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DA UNA PENNA A UNA MATITA: PADELLARO RISPONDE A GIANNELLI

Ultimo Aggiornamento: 07/01/2006 21:07
07/01/2006 21:07
 
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L'UNITA'
7 gennaio 2006
La nostra barca di carta
di Antonio Padellaro

Giovedì, sulla prima pagina del Corriere della sera, è apparsa una vignetta di Giannelli che mostra l’Unità trasformata in una barchetta di carta. La battuta è: «Barche». Evidente il riferimento alla famosa imbarcazione di D’Alema mentre sulle allusioni che ci riguardano le interpretazioni possono essere varie. La più cattiva (e dunque la più probabile) è che secondo il brillante umorista questo giornale è l’ultimo natante rimasto a disposizione di D’Alema e della dirigenza diessina. E che noi remiamo per loro. Non a caso sullo scafo cartaceo si legge il titolo con il quale chiedevamo (e continuiamo a chiedere) chi è che trafuga le intercettazioni dagli armadi degli inquirenti per passarle ai giornali. Ma, evidentemente, interrogarsi sul regista dell’operazione non sta bene.

Anche un giorno di cinque anni fa si parlava di barche e di Unità, ma in tutt’altro contesto. Stavamo, Furio Colombo ed io ad arrovellarci sulla possibilità di far tornare in edicola una gloriosa testata che dopo nove mesi di chiusura veniva considerata dai più morta e sepolta. Erano tempi cupi (più cupi di quelli attuali). Berlusconi si accingeva a stravincere le elezioni e il centrosinistra appariva ormai rassegnato a una disfatta che molti osservatori giudicavano epocale. Dieci anni, almeno, di berlusconismo non ce li avrebbe tolti nessuno. Fu allora che Furio tirò fuori una delle sue immagini migliori: fragile, malandata ma, disse, l’Unità sarà l’ultima barca che abbandona il molo in fiamme. Così decidemmo di salire a bordo.

Da allora, Furio, io, e tutti i colleghi dell’Unità non abbiamo fatto altro che navigare in acque non facili ma sempre con la speranza di tornare un giorno su quel molo finalmente liberato. Per questo scopo abbiamo imbarcato la ciurma più variegata e irrequieta. Firme e personalità provenienti dalle più diverse esperienze giornalistiche e politiche ma tutti indistintamente uniti nell’opposizione al peggior governo che si ricordi. Non è stato facile mettere d’accordo tante voci, non sempre concordi sulle cosi migliori da fare e su come farle. Però le dissonanze non ci hanno mai preoccupato. Anche quando infastidivano i ds o suscitavano nella sinistra ufficiale sciocche campagne contro l’Unità giustizialista, abbiamo invariabilmente adoperato un unico metro di giudizio. La più assoluta libertà di critica purché ci avvicinasse e non ci allontanasse dal traguardo prefissato: cacciare Berlusconi e restituire all’Italia un governo degno di un grande paese.

Ma quando l’approdo era in vista ecco che scoppia bancopoli, con tutte le conseguenze che sappiamo. Pure in questo caso ci siamo sforzati di tenere la barra ben ferma. Abbiamo convintamente sostenuto la legittimità della scalata di Unipol a Bnl; e se la Banca d’Italia non dovesse dare l’autorizzazione all’Opa vorrà dire che ne mancavano i presupposti finanziari non che di per sé fosse un’operazione illegale. O criminale. Abbiamo ascoltato le ragioni di Giovanni Consorte, da tutti ritenuto il manager che ha fatto grande l’Unipol, finché non si è scoperto il suo tesoretto. Davanti agli arricchimenti ingiustificati di personaggi che non hanno certo contribuito a difendere il buon nome delle coop, davanti ai sospetti di una commistione tra politica e affari nel maggior partito della sinistra abbiamo scritto che la legalità è una sola e che sull’argomento non possono esistere due pesi e due misure. Abbiamo aperto le pagine del giornale alle opinioni dei lettori, piene di rabbia, disorientamento, orgoglio ferito. Lo abbiamo fatto con una trasparenza che ci è stata riconosciuta da tutta la stampa italiana. Abbiamo chiesto a Massimo D’Alema di incontrare i giornalisti dell’Unità e non crediamo di avergli evitate le domande scomode.

Pure in un difficile passaggio ci siamo, insomma, uniformati alla regola di sempre: primo, liberare il molo. Ma per riuscirci davvero, adesso occorre convincere gli elettori frastornati dai Fiorani e dai Consorte che la politica non è, da destra a sinistra, una landa desolata e uniforme di malcostume; e dunque bisogna convincerli a non rifugiarsi nel non voto (ne sarebbe tentato circa un quinto dell’elettorato di centrosinistra). Ma come?

Poiché la sinistra si candida, con l’Unione tutta, alla guida del paese deve dimostrare, fatti alla mano, di avere tutte la carte in regola, e anche qualcuna di più. Cinque anni di berlusconismo hanno, purtroppo, introdotto nel tessuto profondo della società e della politica una sorta di assuefazione all’illegalità. Il ritorno al rispetto delle leggi e delle regole: ecco la difficile rivoluzione che si attende dal centrosinistra. Il rischio, altrimenti, è di ritrovarsi ben presto in una sorta di berlusconismo senza Berlusconi. E nella palude di un’Italia senza più speranza.

Ma questi propositi non possono farci dimenticare l’uso barbaro (lo ha detto perfino il presidente Casini) delle intercettazioni telefoniche. E su questo non ha torto D’Alema quando ricorda che lo scandalo Watergate fu tale per l’azione di spionaggio promossa da Nixon mentre nessuno ricorda che cosa si dicevano i democratici con gli apparecchi sotto controllo.

Sappiamo che la sinistra non ha valutato la trappola nella quale si andava a cacciare ma non crediamo alla favola dei salotti buoni dove tutti gli imprenditori sono immacolati per dogma. Così come siamo convinti che gli affari che vogliono farsi partito non siano meno pericolosi dei partiti che vogliono fare affari. Questa è la verità, caro Giannelli. Questo e non altro trasporta la nostra piccola barca di carta.
apadellaro@unita.it

INES TABUSSO
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