastare questo accerchiamento Baldovino III non ha che poche città e due sole rocche fortificate, allungate su una sottile striscia di terra dall’aspetto incredibilmente fragile. Economicamente a terra, militarmente debole e minato da conflitti interni fra Baldovino e l’erede, il principe Amalric di Antiochia, l’Outremer non può che affidarsi alla diplomazia per garantirsi la sopravvivenza. In tal senso sono volti tutti gli sforzi degli abili diplomatici gerosolimitani che, nel 1158, riescono a portare a termine un colpo maestro: sfruttando l’impegno siriano verso il Kurdistan e la Jihad lanciata contro Baghdad, si riesce a stipulare un’alleanza con la dinastia zenghide, il cui intento è la reciproca preservazione delle frontiere. Accordi commerciali vengono altresì presi con i Turchi e gli Egiziani, garantendo un poco di respiro a un’economia dalla cui floridezza dipende il destino del regno.
Assicuratosi così un minimo di stabilità internazionale, Baldovino lancia un duplice progetto: rafforzare l’economia tramite l’incentivazione del commercio – in particolare di argento dalla Cilicia e di zolfo dalla Cappadocia – e la costruzione di più ampie strutture portuali; e potenziare militarmente il regno. Questo secondo, fondamentale obbiettivo si basa sulla suddivisione delle terre d’Outremer i due circoscrizioni: la prima, facente capo a Gerusalemme, comprende entrambe le rocche militari, da sviluppare di pari passo; la seconda, invece, ha centro in Antiochia e la sua difesa è affidata all’Ordine degli Ospitalieri di San Giovanni, di cui il principe Amalric è Gran Maestro. Baldovino spera così facendo di ottenere un duplice guadagno: placare Amalric rendendo Antiochia praticamente indipendente dalla propria sovranità; e avere un baluardo contro la rocca turca di Adana, che rappresenta una costante minaccia a settentrione.
Amalric, pur mantenendo rapporti molto freddi col sovrano, apprezza il gesto e accetta di collaborare allo sviluppo economico; tuttavia Baldovino non riesce a convincerlo a inviare un piccolo corpo dei suoi Ospitalieri a far parte della spedizioni che si sta preparando per sottomettere la desertica provincia meridionale dell’Hejaz. Questo vasto territorio, il cui centro è la città di Medina, rappresenta per l’Outremer l’unico vero sbocco espansionistico e potrebbe garantire il controllo di una buona fetta del commercio del Mar Rosso. La spedizione, il primo vero rischio militare preso da anni, parte nel 1170 e si conclude l’anno dopo con la conquista di Medina e l’assoggettamento della regione. Purtroppo però questa guerra - sempre che si possa definire tale una cosa così circoscritta e limitatamente importante – ha messo in luce la drammatica arretratezza militare dell’Outremer, ridotto ad avere una sola vera armata, composta esclusivamente da coraggiosi ma inesperti e mal equipaggiati miliziani.
Baldovino, resosi conto che bisogna immediatamente correre ai ripari, fa intensificare i lavori di miglioramento delle strutture militari, dotando ogni centro abitato di fabbri abili nell’arte metallurgica. Viene inoltre avviata una nuova leva, che entro il 1178 dota le armate di Gerusalemme di diversi battaglioni di fanteria pesante armata di lancia, ben addestrata ed equipaggiata.
Ma nel 1176 un evento improvviso arriva a scuotere il delicatissimo equilibrio dell’area: in Egitto, immensamente ricco e assai poco valorizzato dalla decadente dinastia fatimide, il sultano viene messo da parte da un giovane principe dalle eccellenti qualità, il cui nome è già leggenda in tutte le terre dell’Islam: Sahal ad Din.
Egli, assunto il potere, decide che è tempo di scacciare i vili franchi, che opprimono il popolo e impongono il loro credo. Prima, però, lancia un vasto programma di riforme per riportare l’Egitto allo splendore e farlo emergere dallo stato letargico in cui i fatimidi lo avevano sprofondato. Tesse rapporti con gli altri sultani, tanto per farsi riconoscere senza intoppi quale nuovo sovrano dell’Egitto quanto per dare a tutti una causa comune per cui lottare.
Dal suo palazzo a Gerusalemme Baldovino osserva con crescente preoccupazione le mosse egiziane, rendendosi conto che il suo regno non ha la forza per reggere l’impatto di tre stati uniti sotto un’unica bandiera. E nel 1180 le peggiori paure del rex latinorum diventano realtà: Sahal ad Din dà ordine a tutti gli imam del sultanato di chiamare i figli del profeta alla guerra santa contro i franchi infedeli. Il suo grido viene portato rapido dal vento del deserto fino in Siria, dove l’Atabeg immediatamente rinnega l’alleanza stipulata con l’Outremer, quindi prosegue fino ai monti anatolici, sussurrando suadenti promesse di gloria e trionfo alle orecchie del sultano selgiuchide. Perfino a Marrakesh giunge notizia della chiamata di Sahal ad Din e gli Almohadi immediatamente iniziano i preparativi per una possente spedizione.
27/07/2010 14:00
 
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benvenuto!
seguiremo con interesse questa nuova cronaca
[SM=x1140522]
[Modificato da The Housekeeper 27/07/2010 14:00]








27/07/2010 14:23
 
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Grazie! A presto il secondo pezzo
27/07/2010 14:26
 
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Lo aspetto!


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benvenuto!!!, porta i crociati alla gloria!!!
27/07/2010 16:20
 
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benvenuto!!! Aspettiamo il seguito ;)
O=======================================================================================O



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Grazie dell'apprezzamento, fa sempre piacere! E ora sotto col seguito: il primo pezzo era più che altro un prologo, un'introduzione(per quanto di parecchi turni). Ora però si fa sul serio! [SM=x1140483]


Fase II – La grande Jihad (1180-1210) - Sahal ad Din

Appena la ferale notizia giunge nelle terre gerosolimitane l’intero Outremer viene attraversato da un brivido di assoluta, genuina paura. Come si potrà sopravvivere all’imminente tempesta? Come potrà un singolo esercito, senza nessuna reale esperienza di battaglia, impedire che migliaia e migliaia di soldati, animati dalla furia della fede, entrino nella città santa e ne lordino le vie col sangue della popolazione inerme? Ogni sguardo si volge verso Baldovino, verso quel sovrano sulle cui spalle poggia l’onere di trovare una risposta. Ma Baldovino è nel panico come tutti, non è un soldato e soprattutto sa che l’esercito gerosolimitano non può farcela. La speranza ha abbandonato il suo cuore ed egli si rifugia nella preghiera, sperando con la devozione di convincere l’Altissimo a cambiare parere e ad allontanare da lui la furia islamica. Amalric, dal canto suo, si barrica in Antiochia assieme ai suoi fedelissimi Ospitalieri, mostrando chiaramente quanto poco gli importi della sorte di Gerusalemme; pur tuttavia, per non attirarsi ogni biasimo, accetta che due contingenti di ospitalieri di basso rango vengano acquartierati nella fortezza di Kerak e siano dunque a disposizione.
Diplomatici franchi navigano a vele spiegate verso Roma, per supplicare il Pontefice di non abbandonarli e di indire una grande crociata che porti forze fresche in soccorso dell’Outremer. Ma sono già fuori tempo massimo, le armate dell’Islam premono ai confini, prima fra tutte quella del possente Sahal ad Din in persona, che marcia nelle sabbie del deserto per schiacciare l’odiato franco.
A capo dell’esercito d’Outremer vi è un giovane uomo, francese di nascita, arrivato in Terrasanta solo da pochi anni assieme alla consorte incinta. Il suo nome è Raymond de Coligny e si trova a essere Marechal d’Outremer semplicemente perché non ha manifestato – quantomeno non ancora – l’ambizione e l’egoismo dei feudatari di Terrasanta. La sua gloria militare è nulla, le sue capacità tutte da dimostrare: solo la sua devozione è certa. Eppure, a dispetto di tutto lo scetticismo nei suoi confronti, nessuno fa nulla per limitarne le mosse; forse perché Raymond occupa una posizione talmente poco invidiata che è più comodo lasciarlo dove si trova e usarlo come capro espiatorio che impegnarsi a destituirlo.
Infischiandosene altamente di tutto ciò, Raymond decide che agire rapidamente e con estrema decisione è l’unico modo per cercare di salvare il salvabile. Dei quattro nemici che avanzano l’armata almohade è per il momento dimenticabile: arriva da troppo lontano e ci vorranno mesi, forse anni prima che compaia sullo scenario bellico; i turchi, che pure con grande foga hanno abbracciato la guerra santa, devono tuttavia prepararsi al meglio e, a quanto riferiscono le spie, intendono calare assieme alle armate di Siria, evitando la città-fortezza di Antiochia e i temutissimi ospitalieri; dunque è ovvio che sono gli egiziani i più pericolosi, tanto più che Sahal ad Din è l’anima stessa della jihad.
Presa la sua decisione Raymond abbandona le spesse mura di Kerak, all’interno delle quali si stanno febbrilmente addestrando nuovi contingenti, e marcia in pieno deserto per tagliare la strada a Sahal ad Din e costringerlo a una decisiva battaglia. Il sultano egiziano è tutt’altro che contrario alla cosa: infatti sa bene che una sua vittoria non solo ne rafforzerebbe il prestigio, ma praticamente gli consegnerebbe su un vassoio d’argento l’intero Outremer. E così, fra le bollenti sabbie, si decide il destino del regno crociato.
Alla capitale Baldovino passa il suo tempo fra preghiere e digiuni spirituali; eppure non riesce ad astrarsi a sufficienza da non sentire le terribili nuove che arrivano. Armate immense provenienti da Siria e Turchia calano da Homs e Dimashq, migliaia di fuggiaschi si accalcano entro le mura della città santa cercando una protezione che non esiste.
Poi un mattino le vedette scorgono un solitario cavaliere arrivare al galoppo sfrenato da meridione: l’uomo e la cavalcatura sono allo stremo, le vesti e la sella lorde di sangue, le ferite ancora aperte. La gente, vedendolo passare, capisce che tutto è finito, che Raymond de Coligny è caduto e Sahal ad Din avanza trionfante. Baldovino, immediatamente avvertito, riceve il cavaliere nella piazza d’armi del palazzo, attorniato dai pochi nobili rimastigli accanto.
Il cavaliere, smontato, cade in ginocchio.

“Maestà”, esclama, “ti porto nuove di una grandissima vittoria: il mio signore Raymond de Coligny ha ricacciato nel sangue il superbo sultano d’Egitto da dove aveva osato emergere!”

La notizia, incredibile nella sua realtà, passa di bocca in bocca; le campane di Gerusalemme prendono a suonare a festa ininterrottamente e il loro suono viene udito ovunque, ripreso com’è da quelle dei villaggi e delle cittadine. Perfino al confine siriani, dove gli eserciti jihadisti sostano prima del definitivo balzo, arriva notizia di una terribile battaglia nel deserto.
Ed effettivamente era stato un terribile scontro quello con Sahal ad Din: le sabbie del deserto si erano arrossate fino a diventare viscide, il numero di morti era stato incalcolabile, gli atti di eroismo da ambo le parti pure. Ma alla fine l’incrollabile volontà della fanteria franca di non cedere aveva avuto la meglio, unita alle micidiali cariche che i cavalieri di Raymond avevano portato ai fianchi dello schieramento nemico. Sahal ad Din, resosi conto che la giornata era persa e che non c’era nulla da guadagnare dal rischiare oltre la vita, aveva dato ordine di ritirarsi e le truppe gerosolimitane, spossate, avevano lasciato che gli Egiziani superstiti abbandonassero in buon ordine il campo. Raymond sapeva bene che Sahal ad Din non era stato distrutto, ma solo battuto; tuttavia le notizie che arrivavano da nord non davano alcuna possibilità di inseguirne l’esercito in fuga e così, stanchi ma vittoriosi, i franchi avevano voltato le spalle al nemico umiliato e si erano diretti verso Gerusalemme minacciata.


27/07/2010 19:06
 
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Ottima cronaca. ;-)
27/07/2010 19:51
 
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bella cronaca!
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Bernhard Rothmann (Munster, 13 Gennaio 1534) :i vecchi credenti non vogliono permettere a nessuno di scegliere quale vita condurre, vogliono che voi lavoriate per loro e siate contenti della fede che vi consegnano i dottori. la loro è una fede di condanna, è la fede spacciataci dall'antiscristo! ma noi, fratelli, noi vogliamo redenzione! noi vogliamo libertà e giustizia per tutti! noi vogliamo leggere liberamente la parola del signore e liberamente scegliere chi deve parlarci dal pulpito e chi rappresentarci in consiglio! chi infatti decideva i destini della città prima che lo scacciassimo a pedate? il vescovo. e chi decide ora? i ricchi, i notabili borghigiani, illustri ammiratori di lutero solo perchè la sua dottrina consente loro di resistere al vescovo! e voi, fratelli e sorelle, voi che fate vivere questa città, non potete mettere parola nelle loro sentenze. voi dovete soltanto ubbidire, come sbraita lo stesso lutero dalla sua tana principesca.i vecchi credenti vengono a dirci che i buoni cristiani non possono occuparsi del mondo, che devono coltivare la loro fede in privato, seguitando a subire in silenzio i soprusi, perchè tutti siamo peccatori condannati a espiare. ma il tempo è giunto! i potenti della terra saranno spodestati, i loro scrani cadranno, per mano del signore. cristo non viene a portarci la pace, ma la spada. le porte sono ora aperte per coloro che sapranno osare. se penseranno di schiacciarci con un colpo di spada, con la spada pareremo quel colpo per restituirne cento!!!
28/07/2010 09:02
 
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Grazie a tutti! Intanto approfitto dell'occasione per scusarmi dell'assoluta assenza di immagini, ma quando ho fatto la campagna ancora non avevo una chiara idea di come realizzarle...sorry. Inoltre preciso che questa cronaca è sulla campagna light, ma credo si intuisse. Ciao a tutti!


Fase II – La grande Jihad (1180-1210) – Le quattro battaglie di Gerusalemme

Informati della disfatta di Sahal ad Din, il comandante siriano e quello turco, entrambi i legittimi eredi ai rispettivi troni, si incontrano per stabilire una strategia comune: dove l’ayubbide ha fallito loro avranno invece partita vinta. Il piano sul quale si accordano è semplice: l’esercito siriano marcia a nord del mar Morto, minacciando direttamente Kerak e costringendo la guarnigione a non uscire dalle sue spesse mura; nel caso in cui, invece, la follia guidi la mente dei comandanti gerosolimitani, il principe siriano li disintegra e prende la rocca. L’esercito turco, dal canto suo, punta su Gerusalemme da nord, guadando il Giordano prima che si getti nel mar Morto. L’idea finale è cingere la capitale franca in una mortale tenaglia dalla quale non può che uscire frantumata.
Purtroppo per i musulmani, però, Raymond de Coligny rientra a Kerak con gran celerità: dopo aver inviato a Gerusalemme un messo con l’annuncio del trionfo, il generale aveva inviato altri cavalieri a Kerak, ordinando che i battaglioni appena addestrati fossero pronti a muovere appena egli fosse giunto. Il risultato è che, quando i siriani oltrepassano Kerak e prendono a risalire verso Gerusalemme, l’armata franca è assai più vicina di quanto il loro principe pensi.
Raymond, lasciate nella fortezza le unità più provate dall’epica battaglia contro gli egiziani, prende ogni uomo disponibile e insegue i siriani, intercettandoli a soli venticinque chilometri dalla città santa. I turchi sono ancora a cinquanta chilometri a settentrione di Gerusalemme e, quindi, la tenaglia non è chiusa a sufficienza. Ma il principe siriano è smanioso di gloria e non si tira certo indietro: schiera le sue truppe in un’unica, gigantesca massa di guerrieri fanatici e urlanti e la scarica contro le ordinate ma sottili fila dell’esercito gerosolimitano. Raymond, contando sui propri veterani, lo lascia fare e prepara le contromosse: ammassa la poca cavalleria alle spalle dell’ala sinistra, lasciando invitantemente scoperta quella destra. E il generale siriano cade in pieno nella trappola: non solo abbandona al proprio destino gli arcieri, che vengono spietatamente inseguiti dalla cavalleria franca; ma si impegna personalmente nei combattimenti feroci contro l’ala destra nemica, perdendo la possibilità di una la visione d’insieme. Così non può assolutamente nulla quando, con estrema freddezza, Raymond ordina ai due contingenti di fanti ospitalieri di attaccare il fianco sinistro scoperto dei siriani: la carica irrompe nelle fila musulmane infliggendo pesanti perdite e distruggendo il morale del nemico. Quando anche l’ala destra siriana viene aggredita dalla cavalleria, l’intero fronte si sbanda e inizia la caccia: solo sparuti gruppi riuscirono a rifugiarsi nel deserto e il principe non era con loro.
Il nuovo trionfo, a conti fatti ben più vasto di quanto la durezza dei combattimenti aveva fatto pensare, però è di breve durata. I turchi sono alle porte e bisogna affrontarli. Raymond sa che questa volta si tratta di una battaglia facile: può contare su truppe di grande esperienza, temprate da durissimi scontri, e ogni sorpresa messa in atto contro i siriani non è diventata ancora di dominio pubblico, per cui può funzionare anche con i turchi. Per di più Baldovino, preso da improvvisa smania di gloria militare, decide di guidare personalmente la guarnigione di Gerusalemme in battaglia, dando agli uomini un motivo in più per dare il massimo e non cedere.
La battaglia, infatti, si risolve in una pura formalità, a dispetto del gran numero di armati turchi. L’unica nota stonata è la morte di Baldovino, caduto durante una carica. Ma nemmeno la funesta notizia riesce a togliere gloria alla giornata e quella sera, pur nel lutto, gli abitanti di Gerusalemme respirano più liberi, senza vedere all’orizzonte nuove orde nemiche.
L’anno seguente, 1185, si apre con l’incoronazione di Amalric a nuovo rex latinorum. Il dispotico principe di Antiochia rifiuta categoricamente di lasciare la propria amata città e di fatto abbandona il resto del regno a sé stesso. La popolazione di Gerusalemme non prende affatto bene la decisione del nuovo sovrano e propone a Raymond de Coligny di assumere la corona, in quanto uomo più degno. Ma Raymond, fedele al proprio mandato fino in fondo, rifiuta e assume invece il governatorato della città, accettando il titolo di Vicomte de Jerusalem. Il suo primo atto è quello di spostare l’esercito a Kerak, per riequipaggiarlo degnamente e rimpinguare le fila dei contingenti.
Proprio mentre si trova nella fortezza giunsero due notizie.
La prima viene da molto lontano, addirittura da Roma: a quanto pare il Santo Padre ha infine ceduto alle suppliche degli emissari gerosolimitani – o forse era solo stufo di sentirne i piagnistei – e ha indetto una grande crociata per punire l’istigatore della jihad: l’obbiettivo delle armate sarebbe stato la città di Al Qhaira, la capitale del sultanato egiziano. Gli emissari informano che, al momento, la Corona d’Aragona, il Comune di Milano e il Regno d’Ungheria hanno aderito alla chiamata papale, mentre il resto della cristianità resta assai tiepido al riguardo.
Il tempo di rammaricarsi di una così scarna partecipazione però non c’è: infatti arrivano allarmanti notizie di una fulminea marcia egiziana da Dumyat verso Gerusalemme. Raymond riunisce rapidamente l’esercito e lascia Kerak in una afosa mattina d’estate, dirigendosi verso la capitale e un nuovo scontro col suo peggior nemico: Sahal ad Din.
Il sultano d’Egitto non ha più l’esercito fiero e sicuro di sé di cinque anni prima, ma resta comunque in possesso di una forza temibile e superbamente comandata. In più le forze egiziane sono animate da un misto di fanatismo religioso e brama di vendetta che le rende incredibilmente feroci e determinate. Raymond schiera le truppe su due linee, fanteria davanti e arcieri alle spalle, con la cavalleria sui lati pronta ad intervenire. Egli, assieme alla propria guardia, sceglie di mantenersi al di fuori della mischia, osservando da posizione arretrata la pugna.
Gli Egiziani non danno tempo agli animi di raffreddarsi, ma si scagliano all’attacco con urla belluine, i selvaggi ghazi a guidare la carica. I lancieri latini reggono l’impatto ma si trovano impegnati in un combattimento corpo a corpo all’ultimo sangue, a cui ben presto gli arcieri di ambo gli schieramenti devono partecipare. La cavalleria egiziana, in inferiorità numerica ma di miglior qualità, costringe la controparte gerosolimitana ad una serie di duelli che li portano lontani dal luogo principale della battaglia. A questo punto Sahal ad Din comprende che l’attimo supremo è giunto e scaglia i veterani della propria guardia nel cuore della mischia, massacrando senza la minima pietà nemici su nemici. E sfonda.
Lo schieramento franco si spacca in due tronconi, entrambi impegnati allo spasmo e impossibilitati a portarsi reciproco soccorso. Sahal ad Din stermina un gruppo di arcieri che stava rientrando nella mischia e, sentendo il trionfo a portata di mano, si prepara a caricare alle spalle la tesissima linea franca. Ma prima che possa infliggere il colpo di grazia viene aggredito da una disperata quanto furiosa carica guidata da Raymond in persona. Ne nasce una mischia furibonda, che si risolve solo quando il sultano viene disarcionato e ucciso. La morte di Sahal ad Din è un colpo troppo duro e l’intero esercito egiziano si dà ad un disordinata fuga verso meridione mentre le truppe franche assistono ormai senza forze.
Finalmente, nel 1186 avanzato, dall’Europa giungono i primi eserciti crociati. Le armate lombarde e magiare scendono dall’Anatolia, ma nessuno dei nobili che partecipano alla santa impresa pare particolarmente desideroso di andare fino in fondo. Né la condotta di Amalric, sempre chiuso in Antiochia, desta particolare ardore nei loro cuori. Per fortuna l’Egitto è in ginocchio e l’armata aragonese, che arriva in maniera del tutto inaspettata dai territori libici, ha facile gioco a conquistare (1188) una Al Qhaira assai poco difesa. La vittoria crociata mette fine a qualsivoglia velleità crociata lombarda e magiara, eppure nessuno lascia la Terrasanta.
Intanto Raymond non è stato a girarsi i pollici, ma ha proseguito col piano di potenziamento dell’esercito, rimpinguando di reclute i battaglioni veterani e arruolando nuovi contingenti. Inoltre è riuscito a convincere il riluttante sovrano a fondare una sede distaccata dell’Ordine Ospitaliero a Kerak, assicurandosi i servigi di quei guerrieri così temibili e determinati. Servigi che devono presto essere sfruttati per fermare un altro attacco islamico.
Sebbene gli eserciti jihadisti siano stati sconfitti duramente, il fuoco della guerra santa non ha abbandonato del tutto le lande islamiche. Anzitutto la grande armata promessa dal sultano almohade è, da quel che si sa, in viaggio; poi dai minareti di Siria ancora si chiama alla jihad. Così un nuovo esercito zenghide si ammassa presso Homs per marciare a sud e schiacciare i cani franchi.
Raymond decise di aspettarli sotto le mura di Gerusalemme e prepara per l’occasione una trappola che, se scattata alla perfezione, porterebbe alla distruzione del nemico: concorda un attacco a tenaglia da Kerak. E il generale siriano, forse troppo sicuro di sé, forse solo incauto, fa la stessa strada del suo predecessore, passando immediatamente a settentrione della rocca ed esponendosi in pieno alla mortale trappola. Che puntualmente si chiude e porta i siriani ad una rovinosa sconfitta. La cosa peggiore è che, in modo del tutto involontario, gli zenghidi hanno concesso al giovanissimo capitano della fortezza di Kerak l’occasione di diventare qualcuno e di muovere i primi passi verso la gloria: quel ragazzo, che viene nominato cavaliere e Segneur d’Outre-Jordain sul campo di battaglia, ha appena sedici anni e risponde al nome di Boemond. Boemond de Coligny.
28/07/2010 13:21
 
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Bella Cronaca! [SM=x1140522]
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postremo dicas primus taceas
parla per ultimo, zittisci per primo




28/07/2010 15:23
 
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Con le tanto agognate vacanze alle porte penso proprio che posterò il resto di questa campagna nei prossimi giorni. Così potrò concentrarmi sul resoconto di quella che sto portando avanti ora, più complicata (sono passato a full m/m) e decisamente più ambiziosa (a volte penso pure troppo!). Detto questo, avanti con il nuovo pezzo!


Fase II – La grande Jihad (1180-1210) – La miglior difesa è l’attacco

Mentre le notizie del nuovo trionfo di Raymond si spargono per tutta la Terrasanta, il destino delle armate crociate è assai meno glorioso. Gli Aragonesi, conquistatori di Al-Qahira, si trovano a dover fare i conti con una città popolosa e di difficile controllo, animata da un fortissimo odio per gli invasori; l’unica cosa che impedisce agli abitanti di ribellarsi apertamente è l’incerta situazione del paese, momentaneamente privo di una guida. I lombardi, perso il proprio comandante per pestilenza, si ritrovano a vagare inquieti fra Tripoli e Adana, esponendosi a continue scaramucce coi turchi e al rischio di diserzioni. Messi peggio di tutti, i magiari si ritrovano imbottigliati fra Halab e Homs, in pieno territorio zenghide, continuamente aggrediti da eserciti siriani via via più forti e determinati. Fra 1188 e 1192 si svolgono in quest’area ben quattro grandi scontri, al termine dei quali l’esercito magiaro e ridotto a piccole bande di fuggiaschi, senza nessuna coesione o pericolosità.
Questa grande vittoria islamica rappresenta però una goccia in un mare di sconfitte e, cosa ben più grave, spossa oltremodo la già traballante economia del sultanato zenghide. E Raymond vede la grande occasione per assestare un colpo semi-mortale alla causa jihadista. Con grande prontezza marcia con la principale armata gerosolimitana verso Tripoli, piegando quindi a nord-est verso l’Atabeg Jazirah. La sua comparsa sotto le possenti ma poco difese mura di Homs coglie completamente di sorpresa i siriani, che non riescono a reagire e vengono duramente sconfitti. Deciso a sfruttare sino in fondo il momento favorevole e ad assicurare una linea difensiva sicura nell’entroterra, Raymond de Coligny marcia verso Halab e investe la capitale siriana senza indugi, conquistandola dopo brevi scontri e concedendo diritto di saccheggio ai propri uomini. Nel 1196, assicuratosi che suo figlio Boemond si stia occupando di conquistare Dimashq, Raymond lascia Halab e si dirige ad Antiochia, dove rende omaggio a re Amalric, consegnandogli le chiavi delle città conquistate. Il sovrano, ormai sessantenne, è più dispotico e scontroso che mai e accetta senza lodi e congratulazioni l’omaggio di Raymond; tuttavia sa bene che quell’uomo è intelligente e capace e, dunque, non intende opporsi ai suoi piani. Concede senza alcun problema l’autorizzazione a colpire ad Adana il sultanato turco. Come unica condizione pone la partecipazione all’impresa di contingenti ospitalieri. E Raymond, grato di quel segnale di favore, accetta. Nel 1197 Adana è conquistata e i turchi scacciati dalla Cilicia.
L’anno dopo Amalric si spegne ad Antiochia e viene incoronato rex latinorum Philip, governatore di Tripoli. Il nuovo sovrano è ben diverso dal suo predecessore e si dimostra fin da subito assai più attivo: come primo atto investe molto nelle terre appena acquisite, per valorizzarle e assicurare la popolazione che nel cambio di dominio hanno solo guadagnato. Poi, assieme al fidato Raymond de Coligny, rivede il piano di sviluppo militare di Baldovino e lo aggiorna: la rocca di Acri perde importanza, mentre vengono implementate difese e servizi tanto di Homs – baluardo contro gli zenghidi – quanto di Adana, scudo contro i selgiuchidi. Nel 1203 re Philip spezza poi il dominio assoluto degli Ospitalieri affidando la difesa della città di Gerusalemme e dei luoghi santi all’Ordine del Tempio.
Poi, nel 1208, dopo quasi vent’anni, una gigantesca armata almohade cala spavalda dall’Anatolia. Gli zenghidi, profondamente provati, non si uniscono, ma lasciano libero passaggio. Re Philip decide di affrontare la minaccia in prima persona e, assunto il comando dell’armata acquartierata a Homs, marcia contro il nemico. I due eserciti si scontrano nelle calde sabbie del deserto siriano, non molto distanti dalle rovine della città di Palmira: i mori, fin troppo sicuri di sé, non si sono presi la briga di studiare in profondità il nemico e non hanno idea di quanto l’esercito franco possa essere tenace, determinato e abile. Il risultato è una colossale sconfitta che, de facto, chiude la jihad. Nel 1210 a Homs i messi dell’atabeg zenghide firmano la pace con l’Outremer, imitati due anni dopo dai selgiuchidi.

Fase III – La conquista dell’Egitto (1200-1226)

Piccolo passo indietro. Nel 1196 la seconda armata franca, comandata dal giovanissimo Boemond de Coligny, staziona sotto le mura di Dimashq, ultimo capoluogo zenghide nell’area. Le forze gerosolimitane sono impegnate a nord, a punire i turchi e praticamente tutto il meridione dell’Outremer è controllato unicamente da sparute guarnigioni. Sembra che la tempesta sia stata superata e che, a sancire ciò, manchino unicamente dei trattati. Ma una mattina all’accampamento franco di Dimashq arriva una terribile notizia: un grande esercito egiziano ha varcato il confine, sopraffatto le poche pattuglie e ha raggiunto Gerusalemme, cingendola d’assedio. A difesa della città vi sono unicamente due contingenti di lancieri miliziani e la guardia personale del nobile Husset, in pellegrinaggio ai luoghi santi.
Boemond si trova di fronte ad un dilemma terribile: conquistare Dimashq e abbandonare Gerusalemme o correre in soccorso della capitale dando però respiro al nemico? La sua decisione è quanto mai audace: ordina di proseguire l’assedio e di portarlo a veloce compimento tramite assalto generale; dal canto suo, egli intende prendere tutta la cavalleria disponibile – due squadroni di arcieri a cavallo e due di cavalleggeri – e marciare in soccorso della capitale.
Ma come è possibile che l’Egitto abbia trovato la forza di montare un simile attacco? La disfatta di Sahal ad Din sotto Gerusalemme ha lasciato lo stato egiziano profondamente scosso e privo di una guida autorevole. In più Sahal ad Din muore senza autentici eredi e l’estinzione della sua linea dinastica lascia aperto un vuoto pericoloso. In questo frangente, mentre l’armata di crociati aragonesi conquista Al-Qahira, gli ultimi fatimidi rialzano il capo e si re insediano sul trono, prendendo nuovamente le redini del potere. Il loro primo obbiettivo è quello di consolidare il ritrovato potere e di scacciare la peste dei crociati iberici; l’impegno in tal senso è molto forte, ma altrettanto forte è l’astio per i gerosolimitani, un odio che i fatimidi cavalcano per unificare il paese. Così troppo grande è la tentazione per resistere e, non appena le notizie dei tracolli zenghidi arrivano sul Nilo, il sultano ordina la preparazione di una grande spedizione: alla sua testa purtroppo non può che porre un fidato capitano, giacché i pochi rappresentanti della nobiltà gli servono in patria per controllare la situazione e governare le città. Questa decisone, seppur dettata da effettive necessità, si rivela assolutamente letale per il successo della spedizione.
Nella piana antistante Gerusalemme, infatti, Boemond de Coligny dimostra di essere un mirabile comandante di cavalleria e con meno di cinque squadroni effettivi costringe il nemico a spezzettarsi e a sfiancarsi in inutili inseguimenti, salvo poi essere impotente quando la cavalleria, con un rapido dietrofront, si lancia alla carica e travolge le esauste schiere musulmane. Al termine della giornata il campo è costellato di cadaveri e molto pochi sono quelli franchi: la vittoria di Boemond è assoluta e apre le porte per una spedizione punitiva.
Boemond impiega quasi due anni per assemblare al meglio le truppe e essere pronto a partire; ma nel 1198 l’esercito, forte anche di due contingenti ospitalieri, lascia Kerak e si dirige verso il mare e la via per Dumyat. La rocca viene conquistata senza particolare sforzo nel 1200 e subito il consiglio nobiliare preme perché non rimanga un episodio isolato come Adana, ma perché si vada oltre, sottraendo ai fatimidi la città portuale di Al Iskandariya. Entro il 1202 il delta del Nilo è totalmente in mano gerosolimitana, ma proprio in quell’anno i fatimidi riescono a cogliere un’importante vittoria morale: la riconquista di Al-Qahira.
Tuttavia si tratta di una vittoria di poco conto perché Boemond non intende affatto dare loro tempo di riprendersi: per ora le forze fatimidi sono numerose ma molto inesperte e mal equipaggiate, ma con tranquillità potrebbero essere forgiate in una forza assolutamente temibile. Così ha inizio una spettacolare girandola di conquiste e battaglie che porta l’Outremer a controllare entro il 1210 tutta la regione di Al-Qhaira e la possente roccaforte di Asyut. Boemond, ormai padrone di mezzo Egitto, inizia l’assemblaggio di un esercito nubiano-sudanese: si vuole così premiare l’appoggio dato ai franchi dalle popolazioni sottomesse ai fatimidi, che vedono nei nuovi signori, per quanto di differente religione, persone meno spietate e sanguinarie. La nuova armata viene radunata a Dumyat, ma non ha ancora terminato il periodo di addestramento quando Boemond scatena la nuova offensiva. Con un’azione combinata a cui i demoralizzati e sempre più isolati fatimidi non possono reagire, le truppe d’Outremer attaccano da nord la rocca di Qenah, ultimo bastione fortificato dell’Egitto islamico, e attaccano la cittadina costiera di Qoseir con un’operazione anfibia. Nel 1214 anche la città carovaniera di Aswan viene annessa e tutto ciò che resta alla dinastia fatimide è l’oasi di Siwa, nel cuore del deserto.
Gli anni 1214-1224 registrano complessivamente ben poco sul piano esterno, se si eccettua l’occupazione da parte degli ospitalieri dell’isola di Cipro, ribellatasi al dominio bizantino. Il bienno 1224-1226 per contro vede due atti di grande importanza. Il primo è il battesimo di guerra del nuovo esercito nubiano-sudanese. Queste truppe, arrivate al giusto addestramento troppo tardi per poter partecipare attivamente alla conquista dell’Egitto, vengono acquartierate a Dumyat e ivi restano fino al 1222, quando Boemond, ormai Governatore Generale del Nilo, ordina l’organizzazione di una spedizione in grande stile per impadronirsi della rocca di Barqah, all’estremo orientale del golfo della Sirte. Spostate via mare, le truppe sbarcano in prossimità di Barqah nel tardo 1223 e iniziano l’attacco nella primavera seguente. La battaglia, straordinaria per ferocia e intensità, rappresenta un tremendo salasso per l’armata; ma dimostra altresì quanto fieramente questi uomini possano battersi. La vittoria finale viene salutata con un plauso più o meno ovunque e Barqah designata come nuova sede dei nubiano-sudanesi, ora prima linea di difesa del fronte africano.
Il secondo atto fondamentale avviene nel 1226 e segna la fine della dinastia fatimide e del dominio islamico sull’Egitto. L’operazione, niente altro che una rapida conquista dell’oasi senza troppo interessarsi di quanto accade nelle sabbie circostanti, viene condotta a termine da Chanteur de Coligny, figlio di Boemond dal quale tuttavia non ha ereditato che poche caratteristiche, fra cui non vi è la fedeltà. Infatti Chanteur sarà protagonista di una sciocca quanto breve ribellione solitaria, a cui una lama nell’oscurità porrà rapida fine.
28/07/2010 16:36
 
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Grandi crociati!!! Bravo!


29/07/2010 16:48
 
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Più che altro un lungo periodo di preparazione a nuove guerre...calma oggi per dominare domani!

p.s. qualunque commento sullo stile, su eventuali castronerie di dimensioni epiche, suggerimenti su come migliorare, ecc sono più che ben accetti:)

Fase IV – La grande pace (1226-1249)

Nel 1216 si spegne, in Adana, Raymond de Coligny. Esce di scena uno degli uomini più straordinari della sua epoca, generale eccelso e uomo di indubbia fedeltà, credente devoto e rispettoso delle abilità altrui. Lascia al proprio signore una situazione militare tranquilla, con frontiere sicure e fortezze in punti strategici. In sua commemorazione re Philip ordina diversi giorni di celebrazioni e autorizza i cavalieri dell’Ordine Teutonico, al quale Raymond si era avvicinato negli ultimi anni, a stabilirsi in Adana. La situazione in Egitto è totalmente sotto controllo e Boemond gestisce senza alcuna difficoltà la questione fatimide, portandola a conclusione nel 1226.
Da questa data l’economia d’Outremer, che dopo la forte recessione e i molti problemi dovuti agli sforzi bellici contro i jihadisti aveva iniziato timidamente a riprendersi col nuovo secolo, compie una terrificante accelerazione. Padroni incontrastati del mar Rosso e della sua rete di traffici, dominatori anche del Mediterraneo orientale con una punta avanzata fino a Barqah, referenti primari di qualunque stato europeo interessato alle mercanzie del favoloso Oriente, i franchi si trovano nella posizione ora più invidiata del mondo; né i loro signori si lasciano sfuggire l’occasione di accrescere ulteriormente il benessere delle province e le entrate del tesoro reale. Grande impulso ricevono le compagnie commerciali, che dal loro centro di Antiochia aprono succursali un po’ ovunque, commerciando ogni genere di mercanzia. Alla metà degli anni Trenta del XIII sec. i mercanti gerosolimitani hanno il completo monopolio dei seguenti traffici: miniere d’argento della Cilicia; miniere di zolfo della Cappadocia; spezie dell’Halab, da Qoseir e dell’Iraq; canna da zucchero della Siria; stoffe pregiate dell’Hejaz e dell’Al Jizah; panni della regione di Smirne; avorio dell’Iraq e del Kom Ombo; schiavi del Kom Ombo. Detti traffici portano autentici fiumi d’oro nelle casse dell’Outremer, che reinveste i profitti in grandiosi piani di miglioramento civile e militare. Fra 1226 e 1246 le rocche di Homs, Adana, Acri, Kerak, Dumyat, Asyut e Qenah vengono tutte dotate di una seconda cinta muraria, trasformandole di fatto in fortezze di complicata conquista; tutte vengono dotate di nuovi e migliori fabbri per l’equipaggiamento delle truppe, di moderne strutture per il loro addestramento e acquartieramento, nonché di stallaggi al passo coi tempi per consentire il mantenimento dei migliori stalloni da guerra.
Allo stesso tempo anche le città ricevono una profonda spinta a modernizzarsi: nuove mura più spesse e imponenti; piazze mercantili ancor più vaste per accogliere il sempre crescente volume di affari; luoghi di svago; strutture portuali in perenne crescita e pronte ad accogliere le flotte mercantili di mezzo mondo; cantieri per la produzione di flotte da guerra a sorveglianza delle rotte commerciali; un miglioramento globale della rete stradale, che passa dall’essere un groviglio di piste polverose al diventare un ordinato sistema viario in pietra.
Di questo lungo periodo di pace risente positivamente anche la politica religiosa dell’Outremer. La grande quantità di terre a maggioranza islamica dà vasto impulso alle missioni, col risultato che in breve molti grandi volti della Chiesa sono di origini franche, fino ad arrivare al punto in cui la quasi totalità del Sacro Collegio Cardinalizio è composto da gerosolimitani, che comunque hanno decine di illustri prelati la cui importanza, devozione e spiritualità sarebbero da ricompensare con una porpora. Numerose strutture religiose sono edificate un po’ ovunque e nel 1239 la prima cattedrale di Terrasanta è consacrata in Antiochia. Seguiranno a breve Gerusalemme, Halab, Dimashq e Al-Qahira.
Frattanto anche gli ordini monastico-cavallereschi ottengono grande potere: i Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni, a cui è stabilmente affidata la difesa di Antiochia, vera e autentica città-fortezza, hanno basi anche a Kerak e Levkosia; l’Ordine Teutonico, che è decisamente quello più debole, ha la propria sede generale in Adana e una distaccata ad Acri; l’Ordine del Tempio, infine, è diretto responsabile della difesa di Gerusalemme, altra città-fortezza.
1240 Boemond de Coligny, Segneur d’Outre-Jordain, Governatore Generale del Nilo, Conquistatore dell’Egitto e Gran Maestro dell’Ordine del Tempio, muore a Dumyat. Con lui si chiude la storia della famiglia De Coligny, visto che il suo unico erede, Chanteur, era morto dieci anni prima al termine della propria improvvida ribellione. Uomo eccezionale, dotato di un carisma non comune e di una volontà ferrea, Boemond non ha solo proseguito l’opera paterna consolidando i confini; egli ha reso l’Outremer uno stato militarmente temibile e, tramite l’affidamento di Gerusalemme ai templari, ha assicurato alla sua capitale una difesa degna di ogni sfida.
Nello stesso anno ha luogo l’unico evento militare degno di nota di questo periodo. Nel cuore del deserto libico, fra Siwa e il mare, un sedicente discendente dei fatimidi da anni provocava disordini; gli si era data scarsa importanza e ne si tollerava la presenza, forse perché era una fatica non commisurata al guadagno quella di approntare una spedizione che ripulisse le sabbie da un simile escremento. Ma dopo che diverse carovane dirette ai porti erano state intercettate e distrutte non si poteva più stare a guardare. Così l’esercito nubiano-sudanese riceve ordine di imbarcarsi e di fare vela per i porti libici, quindi di scovare nel deserto i briganti e annientarli. Si tratta di un’impresa di poco conto e ancor minor valore militare, passata alle cronache solo per la totale assenza di eventi di maggior importanza.
Mentre l’Outremer esplode economicamente e beneficia di un ‘sì lungo periodo di pace, oltre le sue frontiere è in atto una guerra fratricida fra stati islamici. La Siria, desiderosa di potenza, aveva mal digerito il comportamento dei Turchi durante la jihad; le accuse di doppiezza e tradimento erano volate con sempre maggior aggressività e gli zenghidi, forse non del tutto a torto, accusavano i selgiuchidi di aver volontariamente rallentato la marcia si Gerusalemme in modo da prendere tutta la gloria (e il bottino ovviamente) una volta che gli altri si fossero massacrati fra loro. Ovviamente i turchi rispondevano che era vero il contrario, che l’infido principe siriano aveva accelerato per tagliare fuori i leali e valorosi turchi da quanto spettava loro di diritto. Voci di un conflitto sempre più prossimo giungono in Outremer già nel 1221; ma la guerra vera e propria scoppia solamente due anni più tardi, trascinandosi fra sconfitte e vittorie di ambo le parti fino al 1246. A questa data la dinastia zenghide controlla completamente le regioni a oriente dell’Eufrate – Urfa, Ar Rakkah, Dayr Az Zawr, Baghdad, Mosul, Mardin – e ha sottratto ai selgiuchidi Malatya, Sivas, Ani, Kayseri, Konya e Amasya. Inoltre il potere siriano si spinge fino a Tabriz, Ganja e Tbilissi. Il sultanato selgiuchide resta in possesso di Ankara, Attaleia, Trapezous, Kutaissi e Sokhumi, più la neo conquistata Costantinopoli, peraltro completamente circondata da terre ostili e sotto attacco tanto da parte bizantina quanto da parte magiara.
Per onor di cronaca l’Outremer controlla al 1246: Gerusalemme, Antiochia, Tripoli, Kerak, Acri, Dimashq, Homs, Halab, Adana, Medina, Dumyat, Levkosia, Al Iskandariya, Al-Qahira, Asyut, Qenah, Aswan, Qoseir, Siwa, Barqah.
29/07/2010 20:20
 
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Bella AAR! Aspetto il seguito!
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postremo dicas primus taceas
parla per ultimo, zittisci per primo




30/07/2010 09:06
 
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Fase V – La distruzione di un regno (1249-1257)

Con i turchi praticamente in agonia e aggrappati disperatamente alle coste del mar Nero, il sultano zenghide riprende a guardare a meridione, ai perduti territori del sultanato di Aleppo. Se è vero che i siriani non hanno perdonato ai turchi lo scarso zelo per la jihad, è altrettanto vero che l’astio verso i franchi non si è mai spento: l’umiliazione subita non può essere dimenticata, almeno fino a quando non verrà lavata col sangue. Così nel 1249 gli zenghidi decidono che è tempo di vendetta. Da Baghdad fino a Konya gli imam chiamano i figli dell’Islam alla guerra santa; messaggeri sono spediti presso la corte almohade nella lontana Marrakesh e a nord, oltre il Caucaso, fino a Saqsin, dove il khan dei Mongoli, da poco convertitosi, promette aiuti. Perfino i selgiuchidi accettano la chiamata, pur informando che ci vorrà del tempo prima di essere pronti.
Quel che i musulmani non comprendono è che questa volta, in modo del tutto opposto al 1180, l’Outremer è pronto: Gerusalemme è difesa dalla potenza militare dei Templari, coadiuvati più che egregiamente da contingenti di cavalleria armena; la frontiera egiziana è sorvegliata dall’esercito nubiano-sudanese a Barqah e presenta una seconda linea fra Asyut e Dumyat; a nord Adana è pesantemente fortificata e militarizzata; Homs rappresenta una punta di diamante nel sistema militare gerosolimitano; senza ovviamente scordare la tremenda potenza degli Ospitalieri in agguato ad Antiochia.
Ma, cosa ancor più importante, l’Outremer vuole lo scontro e da anni prepara questa guerra. La lunga pace, che i siriani hanno usato per combattere su altri fronti, è stata usata dai franchi per arrivare al meglio a quando, immancabilmente, il fervore religioso avrebbe ricondotto l’Islam sulla perigliosa via di Gerusalemme. E il momento è finalmente arrivato.
Le ostilità si aprono ufficialmente nell’inverno 1249, quando gli zenghidi rompono ogni legame diplomatico e cominciano ad assembrare una possente armata presso Urfa. Il rex latinorum Sasset I si sposta rapidamente a Homs, assumendo il comando dell’armata ivi stanziata e inviando ordini ben precisi ai comandanti delle altre armate. Nel 1250 l’esercito siriano cala indisturbato fino a Gerusalemme, salvo trovare ad attenderli le ordinate e minacciose schiere dei Templari; la battaglia che segue, la quinta combattuta all’ombra delle mura della città santa, si rivela un colossale bagno di sangue per i siriani, impegnati duramente dalla fanteria templare, aggrediti ai fianchi dai cavalieri appiedati e, dulcis in fundo, spietatamente caricati alle spalle dagli armeni.
Non appena la notizia del trionfo arriva a Homs, re Sasset – non un eccezionale sovrano, ma un guerriero di tutto rispetto – invia un secondo giro di ordini dando avvio ai sette anni che sconvolgono la situazione in Oriente. Con un attacco a tre punte le forze franche invadono i territori siriani cogliendo di sorpresa l’atabeg, che non riesce affatto ad organizzare una difesa convincente. L’esercito reale avanza nel deserto fino alla fortezza di Ar Rakkah e, dopo breve assedio, la conquista; l’esiguo numero dei difensori non complica l’impresa. L’esercito di stanza in Cilicia, forte dell’appoggio dei cavalieri Teutonici e guidato dall’erede al trono, principe Charles, irrompe in Cappadocia come una tempesta, sorprendendo l’atabeg in persona a Kayseri; la guarnigione, parte della quale si trova in giro per la regione, ritorna rapidamente e i due eserciti si scontrano in battaglia campale; le forze siriane sono in rapporto di uno a tre e demoralizzate, quelle gerosolimitane col morale alle stelle. Lo scontro volge rapidamente a favore dei franchi e la morte dell’atabeg, caduto sotto l’impeto della carica dei cavalieri armeni, non fa che accelerare la disfatta. A completare un anno orribile per gli zenghidi, nel tardo autunno del 1251 l’intero esercito ospitaliero si presenta sotto le mura di Urfa. La città, la cui caduta nel 1144 segnò un momento capitale della storia tanto gerosolimitana quanto siriana, è difesa da pochi miliziani e viene conquistata praticamente senza combattere.
La serie di sconfitte è oltremodo umiliante per la dinastia zenghide, che tuttavia non intende abbandonare i propri sacri doveri e in breve allestisce una seconda armata. È un esercito con il meglio del sultanato siriano, con un zoccolo duro di lancieri daylami sostenuti da fanti sareceni e coadiuvato da orde di balestrieri e armi d’assedio. Esattamente come prima re Sasset dà ordine che l’armata sia lasciata proseguire indisturbata per Gerusalemme, nelle mani dei Templari. E di nuovo i sogni di gloria siriani si infrangono sulle lance del Tempio, si scontrano con le lunghe spade dei fratelli cavalieri e vengono calpestati dagli zoccoli dei destrieri armeni.
La sicurezza che i Templari danno permette alle altre armate dell’Outremer di spingere ancor più a fondo e di approfittare pienamente del vantaggio acquisito nel 1251. Forti anche del favore papale, che spinge ogni sovrano della cristianità a prendere le armi e marciare sotto il simbolo della croce su Mosul, i franchi strappano in rapida successione agli zenghidi la rocca di Dayr Az Zawr e quella ben più strategica di Mardin, prima ovviamente che il rex latinorum in persona ponga l’assedio e assalti Mosul. Questa città, fortemente difesa dai migliori soldati dell’atabeg, le guardie scelte del sultano, oppone una strenua resistenza e molti soldati crociati versano il loro sangue per le vie di Mosul. Ma alla fine, esausti e soverchiati, i siriani si arrendono e la città viene occupata. È il 1254.
Nel 1257 gli Ospitalieri assaltano le mura di Baghdad e la conquistano. Con questa vittoria il sultanato zenghide viene a possedere solo poche terre in Anatolia ed è costretto a firmare l’umiliante tregua di Ankara.

Fase VI – Il fronte egiziano (1254-1265)

Mentre gli zenghidi vengono ripetutamente sconfitti, il potente sultanato almohade lancia la propria offensiva: due grandi eserciti, forti di un misto di coriacee unità africane e di corazzate truppe iberiche, partono per conquistare Gerusalemme. La prima armata muove da Tunus, cuore militare della frontiera orientale moresca; la seconda parte dalla penisola iberica e, traghettata via nave fino a Tenes, prosegue via terra la sua marcia. Ad opporsi a questa invasione l’Outremer ha una doppia linea: anzitutto la rocca di Barqah, sulla quale si è investito molto e che è sede dell’esercito nubiano-sudanese; quindi le possenti rocche del Nilo, prima fra tutte Asyut. Gli ordini sono chiari: per permettere ai Templari di concentrarsi al meglio sui pericoli che arrivano da settentrione le armate almohadi vanno fermate prima che passino il Nilo.
Il governatore di Barqah, un nobile piuttosto scontento della posizione assegnatagli, non è particolarmente propenso a tentare di sbarrare la strada ai Mori: le informazioni che vengono sussurrate dalle spie parlano di un’armata imponente, composta da selvaggi tuareg e veterani delle guerre iberiche, rapidi cavalieri jinetes e fanteria corazzata. Le sue truppe, per contro, non utilizzano altre armature – quando va bene – che giustacuori in pelle e piccoli scudi: come potrebbero resistere dunque?
Ma i soldati vogliono battersi, non intendono assistere da dietro le spesse mura della rocca al passaggio di un intero esercito nemico, non vogliono sentirsi dei vigliacchi; e praticamente costringono il governatore a uscire in cerca della battaglia. Così, nel calore abbacinante del deserto libico, i nubiano-sudanesi affrontano la loro prova più difficile, un esercito professionista ben equipaggiato e con il morale alto. Lo scontro di fanterie è terribile e fin dalle prime battute i lancieri nubiani, spina dorsale dell’esercito, devono lottare con ogni stilla di energia per non mollare terreno; la fanteria almohade combatte con tenacia e determinazione, sospingendo passo dopo passo indietro i ranghi nemici. La carica dei fanti sudanesi concede un minimo di respiro ma, esauritasi la foga dell’attacco, anche questi ultimi i ritrovano sottoposti ad una pressione a malapena sostenibile: per uccidere un avversario quattro sudanesi insanguinano le sabbie. Meglio va lo scontro fra cavallerie: quella gerosolimitana non è poi così inferiore e, fatto importante, ha il vantaggio del numero. La battaglia si protrae per ore, mettendo a dura prova la resistenza nubiana tanto che, esaurite le frecce, gli arcieri devono gettarsi nella mischia spada alla mano per tappare le sempre più evidenti falle. A questo punto, mentre l’intero fronte pare cedere, uno sconosciuto lanciere, difendendosi nella mischia, compie l’atto che decide la giornata: la sua arma ferisce mortalmente il generale moresco, che stramazza al suolo e viene calpestato dai suoi stessi uomini. Improvvisamente senza più una guida, con la propria cavalleria ormai in fuga, i fanti almohadi si perdono d’animo e si danno a loro volta a una disordinata fuga, spietatamente tallonati dalla cavalleria gerosolimitana, desiderosa di vendetta per tutte le perdite subite. Fermi nelle loro posizioni, circondati dai compagni caduti, esausti per la fatica e le ferite, i nubiani e i sudanesi osservano il nemico che viene massacrato fino all’orizzonte. Migliaia sono caduti, migliaia giacciono nelle sabbie insanguinate: ma è un giorno di gloria per tutti, vivi e morti, perché loro, non altri, armati di coraggio e determinazione hanno saputo tenere testa e infine sconfiggere truppe meglio addestrate ed equipaggiate.
L’eco dell’eccezionale vittoria si sparge rapido in tutto il regno, andando per qualche giorno a surclassare le notizie dei trionfi contro gli zenghidi. Poi la seconda armata almohade arriva in terra libica ed è di nuovo tempo di combattere. Questa volta i nubiano-sudanesi, ancora troppo provati, restano in Barqah e il compito di fermare i mori ricade sulle truppe di stanza in Egitto. Il governatore generale decide di aspettare i nemici all’ombra di Asyut, una decisione che rischia di rivelarsi quanto mai funesta: infatti il generale almohade opta per una strada che non lo porti così vicino al quartier generale dell’armata d’Egitto e si dirige verso il delta. Per fortuna la reazione è rapida e i franchi riescono ad intercettare i mori a sud di Dumyat. La battaglia è assai diversa da quella avvenuta presso Barqah e la maggior qualità almohade ora non c’è più: il trionfo crociato è completo e la jihad pare giungere a una rapida e ingloriosa fine.
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Ottimo, mi piace come stanno andando le cose
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Bello!!!


30/07/2010 13:21
 
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Aspetto il seguito!
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postremo dicas primus taceas
parla per ultimo, zittisci per primo




30/07/2010 16:24
 
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Bene, queste sono le ultime parti della campagna. Ringrazio tutti quelli che si sono presi la briga di leggerla e spero si stata apprezzata.
Buone vacanze a tutti! [SM=x1140506] le userò per sistemare al meglio il resonconto della campagna seguente.


Fase VII – Nuova linfa alla jihad (1265-1276)

Nel 1260 viene siglata una tregua con i Mori e ogni fronte pare in pace. Le uniche operazioni avvengono nel lontano Occidente, sulle sponde del Tirreno (vd. cap. seg.) e ogni attività è volta a assumere l’assoluto controllo sulle regioni recentemente conquistate. A Medina e Urfa vengono edificate grandiose cattedrali, Mardin assume il ruolo di fortezza-chiave fino ad allora detenuto da Homs, il commercio si espande ulteriormente e il tesoro reale arriva a toccare la fantascientifica cifra di 1.982.000 fiorini d’oro. Ma la jihad non si è ancora spenta e, seppur timidamente, qualche imam continua a chiamare alla guerra santa. Nel 1265, quando ormai il fervore zenghide è ai minimi storici, i selgiuchidi rompono gli indugi e scendono ufficialmente in campo, inviando un’armata da Amasya. L’Outremer prende la cosa con una notevole dose di spavalderia – cosa vogliono questi predoni anatolici, confrontarsi davvero con la potenza crociata? – e così facendo rischia: lo scontro, che avviene a sud di Urfa, è sì una vittoria, ma decisamente più sanguinosa di quanto preventivato, con molti nobili cavalieri caduti sul campo e il generale franco fra le vittime. La battaglia dimostra che, tutto sommato, i crociati non sono invincibili e i siriani rialzano ancora una volta la testa, allestendo una nuova armata.
Ma, soprattutto, nel 1267 una gigantesca spedizione mongola arriva da Oriente, comparendo in modo del tutto imprevisto sotto le mura di Baghdad. L’antica sede califfale è poco protetta e il più vicino esercito è l’armata di Mardin, che si sta riprendendo dopo aver sconfitto i turchi a Urfa. L’altra grande forza della regione, l’armata ospitaliera, è in marcia per Antiochia, da dove si intende mandarla via mare ad Attaleia, per strappare ai turchi la loro ultima base meridionale e punirli per aver partecipato alla jihad. Pur avendo assoluta libertà e scarsa opposizione, i comandanti mongoli dirigono le proprie orde senza indugio a nord, attraverso il Kurdistan e l’Azerbajan: il motivo di un simile colpo di fortuna, capitale per il mantenimento della regione in mano gerosolimitana, è da ricercarsi nella lunga guerra che vede opposti i mongoli ai russi di Vladimir-Suzdal, attualmente in vantaggio; gli eserciti servono al nord e lì si dirigono.
Ma, probabilmente dietro le pressioni dei diplomatici siriani e turchi, i mongoli accettano di distaccare l’armata al comando del sanguinario Jebe per sobbarcarsi l’onere della jihad.
La notizia non scuote più di tanto gli ambienti della corte gerosolimitana ma, memori della difficile vittoria di Urfa, questa volta il nemico viene affrontato con il dovuto rispetto. Ancora una volta i Templari lasciano le possenti mura di Gerusalemme e marciano nel deserto verso la battaglia. E, in modo forse un poco monotono, il Gran Maestro può mandare, come Giulio Cesare, al proprio sovrano un laconico messaggio: “veni, vidi, vici”.
Con il crollo della jihad mongola e la morte di Jebe si chiude ufficialmente la nuova ondata di attacchi. I turchi, battuti e sconfitti, assistono impotenti al loro sultano che, imprigionato ad Attaleia, soccombe sotto i feroci assalti degli inarrestabili Ospitalieri: un trattato di pace viene siglato nel 1278 e relega la potenza selgiuchide alle sponde meridionali del mar Nero. I Mongoli, dopo aver sprecato parte dei soccorsi necessari al nord, vengono sconfitti definitivamente dalla Rus di Vladimir-Suzdal e il loro nome, un tempo temuto, si perde nelle pieghe del tempo. Peggio di tutti va a quel che rimane della dinastia zenghide. Sconfitta a sud, senza più alcun controllo su nessun territorio né di Aleppo né di Mosul, a malapena in gradi di difendere le rocche di Ani e Ankara e le città di Malatya e Sivas, con rivolte indipendentiste in atto tanto in Azerbaijan quanto in Georgia, schiacciata dai Bizantini a Konya, la Siria si vede costretta ad un passo quanto mai umiliante: nel 1276 il sultano zenghide riceve in Ankara una delegazione gerosolimitana guidata dalla principessa Perronette. L’Atabeg sfoggia vesti dorate e una corte in pompa magna, mentre gli emissari franchi sono abbigliati con sobria ricchezza; ma tutti sanno chi è il vincitore e chi il vinto. Dopo lunghe discussioni il sultano appone assieme a Perronette la sua firma sul nuovo trattato: con esso l’Outremer si impegna a sedare la rivolta di Tabriz e a riconsegnare la città ai legittimi signori; inoltre assicura assistenza e protezione militare all’atabeg. Che, dal canto suo, compie formale giuramento di vassallaggio al rex latinorum. Cento anni prima le armate di Siria marciavano fiere e sicure sulla spaventata Gerusalemme; ora il sultano si umilia fino al punto di rinunciare alla propria sovranità pur di sopravvivere. Il trionfo dell’Outremer è assoluto.

Fase VIII – Il favoloso Occidente

Anno 1247. La pace regna ai confini settentrionali e, benché circolino voci a riguardo, non vi sono nuove jihad in vista. A Gerusalemme re Sasset I riceve l’ambasciatore d’Italia, rientrato dopo una vita spesa a blandire Sua Santità. Si apprende che la situazione italica è quanto mai spezzettata, con il comune di Milano e la repubblica di Venezia ai ferri corti nel settentrione, il regno normanno alle prese con i Mori e la fiera repubblica pisana ancora indipendente. Inoltre la Sardegna non è unita sotto un unico signore: il meridione è controllato dai normanni, la parte settentrionale mantiene una propria indipendenza e le sue milizie sono arroccate nel castello di Alghero. Desideroso di avere una base per meglio gestire la propria influenza a Roma, il rex latinorum ordina l’approntamento di una spedizione per occupare Alghero. Le truppe vengono radunate a Dumyat e una flotta, allestita nei vari porti del regno, si ammassa nel porto. I preparativi vengono completati nel tardo 1249 e la partenza posticipata alla primavera seguente. Lo scoppio della guerra con l’islam non ferma la spedizione, che lascia Dumyat ai primi di marzo del 1250. La via è resa insidiosa dai pirati e soprattutto dalle flotte moresche, che pattugliano attivamente le acque mediterranee; la flotta dunque si vede costretta a fare una lunga sosta a Barqah e a ripartire dopo mesi, quando la notizia di una grande vittoria navale normanna sgombra momentaneamente il passaggio. Solo nella tarda estate del 1251 la spedizione arriva ad Alghero e può assaltare la rocca. Le milizie locali, mal equipaggiate e demoralizzate, oppongono una debole resistenza e lo scontro si risolve con una facile vittoria. Tuttavia la fortissima presenza moresca nel sud dell’isola preoccupa non poco il neogovernatore: i trattati con il regno normanno vengono rinsaldati e i franchi, pur impossibilitati a portare concreto aiuto militare presso Cagliari, si sobbarcano l’onere di eliminare il feroce Tutush, che comanda le forze moresche. In una notte oscura, mentre il sovrano normanno in persona sbarca a oriente di Cagliari con un esercito di soccorso, la fredda lama dell’assassino spegne brutalmente la vita di Tutush. I Mori, scossi dall’assassinio del proprio comandante, vengono pesantemente sconfitti e la loro presenza sull’isola drasticamente ridotta.
Con le mani decisamente più libere – e consapevole che in patria tutto va per il meglio – i gerosolimitani iniziano i lavori di fortificazione di Alghero e la preparazione della prossima mossa: la sottomissione di Pisa e l’acquisizione di una base territoriale sulla penisola italiana, a strettissimo contatto con la Santa Sede di Roma. La piccola repubblica toscana è estremamente fiera della propria libertà e l’ha sempre difesa con orgoglio e determinazione; le sue milizie sono fortemente addestrate e motivate, i suoi capitani decisi a tutto. Tuttavia la prima penetrazione gerosolimitana in territorio toscano non è di carattere militare, bensì religioso: Sua Santità non sopporta più la diffusa tolleranza all’eresia dei pisani e, essendo tanto i milanesi quanto i veneziani dei pessimi credenti, il Papa si rivolge ai suoi figli prediletti – che, per inciso, continuano a controllare in maniera assoluta il Sacro Collegio cardinalizio – per estirpare la malaerba dalla Toscana. Così un paio di abili uomini di Dio vengono inviati a Pisa con il compito di distruggere l’eresia e, ovviamente, informare di ogni novità il governatore di Alghero. Che, dal canto suo, continua a portare avanti i preparativi.
L’operazione scatta nel 1278, due anni dopo la fine della guerra in Oriente. Un grande esercito, composto da truppe franche e milizie italiane, sbarca in Toscana e pone l’assedio a Pisa. La città si difende con grande coraggio e i combattimenti per le strade sono sanguinosi: ogni metro deve essere davvero sudato, ogni conquista costa un bagno di sangue e rischia di essere persa senza sostegno immediato. Ma alla fine l’esperienza e il superiore addestramento franco hanno la meglio, la resistenza viene spezzata e le bandiere di Gerusalemme sventolano sulle mura di Pisa.


Fase IX – La guerra della Sirte (1280-1295)
Padrone assoluto dell’Oriente e dell’Egitto, incontrastato signore del Mediterraneo orientale, con forti basi in Anatolia e nel Tirreno, l’Outremer è pronto per nuove sfide. Anzitutto tiene fede alla propria parte di accordo e riconquista Tabriz in nome dell’atabeg, riconsegnando quindi la città ai siriani: questo gesto consolida il vassallaggio e rende gli zenghidi un prezioso cuscinetto fra il regno franco e i turchi, coi quali non si riesce a raggiungere un accordo. Il successivo spostamento di ingenti forze al confine siriano, minacciato dai bizantini, non fa che accrescere le relazioni fra i due stati. Ma l’occhio di tutti si sta spostando verso Occidente, su quello stato moresco che tanto zelo ha dimostrato nella jihad e che le forze congiunte degli stati cristiani di Spagna non sembrano riuscire più di tanto ad intaccare. L’obbiettivo diventa dunque l’assunzione del controllo del golfo della Sirte e dei suoi porti commerciali; senza ovviamente scordare la potente roccaforte di Tunus, la cui conquista renderebbe assai più sicura la situazione sarda. Ingenti forze vengono spostate dalla Siria e dall’Iraq e ammassate a Barqah. Dall’Egitto arrivano invece i nuovi parchi d’assedio, destinati a sostituire le utili ma ormai antiquate catapulte: Gerusalemme, infatti, è il primo stato a dotare le proprie truppe di cannoni e le operazioni della Sirte sono il banco di prova perfetto per testarne l’efficacia. Finalmente nel 1288 le truppe muovo da Barqah in tre grandi colonne: in testa c’è l’esercito nubiano-sudanese, il cui compito è prendere la piccola cittadina di Sirt; seguono poi le armate vere e proprie, quelle che devono disintegrare ogni resistenza e marciare trionfanti fino a Tunus. La reazione moresca è più rapida del previsto e i nubiano-sudanesi trovano Sirt difesa da un’ingente guarnigione: dimostrando il consueto coraggio e sprezzo del pericolo, l’attacco viene comunque portato e ancora una volta questi incredibili soldati escono vincitori dal carnaio di Sirt. Le altre armate nel frattempo proseguono a nord lungo la costa fino a Tarabulus senza incontrare resistenza alcuna: ma una volta giunti nel cuore della Tripolitana si trovano a fronteggiare una grande armata moresca: la vittoria arride ai franchi, ma a un prezzo ben più alto di quel che si pensava; tanto che solo una delle due armate prosegue verso Mahdia. I giorni di Tunus, però, sono egualmente segnati giacché il governatore di Alghero, con un’abile mossa, salpa dalla Sardegna con un forte contingente e sorprende completamente i Mori, catturando con estrema facilità la cittadella di Tunus. La Sirte è in mano gerosolimitana, ma le perdite sono state più alte del previsto e si necessita un periodo di riposo prima di intraprendere ogni altra operazione.


Intendevo ovviamente proseguire a mazzolare i Mori in Africa, ma a questo punto Sua Santità è morto e ha deciso di trascinarmi con sé tramite simpatico crash papale... [SM=x1140417]
Era da tanto che non ci giocavo, mi ero dimenticato per via alcuni problemucci della 5.0, scemo io... Però devo dire che costringere gli zenghidi al vassallaggio ha un sapore tutto particolare... [SM=g27963]
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