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le verità nascoste

Ultimo Aggiornamento: 30/05/2023 16:02
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13/06/2010 10:41
 
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tornando al tema luttazzi.

a quanto pare, in italia, se tocchi il fondo, devi per forza tirare fuori la trivella (cit. giovanni) e andare ancora più giù.

a quanto pare, in italia, se il tuo amichetto si è smerdato, devi per forza tirare fuori la tua lingua e leccargli il culo nel disperato tentativo dargli una ripulita. ma come sempre in questi casi, finisce che la spalmi un po' ovunque.

riporto l'intervista (diciamo l'amichevole chiacchierata) de "il fatto quotidiano" con luttazzi, si trova sull'edizione di ieri, 12 giugno. inserisco in corsivo i commenti di ntoskrnl (autore del blog sui plagi).

p. s. per giovanni: forse qui si trova la ragione perché non riesco a farmi un'opinione sulle icone dell'opposizione allo status quo italiano (grillo, di pietro ecc.). non mi fido di loro. a prescindere dal fatto che anche nel loro biotopo la biocenosi si organizza secondo le stesse regole dell'establishment (sono amico o figlio di..., mi fai lo sconto?, che c'è di male se...? ecc.), quando sono messi all'angolo operano come il loro (e il nostro) nemico: insinuazioni complottistische, denigrazioni, accanimento nella negazione di fatti oggettivi e quant'altro. sembra di stare in un manicomio nel quale sono impazziti anche i medici e gli infermieri. d'altronde odio discorsi tipo "il più pulito c'ha la rogna". odio buttarla in caciara in questo modo. piuttosto preferisco voltarmi schifato e vederla come il grande peter hammill in "the institute of mental health, burning" (per ricollegarmi nuovamente al progressive rock):

the institute of mental health
spontaneously killed itself.
ashes to ashes
and dust to dust:
my chains began to rust
as the Institute was burning, burning, burning.




COPYRIGHT?
Il comico risponde alle accuse
LUTTAZZI:
COPIO E LO FACCIO APPOSTA
di Ferruccio Sansa

Daniele rispondi. Una smentita, una spiegazione, perfino una confessione. Manda un segno, dicci che cosa dobbiamo pensare: hai davvero copiato le battute? Perché lo hai fatto? Daniele Luttazzi, il comico più ricercato del momento, è nella sua casa sul litorale romano. Il tono della voce misurato: tranquillo o controllato, difficile dirlo: “Chiedetemi quello che volete”, esordisce.

Accetta di rispondere?


A tutto.

Perché finora ha taciuto?
Nessun giornale mi ha chiesto davvero che cosa è successo.

Diciamo, invece, che l'Unità gliel'ha chiesto, ma non nel modo che sarebbe piaciuto a lui.

E il suo pubblico? Ci sono centinaia di messaggi sui blog...
Ho risposto a tutti di persona, come sempre.

Luttazzi allora... copia?
È vero, lo dico da anni, e lo faccio apposta, per motivi precisi. Non ho mai nascosto nulla. Dov’è la notizia?

E le email contenenti bugie? L'articolo dove diceva che in Satyricon tutto le battute erano originali? Peraltro, anche documentato nel video. Nemmeno il video è stato visionato da questo giornalista.

L'accusa è pesante... c'è chi si è preso la briga di contare: 500 battute che sarebbero copiate, il trenta per cento del repertorio?
Esagerato! Sono molte di meno, di mie ne ho scritte a migliaia. Ma i numeri, usati a fini di scalpore, sono irrilevanti: nessuna battuta di quelle che cito è plagio, sia perché invito a scoprirle (non è plagio se è dichiarato, è un gioco intellettuale), sia perché si tratta di calchi o di riscritture con variazioni e aggiunte, procedimenti legittimi. Buona parte del repertorio di David Letterman, ad esempio, si fonda su calchi di vecchie battute di Johnny Carson , aggiornate alla bisogna. E l’aggiornamento di una battuta generica (calco) è già un potenziamento, amplificato dall’inevitabile allusione al precedente. È l’arte del comico.

Le battute sono circa 250-260 al momento. Alcune però sono monologhi di 10 minuti, come il pezzo dei dinosauri di Izzard. Se ne aggiungono ogni settimana almeno 8-10. Basta contarle nel repository, eh.
Sono tutti plagi. E anche questo per confermarlo basta fare una comparazione dei testi.
La caccia al tesoro (e 2000 volte che lo ripeto) non è una formula magica per plagiare a tutto spiano.


Calco... potenziamento. I suoi fan si convinceranno?
Io voglio chiarire tutto. Ma l'attacco diffamatorio è massiccio, quindi voglio descrivere in modo preciso, tecnico il mio lavoro.

Facciamo un esempio. Mitch Hedberg ha scritto: “I don't wear a watch because I want my arms to weigh the same”. E lei: “In realtà non porto l'orologio perché voglio che le mie braccia pesino uguale”. Molto simili, non le pare?
Ripeto, chi mi accusa dice cose che io già ho svelato da anni. Andatevi a vedere il mio blog. È il gioco della Caccia al Tesoro di cui parlavo nel 2005: dissemino qua e là indizi e citazioni di comici famosi, e i fan devono scoprirli. È un escamotage nato come esigenza legale dopo il processo Tamaro: il pretesto delle querele miliardarie, infatti, è che la mia non è satira, ma volgarità e insulto. Facevano così anche contro Lenny Bruce. E Bruce, per difendersi, cominciò a inserire nei suoi monologhi brani di autori satirici famosi. Vinse così alcuni processi dimostrando che il brano tanto volgare di cui lo accusavano, in realtà era di Aristofane! In questo modo, semplice ma geniale, si dimostra che non sanno distinguere la volgarità dalla satira.

Il processo Tamaro è per plagio, non volgarità!
Ha cominciato a plagiare molto prima del 1996. Ma che cazzo di scusa è? Dov'è la seconda domanda? Bruce non ha mai plagiato altri comici e Luttazzi ha iniziato a plagiare prima di qualsiasi processo. Plagiava per vincere cause in futuro? Guardate che qui non si parla di aver citato Aristofane o Rabelais che sono in libreria, ma di aver plagiato comici sconosciuti in Italia (e alcuni anche poco conosciuti in USA).
Come la battuta di Hedberg serva per cause legali, poi, lo sa solo Luttazzi e il giornalista non è curioso.


In prima fila tra gli accusatori ci sono i giornali di destra...
Il Giornale mi accusava di usare battute volgari. Quando si è accorto che erano di famosi satirici americani... invece di ammettere ‘Ooops, è vero, siamo incompetenti, quella era satira, non volgarità’, ha rigirato la frittata: ‘Guardate: Luttazzi copia!’.

Ma che dice il giornalista? In prima fila ci sono stati l'Unità e Repubblica. La domanda è proprio tecnicamente falsa.

Però anche i suoi fan si sentono traditi...
A me non diverte far ridere con battute altrui, quelle che cito (celeberrime, e di autori di cui parlo sempre nei miei libri e nelle interviste) le uso per i miei esperimenti sulla comicità: le modifiche che apporto possono sembrare irrilevanti a chi non è pratico, ma per un comico sono sostanziali, se potenziano l'efficacia della battuta. L’attacco diffamatorio contro di me, però, è maldestro, soprattutto dal punto di vista tecnico: si tratta di qualcuno che non conosce i fondamenti della semiotica, e della comunicazione comica in particolare.

Ma che sta dicendo? Io come altri collaboratori di questo blog abbiamo pure studiato approfonditamente alcuni argomenti da lui citati. Bello ergersi a intellettuale massimo che non può essere compreso da nessuno.

Aiuto... la semiotica, non può essere più semplice?
No, voglio rispondere in modo approfondito agli attacchi. Prendiamo ad esempio una battuta del comico americano George Carlin, quella sulla falena....

Anche se fosse un artificio retorico del giornalista, sarebbe offensivo per la nostra intelligenza. E se invece davvero non sapesse cosa significhi "semiotica", allora dovrebbe cambiare mestiere. Ma quanto in basso deve scendere il livello culturale in Italia?

Ecco la battuta: “Come fai a capire che una falena scoreggia? Improvvisamente vola dritto”... Lei, è l'accusa, si è limitato a sostituire la falena con una mosca...
Estrapolare battute da un testo dicendo “Sono simili, quindi è plagio” è una solenne baggianata. Primo, perché non esiste messaggio senza contesto. Il contesto guida l’interpretazione, sia inducendo attese che renderanno la battuta più o meno sorprendente, sia aggiungendo significati altri che permettono risate aggiuntive. La battuta di Carlin, citata da me, serve da antitesi come esempio di battuta che la tv trasmetterebbe tranquillamente, a differenza della satira politica del resto del monologo. Nuova risata. Secondo, perché quello che fa scattare la risata non è tanto il contenuto della battuta, come si crede ingenuamente, ma la tecnica. Infatti quando un giornalista fa la parafrasi di una battuta, la risata non scatta. Ogni modifica tecnica, anche minima, può quindi migliorare una battuta. Ecco perché, se sai che il suono “k” è particolarmente comico (come spiega Neil Simon: “Cocomero fa ridere. Pomodoro non fa ridere” ) ti basta sostituire “mosca” a “falena” per potenziare di gran lunga l’effetto”. Terzo, perché il testo di una battuta è solo uno dei tre elementi che la caratterizzano come joke.

Quindi, quando ha detto la battuta già sapeva che Bonolis gliel'avrebbe plagiata, dimostrando la sua tesi di cosa si può dire e cosa no in TV. Perfetto, ha anche il dono della chiaroveggenza.
La sostituzione di "falena" in "mosca" è scandalosa. Ma il giornalista è conscio che "falena" in inglese si dice "moth" e che "mosca" è "fly" e che quindi "mosca" ha quasi lo stesso suono di "moth"?
Oltretutto, le mosche volano dritte, sono proprio le farfalle a svolazzare a zig-zag.
Inoltre, se il giornalista si fosse degnato di guardare il video, avrebbe notato quanto le battute siano peggiorate rispetto agli originali. Non è strano, chi scrive una battuta la fa sua, la interpreta, la vive.


Semiotica, joke, scusi ma ci stiamo perdendo...
Perdonate i tecnicismi... ma sono necessari. Una battuta è un micro-racconto, e quindi vanno considerati anche funzione comica e ruoli attanziali.

Ma quali tecnicismi, ma che è questa intervista alla Bruno Vespa?! Manca solo di firmare un bel contratto cogli italiani.

Attanziali... alzo bandiera bianca. Non so se i suoi fan volevano una lezione di semiotica...
Se si considera che le variazioni possono vertere inoltre su ampiezza degli scarti (basta sostituire una parola che attivi isotopie più distanti e l’effetto comico aumenta), sulle figure delle sostanze dell’espressione, sulle figure delle forme dell’espressione, sulle figure della forma del contenuto (nuclei, indizi, informanti:luoghi, oggetti, gesti), sulle figure del tempo, sugli orientamenti semantici del testo eccetera, si capirà perché è più semplice dire ‘Luttazzi copia!’. Un po’ di competenza però non guasterebbe, per diffamazioni così pesanti.

A parte che moltissime battute sono riprese pari pari, e stanno 1:1 con l'originale, ma poi chiunque è capace di prendere delle battute e farvi sopra delle modifiche. No chiunque no, ma chiunque sia un minimo portato.

Sarò più terra terra: c'è chi l’accusa di aver taroccato i messaggi Internet, di averli retrodatati per nascondere il plagio...
Vent’anni fa, Internet non c’era. I fan mi scrivevano nella redazione dei programmi, io ne parlavo nelle interviste.

Ah, buffo che poi nel 2006 e nel 2007 invece menta per email e abbia pure mentito a proposito delle battute di Satyricon. Inoltre, anche la battuta della mosca, perché non ha detto "Bonolis me l'ha copiata, tra l'altro non è nemmeno mia, ma di Carlin!". Troppo complesso, no?

Ma quei ritocchi ai messaggi Internet?
Non me ne intendo di queste cose. Un esperto di computer mi dice che questo taroccamento non si poteva fare.

Questa risposta non significa nulla, perché se intende che:
a) non si può fare perché si vien beccati, allora sì, infatti è stato beccato
b) se intende che non ci si può nemmeno provare, è offensivo verso anche il più cerebroleso dei navigatori web. È ovvio che si può apporre qualsiasi data a un post del proprio blog e rimaneggiarla e modificarne il contenuto.
Ovviamente, nessuna seconda domanda.

Peraltro, ieri un utente (beppe) ha pubblicato il seguente link su questo blog:
http://puntofisso.net/techblog/?p=168
Il link riporta presunte imprecisioni nell'uso di web.archive per confermare la retrodatazione. Se ne è discusso qua sul blog con l'utente e ho fatto notare che nel mio articolo nessuna data di indexing era stata usata per datare i post. Figuriamoci se vado ad affidarmi all'indexing. Inoltre, l'articolo dell'utente esordisce colla frase:
"Non lo nascondero’, fino a ieri mattina “ero” un fan di Daniele Luttazzi.
Dopo aver letto le notizie sull’eventuale “plagio” sono diventato un ex fan deluso."


A Luttazzi non importa la frase nel blog, né si è preso la briga di leggere i commenti in questo blog che già precisavano che nessuna imprecisione tecnica era stata commessa dall'articolo, il giorno dopo pubblica la seguente affermazione con link al blog dell'utente:

Un blogger esperto sbugiarda l'asso nella manica dei diffamatori: la retrodatazione dei post sulla Caccia al Tesoro. (link)



Non solo. A Luttazzi questa cosa pare tanto importante che manda subito il link a Francesca Fornario dell'Unità che gli risponde:

«Daniele mi ha scritto raccomandandomi di leggere il link. gli ho risposto. Così:

Caro Daniele, leggilo tu. I commenti spiegano quello che io stessa avevo verificato: i post sono stati alterati per avvalorare la tesi della caccia. Imagino che gli informatici smanettoni si divertiranno ad aggiungere prove su prove come hanno già fatto sul blog - non sul tuo, dato che non pubblichi i loro commenti - ma non me ne rallegro affatto né mi interessa, perché come ti ho scritto trovo ridicola la scusa della caccia al tesoro a prescindere da quando l'hai tirata fuori ("Si ho copiato, ma lo avevo detto". Cosa vuoi, la prescrizione?). Come ti ho scritto, trovo mortificante a prescindere l'ipocrisia di accusare Bonolis di averti copiato una battuta che tu stesso avevi capiato (peggiorandola, secondo me. Ehi, non puoi mica darti i voti da solo come fa Berlusconi: "Sono il miglior presidente degli ultimi 150 anni". "Chi lo ha detto?". "Io"), trovo deprimente l'aver dichiarato che non ti saresti divertito a recitare una battuta scritta da altri per poi farlo a manetta, e aver plagiato quintali di gag senza mai citare la fonte e pagare i diritti, sfruttando cinicamente la posizione l'artista perseguitato ("ehi, sono costretto a copiare, così posso difendermi"). Infine, mi avvilisce che tu abbia censurato il video che provava la copiatura a tuo dire leggittima, proprio tu che sei stato vittima di una così insopportabile censura. Se mi hai mandato questo link che non prova niente perché vuoi continuare il dibattito sul sito dell'Unità lo pubblico volentieri. Se invece me lo hai mandato per riconquistare la mia stima, la mia e quella dei fan delusi, allora avrei preferito una giustificazione accettabile. ti abbraccio.
Francesca»


Come giustamente fa notare Francesca, in verità, non ha molta importanza quando i post sono stati scritti. Diventa importante perché nega l'evidenza. Ci sono altre prove sulla retrodatazione. Vediamo se sarò costretto a fornirle tutte, come se quelle già presentate non fossero sufficienti.

Siccome nel blog dell'utente arrivano precisazioni riguardo all'esattezza dell'articolo in questo blog, tempo due ore e la frase e il link scompaiono dal blog di Luttazzi.

Ritorniamo all'intervista.


Certo un bel paradosso... non era proprio lei che aveva criticato Grillo perché avrebbe ricalcato una sua battuta...
Quella su Wojtyla dai terremotati. Il rimprovero non è mai perché te le rubano... lo fanno di continuo, in pratica è come se dalla tv non me ne fossi mai andato. È perché te le “bruciano”. Se io ho una battuta in repertorio e un comico molto più famoso la dice prima che io l’abbia detta in tv, quella battuta non posso più dirla, la sanno già.

Sì, ma la battuta presa da Benigni era di Dangerfield e quella di Bonolis di Carlin. Bisogna citare.
Qualcuno ha fatto notare che ha solo rimproverato Bonolis e non Benigni. Eh sì, ma se dici di fronte ad intere platee ad ogni spettacolo di una tournée che Benigni ti ha copiato tutti pensano "oh ma è proprio forte". Se la battuta è di Dangerfield tuttavia devi dirlo. Non puoi farti ammirare da tutti e poi la battuta non era tua. E comunque fai notare che Benigni copia, anche se non detto in modo accusatorio, resta una bassezza.


Ma la battuta non era l'oro del comico?
Lo è. Come un fraseggio jazz. Con la differenza che quando un musicista come Fred Hersch cita Thelonious Monk, nessuno ci scrive su un blog dicendo: ‘Hersch copia Monk!’. Farebbe la figura del fesso. Chi capisce di jazz, si gode il rimando. Chi è inesperto, è il caso che si metta a studiare. E Schubert sapeva che c’era qualcosa di potente nel quintetto per archi in re maggiore K. 593 di Mozart: lo citò quasi nota per nota nel suo quintetto per archi.

qui mi inserisco anch'io, perché quando è troppo, è troppo: si tratta del quintetto k515 in do maggiore. entrambi rimandati a settembre! (psg)

Il comico come il musicista, prende a prestito l'armonia... Insomma, non si sente come uno studente pizzicato a copiare davanti a una classe di milioni di persone?
No, piuttosto come un professore giudicato da un branco di ripetenti.

Ecco, non poteva mancare il tocco di classe finale. Ci inchiniamo tutti di fronte al genio che ha retrodatato post sul blog, mentito per email e censurato ogni video su youtube che non gli piaceva con la sua Srl (facendo pure finta di non saperne niente). Senza contare tutte le altre vicende elencate qua e qua.
Ma non c'era un altro che aveva chiamato "coglioni" chi lo criticava? Al momento mi sfugge.


Sicuro di riuscire a recuperare la fiducia del pubblico?
Ho ricevuto molta solidarietà. Raiperunanotte non si dimentica facilmente. Non sarà l’ultimo attacco. Ma qualcuno si è chiesto almeno chi è l’autore del video anonimo che diffama il mio lavoro. Perché è stato diffuso con un’azione così capillare?

Screditare la voce critica dal punto di vista personale e dei fini. Anche questo mi ricorda qualcosa. Sì è mai chiesto che, forse, al contrario del giornalista che il video non l'ha visto, chi l'ha visto si sia incazzato e lo abbia diffuso e che le continue rimozioni da youtube non abbiano fatto altro che intestardire i censurati?

Speriamo che qualcuno alla redazione de Il Fatto se ne occupi più seriamente.
Posted by Ntoskrnl at 12:58 AM



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Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better.
(Samuel Beckett, Worstward Ho)
16/06/2010 10:35
 
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Bloody Sunday, mea culpa di Cameron
IRLANDA DEL NORD

"Fu ingiusto e ingiustificato"
Presentato il rapporto della Commissione indipendente sulla strage di manifestanti cattolici a Derry nel 1972 ad opera dei parà britannici. Il premier: "Conclusioni inequivocabili: è stato sbagliato". I familiari manifestano


Bloody Sunday, il giorno del ricordo
LONDRA - "Ingiusto e ingiustificato". David Cameron riconosce, con parole inimmaginabili solo pochi anni fa per un premier britannico, le responsabilità del suo Paese in uno dei capitoli più sanguinosi dei trent'anni di guerra civile in Irlanda del nord: la Bloody Sunday. Oggi verrà reso noto il rapporto della commissione d'inchiesta sui tragici eventi della domenica di sangue del 1972, in cui 14 manifestanti cattolici vennero trucidati dai parà inglesi a Derry. Cameron l'ha letto e ne ha tratto una conclusione netta: "Sono patriottico e non voglio mai credere a niente di cattivo sul nostro Paese, ma le conclusioni di questo rapporto sono prive di equivoci: ciò che è successo il giorno di Bloody Sunday è stato ingiusto e ingiustificabile. E' stato sbagliato", ha detto il primo ministro conservatore presentando il rapporto di Lord Saville of Newdigate.

Ci sono voluti 12 anni di lavoro e 195 milioni di sterline di spesa, migliaia di audizioni per ricostruire in cinquemila pagine quel che accadde il 30 gennaio di 38 anni fa nella città nordirlandese, Londonderry per la Gran Bretagna, Derry per i repubblicani nordirlandesi, roccaforte del movimento indipendentista repubblicano.
Il rapporto accusa esplicitamente alcuni dei militari di aver ucciso illegalmente i civili, aprendo la porta a processi, 38 anni dopo quei fatti. Le vittime, ha detto Cameron citando il rapporto, "non erano armate". Furono sparati colpi da paramilitari repubblicani, ma questo "non giustificò l'uccisione di civili". Una prima inchiesta, chiusa frettolosamente dopo la strage, concluse che i parà avevano sparato sulla folla per legittima difesa dopo che i manifestanti gli avevano sparato contro. Una falsità oggi smascherata ufficialmente.

Cameron ha compiuto certo un atto di coraggio nel mea culpa per l'uccisione indiscriminata dei manifestanti che quel giorno erano scesi in piazza per difendere i diritti civili violati della comunità cattolica nelle sei contee dell'Ulster. Ma non ha certo rinnegato la politica britannica nell'isola irlandese. Il "Bloddy Sunday" non è ciò
che definisce la presenza delle forze britanniche nell'Irlanda del Nord fra il 1969 e il 2007, ha detto il premier. Cameron ha tuttavia ammesso che "alcuni errori sono stati fatti", e che "non vi sono giustificazioni per l'uso della forza da parte dei soldati", ma difeso l'"impegno e il coraggio" dei militari britannici nell'Ulster. La verità, ha detto, "per quanto dolorosa, non ci rende più deboli, ma più forti, questo è quello che ci distingue dai terroristi". Quello che è accaduto nel Bloody Sunday ha rafforzato l'Ira ed esacerbato il conflitto, ha ammesso. "L'Irlanda del Nord è stata trasformata negli ultimi vent'anni, proseguiamo questo lavoro di cambiamento, insieme con tutti i nordirlandesi", ha quindi affermato Cameron.

Per Derry la ferita è ancora aperta. Amici, parenti, politici e sostenitori hanno sfilato oggi per le strade di Derry, dove il rapporto è stato presentato nel palazzo della Guildhall (sede del consiglio comunale) da Lord Saville, che fu incaricato dell'inchiesta dall'allora premier Tony Blair. Ognuno di loro, entrando nell'edificio dove è stato dato loro il rapporto in anteprima, ha alzato un cartello con la foto di una delle vittime, tra gli applausi dei presenti.

Kay Duddy, il cui fratello Jackie fu il primo a essere ucciso, ha detto: "Abbiamo aspettato così tanto, e ora siamo qui, ho un nodo allo stomaco. Così tante volte abbiamo pensato di essere vicini alla verità, e pensare che ora lo vedremo nero su bianco. Spero di riuscire ad arrivare alla fine di questa giornata". Nella borsa portava un fazzoletto con la scritta 'Padre Edward Daly', lo stesso che quel prete usò per tentare di fermare il sangue che usciva dalle ferite del fratello colpito a morte. L'immagine di padre Daly è rimasta l'icona di quella domenica.

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16/06/2010 10:46
 
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direi che l'argomento Luttazzi può considerarsi chiuso.
che si sia rivelato un cazzone pare ormai assodato.

peccato. mi piaceva.
e magari mi paicerà anche in futuro. certo... quando capiterà mi toccherà farmi una domanda che normalmente non mi farei: sarà sua?

e come me quanti altri... avoglia a difenderti Luttà!


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16/06/2010 13:00
 
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a proposito di Bloody sunday ( tra l'altro molto bello il film secondo me )

Soweto, i Bafana in campo nel giorno della memoria

Il 16 giugno 1976 la marcia di protesta contro il governo razzista dell'apartheid finì in carneficina

Il giorno più freddo dell’anno, il Sudafrica che gioca a Pretoria, nella città più afrikaner dell’intero Stato, sembra che il calendario abbia voluto mescolare tutta la storia di questo Paese, il passato e il futuro.

Oggi, 16 giugno, è festa nazionale, si celebrano le rivolte di Soweto del 1976, l’inizio del movimento di liberazione e ci sono le parate per strada, le messe gospel e gli spettacoli a teatro. I concerti e i locali pieni ma questo succede sempre, ogni anno. Solo che stavolta il termometro segnerà 2 gradi, la temperatura più bassa dell’inverno dicono qui, molto preoccupati, e in questo gelo il Sudafrica insegue la prima vittoria. Per i giocatori forse è un po’ troppo, avevano sulle spalle un Paese contro il Messico ora c’è si ritrovano tutta la storia addosso e tocca al capitano Aaron Mokoen dare fiducia ai tifosi: «Noi sappiamo bene cosa significherebbe battere l’Uruguay proprio in questo giorno quindi non posso fare promesse su come andrà, ma posso assicurarvi che scenderemo in campo con tutto quel che abbiamo».

Steven Pienaar, l’uomo a cui toccherebbero le magie, scrive un blog, un diario in cui racconta che «giocare in questo giorno sarà un’emozione nuova. Contro il Messico c’erano 90 mila persone che rappresentavano tutto il Sudafrica e quindi erano molte di più. L’energia arrivava dalla gente. Stavolta sarà un’esperienza più intima perché ognuno di noi non potrà evitare di guardarsi dentro». Trentaquattro anni fa questi ragazzi neanche c’erano, ma il movimento nato nel sangue in quell’estate ha avuto bisogno di tempo e martiri per arrivare al post apartheid.

Il 16 giugno oggi si chiama «Youth Day», giorno della gioventù perché la protesta è partita dalle scuole. Gli studenti rifiutavano di imparare l’afrikaner anche se la legge glielo imponeva e adesso, in un moto d’orgoglio, rivendicano quell’obbligo: «In Sudafrica ci sono 11 lingue, noi le parliamo tutte. I bianchi no». Stasera i Bafana faranno più fatica a essere la molla che unisce il Paese, ha ragione Pienaar, è un giorno più intimo e risveglia rancori. Le strade di Pretoria sono piene di bianchi che chiedono l’elemosina oppure non la chiedono nemmeno, stanno buttati per terra con un cartello vicino. Sono anche fuori dallo stadio e di solito i neri li ignorano, solo in queste ore ogni tanto capita di sorprenderli a fissare.

«Ci hanno fatto non importa cosa e guardali adesso. Deve essere stato Dio», ma è solo un attimo perché fuori dal Loftus Stadium non c’è tempo per farsi travolgere dalla memoria. C’è ancora qualcuno che spera in un biglietto, anche un gruppo di uruguaiani che implora le guardie per una dritta. «Difficile che siano rimasti dei posti, soprattutto perché è un giorno speciale», «Sì il freddo, lo sappiamo». E quello ride, se avesse un biglietto glielo regalerebbe perché in fondo nell’anniversario di una sparatoria su una scuola, con un morto e dei feriti, i primi di tanti, è giusto che si geli.
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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27/06/2010 10:40
 
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Ustica, 30 anni dopo la strage nuove speranze di verità
I parenti delle 81 vittime della strage del 27 giugno 1980 sono ancora alla ricerca di molte risposte, ma dalle cause per i risarcimenti arriva un risultato simbolico importante. Il legale delle famiglie: “Lo Stato riconosciuto responsabile"



Ustica, trent’anni dopo. Le indagini sul disastro del Dc9 dell’Itavia precipitato il 27 giugno 1980, in cui hanno perso la vita 81 persone, sono durate vent’anni. Le pagine di atti prodotte sono milioni, centinaia le udienze processuali. I risultati concreti purtroppo deludenti. Almeno per chi vorrebbe sapere cos’è successo veramente nei cieli siciliani poco dopo le 21 di quella sera d’estate e anche per chi avrebbe voluto guardare in faccia i colpevoli. Di recente però un traguardo importante, anche dal punto di vista simbolico, è stato raggiunto. In sede civile infatti non solo sono stati stabiliti i primi risarcimenti alle famiglie delle vittime. Ma i giudici hanno messo nero su bianco la responsabilità dello Stato italiano nella tragedia, nel non aver saputo garantire la sicurezza dei passeggeri di quel volo.

Per Daria Bonieffti, presidente dell'associazione dei parenti delle vittime della strage, "paradossalmente questo Paese è assediato dalla verità su Ustica nel senso che dal '99 abbiamo una sentenza ordinanza del giudice Rosario Priore che dice che l'abbattimento del Dc9 è avvenuto all'interno di un episodio di guerra aerea. Poi il presidente del Consiglio di allora Francesco Cossiga ha detto che sono stati i francesi probabilmente ad abbattere il Dc9. Infine, il 15 giugno scorso i giudici civili di Palermo hanno condannato tre ministeri (dell'interno, dei trasporti e della difesa) a risarcire sei familiari di tre vittime, per non aver impedito l'abbattimento dell'aereo. Bene, ora mancano solo i nomi dei responsabili. A questo punto serve un impegno forte per chiedere ai Paesi che quella notte erano nei nostri cieli (Francia ma anche America e Libia) cosa è successo davvero" (leggi anche: Strage di Ustica, "mancano i nomi dei responsabili").

Né l’ipotesi della bomba esplosa a bordo né quella del missile finito per sbaglio contro il volo Bologna-Palermo durante una battaglia aerea hanno trovato conferme sostanziali. La cosiddetta “Inchiesta Priore”, depositata nel 1999, conclude infatti che “l’incidente al Dc9 è occorso a seguito di azione militare di intercettamento, il Dc9 è stato abbattuto, è stata spezzata la vita a 81 cittadini innocenti con un’azione che è stata propriamente atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, operazione di polizia internazionale coperta contro il nostro Paese, di cui sono stati violati i confini e i diritti”. I responsabili però non verranno individuati. Nel gennaio 2007 la Cassazione conferma l’assoluzione dei generali Lamberto Bertolucci e Franco Ferri dall’accusa di alto tradimento per i presunti depistaggi delle indagini.

La quasi trentennale vicenda penale, che aveva sede a Roma e che vedeva la maggior parte dei parenti delle vittime riuniti in un’associazione e costituiti parte civile, non ha quindi portato da nessuna parte. Per colpa, appunto, delle reticenze, dei depistaggi, e delle ingerenze a livello internazionale. Nel 2008 la procura romana ha aperto un nuovo fascicolo in seguito alle dichiarazioni di Francesco Cossiga, secondo cui ad abbattere il Dc9 sarebbe stato un missile lanciato dalla marina militare francese. Ma l'inchiesta è alle prime battute, le rogatorie internazionali sono appena partite, anche se la Francia si è detta disposta a collaborare e il pm Erminio Amelio ha precisato che "la cosa forse più sconvolgente delle vicende legate alla strage di Ustica è come non ci sia nessun servitore dello Stato che senta il dovere di dire qualcosa". Intanto però su un altro terreno, quello della giustizia civile, proprio quest’anno si è aperta una speranza. La Corte d’appello di Palermo ha confermato la condanna in primo grado dei ministeri dell’Interno, dei Trasporti e della Difesa a risarcire complessivamente un milione e 240 mila euro ai familiari di tre delle 81 vittime di Ustica. La sentenza ha stabilito che lo Stato è responsabile per non avere impedito il disastro, in quanto tenuto a garantire la sicurezza dei cieli. “Da uno dei misteri più controversi della nostra storia recente è finalmente emersa la prima verità processuale – spiega Vanessa Fallica, legale di tre delle famiglie coinvolte –. Si tratta di un successo importante, a fronte del nulla di fatto ottenuto in sede penale questa sentenza ribalta la verità accertata in quell’ambito”.

L’avvocato Fallica nel 1980 aveva solo 10 anni. Ma ha raccolto il testimone del padre Vincenzo, oggi 81enne, che ha seguito il caso Ustica dall’inizio. Il loro studio, forte anche di questo primo risultato positivo, ora rappresenta altre famiglie che sperano di ottenere un risarcimento. Tra loro c’è Pasquale Diodato, che nella strage ha perso l’intera famiglia: la moglie e i tre figli. “Nel 2007, dopo la sentenza della Cassazione in sede penale e dopo quella in primo grado sui risarcimenti, molte altre famiglie hanno seguito con i loro legali il nostro esempio. Attualmente tutti i parenti dell’associazione attendono un giudizio dal Tribunale di Palermo riguardo alla richiesta di danni”, continua Vanessa Fallica. Il filone civile della storia processuale di Ustica è partito nel 1990, quando Vincenzo Fallica decise di lasciare la strada del procedimento penale e di spostarsi a Palermo per tentare la causa civile”.

“Il processo di Roma non prometteva bene – ricorda il legale siciliano –, soggetto com’era a tutti quegli ostacoli. Con i miei assistiti scegliemmo di sostenere la competenza territoriale di Palermo e di dimostrare il diritto a essere risarciti per la ‘responsabilità presunta’ dello Stato nella tragedia del Dc9”. I giudici hanno dato ragione, anche se dopo 17 anni, a questa tesi sulla base dell’articolo 2050 del Codice civile sulle “Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose”: “Chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”. Il tribunale ha quindi stabilito che spettava allo Stato dimostrare di aver fatto di tutto per garantire la sicurezza dei passeggeri dell’aereo caduto. E questo non si è evidentemente verificato. Ma che speranze ci sono per le altre famiglie di ottenere lo stesso riconoscimento? “Rispetto al 1990 l’avvocatura dello Stato ha qualche elemento in più a proprio favore riguardo alla prescrizione – ammette Vanessa Fallica –. Tuttavia in una vicenda tanto complessa riteniamo esistano dei margini, ad esempio facendo decorrere il tempo per la prescrizione dalla chiusura del procedimento penale”.


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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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29/06/2010 19:42
 
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Aggressione a Berlusconi, assolto Tartaglia

Si chiude subito il processo di Milano
Il rito abbreviato per l'uomo che ferì al volto il premier il 13 dicembre. Il Pm: "Non era in grado di intendere e di volere", come da perizia degli psichiatri. E La Corte accoglie la tesi

MILANO - E' iniziato e si è subito chiuso a Milano il processo, con rito abbreviato, a Massimo Tartaglia, il perito elettrotecnico che lo scorso 13 dicembre ferì al volto Silvio Berlusconi 1 lanciandogli un pesante souvenir del duomo meneghino. Essendo Tartaglia affetto da disturbi mentali, il procedimento si fondava sugli esiti della perizia disposta dal Gup Luisa Savoia.
Il pm Armando Spataro, in aula, ha chiesto subito al Gup l'assoluzione e un anno di ricovero presso la stessa comunità terapeutica in cui attualmente l'imputato si trova agli arresti domiciliari.
Poi la decisione del Gup, che ha stabilito che l'uomo della statuina contro il Cavaliere non è imputabile e
ha disposto come misura di sicurezza che resti in libertà vigilata per un anno nella comunità di recupero dove si trova da mesi, agli arresti domiciliari. Tartaglia dovrà conformarsi alle indicazioni del direttore della comunità, potrà ottenere dei permessi per andare a visitare alla famiglia ma non potrà partecipare a manifestazioni pubbliche come quella del dicembre scorso in cui aggredì Silvio Berlusconi.
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30/06/2010 13:56
 
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Pedofilia, Avvocato vittime Usa:Processerò Papa, Bertone e Sodano (Apcom) -


L'avvocato che ha ottenuto il non-impedimento a proseguire un processo contro il Vaticano dalla Corte suprema Usa, Jeff Anderson, intende processare il Papa, ma, prima, i cardinali Bertone e Sodano. Il legale della Santa Sede, Jeffrey Lena, da parte sua, non si dà per vinto ed è fiducioso di proseguire con successo la battaglia in tribunale. "E' una grande vittoria, una vittoria enorme. Per la storia degli abusi sessuali dei preti è la caduta del muro di Berlino, la caduta della separazione tra la Germania Est e la Germania Ovest, tra l'Est e l'Occidente...", afferma Jeff Anderson in un'intervista a 'Repubblica'. "Io non penso che sarà possibile processare il Papa in quanto Papa: ma il Vaticano sì. Per la prima volta avremo la possibilità di fare un processo, qui negli Usa, in cui il Vaticano può essere considerato responsabile nella copertura di quei crimini che sono gli abusi dei preti", spiega. "Prima cominceremo dal cardinale Sodano e dal cardinale Bertone. Al Papa ci arriveremo. Non voglio certo cominciare da lì: voglio prima raccogliere le loro deposizioni in particolare". Per Anderson "nelle loro posizioni sono stati al centro delle coperture per un lungo periodo. Così come lo fu il cardinale Joseph Ratzinger, l'attuale Papa Benedetto, quando aveva responsabilità nella Curia. Lui adesso è il capo supremo e non partirò nell'inchiesta da lui: ma ci arriverò". Di avviso opposto l'avvocato della Santa Sede. "La Corte suprema - afferma in un'intervista alla 'Stampa' - ritiene non appropriato esprimersi su questo caso e lo rinvia al tribunale distrettuale dell'Oregon, dove la questione dell'immunità sarà discussa". Per Jeffrey Lena "il giudice dovrà decidere se un prete è o meno un dipendente del Vaticano", ma "la Santa Sede non paga il salario dei preti né garantisce loro i benefici previdenziali, come non esercita alcun tipo di controllo quotidiano sul loro operato, a differenza - sottolinea il legale - di quanto avviene da parte di diocesi e ordini".
[Modificato da Sound72 30/06/2010 13:56]
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
01/07/2010 14:06
 
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Dai caccia fantasma al caffè di Gheddafi. E se la verità battesse la ragion di Stato?

Corriere della Sera - 27 giugno 2010

ROMA - A volte le conseguenze della ragion di Stato sono imprevedibili. Trent’anni fa, Muammar Gheddafi era il nemico numero uno dell’Occidente. Pur di eliminarlo il presidente americano Ronald Reagan autorizzò una spedizione transoceanica di alcune squadriglie di cacciabombardieri che martellarono inutilmente Tripoli e Bengasi. Oggi il colonnello va a bere il caffè a Piazza del Popolo. Peccato però che da allora nessun capo di governo (soluzione bipartisan) gli abbia mai chiesto ufficialmente di rispondere alle domande della magistratura sulla strage di Ustica. Eppure si è sempre definito come la vittima designata di quella sera in cui 81 cittadini italiani furono uccisi a bordo di un aereo in volo da Bologna a Palermo. Questione di petrolio?
Trent’anni sono un tempo infinito per i familiari di quelle 81 vittime che devono ancora avere giustizia. Ma forse sono un tempo sufficientemente congruo perché la verità storica affiori su quella giudiziaria e sopra la montagna di carte processuali (più di tre milioni) che almeno una cosa, incontrovertibilmente, la raccontano. C’erano almeno sei caccia che prima, durante e dopo l’esplosione volavano in prossimità del DC9 Itavia, tutti con il transponder spento (per impedire ai radar di essere identificati). E che dunque l’aereo di linea si trovò nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Lo dice una commissione di tecnici della Nato, di cui faceva parte anche un alto ufficiale della nostra Aeronautica. Sono stati loro, chiamati nel 1999 a rispondere ad una rogatoria formale (con l’assenso di tutti i paesi membri dell’Alleanza, nessuno escluso) che, sulla base dei dati radar decodificati grazie ai manuali del sistema integrato di difesa aerea, hanno certificato lo scenario di guerra non dichiarata che qualcuno si ostina ancora a ignorare. Ciò che quella perizia afferma è semplice e agghiacciante.

Primo. Il DC9 fu «agganciato» da uno o due aerei non identificati dopo il decollo da Bologna e prima di sorvolare Firenze. Aerei che per coprirsi sfruttarono il segnale radar del DC9 fino al cielo di Ustica. È molto probabile che si trattasse di caccia libici provenienti da Banja Luka (ex Yugoslavia), dove effettuavano la manutenzione. Nelle carte della sede Sismi di Verona (quelle sfuggite a un incendio che distrusse l’archivio), c’è il riscontro. Con un’informativa che chiarisce come i servizi segreti francesi ci avessero fatto sapere che quel vizietto di consentire ai libici di tornare verso Tripoli sorvolando il Tirreno doveva finire, altrimenti il prossimo l’avrebbero buttato giù. Secondo. Sull’appennino, il DC9 e la sua «coda» furono incrociati da un intercettore F104S da addestramento con a bordo i capitani Ivo Nutarelli e Mario Naldini (morti nel 1988 a Ramstein, durante una tragica esibizione delle Frecce tricolori). L’incrocio deve essere stato talmente ravvicinato e allarmante che, affermano i tecnici dell’Alleanza, prima di atterrare nella base di Grosseto i due ufficiali segnalarono la massima emergenza secondo le procedure previste dalla Nato. Cioè, volando a triangolo sulla pista e «squoccando» per tre volte col microfono senza comunicare via radio.

Terzo. I tabulati radar indicano che mentre il DC9 volava verso Ustica, dalla base dell’aeronautica francese di Solenzara (Corsica) e probabilmente da una portaerei sconosciuta (alcune tracce originano dal mare), si alzarono in volo almeno sei caccia le cui traiettorie si riscontrano senza ombra di dubbio in prossimità dell’aereo di linea prima, durante e dopo l’esplosione. A quel punto, erano quasi le nove di sera. Ma sorprendentemente, in 13 risposte alle rogatorie della magistratura italiana, il governo francese ha sostenuto che l’attività della base di Solenzara terminò alle 17,30 nonostante tutti i radar e le testimonianze dirette smentiscano questa versione (una è del generale Nicolò Bozzo, braccio destro di Carlo Alberto Dalla Chiesa all’antiterrorismo, che si trovava proprio a Solenzara in vacanza). A Solenzara si decollò e atterro fino alle 22,30.

L’inchiesta della magistratura per accertare le cause della strage non si è mai interrotta, nemmeno dopo la sentenza ordinanza del giudice Rosario Priore che rinviò a giudizio per depistaggio e con l’aggravante dell’alto tradimento i quattro generali al vertice dell’Aeronautica nel 1980 (assolti dalla Cassazione). E in questi giorni la Procura della Repubblica di Roma è in attesa che dalla Nato arrivi un supplemento di perizia che potrebbe portare all’identificazione di due o forse tre di quei caccia fantasma che erano in volo quella sera. Se così fosse, la verità su Ustica sarebbe davvero a portata di mano. Ed è per arrivare a questo risultato che da più di un anno, con discrezione estrema, attivando tutti i canali diplomatici e giuridici a sostegno dei magistrati romani, sta lavorando il capo dello Stato.

Giorgio Napolitano è abituato a misurare le virgole e a pesare le parole, dunque non è un caso che poco più di un mese fa abbia parlato di Ustica affermando che questa strage è segnata da «intrighi internazionali che non possiamo oggi non richiamare, insieme con opacità di comportamenti da parte di corpi dello Stato, ad inefficienze di apparati e di interventi deputati all’accertamento della verità». Ma il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga, che nel 1980 guidava il governo, da un paio d’anni è andato ben oltre, dichiarando apertamente (e a verbale) di aver saputo già all’epoca che ad abbattere per errore il DC9 in un’azione di guerra contro aerei militari libici fu un caccia francese. E che il pilota di quel caccia, una volta rientrato alla base e scoperto cosa aveva fatto, si sarebbe suicidato.

Qualche giorno fa il portavoce del Quai d’Orsay ha affermato che Parigi è pronta a collaborare con le autorità italiane. E siccome il governo francese non può non sapere che la Nato sta per rispondere alla rogatoria italiana (deve dare il proprio benestare) i segnali suggeriscono un cauto ottimismo. Gli unici immobili nel tempo sono i sostenitori della tesi della bomba. Dimenticano (o faticano ad accettare) che l’aereo aveva due ore di ritardo, che il volo era di cinquanta minuti e che non esiste nessuna bomba al mondo piazzata nella toilette che può disintegrare un aereo lasciando intatta la tavoletta del water. Ma anche il racconto di Cossiga ha faticato ventotto anni ad uscir fuori. Io lo ascoltai da altre fonti un paio di settimane dopo la strage. Il Corriere della Sera fece l’ipotesi del missile il giorno dopo. Il resto sta ancora sotto il coperchio della ragion di stato. E certo nei fondi di quel caffè che Gheddafi sorseggia, tranquillo, in una piazza di Roma.

Andrea Purgatori - Corriere della Sera

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01/07/2010 15:22
 
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di questa storia sappiamo tutti tutto. da tempo.
fa un pò ridere leggere tra le righe (e nemmeno tanto tra le righe) l'elogio a napolitano e cossiga.. [SM=g27992]


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05/07/2010 08:39
 
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moi aussi j'appelle ma voiture par un surnom très gaga ;-)

L'INCHIESTA

Il Belpaese della disuguaglianza metà ricchezza al 10% degli italiani

La crisi ha aumentato le distanze sociali. Classe media frantumata. Peggio di noi fra le nazioni sviluppate solo Messico, Turchia, Portogallo, Usa e Polonia

di ROBERTO MANIA

ROMA - Don Paolo Gessaga la spiega così, quasi con uno slogan pubblicitario: "La povertà non è più "senza fissa dimora"". La povertà è accanto a noi. Diffusa e afona, al pari della diseguaglianza. "È meno apparente, ma è più profonda", aggiunge il sacerdote che ha fondato la catena degli empori della Caritas. Dalla sua parrocchia di San Benedetto in via del Gazometro a Roma, nel quartiere popolare Ostiense, questo cinquantenne arrivato dal varesotto, vede, e tocca, da vicino le nuove povertà e le nuove diseguaglianze, coda velenosa della Terza Depressione mondiale come l'ha chiamata il premio Nobel per l'economia Paul Krugman. La crisi ha accentuato le diseguaglianze e frantumato anche la middle class italiana. Siamo diventati tutti americani. E l'Italia, in termini di reddito, è un paese sempre più diseguale: ricchi e poveri, giovani e anziani, uomini e donne, nord e sud. L'eguaglianza non c'è più, né si ricerca, e le distanze si allargano. Lo dice Don Paolo, lo certificano l'Ocse e la Banca d'Italia. Peggio di noi, tra le nazioni cosiddette sviluppate, solo il Messico, la Turchia, il Portogallo, gli Stati Uniti e la Polonia.

E forse non è neanche più un caso che l'indice per misurare il tasso di diseguaglianza nella distribuzione del reddito sia stato definito nel secolo passato da uno statistico-economista italiano: Corrado Gini. Forse era già quello un segno premonitore. Ecco, il "coefficiente Gini" ci dice quanto siamo peggiorati. E peggioreremo ancora se è vero che la discesa ha subito un'accelerazione con la recessione precedente, quella dei primi anni Novanta. Meno profonda di questa e più celere nell'abbandonarci, però. "L'esperienza del 1992-93 quando l'economia italiana attraversò una fase severamente negativa, suggerisce che a una crisi economica può seguire un persistente aggravamento della diseguaglianza", ha scritto l'economista della Sapienza di Roma Maurizio Franzini, nel suo recente libro "Ricchi e poveri" (Università Bocconi editore). Basterà aspettare i prossimi mesi.
Più basso è l'indice Gini più eguale è la società. Il nostro indice Gini arriva a 35. In Polonia è 37, negli Stati Uniti 38, in Portogallo 42, in Turchia 43 e in Messico 47. La Francia ha un coefficiente del 28 per cento e la Germania, nonostante gli effetti della riunificazione est-ovest, è al 30. In alto i paesi dell'uguaglianza, l'Europa del nord: la Danimarca e la Svezia con un coefficiente Gini del 23 per cento.

C'è anche un altro modo per misurare la diseguaglianza, dividendo la popolazione in decili: il 10 per cento più ricco e il 10 per cento più povero per poi calcolare quante volte il reddito del primo gruppo supera il secondo. Anche qui siamo messi male, malissimo: gli italiani più ricchi hanno un reddito superiore di dodici volte quello dei più poveri. Certo, in Messico questo rapporto sale a 45, ma nella vecchia Europa ci supera solo la Gran Bretagna con un rapporto che sfiora il 14, mentre la Germania è al 6,9, la Spagna al 10,3, la Svezia al 6,2. Conclusione di una ricerca dell'Ires appena uscita ("Un paese da scongelare", di Aldo Eduardo Carra e Carlo Putignano, edito da Ediesse): "In Italia i ricchi sono più ricchi, il ceto medio è più povero e i poveri sono molto più poveri". E così, in un decennio le diseguaglianze si sono accresciute di oltre cinque punti. Il coefficiente Gini era 29 nel 1991, poi è salito al 34 nel 1993. E ora - si è visto - è al 35. Ma nulla fa pensare che si fermi lì. Anzi: tutto fa pensare il contrario. Altri paesi - la Spagna, per esempio - si sono mossi in direzione esattamente opposta.

La ricchezza è saldamente nelle mani di pochi e lì ci rimane, impedendo la mobilità sociale, condizionando le carriere, costruendo pezzo per pezzo una parte della nostra gerontocrazia. Secondo l'ultimo dato della Banca d'Italia contenuto nella periodica indagine su "I bilanci delle famiglie italiane", il 10 per cento delle famiglie più ricche possiede quasi il 45 per cento dell'intera ricchezza netta delle famiglie. Un livello rimasto sostanzialmente invariato negli ultimi quindici anni. Partecipiamo non sempre consapevolmente a un processo di divaricazione che spinge la classe media verso il basso, i super-ricchi verso l'alto e affonda i più poveri. "Che oggi sono anche in giacca e cravatta, basta guardare come sono cambiate le persone che almeno una volta al giorno vengono a mangiare alla Caritas", racconta Don Paolo da quello che è un osservatorio strategico anche perché Roma è fondamentale nell'attribuire al Lazio il primato negativo della regione più diseguale d'Italia con il 33,9 di coefficiente Gini. Pesano, nella Capitale, ma non solo qui, il caro-casa e la precarietà del lavoro. In alto, la regione italiana dell'eguaglianza è il Friuli Venezia Giulia, regione a statuto speciale, laboriosa e dal benessere diffuso. L'eguaglianza è anche questo.

E, probabilmente, è anche uno dei fattori che porta la provincia di Trieste a un triplo primato: l'età media più elevata tra le province del nord-est, la più alta percentuale di anziani oltre il 65 anni (30,2 per cento), e l'incidenza più elevata di residenti con 80 anni e più (11,2 per cento). Anche nel 2028 - secondo la Fondazione Nord-Est - Trieste manterrà i primati. Perché l'eguaglianza - è la tesi originale che Richard Wilkison e Kate Pickett illustrano nel loro "La misura dell'anima" (Feltrinelli) - migliora "il benessere psicologico di tutti noi". Di più, secondo i due studiosi: "Tanto la società malata quanto l'economia malata hanno le proprie origini nell'aumento della diseguaglianza". E infatti due economisti come Jean-Paul Fitoussi e Joseph Stiglitz pensano che all'origine della grande crisi provocata dai mutui subprime ci sia proprio l'aumento delle diseguaglianza che, ad un certo punto, ha fatto implodere il sistema finanziario.

Di certo tra i frutti di questa "economia malata" ci sono i working poor, i lavoratori poveri, più tute blu che colletti bianchi, ma ci sono anche - lo abbiamo visto - gli impiegati, la classe di mezzo. Un fenomeno che in Italia non avevano ancora conosciuto in queste dimensioni ma che è anch'esso conseguenza di una diseguaglianza crescente. Tra gli operai i "poveri" sono il 14,5 per cento. Percentuale che si impenna fino a sfiorare il 29 per cento nelle regioni meridionali. Il "caso Pomigliano" ha fatto riscoprire la classe operaia e anche la distanza abissale di reddito tra l'amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, e i suoi turnisti: il primo guadagna 435 volte di più dei secondi.

Nemmeno la recessione è stata, ed è, uguale per tutti. I giovani stanno pagando più caro. È l'Istat che lo certifica nel suo Rapporto annuale: "La crisi ha determinato nel 2009 una significativa flessione dei giovani occupati (300 mila in meno rispetto all'anno precedente), i quali hanno contribuito per il 79 per cento al calo complessivo dell'occupazione". Un giovane su tre è senza lavoro. Un giovane - ricordano Tito Boeri e Vincenzo Galasso nel loro "Contro i giovani" (Mondadori) - guadagna il 35 per cento in meno di chi ha tra i 31 e i 60 anni (era il 20 per cento negli anni Ottanta). Ecco: così, partendo dal basso, si costruisce un paese diseguale.

http://www.repubblica.it/economia/2010/07/05/news/inchiesta_redditi-5392064/

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Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better.
(Samuel Beckett, Worstward Ho)
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Cinquant'anni fa i morti di Reggio Emilia

Oggi i familiari chiedono la revisione del processo


Stampa.it -Quella del 1960 fu un’estate di fuoco e di piombo. Era in carica il governo Tambroni sostenuto dal Movimento sociale e nelle piazze italiane scoppiava la protesta: il 30 giugno c’era stata la rivolta di Genova contro l’annunciato congresso del Msi, il 5 luglio a Licata la polizia aveva sparato uccidendo una persona e ferendone altre ventiquattro, il 6 luglio a Roma le forze dell’ordine avevano caricato un corteo antifascista con la cavalleria. Il 7 luglio a Reggio Emilia l’episodio più tragico: la manifestazione indetta dal sindacato viene repressa nel sangue dal reparto celere, sul selciato della piazza principale restano i cadaveri di cinque operai. Lauro Farioli aveva 22 anni, Ovidio Franchi 19, Marino Serri 41, Afro Tondelli 36 ed Emilio Reverberi 39. Oggi i familiari chiedono la revisione del processo che si era chiuso nel 1964 davanti alla corte d’assise d’appello di Milano con l’assoluzione con formula piena del vicequestore Giulio Cafari Panico e dell’agente Orlando Celani (per insufficienza di prove), accusato di aver sparato ad Afro Tondelli. Ad appoggiarli ci sono la Cgil di Reggio, l’Anpi e, per l’assistenza legale, l’avvocato Ernesto D’Andrea. La sera del 6 luglio 1960, la Cgil reggiana proclama uno sciopero cittadino per protestare contro le violenze del governo Tambroni. La prefettura della città emiliana però nega l’autorizzazione alla manifestazione pubblica, vietando gli assembramenti in piazza e concedendo solo lo spazio chiuso della Sala Verdi, capienza solo 600 posti.

L’indomani invece sono migliaia le persone che vogliono assistere al comizio del segretario della Camera del lavoro Franco Iotti, così un gruppo di circa 300 operai delle Officine meccaniche reggiane decide di riunirsi davanti al monumento ai caduti. Alle 16,45 cominciano le cariche del reparto celere, con le camionette lanciate contro i manifestanti, i lacrimogeni e i getti degli idranti. Di fronte alla resistenza degli operai, alle sassate e ai tavolini dei bar scagliati contro di loro, i poliziotti imbracciano le armi da fuoco e sparano. Il primo a cadere è Lauro Farioli, colpito al petto da una raffica di mitra. Poi è la volta di Marino Serri, ex partigiano, raggiunto dalle pallottole mentre cerca di aiutare il ragazzo. Ovidio Franchi, la vittima più giovane, si prende un proiettile all’addome mentre cerca di spostare una staccionata per far passare un’ambulanza. Emilio Reverberi, ex partigiano, viene falciato da una raffica di mitra quando si affaccia su piazza Cavour (oggi piazza Martiri del 7 luglio) da una strada laterale, Afro Tondelli, anche lui un passato nelle formazioni partigiane, viene ucciso da un poliziotto che viene visto da testimoni mentre estrae la pistola, si inginocchia, prende la mira e fa fuoco.
Nel cinquantennale della giornata più drammatica dell’estate 1960, Istoreco (Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea di Reggio Emilia), Cgil e Comune hanno organizzato una serie di commemorazioni, convegni di approfondimento e mostre dedicati all’episodio che ispirò anche una famosa canzone di lotta, “Per i morti di Reggio Emilia”, scritta da Fausto Omodei.

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08/07/2010 16:56
 
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Flavio Carboni e i misteri italiani


Il suo nome rientra nelle inchieste più scottanti degli ultimin trent'anni, dall'assassinio di Roberto di Roberto Calvi al sequestro Moro alla scomparsa di Emanuela Orlandi. Con una sola condanna per il crack del Banco Ambrosiano





Repubblica- ROMA - Flavio Carboni, arrestato nell'ambito dell'inchiesta 1 sull'eolico in Sardegna, sembra il comune denominatore di quasi tutti i grandi misteri italiani degli ultimi trent'anni. Il passepartout con cui aprire e addentrarsi in qualsiasi dossier, dalla banda della Magliana all'omicidio di Roberto Calvi, al sequestro Moro, ai piani sovversivi di Licio Gelli, al caso Orlandi. E alla fine ritrovarsi ancora con quella chiave in mano, lucida e pronta a un nuovo utilizzo.

Perché ad oggi, Flavio Carboni è stato riconosciuto colpevole solo una volta: 8 anni e sei mesi di reclusione per il fallimento del Banco Ambrosiano, insieme a Umberto Ortolani e Gelli, ai quali sono stati inflitti 12 anni, e a Francesco Pazienza, condannato a otto anni. Poi, una collezione di assoluzioni. Dall'accusa di concorso nell'omicidio del banchiere Calvi, ritrovato il 17 giugno 1982 impiccato a Londra sotto Blackfriars Bridge, il ponte dei frati neri, nella messinscena di un suicidio. Per Carboni il pm aveva chiesto l'ergastolo.

Assolto dall'accusa della ricettazione della borsa di Calvi con tutto il suo compromettente contenuto: Carboni era accusato di aver venduto il materiale a monsignor Pavel Hnilicaad, alto prelato dello Ior, che dichiarò di voler proteggere il buon nome della Chiesa e di Papa Giovanni Paolo II. Assolto dall'accusa di essere stato il mandante del tentativo di omicidio di Roberto Rosone, il vice di Calvi all'Ambrosiano. E ancora, assolto dall'imputazione per falso e truffa ai danni del Banco di Napoli.

Carboni crocevia di trattative segrete e inconfessabili, Carboni mediatore tra i poteri occulti, referente per politici, imprenditori e criminali per qualsiasi "faccenda". Un ruolo che Carboni si guadagna con la potenza del denaro e i tanti modi in cui lo si può utilizzare. L'improvviso successo economico di Carboni comincia negli anni '70, con una serie di società immobiliari e finanziarie. In quegli anni si muove anche nel mondo dell'editoria: proprietario del 35% del pacchetto azionario della "Nuova Sardegna" ed editore di "Tuttoquotidiano", per il fallimento del quale era stato condannato in primo grado e assolto in appello per vizio di forma.

Nell'estate del 1982 il primo arresto, in Svizzera. Da quel momento inizia per Flavio Carboni la lunga e assidua frequentazione di inchieste e tribunali. Provato il suo stretto legame con esponenti della banda della Magliana e della mafia. Banda della Magliana implicata a sua volta nell'assassinio di Roberto Calvi. Carboni è chiamato in causa, ma assolto, oltre che per l'omicidio, anche per la falsificazione del passaporto e l'espatrio clandestino del banchiere e per concorso in esportazione di capitali.

Nel 1978, durante il sequestro di Aldo Moro, Carboni avvicinò esponenti Dc offrendosi di sollecitare l'intervento della mafia per la liberazione del presidente della Democrazia Cristiana. Qualche giorno dopo Carboni riferì che la mafia non voleva aiutare Moro perché troppo legato ai comunisti.
Il nome di Carboni compare anche nel falso dossier di Demarcus pubblicato sull'Avanti, per il quale recentemente è stato indagato anche Cesare Previti. Il documento sosteneva un legame tra Stefania Ariosto, implacabile accusatrice di Previti, e i servizi segreti. Tra le pieghe spuntava anche un incontro tra la Ariosto e Carboni.
Infine, il nome di Flavio Carboni entra anche nell'inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi e solo il 4 febbraio scorso si registra la sua testimonianza sul caso in procura a Roma. I magistrati gli hanno chiesto se fosse a conoscenza di particolari sulla vicenda, soprattutto alla luce dei rapporti che Carboni ha avuto con esponenti del Vaticano e, nell'ambito della sua attività di uomo d'affari, con soggetti legati in qualche modo alla Banda della Magliana. Rapporti con il gruppo criminale capitolino che Carboni ha sempre negato, affermando che si trattava di rapporti con persone di cui ignorava l'appartenenza alla banda.

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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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19/07/2010 10:25
 
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Addio alla vedova di Aldo Moro
Non perdonò mai la Dc - La signora Eleonora si è spenta a 94 anni




Corriere.it- ROMA — La vedova di Aldo Moro, Eleonora Chiavarelli, è morta a Roma. Aveva 94 anni. A lei il presidente della Democrazia cristiana indirizzò alcune delle 86 lettere inviate dal carcere delle Brigate rosse. In una scriveva: «Ti abbraccio forte, Noretta mia, morirei felice se avessi il segno della vostra presenza, sono certo che esiste, ma come sarebbe bello vederla». Le Brigate rosse non consegnarono questa lettera che venne ritrovata solo anni dopo che Moro era stato ucciso.
Nessuno conosceva la signora Noretta Moro fino al giorno in cui suo marito venne sequestrato dai terroristi il 16 marzo 1978. Subito dopo l’agguato che provocò l’uccisione degli uomini della scorta, balzò in primo piano questa donna riservata, decisa, che per salvare la vita del marito cominciò a bussare a tutte le porte, senza mai arrendersi. La sua composta fermezza convinse perfino il pontefice Paolo VI a compiere un gesto clamoroso. Dal Vaticano il papa scrisse una lettera toccante «agli uomini delle Brigate rosse». Uno spiraglio di speranza la signora Moro credette di trovarlo nella posizione del leader socialista Bettino Craxi, che voleva rompere il fronte della fermezza e percorrere una via della trattativa. Quando però il 9 maggio del 1978, dopo 55 giorni di prigionia, Aldo Moro fu trovato cadavere in via Caetani, la signora Moro cominciò a rovesciare tutto il suo livore e il suo astio contro quelli che, secondo lei, non avevano permesso al marito di tornare vivo.
Ce l’aveva soprattutto con il segretario della Dc Benigno Zaccagnini, che fu devastato dalla tragedia dell’uomo al quale lui era politicamente legato. «Il mio sangue— aveva scritto Moro ai capi della Dc — ricadrà su di voi». Durante i processi alle Brigate rosse, la signora Moro ha ripercorso varie volte la tragedia di quei giorni raccontando che suo marito aveva a volte percepito minacce e pericoli per la sua vita. In particolare una volta, dopo un incontro con il segretario di Stato americano Henry Kissinger, il presidente della Democrazia cristiana si era sentito male e venne soccorso dal suo medico personale. Ciò fu dovuto, secondo la vedova, al fatto che Kissinger lo aveva minacciato, dicendogli in modo molto rude che gli Stati Uniti non gradivano affatto la sua politica di apertura verso i comunisti. «Provo a ricordare le esatte parole che mio marito mi riferì— disse la signora Eleonora ai giudici —. Disse che Kissinger lo aveva ammonito pesantemente: o lei la smette di corteggiare i comunisti o la pagherà cara».
Questa ricostruzione è stata però sempre smentita dall’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga e da Giulio Andreotti. Cossiga ha spiegato che Kissinger era semplicemente stupito dal modo in cui parlava Moro, molto involuto, e non riusciva a capirlo. Uno dei misteri che ancora avvolgono il caso Moro è stato prospettato proprio dalla vedova, quando ha raccontato che suo marito portava sempre con sé 5 borse, mai ritrovate. Chi le ha prese?
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Re: "Così venne ucciso Pasolini"
faberhood, 05/05/2010 15.06:

IL CASO

La verità del docufilm di Martone
Sergio Citti riporta la testimonianza di un pescatore che abitava in una delle casette che circondano l'area dell'idroscalo, e che avrebbe assistito all'assassinio dello scrittore. Un documento che ora fa parte del fascicolo per la nuova inchiesta sull'omicidio del '75
di LAURA LARCAN

TRENTA minuti di verità sconosciuta e scomoda, raccontata con la voce affaticata dalla malattia. Sergio Citti commenta le immagini mute del video che girò all'idroscalo di Ostia subito dopo l'omicidio di Pier Paolo Pasolini avvenuto il 2 novembre del 1975, mentre sullo sfondo il fratello Franco allettato lo guarda. E' il "film nel film" che Mario Martone ha girato nel 2005 1, in collaborazione con l'avvocato Guido Calvi e l'allora assessore capitolino alla Cultura Gianni Borgna, poco prima della morte di Sergio Citti e che è stato depositato una settimana fa al pm Francesco Minisci per la riapertura dell'inchiesta sull'uccisione dello scrittore e regista. Il documento, che è stato illustrato oggi alla casa del Cinema di Roma dal senatore Calvi incaricato dal Comune di Roma che nel 2005 (a trent'anni dalla morte) si costituiva parte civile nell'indagine, rimette in discussione le "verità" di Pino Pelosi (l'unico accusato ufficialmente della morte di Pasolini) rivelandone tutte le incongruenze "incontrovertibili", come ci tiene a sottolineare anche lo stesso Martone.

La novità sta nel fatto che Citti riporta la testimonianza di un pescatore che abitava in una delle casette che circondano l'area dell'idroscalo, e che avrebbe assistito all'assassinio. "Il pescatore mi aveva raccontato cosa aveva visto quella notte ma non voleva essere ripreso perché aveva paura", dice Citti. "Aveva visto entrare due macchine nell'area, e non una sola. E diverse persone. Pasolini fu preso e tirato fuori da almeno quattro, che l'hanno portato contro una rete e cominciato a picchiare". I passaggi più intensi sono poi quelli che documentano la fine quando il pescatore diceva di sentire Pasolini urlare. Sembrerebbe che ad un certo punto Pasolini avesse fatto finta di essere "finito", e allontanatisi quegli uomini, s'era tolto la camicia insanguinata e s'era asciugato, ma che poi una macchina era tornata coi fari accesi, e quegli uomini lo avrebbero inseguito a piedi. Citti ricorda che il pescatore aveva detto di aver visto "sto poveretto alzarsi e scappare, ma poi di non averlo più visto".

E insiste Sergio Citti nella ricostruzione delle manovre della macchina, "assurde e strane" in considerazione delle possibili vie d'uscita dall'area, e quindi evidentemente finalizzare a investire il corpo di Pasolini. "Non credo sia stata la macchina di Pasolini ad investirlo - ribadisce Citti - ma l'altra, la seconda". E proprio su questa macchina entra in scena anche il contributo della testimonianza di Silvio Parrello, 67 anni, uno dei "ragazzi di vita", l'unico intellettuale del gruppo, come si definisce, perche oggi è poeta e pittore, che con un'indagine personale "per affetto e riconoscenza verso la madre di Pasolini, donna che ha sofferto tanto", avrebbe individuato i nomi di alcuni "ignoti": il carrozziere che riparò e ripulì da sangue e fango la macchina che materialmente uccise lo scrittore, e la persona che quella notte gliela portò.

"I nomi li so e l'ho fatti un mese fa al giudice - dice Silvio - Come l'ho scoperto? È' una lunga storia. La seconda macchina, non quella di Pasolini, fu portata quella notte prima ad un carrozziere sulla Portuense che si rifiutò di pulirla e sistemarla, poi ad un secondo che la prese in custodia. Poi, stranamente, il 16 febbraio del '76 a processo iniziato, quella stessa persona che aveva portato la macchina, scomparve. Quattro anni dopo però il suo nome ricompare perché fermato con patente scaduta. Ma il suo caso risultava top secret".

Racconta, nel dettaglio, Parrello, che nel frattempo si era fatto vivo un figlio di quest'uomo, nato da una relazione extraconiugale, sconosciuto anche dai più intimi familiari, chevoleva conoscere il padre. E nella ricerca s'era fatto aiutare da un amico che lavorava alla Digos, che ha scoperto quanto fosse "top secret" la sua posizione. "Quindi non ci vuole una laurea per capire che è un protetto". "Questo Stato ha un grande debito nei confronti dell'indagine - dice Guido Calvi - La morte di Pasolini fu chiusa subito dopo l'arresto di Pelosi, e non fu fatto più nulla con la cancellazione di elementi fondamentali. Stavolta qualche speranza in più la nutro. Anche perché c'è tutta la vicenda strana di Petrolio innescata dalle dichiarazioni di Dell'Utri, che ha dato materia per riaprire l'istruttoria".

Sul fronte del Comune di Roma, l'assessore alla Cultura Umberto Croppi conferma l'impegno a "spingere la nuova amministrazione a continuare a sentirsi parte offesa riguardo ad un possibile omicidio", anche perché , "l'ipotesi politica che verrebbe confortata dal capitolo inedito e scomparso di Petrolio evoca uno scenario inquietante sull'epoca, alludendo a connivenze che hanno forse ancora vitalità oggi se non siamo riusciti a scioglierle in trent'anni". Colpo di scena, Dino Pedriali il fotografo di Pasolini dichiara oggi di aver visto "con i suoi occhi" gli scritti di Petrolio e che lo stesso Pasolini gli aveva confidato di aver scritto seicento cartelle del finale.

(04 maggio 2010)




Pino "La Rana" ai domiciliari
rischia l'accusa di omicidio


E' morto ieri pomeriggio l'amico di Pino Pelosi, già condannato per l'omicidio di Pier Paolo Pasolini. Olimpo Marocchi, rimasto ferito nell'incidente provocato sulla Roma-Fiumicino, è morto ieri. Pelosi deve rispondere di guida in stato di ebbrezza, omissione di soccorso e lesioni gravissime ma ora la sua posizione potrebbe aggravarsi

Rischia l'accusa di omicidio colposo, Pino "La Rana", già condannato per l'omicidio di Pier Paolo Pasolini, che due giorni fa ha provocato l'incidente costato la vita all'amico che era con lui in auto. Non ce l'ha fatta Olimpio Marocchi, di 38 anni, morto ieri pomeriggio dopo 24 ore di agonia: l'uomo aveva numerosi precedenti penali per rapina a mano armata e reati contro il patrimonio.

Pelosi, dopo che la sua Renault Clio era finita contro il guard rail, si era allontanato a piedi, probabilmente in un tentativo di fuga, rifugiandosi nel vicino centro commerciale 'Parco Leonardo', dove poco dopo è stato fermato e arrestato dalla polizia stradale. L'auto di Pelosi viaggiava ad alta velocità in direzione Roma e potrebbe aver ingaggiato una corsa con un'altra auto. Alcuni automobilisti hanno notato invece i due mentre si picchiavano in auto. La vettura ha iniziato a sbandare da una parte all'altra della strada, hanno riferito, e alla fine si è ribaltata addosso al guard rail. Completamente ubriaco (secondo quanto riferito dalla polizia) e tutto insanguinato Pelosi era poi riuscito ad uscire dalla sua Renault Clio, a scavalcare il guard rail e a correre verso la campagna.

Tra i reati contestati a Pelosi, guida in stato di ebbrezza, omissione di soccorso e lesioni gravissime. Ma ora per Pelosi si profila l'accusa di omicidio colposo.

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26/07/2010 09:23
 
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I procuratori tedeschi hanno aperto un'indagine sulla ressa che sabato scorso ha ucciso 19 persone e ne ha ferite 342 alla Love Parade, festival di musica techno a Duisburg.


"I magistrati di Duisburg stanno indagando per omicidio colposo", ha detto il procuratore Rolf Haferkamp a Reuters per telefono, aggiungendo che l'inchiesta è contro ignoti.
Sei stranieri, tra cui un'italiana e altri provenienti di Spagna, Bosnia, Olanda, Australia e Cina sono morti nella calca sabato scorso, quando orde di giovani si sono spinti in un tunnel che portava alla festa.
Le autorità ieri non sono state in grado di spiegare la dinamica della tragedia, avvenuta nella galleria che porta a una rampa verso il piazzale del festival, precisano che i morti -- tutti tra i 20 e i 40 anni -- sono stati trovati sulla rampa e nessuno nel tunnel.
"Si deve rispondere alla domanda 'Perché è successo?'", ha detto ieri ad una conferenza stampa il sindaco di Duisburg Adolf Sauerland. "Ma non si dovrebbero dare giudizi affrettati".
La tragedia ha scosso un paese che normalmente è ben organizzato per i grandi eventi.
"Ci deve essere un esame molto intenso per capire come questo è successo", ha detto la cancelliera Angela Merkel in una nota diffusa da Bayreuth, in Baviera.
"Dobbiamo fare di tutto per evitare che riaccada", ha aggiunto.
L'organizzatore della Love Parade Rainer Schaller ha detto che non ci saranno altri festival del genere.

CAUSE NON CHIARE

La polizia inizialmente ha detto che il sovraffollamento ha provocato la ressa.
Il capo del sindacato della polizia tedesca, Rainer Wendt, ha spiegato che Duisburg era il posto sbagliato per questo tipo di evento, nato a Berlino nel 1989.
"Duisburg era una location una location totalmente inappropriata per un evento come questo", ha detto a Reuters.
Il capo della polizia di Duisburg Detlef von Schmeling ha spiega che comunque la polizia aveva approntato dei punti per controllare l'afflusso delle persone e che c'era spazio per muoversi quando è avvenuta la tragedia.
"Non posso confermare che ci fosse una massiccia pressione nel tunnel", ha detto Von Schmeling, aggiungendo di non ritenere che la calca sia stata causata dal panico, ma precisando che il giudizio definitivo arriverà dai magistrati al termine dell'inchiesta.
I procuratori hanno detto che esamineranno i piani per la sicurezza degli organizzatori
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Re: Re: "Così venne ucciso Pasolini"
Sound72, 22/07/2010 14.14:




Pino "La Rana" ai domiciliari
rischia l'accusa di omicidio


E' morto ieri pomeriggio l'amico di Pino Pelosi, già condannato per l'omicidio di Pier Paolo Pasolini. Olimpo Marocchi, rimasto ferito nell'incidente provocato sulla Roma-Fiumicino, è morto ieri. Pelosi deve rispondere di guida in stato di ebbrezza, omissione di soccorso e lesioni gravissime ma ora la sua posizione potrebbe aggravarsi

Rischia l'accusa di omicidio colposo, Pino "La Rana", già condannato per l'omicidio di Pier Paolo Pasolini, che due giorni fa ha provocato l'incidente costato la vita all'amico che era con lui in auto. Non ce l'ha fatta Olimpio Marocchi, di 38 anni, morto ieri pomeriggio dopo 24 ore di agonia: l'uomo aveva numerosi precedenti penali per rapina a mano armata e reati contro il patrimonio.

Pelosi, dopo che la sua Renault Clio era finita contro il guard rail, si era allontanato a piedi, probabilmente in un tentativo di fuga, rifugiandosi nel vicino centro commerciale 'Parco Leonardo', dove poco dopo è stato fermato e arrestato dalla polizia stradale. L'auto di Pelosi viaggiava ad alta velocità in direzione Roma e potrebbe aver ingaggiato una corsa con un'altra auto. Alcuni automobilisti hanno notato invece i due mentre si picchiavano in auto. La vettura ha iniziato a sbandare da una parte all'altra della strada, hanno riferito, e alla fine si è ribaltata addosso al guard rail. Completamente ubriaco (secondo quanto riferito dalla polizia) e tutto insanguinato Pelosi era poi riuscito ad uscire dalla sua Renault Clio, a scavalcare il guard rail e a correre verso la campagna.

Tra i reati contestati a Pelosi, guida in stato di ebbrezza, omissione di soccorso e lesioni gravissime. Ma ora per Pelosi si profila l'accusa di omicidio colposo.

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'azzo.. ve giuro che io ero stra-sicuro che "pino la rana" non era più tra noi già da un bel pezzo...
[SM=g27994]
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certa gente dovrebbe stare in carcere per sempre.Pericoli pubblici.
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Cambogia, ex leader Khmer rossi
condannato a 35 anni


Kaing Guek Eav è il boia di Pol Pot, l'ex direttore del centro di detenzione S-21 dove in 15mila vennero arrestati, torturati e poi uccisi



PHNOM PENH (26 luglio) - Kaing Guek Eav, alias Duch, ex direttore del centro di detenzione S-21 dove oltre quindicimila persone vennero arrestate, torturate e poi uccise nei “killing fields”, è colpevole di crimini contro l'umanità e per questo condannato a 35 anni di carcere dall'Extraordinary Chambers in the Courts of Cambodia (Eccc).

Sentenza dopo 31 anni da caduta regime. La sentenza del tribunale istituto con il sostegno dell'Onu e chiamato a giudicare sui crimini commessi dagli ex leader Khmer rossi è arrivata questa mattina, dopo ben 31 anni dalla caduta del regime guidato da “Pol Pot”, morto nel 1998. Duch, 67 anni, aveva fatto le sue ammissioni di colpa già durante le udienze che si erano tenute nel giugno dello scorso anno.«Non mi sento di accusare i miei subordinati. Io sono vergognosamente responsabile», aveva affermato Duch in quell'occasione riferendosi alle immagini dipinte da uno dei sopravvissuti a S-21, il pittore Vann Nath, e che ritraggono i “figli di Angkar” in abito nero mentre scagliano neonati e bambini contro tronchi d'albero.

Già nelle prime udienze di marzo, a un mese dall'inizio del processo, Duch aveva chiesto scusa per gli orribili crimini commessi, pur continuando a negare di aver ricoperto un ruolo centrale tra i quadri di “Kampuchea Democratica”. Dall'inizio di un processo più volte rimandato per mancanza di fondi, Duch ha sempre ammesso di non aver mai ucciso nessuno personalmente e di aver torturato solo due persone, durante la direzione di S-21, ovvero uno dei 196 centri di detenzione creati durante il regime instaurato da Pol Pot tra il 1975 e il 1979.

Per l'ex professore di matematica, i giudici hanno inoltre tenuto conto degli undici anni già trascorsi in carcere e hanno concesso una riduzione di cinque anni rispetto alla richiesta iniziale del pubblico ministero perchè detenuto illegalmente, ovvero senza che gli fosse mai stata formalizzata un'accusa.

Quello di oggi è il primo verdetto dell'Eccc, che dovrà ascoltare ed emettere una sentenza anche nei confronti degli altri quattro imputati nel processo. Si tratta di Khieu Samphan (alias Hem), ex-capo di Stato di Kampuchea Democratica, Ieng Sary, ex-ministro degli Esteri, sua moglie Ieng Thirith (alias Phea), ex ministro degli Affari sociali, e Nuon Chea, considerato il capo ideologico del gruppo: sono accusati di genocidio e crimini contro l'umanità. Accuse che dovranno essere provate nelle udienze che dovrebbero iniziare entro l'anno.

Fu nel 1997, un anno prima della morte di Pol Pot, che l'Onu diede inizio ai negoziati con la Cambogia, raggiungendo un accordo solo nel 2003 per stabilire un tribunale in grado di processare gli ex-leader dei Khmer rossi. Il budget iniziale per le spese processuali di 56 milioni di dollari è andato progressivamente aumentando, fino a toccare quota 169 milioni.

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02/08/2010 11:49
 
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BOLOGNA - Un silenzio totale accompagna la lettura dei nomi delle 85 vittime. Bologna ricorda la strage di trent'anni fa. Dopo le polemiche per l'assenza dei ministri, è il momento della commemorazione (segui la diretta video| qui la diretta testuale). Il corteo, con lo storico striscione 'Bologna non dimentica', parte da Piazza del Nettuno e - accompagnato dagli applausi dei cittadini durante tutto il tragitto - arriva davanti alla stazione. Qui Rossella Zuffa e Camilla Andreini, due ragazze nate nel 1980, leggono i nomi delle persone che persero la vita nella strage del 2 agosto 1980. Poi la città si ferma per un minuto di silenzio in ricordo delle vittime e dei feriti.

IL MESSAGGIO DI NAPOLITANO - I bolognesi ascoltano, e poi applaudono, anche il messaggio inviato da Giorgio Napolitano a Paolo Bolognesi, presidente dell'Associazione familiari delle vittime. «Sono decorsi trent'anni da quel terribile 2 agosto 1980 - ricorda il Capo dello Stato - quando il devastante attentato alla stazione centrale di Bologna provocò ottantacinque morti e oltre duecento feriti. A essi e ai loro famigliari va il mio pensiero commosso e partecipe. La vita di inermi cittadini fu quel giorno spezzata dalla violenza di ciechi disegni terroristici ed eversivi. La definizione delle loro matrici così come la individuazione dei loro ispiratori hanno dato luogo a una tormentata vicenda di investigazioni e processi non ancora esaurita. La trasmissione della memoria di quel tragico fatto e di tutti quelli che in quegli anni hanno insanguinato l'Italia non costituisce solo un doveroso omaggio alle vittime di allora, ma impegna anche i magistrati e tutte le istituzioni a contribuire con ogni ulteriore possibile sforzo a colmare persistenti lacune e ambiguità sulle trame e le complicità sottese a quel terribile episodio».

LA LETTERA DI FINI - Anche il presidente della Camera, Gianfranco Fini, invia un messaggio all'Associazione tra i familiari delle vittime e al Commissario straordinario di Bologna, Annamaria Cancellieri. «Ritengo che il ricordo di quella tremenda giornata, vivido nelle nostre menti e nei nostri cuori - è uno dei passaggi della lettera - debba contribuire a riaffermare i valori di libertà e di legalità che sono alla base della nostra democrazia, contro ogni forma di fanatismo politico, di odio ideologico e di violenza terroristica». «Il barbaro attentato del 2 agosto 1980 che sconvolse la città di Bologna violando il suo animo generoso, costituisce una delle pagine più terribili della storia del nostro Paese ed uno degli esempi più efferati - rileva Fini - di un disumano disegno destabilizzante, che con la sua criminale azione terroristica si abbattè sull'Italia e su Bologna, producendo tanti lutti e tante indicibili sofferenze». «Formulo l'auspicio - dice ancora Fini - che venga finalmente accertata, in tutti i suoi aspetti, la verità sulla strage, facendo piena luce su una trama terroristica che ha tentato di scardinare il nostro sistema democratico e rendendo un doveroso servigio alla città, agli italiani e al nostro Paese. Rivolgo ai familiari delle vittime, alle autorità e a tutti i presenti alla commemorazione i sentimenti della mia più profonda vicinanza».

BOLOGNESI - Paolo Bolognesi lancia però dal palco un duro atto d'accusa alle istituzioni. «Dopo sei anni» la legge 206/2004 sui parenti delle vittime «è ancora in gran parte inattuata», sostiene, e perciò «la delusione dei familiari delle vittime è grande. Questo dà la misura della mancata doverosa attenzione, nei confronti delle vittime, dei governi che si sono succeduti dal 2004 a oggi. L'assenza del Governo, oggi, ne è la conferma». Bolognesi spiega che «all'inizio di questa legislatura abbiamo avuto le assicurazioni e le promesse del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, del sottosegretario Gianni Letta, del ministro della Giustizia Angelino Alfano, del ministro dell'Interno Maroni, ma nulla è stato fatto». Nel momento in cui Bolognesi legge quest'ultima frase («nulla è stato fatto») dalla piazza si sente qualche fischio. In conclusione del suo discorso, il presidente dell' Associazione ricorda il «triste tentativo di immiserire la manifestazione che è in corso ora» riferito alla commemorazione di quest'anno. «Quasi che molti politici - ha spiegato - si fossero stancati dei cittadini che scendono in piazza per ricordare e pretendere giustizia. Questa manifestazione, la solidarietà e la partecipazione dei cittadini che ogni 2 agosto vogliono farci sentire la loro vicinanza, non è un elemento di disturbo da eliminare, ma un segno di una società civile vitale, che non è disposta a farsi zittire da chi vorrebbe avere a che fare con sudditi e non con cittadini, dotati di senso critico e di volontà di partecipazione alla vita democratica».


Strage Bologna: Di Pietro, sollevare segreto di Stato, emerga verita'Roma, 2 ago. (Adnkronos) - "E' ora di sollevare il segreto di Stato su quello che accadde 30 anni fa a Bologna e sulle altre tragedie che macchiano la nostra memoria collettiva". Lo scrive il presidente dell'Italia dei valori, Antonio Di Pietro, sulla sua pagina facebook.
"Oggi -aggiunge Di Pietro- e' il giorno della memoria e siamo vicini nel ricordo alle famiglie delle vittime". "Ancora non si sa chi furono i colpevoli ne' i mandanti, per questo -conclude il leader Idv- io non dimentico, ma vorrei che la memoria mia e di tutti fosse aiutata dalla verita'".


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04/08/2010 17:29
 
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PIAZZA FONTANA: MORTO VENTURA, PROTAGONISTA EVERSIONE NERA

(ASCA) - Roma, 4 ago - Giovanni Ventura, uno dei protagonisti dell'eversione nera degli anni sessanta e settanta e dei rapporti con i servizi segreti deviati, condannato e poi assolto per la strage di Piazza Fontana, e' morto lunedi' a Buenos Aires, dove viveva da molti anni. La notizia del decesso e' stata confermata oggi dalla sorella, Mariangela Ventura, al Mattino di Padova.

Nato a Piombino Dese nel 1944, Ventura ha militato prima nell'Azione Cattolica e poi nel Movimento Sociale Italiano, partito che abbandono' nel 1966 per entrare a far parte del gruppo neofascista di Ordine Nuovo. Decisivo l'incontro con Franco Freda, con il quale dara' vita ad una piccola casa editrice e ad una libreria a Padova e con il quale condividera' una lunga storia processuale.

Fra la primavera e l'estate del 1969, partecipo' ad una serie di attentati, il primo dei quali il 25 aprile con una bomba nello stand della Fiat alla Fiera campionaria di Milano provocando 6 feriti. L'8 ed il 9 agosto 1969 esplodono 8 ordigni posizionati su diversi treni, provocando 12 feriti.

Le indagini vennero erroneamente indirizzate verso gli ambienti anarchici, fino alla strage del 12 dicembre alla Banca Nazionale dell'Agricoltura a Milano, con 17 morti e oltre cento feriti.

Anche qui la pista anarchica seguita dalla Procura di Milano si rivelo' un abbaglio.

Arrestato nel 1973, Ventura confesso' la responsabilita' in tutti gli attentati tranne quello di Piazza Fontana e i giudici scoprirono il suo ruolo di infiltrato dei servizi segreti all'interno di Ordine Nuovo e i suoi contatti con l'agente del Sid, Guido Giannettini. Condannato a Catanzaro in primo grado all'ergastolo per la strage, fu assolto insieme a Freda in appello per insufficienza di prove e lascio' l'Italia per riparare in Argentina. Solo nel 2005, la Corte di Cassazione ribadi' la responsabilita' di Ordine Nuovo e dei due editori padovani, ma si tratto' di un giudizio puramente morale, visto che gli imputati erano gia' stati assolti irrevocabilmente dalla corte d'assise d'appello di Bari, che li condanno' solo per le bombe sui treni.

Malato di distrofia muscolare, da circa quattro anni era costretto sulla sedia a rotelle. La sorella ha fatto sapere che verra' sepolto nel cimitero cristiano della capitale argentina.


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..scomparso portandosi dietro un bel pò di segreti, oltre alle famose valigie nere.
[Modificato da Sound72 04/08/2010 17:29]
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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