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La rivoluzione di Dogville

Ultimo Aggiornamento: 21/12/2006 19:11
21/12/2006 19:11
 
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La rivoluzione di Dogville
Presentazione del dossier
di M. Komolka

“Dogville”, film inaccettabile, film di grande valore estetico, una critica di destra alla modernità, un esperimento rivoluzionario. Semplicemente noioso, tanto che il critico cinematografico invidia lo spettatore, libero di andarsene, di addormentarsi, di parlottare durante il film. Apprezza la produzione per aver tagliato il film.

Sicuramente Dogville ha diviso gli spettatori; è comunque un film che difficilmente si può considerare godibile, e quindi o lo si ama o lo si odia. Ma allora, l’aver spezzato la forma dell’entertainment non è già un gesto rivoluzionario? In fondo è in nome dell’intrattenimento che vengono giustificate le più palesi menzogne televisive: reality che sono pure finzioni; “fatti di vita vissuta” inventati di sana pianta e raccontati da attori falliti; quiz dove i concorrenti conoscono già le domande. Il tipo dell’attore fallito, frequentatore di ogni sorta di reality, è colui che meglio interpretata lo spettatore; è colui con il quale il pubblico più volentieri si identifica. È in fondo il fallimento stesso che viene rappresentato: la sua normalità è condizione della sua accettabilità nella vita quotidiana.

Qui il reality non va attaccato in quanto finzione. Una simile critica la lasciamo volentieri ai reazionari. Il reality è il termine più appropriato per esprimere la realtà divenuta fantasmagoria. Quegli attori falliti non rappresentano altro che loro stessi: il fallimento. Il quale, d’altra parte, non ha bisogno di essere rappresentato come fallimento, perché già presente nella loro vita reale. Sia quella che credono di recitare sia quella non osservata dalle telecamere. Lo spettatore ha così l’occasione di condividere un’esperienza collettiva del fallimento, e di essere così del tutto normale.
Tutto ciò nel nome dell’intrattenimento. Ai reazionari bigotti che protestano contro l’instupidamento televisivo, si obietta, a ragione, che il pubblico vuole distrarsi. Certo. Ma per poter ritornare al lavoro il giorno dopo… senza ammazzare il capo. Il serial killer è semplicemente colui sul quale l’entertainment non ha fatto abbastanza presa. Perché «se l’umanità fosse capace di un sogno collettivo, sognerebbe Moosbrugger».

Ma è di cinema che stiamo parlando. E allora qual è il rapporto tra Dogville e l’entertainment? Nessun prodotto culturale moderno può essere considerato a prescindere da questo rapporto. La retorica dell’entertainment è la forma del messaggio. La pubblicità è la quintessenza del format televisivo e del film in genere. Karl Kraus colse questo processo già nella stampa, quando andava a leggere gli articoli di giornale nel contesto della pagina, inserendo anche le inserzioni pubblicitarie a lato tra gli elementi di decifrazione. La combinazione di questi elementi corrisponde alle forme pure dell’esperienza kantiana. Non parlano però di alcun “io penso”, ma del tipo di spettatore o lettore prescelto. Non c’è nulla di più ideologico dal pensare che esiste qualcosa come un messaggio, sia esso filosofico, scientifico e di puro intrattenimento, rivolto allo “spettatore indifferenziato”. Questa astrazione esiste solo ideologicamente: fa parte di una retorica per rendere più accettabile un discorso. “Mi rivolgo a tutti i lettori o gli uditori imparziali” significa: sto mentendo!

A chi si rivolge Dogville? Oppure: con chi ci si può identificare vedendo Dogville? Se Dogville riesce a incrinare la meccanica dell’intrattenimento colpendo il principio di identificazione, se riesce a far andar via qualche spettatore che ha pagato il biglietto senza godere della merce acquistata fino in fondo, se riesce a far questo, Dogville non si rivolge agli spettatori imparziali. È infatti difficile trovare qualcuno con il quale identificarsi: non certo con l’illuminista Tom, ma nemmeno con la bella Grace. E se qualcuno ci prova, riceve un cazzotto in pancia nel finale. Un obbligo a ripensare quella identificazione. Non resta quindi che identificarsi con il cane? È forse per questo che prende vita nel finale. Per il resto del film era solo un disegno. È certo un’antropologia profondamente pessimista quella messa in scena da von Trier. Reazionaria, progressista o realista? False questioni. È solo la carica per mettere in moto la rappresentazione, perché in fondo nessuno è cattivo, ma reagisce solo alle tentazioni, come qualsiasi essere umano.

Fonte: www.jgcinema.org
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