È soltanto un Pokémon con le armi o è un qualcosa di più? Vieni a parlarne su Award & Oscar!
Nuova Discussione
Rispondi
 
Stampa | Notifica email    
Autore

Dalla stampa quotidiana (a cura di Nhmem)

Ultimo Aggiornamento: 11/12/2005 22:25
04/11/2004 22:53
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 14
Registrato il: 08/04/2004
Utente Junior
OFFLINE

COSMESI ANTICA

http://www.repubblica.it/2004/k/sezioni/scienza_e_tecnologia/cremaromani/cremaromani/cremaromani.html

Trovato un barattolo con una crema di bellezza
La sua formula è tecnologicamente avanzata

Scavo di tempio romano a Londra
svela l'arte della cosmesi antica


L'archeologo: "E' unica, ci sono anche impronte digitali
Il contenitore è perfettamente sigillato e intatto"
di CRISTINA NADOTTI


Il barattolo con la crema
trovato nello scavo di Londra

ROMA - Da uno scavo di Londra è venuto alla luce un barattolino con una crema cosmetica. Non è un rifiuto della civiltà dei consumi, ma un prezioso reperto storico, perché lo scavo è in un sito romano del II secolo dopo Cristo. Non sorprende che le matrone della Roma imperiale usassero preparati di bellezza, ma la crema trovata a Londra, non si sa se una specie di fondotinta o una crema nutriente, è un portento per la sofisticata miscela di ingredienti. Insomma, un prodotto che potrebbe rivaleggiare con quelle che escono dai laboratori tecnologici di oggi.

"E' una formula piuttosto complicata - spiega Richard Evershed, analista chimico dell'università di Bristol - forse chi l'ha preparata non capiva a fondo i legami chimici, ma di sicuro sapeva come combinare le sostanze". Il barattolo che conteneva la crema è di metallo e misura circa sei centimetri per cinque, proprio come le nostre confezioni, ed è l'unico di questo tipo arrivato dall'antica Roma fino a noi in condizioni così buone.

La confezione è conservata bene perché si trovava in un fosso pieno d'acqua, coperta da assi di legno e spessi strati di fango. Gli scienziati, che hanno analizzato il composto e comunicato la loro scoperta attraverso il giornale "Nature", ritengono che la crema bianchiccia fosse usata dalle signore dell'aristocrazia romana come fondotinta, perché al tempo la carnagione molto chiara era considerata più bella e si usavano composti che schiarivano progressivamente la pelle.

La crema è composta per il 40 per cento da grassi animali, probabilmente di pecora o mucca, per il 40 per cento da amido e per il resto da ossido di stagno. Il grasso serve come base per il composto, mentre l'ossido di stagno lo rende bianco opaco. "Per quanto ne so - aggiunge il chimico inglese - l'ossido di stagno è innocuo e non crea problemi dermatologici".


Fino ad ora era risaputo che le matrone romane usavano largamente il latte d'asina come prodotto di bellezza, ma si trattava di rimedi casalinghi. Ora la crema trovata a Londra svela che c'erano forse anche nella lontana colonia dei laboratori specializzati. Il reperto, inoltre, ha un enorme valore anche perché nella crema ci sono impronte digitali e lo stesso contenitore è intatto. "La fattura del barattolo è elaborata - ha osservato Francis Grew, curatore del Museo di Londra - il tappo combacia perfettamente ed è a prova d'acqua. Chiunque lo abbia usato doveva appartenere a una classe elevata perché lo stagno era un metallo prezioso a quei tempi".

Uno degli archeologi del museo di Londra, che custodirà il reperto, ha osservato che "trovare impronte digitali è molto raro" e con questa scoperta "si stanno stringendo le mani alla storia". Il sito in cui è stata trovata la crema è un complesso religioso a Tabard Square, ed è uno dei più importanti in Gran Bretagna.


(4 novembre 2004)

[Modificato da Il Ghibellino 22/03/2005 23.17]

nhmem
zilath mexl rasnal
11/11/2004 21:57
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 16
Registrato il: 08/04/2004
Utente Junior
OFFLINE
TIVOLI

L’ Ercole vincitore e il teatro da 3.000 posti

Si scava ad Ardea, dove riaffiora la prima città vista da Enea nel Lazio. E riemergono le Terme Taurine a Civitavecchia

Quasi dieci milioni di euro per lo scavo archeologico e il restauro del grande Santuario di Ercole Vincitore a Tivoli. Nei 47,5 milioni di euro ottenuti con i fondi del Lotto e destinati al recupero di beni archeologici e architettonici del Lazio è questo l’intervento più importante varato dal ministero. Seguono in ordine di fondi i 7 milioni destinati alla nuova sede della Biblioteca di archeologia e storia dell’arte, i 5,5 per la Domus Tiberiana al Palatino, i 4,7 per la Villa d’Este a Tivoli e poi sopra il milione di euro gli interventi per le Terme Taurine di Civitavecchia, gli scavi di Castrum Inui ad Ardea, la sistemazione di Villa Poniatowski a Roma, il restauro dell’ospedale San Gallicano. Interventi minori riguardano infine la Caserma Carreca di via Labicana (900 mila euro), Villa Odescalchi a Bassano Romano (600 mila), Palazzo Delfini (300 mila) e Casale Strozzi (200 mila).
A Tivoli dunque, nella grande area del Santuario, verrà restaurato il teatro romano di cui è riemersa la cavea capace di 3000 posti che ora verrà valorizzata e che doterà la cittadina di un importante spazio teatrale all’aperto. Verrà restaurata anche la via Tecta che ha inghiottito in parte la via Tiburtina. E sarà restaurato anche un triportico. «L’area che verrà resa fruibile comprende anche l’impianto, importante testimonianza di archeologia industriale, che per primo portò la luce elettrica a Roma Capitale», spiega la neodirettrice dei Beni archeologici del ministero, Anna Maria Reggiani, ex sovrintendengte del Lazio. Che aggiunge: «Voglio ricordare inoltre che col finanziamento per il progetto di Villa Poniatowski sarà completato il restauro della villa rendendo finalmente fruibile nella sua totalità il Polo Museale Etrusco, uno dei più importanti non solo per quanto riguarda le antichità etrusche ma anche per le testimonianze di antiche città latine, come Segni, Lanuvio, Alatri, e di santuari come quello di Diana Nemorense. L’intervento previsto per le Terme Taurine di Civitavecchia consentirà inoltre la completa fruizione del "Circuito Traianeo", che già comprende i Mercati Traianei a Roma e la nota Villa di Traiano ad Arcinazzo, ad un anno dal 1950° anniversario della nascita dell’Imperatore, avvenuta ad Italica nel 53 d.C.».
Si tratta di un complesso monumentale che rappresenta una delle testimonianze più significative dell’architettura romana imperiale. Ubicato a nord di Civitavecchia e fatto oggetto di scavi intorno alla metà del 1700, l’imponente complesso termale fu edificato in due tempi diversi. All’epoca repubblicana è riferibile un settore che, probabilmente realizzato a integrazione della vicina fonte termale della Ficoncella, si articola in un peristilio di ingresso, un tepidarium, un laconicum, un calidarium e altri piccoli vani di servizio. Di età traianea è un grandioso ampliamento caratterizzato da ambienti la cui monumentalità sottolinea la particolare importanza del complesso, certamente frequentato fino alla fine del V sec. d.C. L’impianto si estende su due ettari e comprende anche un orto botanico.
Importante anche l’intervento su Castrum Inui, la cittadina che sta riaffiorando alla foce del Fosso dell’Incastro di Ardea, e che coincide col favoloso approdo di Enea nel Lazio, secondo quanto riportato dal poeta Virgilio. La cittadina di cui sono al momento riemersi alcuni ambienti è stata in epoca imperiale sconvolta da un terremoto che ha lasciato i segni su molti muri ritrovati crollati dagli archeologi.


P. Br.


Corriere della Sera 11/11/2004
Cronaca di Roma

[URL]http://www.corriere.it/edicola/index.jsp?path=CRONACA_DI_ROMA&doc=BIBLIO
nhmem
zilath mexl rasnal
31/12/2004 00:15
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 34
Registrato il: 08/04/2004
Utente Junior
OFFLINE

Nobiltà romana e Risorgimento

Da "Corriere della Sera" 30.12.2004 Cronaca di Roma

Le contrapposizioni nella nobiltà romana sono state ricorrenti, dalla feroce contesa tra guelfi (Orsini) e ghibellini (Colonna) a quella non meno dura tra partito francese e partito spagnolo. Poi all'inizio dell'Ottocento lo scontro con Napoleone ha fatto nascere una divisione tra collaboratori del nuovo potere e oppositori. L'Ancien Régime non scompare con l'avventura repubblicana e imperiale, ma entra in grave crisi in tutta l'Europa. Nel rivoluzionario 1848 in Italia rapidamente crolla l'illusione neo-guelfa; mentre a Roma la Santa Sede e la nobiltà subiscono la traumatica esperienza della Repubblica Romana: borghesi e popolani muoiono combattendo contro il papa! Infine la seconda guerra d'indipendenza e l'impresa dei Mille riducono il dominio temporale a molto meno dell'attuale Lazio: è l'ultimo isolotto clericale nel mare dell'Europa laica. Pio IX e i gesuiti vorrebbero usare la mano dura. Ma le redini del dominio temporale cadono in mano al duttile cardinale Giacomo Antonelli, convinto che bisogna scegliere sempre il male minore. Così, se qualche romano diventa un «patriota» troppo acceso, Antonelli non lo perseguita, ma lo manda oltre confine.
Nella seconda metà dell'Ottocento l'antichissima nobiltà feudale è ridotta ai tre casati principali (Colonna, Orsini, Caetani), mentre gli altri hanno visto scomparire l'antica potenza. Ai vertici della società ci sono le grandi famiglie della nobiltà papale: una nobiltà composita, che si è stratificata tra Quattrocento e Settecento e che «si è chiusa», come nobiltà di sangue, soltanto con il Libro d'oro (Benedetto XIV, 1746), che però rimane un Libro aperto, perché continueranno ad entrarvi le famiglie dei sommi pontefici, dai Braschi (Pio VI) ai Pacelli (Pio XII). Queste famiglie dell'alta nobiltà papale (dai Borghese ai Chigi) sono ancora molto ricche.
Un medievista, autore d'un bel libro su «Il clero romano nel XII secolo» e di una biografia su Cola di Rienzo, Tommaso di Carpegna Falconieri, è figlio di una Massimo. Negli archivi di famiglia ha letto i diari del bisnonno (Guido di Carpegna Falconieri) e del quadrisnonno (Vittorio Emanuele Massimo) ed ha colto i prodromi della contrapposizione tra nobiltà nera e nobiltà bianca. Per la prossima Strenna dei Romanisti ha preparato l'anticipazione di un futuro studio più approfondito. È colpito dalle caratteristiche «passionali» dei due diari e fa parlare i due testi nell'impatto diretto con gli eventi del settembre 1870.
Guido di Carpegna Falconieri e Vittorio Emanuele Massimo appartengono allo stesso ceto; entrambi molto colti e autori di varie opere: più poeta Guido, più erudito Vittorio. Ma filtrano gli eventi e le persone attraverso due punti di vista diametralmente opposti. Guido è un patriota ed è stato allontanato da Roma, vive tra Siena e Firenze, dove si è sposato con una nobile toscana. Vittorio Emanuele invece è convinto della legittimità e superiorità del dominio temporale.
Guido pensa a Roma capitale del Regno d'Italia. Vittorio Emanuele pensa che Roma debba continuare ad essere la sede del papato e il centro della Cristianità cattolica. Per Guido i soldati di Cadorna e i fuoriusciti romani realizzeranno l'unione sacrosanta di Roma all'Italia, scacciando i miserabili zuavi; per Vittorio Emanuele gli zuavi sono gli intrepidi difensori del papa e gli invasori sono briganti che vengono ad espropriare il legittimo sovrano-pontefice.
Le notazioni puntuali dei due diari rendono il clima d'un passaggio epocale dal potere temporale a una nuova monarchia costituzionale. Intorno a Roma ferve una finta battaglia, perché tutto è stato già deciso dalla sconfitta di Napoleone III a Sedan. A Pio IX servono pochi morti e una resistenza formale, per rivendicare presso le nazioni europee il vulnus recato al Santo Padre. Dall'altra parte il generale Cadorna ha l'ordine di entrare in Roma, riducendo al minimo i morti e le distruzioni. La colonna settentrionale italiana è comandata da quel «brigante» di Nino Bixio, che vuole «rientrare» a Roma da porta S. Pancrazio.
Guido di Carpegna, tra Siena e Firenze, freme in attesa della notizia magica. Vittorio Massimo pensa al papa e all'avvenire dei figli. In pratica già prima del settembre 1870 è visibile una frattura tra la maggioranza delle famiglie aristocratiche fedele al papa e una cospicua minoranza (dai Boncompagni Ludovisi ai Caetani, dagli Odescalchi ai Ruspoli e agli Sforza Pallavicini), che non rinnega l'antica fedeltà, ma è aperta al nuovo ed è cosciente che si è compiuta la laicizzazione di tutti gli stati europei.
Nella realtà quotidiana gli opposti schieramenti sono accaniti su posizioni contrapposte, ma non sono impermeabili. Infatti Guido di Carpegna è figlio del principe Falconieri, un devoto papalino ed è nipote del principe Orsini, assistente al Sacro Soglio; mentre il cugino, colonnello delle truppe pontificie, negozia la resa a Villa Albani col generale Cadorna. Dal canto suo Vittorio Emanuele Massimo disprezza il parente Vittorio Emanuele II, ma è sempre cognato del principe Eugenio di Savoia-Carignano; così il primogenito Carlo Alberto Massimo è ospite a Torino nel palazzo dello zio, mentre il secondogenito Filippo (che ha ereditato il cognome, i beni e il palazzo dei principi Lancellotti) comanda i volontari, schierati a difesa di S. Pietro.
Gli opposti schieramenti politici non possono però inficiare i molteplici legami familiari nè impedire i continui matrimoni incrociati. Bianchi o neri i rampolli dei principi romani non possono derogare al loro rango e si incontrano tra loro. Guido di Carpegna odia gesuiti e zuavi. Vittorio Massimo è figlio della principessa Cristina di Sassonia e il fratello Francesco Saverio è cardinale; rispetta i gesuiti (non per nulla suo figlio Massimiliano professa i voti nell'ordine di S. Ignazio) e ama gli zuavi.
Guido e Vittorio pensano che dalla Breccia di porta Pia siano entrati solo i berzajeri e i fuoriusciti romani. In realtà insieme sono entrati anche il mercato unico nazionale, un governo liberale e anticlericale, la stampa libera, nuove tendenze artistiche e culturali. Tra gli altri di soppiatto è entrato anche il codice unitario nazionale con l'abolizione dei fidecommessi di primogenitura e di giuspatronato, con l'abolizione della manomorta ecclesiastica e le leggi eversive dell'asse ecclesiastico. Così nell'ultimo ventennio dell'Ottocento falliscono i Borghese e i Massimo, mentre traballano tante casate della nobiltà romana. L'ottimismo patriottico di Guido è sconfitto dagli eventi, anche se la delusione è addolcita dalla nomina a senatore del Regno. Il pessimismo politico di Vittorio è superato dai nuovi eventi, ma giustamente ha previsto la rovina finanziaria dei Massimo e di tutta l'aristocrazia romana. Al solito a penza' male se sbaja meno che a penza' bene .




[Modificato da Il Ghibellino 22/03/2005 23.22]

nhmem
zilath mexl rasnal
31/12/2004 16:23
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 36
Registrato il: 08/04/2004
Utente Junior
OFFLINE

Ara Pacis...

Dal Corriere di oggi

di FRANCO CORDELLI


Per la cronaca, o per la memoria, voglio qui annotare che l’Ara Pacis è un altare votato dal Senato romano nel 18 a.C. dopo il ritorno di Augusto dalla Gallia e dalla Spagna. Fu dedicato nel 9 a.C. e, composto da un altare marmoreo con due sponde ornate di decorazioni di vario genere, si eleva sopra un podio rettangolare. Ebbene: quanti romani, e quanti cittadini venuti ad abitare in Roma negli ultimi anni, possono dire di saperne qualcosa, nel senso di averne osservato le sembianze? Noi, i più antichi, appena appena le ricordiamo. Da anni non facciamo altro che vederne le spoglie o, per chiarire, i paraventi. Codesti paraventi, con il tempo sono andati impreziosendosi. Sono sempre più raffinati, sempre più attraenti, sempre più variopinti. A furia di passarci davanti, a piedi o in automobile, sul lungotevere, sorge un dubbio: che vogliano nascondere qualcosa? Sappiamo più o meno bene come è andata la faccenda. Si decise di restaurare il monumento, di restituirlo all’antico prestigio. Di poi, vi furono dispute. I progetti non trovavano l’unanimità dei consensi. Intanto, i lavori intrapresi si fermavano. O riprendevano, con lena e vigore. E poi si fermavano di nuovo, forse si cambiava prospettiva, forse il progetto era diventato un altro. Resta il fatto che miglioravano i paraventi e il Mausoleo ad Augusto scompariva, s’inabissava nelle tenebre burocratiche. Ecco, è questo il primo spettacolo che mi auguro di non più vedere nel 2005.
Se la chimerica Ara Pacis è chiamata a rappresentare un futuro di cui non ci importa nulla (poiché un futuro troppo a lungo atteso non è nulla, non esiste, si dissolve nella fantasticheria), c’è uno spettacolo romano che non vorremmo più vedere in quanto rappresentativo di un passato al quale nulla ci incatena. Mi riferisco al premio Strega, una delle più tristi cerimonie mondane della Capitale. Mi ricordo dell’unica volta che io vi sia stato, in Valle Giulia. Era il 1967. Ero con il mio amico Alfonso Berardinelli. Eravamo compagni d’università. Giurammo che mai più vi avremmo messo piede. Non sono sicuro che quella promessa sia stata mantenuta (contraddico dunque quanto ho appena detto). Ma ammirammo il ritiro di Pier Paolo Pasolini, che era sul punto di concorrere al premio con il suo «Teorema». Grande fu la delusione quando dall’epistolario si scoprì che Pasolini si ritirò non già per nobili ragioni, per altro oggi inesplicabili, bensì per la delusioni. Pasolini aveva capito che le sue lettere di richiesta di voto ai giurati non avrebbero sortito l’effetto sperato. Ma quello era ancora il premio Strega! Cioè, quasi nulla. Ma un quasi nulla che rappresentava la società letteraria romana. Che cosa rappresenta oggi il premio Strega? Che cosa può essere un premio che si assegna a luglio ma di cui a febbraio si conosce il vincitore? Il premio Strega è come il campionato di calcio. Anzi, il campionato è leggermente migliore. Non si sa chi vincerà fra Juventus e Milan, posto che ciò interessi a qualcun altro, a parte i tifosi di quelle due squadre. Ma il premio Strega, a chi interessa oltre lo scrittore che lo vincerà e il suo editore?
L’unico aspetto attraente del premio Strega è che nulla in Italia meglio e più compiutamente rispecchia l’evoluzione, se così si può chiamare, della cosa letteraria. Essa è un mondo a parte, privo di qualunque relazione con la realtà: come un mondo a parte, privo di qualunque rapporto con la realtà, è l’Ara Pacis, sbarrata, nascosta, oscurata e, per colmo di derisione, imbellita da luccicanti tavole paragonabili ai luccicanti voti dei cinquemila o diecimila elettori dello Strega.
Ultimo spettacolo che ci auguriamo di non più vedere nel 2005. È una serie di spettacoli, quelli che si offrono al pubblico di due teatri storici di Roma, il Valle e il Quirino. Anche ammesso che nel cartellone vi siano due o tre titoli dignitosi o buoni, sarebbe meglio che non ve ne fosse nessuno: i buoni sono travolti dal marasma, dall’ignominia dei cattivi. Si dirà: perché appuntare la propria attenzione proprio sul Valle e il Quirino? La risposta è semplice: perché il Valle ed il Quirino sono un bene pubblico. Essi riflettono la tendenza-prassi culturale dominante: non già chiamare il pubblico a cercare se stesso, a conoscere, a scoprire ciò che non sa; chiamarlo, viceversa, a patrimoni logori, a beni consumati, ad esperienze non dissimili da quelle televisive; ad esperienze, in una parola, rassicuranti, di scadente livello culturale, di riaffermata soggezione di chi riceve rispetto a chi, paternalisticamente, offre, o crede di offrire.

[Modificato da Il Ghibellino 22/03/2005 23.23]

nhmem
zilath mexl rasnal
21/01/2005 22:49
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 60
Registrato il: 08/04/2004
Utente Junior
OFFLINE

"I gladiatori lottavano per finta"
nuova teoria di un archeologo


da Repubblica.it

SCIENZA & TECNOLOGIA


Usa: secondo Steve Tuck, i combattimenti erano messe in scena
come le gare di wrestling. "Il rischio di morire era inesistente"
"I gladiatori lottavano per finta"
nuova teoria di un archeologo
Lo studio basato sull'analisi di reperti dell'antica Roma


LONDRA - Morire al Colosseo? Per un gladiatore sarebbe molto più probabile essere ucciso a Hollywood. E' quanto sostiene Steve Tuck, archeologo statunitense che, esaminando una serie di reperti provenienti dall'antica Roma, si è convinto che i combattimenti gladiatori erano delle messe in scena, paragonabili ai moderni match di wrestling, nei quali nessuno si faceva male davvero. Nulla a che vedere, dunque, con le scene cruente di certi kolossal hollywoodiani, come Quo Vadis o il Gladiatore.

"La lotta gladiatoria è sempre stata associata all'uccisione e allo spargimento di sangue", ha spiegato Tuck in un articolo pubblicato dalla rivista New Scientist. "Ma in realtà penso che si trattasse di un'arte marziale a puro scopo d'intrattenimento volta a far divertire gli spettatori".

Per circa 800 anni, dal IV secolo a.c. al IV secolo d.c.,
criminali, prigionieri di guerra e schiavi erano comprati da facoltosi romani per essere addestrati a combattere nei giochi gladiatori. Lottavano fra loro o contro gladiatori professionisti, che erano uomini liberi, in anfiteatri come il Colosseo usando spade, arpioni e lance.

Generalmente dovevano sostenere due o tre combattimenti l'anno e se riuscivano a sopravvivere tre o cinque anni di combattimenti, potevano ottenere la libertà. Ma secondo Tuck, che ha analizzato 158 immagini risalenti a quel periodo raffiguranti i giochi, il rischio per un gladiatore di venire ucciso era quasi inesistente.

Lo studioso fonda la sua tesi su un raffronto delle immagini contenute su lampade e dipinti murali con i manuali sulle arti marziali prodotti in Germania e in Italia durante il Medioevo e il Rinascimento. Da questo confronto emergono una serie di similitudini, dalle quali risulta che lo scopo del gladiatore era semplicemente quello di sconfiggere l'avversario, non di ucciderlo.


Le teorie di Tuck trovano appoggio in ambiente accademico. Simon Esmonde Cleary, storico dell'università di Birmingham, concorda che la lotta gladiatoria non fosse necessariamente cruenta e mortale. "Al giorno d'oggi, ci si concentra troppo sul Colosseo di Roma nel quale i giochi non si svolgevano necessariamente con le stesse modalità di quelli in altri anfiteatri dell'impero", ha affermato.


(20 gennaio 2005)



Russell Crowe nel Gladiatore

[Modificato da Il Ghibellino 23/03/2005 0.07]

nhmem
zilath mexl rasnal
22/01/2005 18:42
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 62
Registrato il: 08/04/2004
Utente Junior
OFFLINE
Le società «senza scrittura» si raccontano per immagini

«Il percorso e la voce» di Carlo Severi, antropologo della memoria iconografica sulle tracce di Warburg


da tuttoLibritempolibero supplemento de La Stampa 22.1.05


Marco Aime

PERCHÉ continuiamo a chiamare soltanto “orali” tradizioni e culture che fanno un uso costante e articolato dell'immagine?». Questa è la domanda attorno a cui ruota l'interessante saggio di Carlo Severi Il percorso e la voce, che ci conduce in un affascinante cammino attraverso le esperienze artistiche, mnemoniche e sensoriali di quelle che noi, sempre attratti dalle facili dicotomie, siamo soliti chiamare società senza scrittura.
Questa stessa definizione mette già in luce il vizio con cui spesso si affronta la questione. Dire «senza scrittura» significa mettere in evidenza ciò che manca e ciò avviene perché si parte da un atteggiamento etnocentrico. Severi utilizza una bellissima metafora a tale proposito: le Variazioni Goldberg di Bach, dove ogni tema richiama sempre un centro attorno a cui tutto ruota. In questo caso il centro siamo noi Occidentali «letterati» e le tradizioni che chiamiamo orali vengono definite sulla base di ciò che non sono o, meglio, di ciò che non sarebbero secondo noi. Occorre invece invertire il percorso, capovolgere il paradigma, partire dal basso, da ciò che sono, per scoprirne i processi costitutivi. Si scopre allora innanzitutto che l'oralità non è una non scrittura, ma qualcosa di diverso, ha specificità sue, inoltre nessuna società ha espresso la sua tradizione esclusivamente con il suono della voce, ma ha sempre accompagnato le parole dette con immagini di vario tipo. Nell'iniziare il suo viaggio nell'immagine degli altri, Severi sceglie un compagno di lusso, il critico d'arte Aby Warburg, il quale negli anni 1895-’96 compì un viaggio nella terra degli indiani hopi che gli fornì numerosi spunti sulla lettura delle immagini. Per sua stessa ammissione Warburg dichiara di essersi sempre mosso su una linea di confine tra discipline diverse, tra queste l'antropologia, grazie anche all'amicizia con Franz Boas, che all'epoca dominava la scena americana. Ciò che attirò l'attenzione di Warburg, e che Severi riprende per ampliarne la portata, è la relazione tra l'immagine e la memoria. Quelle espressioni figurative che spesso sono state definite semplici decorazioni o pittografie hanno in realtà una funzione che va al di là dell'estetica, sono un vero e proprio linguaggio, che crea sequenze e intervalli utili a memorizzare concetti, fatti, storie. Lo sguardo, infatt
i, non è neutro, non compie soltanto una mera registrazione, ma mette in moto una serie di relazioni che coinvolgono anche l'aspetto biologico dell'essere umano. Al punto che Warburg arriva a definire l'immagine come prodotto biologicamente necessario. Ciò che noi vediamo non è ciò che esiste in assoluto, lo vediamo come è rappresentato nella nostra mente.
Come scrive Severi, citando Vischer: «L'atto di guardare non è passivo, ma suppone sempre lo stabilirsi di una relazione tra la forma di un oggetto esterno e un modello formale, innato e inconscio, della percezione dello spazio, che riflette un'immagine mentale del corpo. Percepire significa quindi proiettare un'immagine latente di sé».
È grazie a questa relazione tra corpo, mente e realtà esterna che nasce l'uso mnemonico dell'immagine, che Severi analizza in un ricco excursus tra varie culture di interesse etnografico, soffermandosi in particolare sui kuna della Comarca di San Blas (Panama) da lui direttamente studiati. Si scopre che la pittografia, per esempio, segue un'evoluzione parallela a quella della tradizione orale e che pertanto la pittografia è inserita in un contesto rituale. Tale parallelismo serve a ordinare gli elementi culturali della storia e della cultura di un popolo che questo popolo vuole trasmettere e, quindi, mandare a memoria. Un proverbio africano dice che «l'occhio dello straniero vede solo ciò che già conosce», un modo sintetico per ricordare, come ci dice il libro di Severi, che in fondo il nostro sguardo è frutto di memoria culturale.




nhmem
zilath mexl rasnal
25/01/2005 23:54
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 66
Registrato il: 08/04/2004
Utente Junior
OFFLINE
REVISIONI

Un reportage analizza i luoghi comuni terzomondisti

di GEMINELLO ALVI


Abbondano purtroppo quei libri scritti in ossequio al luogo comune, per cui sarebbe comunque l’uomo bianco il colpevole primo dei misfatti del mondo. La poca abilità richiesta per scriverli è quella che basta per agganciarsi a una delle tante esecrazioni consuete dell’eurocentrismo, oggi capitalistico e ieri colonialistico. Qualche sdegno a comando, tutt’al più un dispetto al rivale accademico, ma solo riguardo alle sfumature, è concesso. Basta però che poi si badi alla scoperta di qualche efferatezza occidentale o bianca non detta o appena detta: e gli affaruncoli propri sono vestiti d’una morale. La più spendibile: quella del politicamente corretto, che legittima al sussiego, in un anticonformismo che è quello più conforme alle carriere nell’accademia o nel giornalismo. Hans Christoph Buch ha scritto per fortuna un libro diverso ( Standort Bananenrepublik. Streifzüge durch die postkoloniale Welt , traducibile come Ubicazione Repubblica delle Banane. Incursione nel mondo postcoloniale , edito da Zu Klampen Verlag). Uno ch’appartiene alla esigua minoranza di scritti senza un disprezzo preventivo per gli europei e la loro civiltà. È un libro di viaggi, e non di seconda mano, in Africa o in altri disdicevoli luoghi di vari continenti, raccolti in due dozzine di articoli, che il nostro sessantenne pubblica su Die Zeit o Die Welt o Faz . La copertina con una banana su campo verde farebbe pensare agli anni 50 e al nostro Agente all’Avana; e muove all’inizio una certa qual plasticata allegria. Invece il libro è tutt’altro: un’immersione nell’incubo e nel grottesco che sono divenuti sempre più oggi l’Africa e i continenti non europei. Una percezione dell’orrore che, pagina dopo pagina, incarna la conclusione che già si sa ma che nessuno dice: la colpa dei misfatti dell’Africa è per lo più ormai degli africani, dell’orrende élite che li governano.
Eccolo Buch per le strade di Monrovia, accanto al soldato bambino che risponde «Why not», appena gli domanda perché massacra i suoi fratelli e sorelle africani. E poi vede le truppe di pace africane: «Invece di dividere le varie bande, presero parte pure loro a saccheggi e violenze. Prima di tutti i nigeriani che caricano container pieni di bottino - frigoriferi, televisori, auto e motorini sulle loro navi...». Presto Ecomog, la sigla della Comunità economica dell’Africa occidentale diviene per i nativi: «Every car and moveable object gone» (letteralmente: «ogni auto e oggetto mobile rubato»). Già nel 1996 era del resto chiaro quanto fosse esportabile il modello liberiano: «Non mancano nell’Africa occidentale bambini che dopo la morte dei loro genitori sono reclutati nelle milizie, sessualmente schiavizzati, drogati». E sempre allora in Liberia costata il successo con cui si vende una videocassetta negli empori. «Quella con le torture del capo di Stato Doe era un bestseller a Monrovia: la scena nella quale i suoi torturatori costringono Doe a mangiare le sue orecchie tagliate venne salutata dagli spettatori con applausi e risate». E la Liberia mai ha conosciuto domini bianchi.
Come Haiti è da tempo solo merito degli africani. Al pari di quanto è accaduto in Ruanda: «Dove non c’erano né petrolio, oro o diamanti; ma l’inimicizia tribale tra i pastori Tutsi e i contadini Hutu». Ormai persino tal Ahmadou Kourouma scrittore africano, non sospetto di simpatie per le colonie, ammette: «Tribalismo, ovvero scelte di clan, corruzione, brutalità sono i peccati capitali dell’Africa; e l’espediente prediletto di dare la colpa agli altri dei disastri fatti in casa distrae dalle responsabilità proprie degli africani».
«Che questa non sia solo una questione accademica lo mostra l’esproprio degli allevatori bianchi dello Zimbawe come capri espiatori per la bancarotta del regime». Un esempio che fa scuola: «La Namibia ha annunciato misure simili, il Sud Africa ne è minacciato, l’ultima democrazia sul continente nero...». I viaggi di Buch non si limitano peraltro solo all’Africa. Ma egli riverifica ovunque che: «L’antieurocentrismo è un biglietto col quale si va lontano».
Come gli conferma il colloquio con una professoressa indiana che gli consiglia, giacché la nonna di Buch era di Haiti, di vendersi nei dibattiti almeno per negro bianco. Seguono elenchi di cognomi e carriere costruite sui sensi di colpa dell’Europa, commerciati professionalmente. Con un risultato: «Cinquant’anni dopo la decolonizzazione, il dominio coloniale torna all’ordine del giorno non come tragedia ma come farsa: moda accademica che, fuori dei punti di vista politicamente corretti dei suoi creatori, non dimostra niente e non ha alcun concreta relazione alle realtà del Terzo mondo».
E come non chiamare, se non farse, le trovate passate troppo spesso alla varia intellettualità africana? «In un congresso di quotati scrittori tenuto nel autunno 2000 a Seoul, il nigeriano Wole Soyinka sorprese il pubblico con la sensazionale scoperta: le più nuove ricerche avrebbero dato il risultato - così spiegò il premio Nobel del 1986, le cui iniziali sono quelle di Shakespeare - che costui non sarebbe stato un drammaturgo inglese, bensì un raccontatore di fiabe arabo di Damasco. Sheik Al Subeiri questo il vero nome di Shakespeare, venduto come schiavo a Londra».
Con la stessa grazia Buch elenca le altre assurde trovate di armate di furbastri, fino alla versione idillica dell’Africa precoloniale o al disgusto per le vaccinazioni imposte dai medici coloniali. Appunto, giacché i colonialisti sono bianchi, tutto si può dire. Meno quanto Buch rammenta: «I critici del colonialismo tacciono due fatti importanti; che i mercanti di schiavi arabi cacciavano come animali gli africani, molto prima dell’arrivo degli europei, e che i potentati indigeni cedevano a prezzi stracciati i prigionieri di guerra o i loro sudditi». Si oblia a memoria «che dopo la decolonizzazione in varie parti dell’Africa - Sudan e Mauritania - si è ristabilito il commercio degli schiavi, mentre ora solo la presenza di organizzazioni caritatevoli e umanitarie garantisce un minimo di umanità nel continente nero». Questi alcuni brani del libro ancora non tradotto e del quale però la stampa tedesca si è dovuta occupare visto che erano quegli stessi giornali, anche liberal, che avevano pubblicato i suoi pezzi.
Recensioni anchilosate, di chi non le vorrebbe fare; e però deve concedere all’autore una più che leale buona fede e amore per l’Africa e i Paesi che ha visitato. Un libro vero, dove disastri, eccidi e infamie del Terzo mondo, che mai si diranno in tv o sulle riviste con le loro cause vere, sono narrati come sono stati vissuti. Senza troppe ipocrisie o lealtà al politicamente corretto e soprattutto contro la fatale tendenza all’autoassoluzione del Terzo mondo. La quale ha sortito il risultato più rovinoso per l’Africa: chi è di destra non se ne occupa, per timore di essere accusato di razzismo e magari condannato in tribunale. Mentre la sinistra asseconda troppe sciocchezze consuete, utili spesso ai parassiti o a coprire le ruberie delle élite africane in società ridotte a incubo perenne.

LE STRAGI Colpi di Stato, guerriglie, mutilazioni e stupri di massa, genocidi: l’Africa è stata e continua a essere teatro di conflitti sanguinosi
IN LIBERIA
La guerra civile in Liberia scoppia nel 1990. Tra il ’99 e il 2000 si sviluppa contemporaneamente la guerriglia del Lurd, i Liberiani uniti per la riconciliazione e la democrazia, che impugnano le armi contro l’esercito governativo
IN BURUNDI
Nel 1993 il Burundi, ex colonia belga, abitata in maggioranza da Hutu e governata dalla minoranza Tutsi, precipita in una guerra civile tra le due etnie che causa più di 300 mila vittime e centinaia di migliaia di profughi. Gli scontri proseguono anche dopo il ’96, quando i militari Tutsi riprendono il potere
IN RUANDA
Nel 1994 la tensione tra le due stesse etnie che si contrastano in Burundi degenera in una guerra civile tra il Fronte patriottico ruandese a base Tutsi e le truppe governative Hutu che ha assunto le dimensioni del genocidio dei Tutsi e degli Hutu moderati: 800 mila vittime
L’ONU
Nel 1995 l’Onu istituisce un tribunale penale internazionale con il compito di giudicare i responsabili del genocidio in Ruanda. Il primo processo si conclude nel 2003 con 105 condanne, tra cui alcune a morte. Ma sono migliaia le persone in carcere ancora in attesa di giudizio


Corriere della Sera 25/01/2005 Cultura


nhmem
zilath mexl rasnal
26/01/2005 00:14
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 76
Registrato il: 28/02/2003
Utente Junior
OFFLINE
è la verità
...ma un conto sono gli atavici difetti di quelle genti e un conto è tutto quello che si sta scatenando attorno a quella tavola che è l'Africa. Il potere del FMI che piazza e sostiene con prestiti certi uomini del peggior tribalismo succitato. Le ristrutturazioni economiche imposte dal WTO e della banca Mondiale, l'offensiva massmediatica USA e in generale occidentale per portare alle masse nere il modello di vita e di società americano e consumistico.
La creazione di bisogni e di nuovi consumi voluttuari (gente che vive in capanne senza acqua ma ha l'allaccio a internet e la parabola satellitare).
Traffici di tutti i tipi da Armi a Diamanti a medicinali scaduti, petrolio oro e preziosi etc.
Questo scatena un annichilimento nelle coscienze di popoli certamente non sviluppati ma che prima di una certa neocolonizzazione conoscevano in modo blando anche il concetto moderno di proprietà privata.
"Gli Dei vinceranno"
Dalai Lama
02/02/2005 18:02
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 82
Registrato il: 08/04/2004
Utente Junior
OFFLINE

Berlino, il dono avvelenato di Hitler

Il contrasto fra gli architetti Piacentini e Speer dietro la scelta di fare dell’edificio monumentale un esempio di stile ellenico, ariano e nazista


Berlino, il dono avvelenato di Hitler

di ARTURO CARLO QUINTAVALLE


Ai primi d’aprile l'Istituto centrale del restauro presenterà a Ferrara il recupero da poco compiuto dei portali scolpiti e degli altri pezzi montati come arredo fisso all'interno dell’ambasciata d'Italia a Berlino costruita fra 1938 e 1943, danneggiata dalla guerra, poi abbandonata, infine restaurata e inaugurata il 26 giugno 2003 dal presidente Ciampi. Certo, siamo davanti al recupero di una collezione significativa di sculture del Rinascimento, ma perché proprio a Berlino e dentro quell’ambasciata costruita sotto la sorveglianza di Albert Speer da Friedrich Hetzelt in piena guerra, l'Italia propone un insieme di sculture rinascimentali e non invia scultori contemporanei a realizzare l'arredo architettonico? Prima dunque di analizzare le sculture, che hanno una storia complessa, servirà a comprendere quando matura il progetto di edificare una nuova ambasciata a Berlino e perché.
Gli anni sono quelli del Patto d'acciaio, quelli del viaggio di Hitler in Italia e del dialogo fra le due potenze alleate, della pianificazione di Berlino, futura capitale di un Occidente conquistato. Speer è il progettista dei grandiosi assi attrezzati della città, quello nord-sud, verso l'Italia, quello est-ovest e degli edifici enormi, palazzi, stadi, archi, cupole, colonnati che evocano l'antico, il mondo greco piuttosto che il romano. La nuova arte ariana domina la scena, l'«arte degenerata» ( Entartete Kunst ) è rimossa dai musei e adesso Hitler vuole donare all’Italia la più bella delle ambasciate, presso il Tiergarten, il parco, e dedicare una piazza e un grandioso monumento a Mussolini. Ma, nel progetto per l'ambasciata, le decisioni le assumono Hitler, Goering e Speer, oltre che Hetzelt, agli italiani spettano solo suggerimenti, ad esempio sul rivestimento in travertino.
Ma allora la Grande alleanza, il Patto d'acciaio nascondono una prevaricazione o quantomeno una divergenza d’opinioni fra Germania e Italia? I documenti, le ricerche anche più recenti parlano chiaro: da una parte, in Italia, Marcello Piacentini, dall'altra, in Germania, Albert Speer puntano su due modelli diversi. Piacentini, che costruisce la Città universitaria a Roma (dal 1932), piazza della Vittoria a Brescia (1929-31), il Palazzo di giustizia di Milano (1933-40), propone prima di tutto una mediazione fra architettura razionalista e la citazione del mondo romano e vuole edificare strutture enormi ma non sesquipedali. Piacentini evoca poi anche i modelli del paleocristiano, ad esempio nella disposizione degli edifici della Città universitaria di Roma o nella pianta del Palazzo di giustizia di Milano, e cita naturalmente il Rinascimento; tutto questo significa mediazione, appunto, fra romanità, origini cristiane e Rinascita.
Nulla di tutto questo in Speer: il pianificatore di Berlino evoca quella che pensa possa essere stata l'antichità greca ma in dimensioni ciclopiche e, per l’ambasciata d'Italia, propone un tempio appiccicato, a doppio livello, sulla grande fronte la quale poi riprende, con modifiche, il Palazzo della consulta a Roma, opera di Ferdinando Fuga (1732), palazzo, guarda caso, che a Hitler era molto piaciuto.
Così questo dono all'Italia, in apparenza generoso ma, sotto sotto, avvelenato, della nuova, grande ambasciata, ben diecimila metri quadrati, come poteva essere trasformato in idea di nazione, rappresentare, almeno negli spazi interni, l'originalità della civiltà italica? Scrive proprio nel 1938 Giuseppe Bottai su «Critica fascista» che «fra i tanti valori che il fascismo ha scoperti e portati in primo piano, si riconosce all'arte un posto essenzialissimo nella personalità politica del popolo italiano, un posto fondamentale e costitutivo in quella civiltà italiana che il fascismo è sorto a difendere, che vuole sviluppata e affermata nel mondo». Ma come realizzare, a Berlino, tutto questo?
Per rispondere dobbiamo adesso ripercorrere l'altra storia, quella del non casuale recupero di un blocco di opere del Rinascimento che erano sul mercato in Germania ma che avrebbero potuto felicemente finire al Kaiser Friedrich Museum (oggi Bode Museum), dove avrebbero trovato numerosa compagnia e che invece vennero acquistate e sistemate dentro la nuova ambasciata. Un'altra storia, dunque, che si innesta su quella del confronto-conflitto fra Piacentini e Speer, fra l'Italia e la Germania, della architettura intesa come immagine simbolica dei due regimi. Sulla Victoriastrasse a Berlino, dove era la prima sede della nostra ambasciata, stava anche la villa di Eduard Simon, un antiquario che, come molti collezionisti fra '800 e '900, usava disporre le sculture come arredo fisso; Simon, amico dell'antiquario Stefano Bardini a Firenze, amico del direttore del Kaiser Friedrich Museum Wilhem von Bode, fa acquistare a Bode decine di pezzi italiani ma ne conserva per sé una parte, restaurandoli e anche ricomponendoli, come allora si usava.
Certo il confronto fra Berlino e Roma, inteso come distinte culture, era allora molto evidente. Un giovane critico, Luigi Lenzi, nel 1939 scrive su «Architettura», la rivista di Piacentini, nel numero dedicato alle costruzioni del III Reich, a proposito delle sovradimensionate strutture di Speer: «Anche le cornici e i dettagli trattati dal masso vivo ispirandosi al nostro Rinascimento non hanno il sapore che poteva imprimere loro anche un modestissimo artigiano del nostro Cinquecento». Dunque pesantezza, retorica, schematicità di quei progetti germanici. Del resto, poco dopo, Roberto Longhi in «Arte italiana e arte tedesca» (1941), respingendo ogni teoria che collega razza e prodotti artistici, contrapponeva «lo strazio orrendo, insoffribile, come si esprime nella scultura tedesca fin dal Trecento» all'arte italiana del Rinascimento: «Non è poi bisogno di rammentare come da codeste strade perigliose noi ci togliessimo decisamente ad un tratto e facessimo piazza pulita, fin dai primi anni del nuovo secolo, col Brunelleschi, con Donatello, su tutti, con Masaccio… qui veramente si rinasce alla vita, a una vita del tutto nuova».
Ecco il quadro storico e il confronto ideologico entro cui collocare l'acquisto e la collocazione nella ambasciata di una quindicina di pezzi del '400 e '500, tutti finora poco studiati. Fra questi voglio ricordare qui l'opera più importante, il portale proveniente dal Palazzo Ducale di Federico da Montefeltro a Gubbio che ha un pendant al Victoria and Albert di Londra, pezzo probabilmente, come molti altri, uscito clandestinamente dall’Italia e databile agli anni 70 del secolo XV, opera di finissima fattura. E ancora un portale con architrave centinato, di ambito padovano, vicino alla cultura di Niccolò Pizolo (1460 circa); e un portale genovese sempre del secondo '400; un altro in pietra rossiccia con al centro dell’architrave un tondo con aquila inserito a posteriori in un complesso che pare lombardo di fine '400. Ricordo un camino composto da pezzi diversi secondo un tipico gusto antiquariale; un architrave forse quattrocentesco ma con due piedritti di pieno '500 e sopra una cornice forse rifatta. Di ricomposizione è anche la fontana, opera probabilmente veneta di tardo '500, mentre la coppia di leoni, più che trecentesca come si sostiene, appare rinascimentale con ritocchi persino ottocenteschi. Dunque un blocco interessante di pezzi, recuperati da Giuseppe Basile e dall'Icr.
Ma torniamo al senso storico di questa vicenda singolare. Il regime fascista riceve a Berlino un dono avvelenato, la identificazione dell'Italia fascista e romana con l'architettura nazista e greco-ariana; ma la nostra identità, lo scrive Bottai, lo scrive Longhi, sta nel Rinascimento, lontanissimo dalle sculture contorte e violentemente espressive dell'arte tedesca. Rinascimento dunque come idea di nazione, spazi aulici calibrati in funzione di un racconto di civiltà altissima, quello delle grandi corti dell'Italia centrale o settentrionale. Che volesse essere, questa, una risposta, intelligente, polemicamente pacata, di Piacentini a Speer? Si potrebbe supporlo.


Corriere della Sera 02.02.2005

[Modificato da Il Ghibellino 22/03/2005 23.31]

nhmem
zilath mexl rasnal
02/02/2005 18:09
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 83
Registrato il: 08/04/2004
Utente Junior
OFFLINE
«Sei mesi di lavoro fra soluzioni chimiche e laser»
Giuseppe Basile ha diretto il recupero delle sculture dell’ambasciata d'Italia a Berlino. Come è arrivata nella capitale tedesca la collezione di pezzi rinascimentali?
«Simon, l'antiquario berlinese, gli arredi li aveva nella sua villa ed erano in parte fissati a parete; dopo il suo suicidio nel 1929 la collezione è stata dispersa, ma un nucleo importante venne acquistato per l'ambasciata dal nostro governo poco prima del 1938».
Quali i modi del restauro?
«I precedenti avevano compromesso molti pezzi, così il nostro compito è stato di rendere i danni meno evidenti. Quelli subiti dalle pietre erano di due tipi, meccanico, anche antico, e più recente, dovuto all'impiego di materiali sintetici forse dopo la fine della guerra, spesso irreversibile. In queste condizioni abbiamo dovuto intervenire con il laser, ma anche con prodotti solventi per asportare lo strato di vernici e poi potere usare il laser. Siamo davanti a pezzi di provenienza antiquariale, il mercato berlinese era florido, Simon era legato a Bardini, era lui che vendeva le sculture italiane al Kaiser Friedrich Museum diretto da Bode, del resto proprio Bode pensava di portare queste sculture nel suo museo. Il lavoro di preparazione e indagine è durato da febbraio 2003 al luglio 2004 poi, in sei mesi, abbiamo fatto il restauro vero e proprio con tecniche diverse».
Con quali tecniche?
«Meccaniche: abrasivi, sabbiatrici fini o laser. Oppure metodi chimici per sciogliere materiali soprammessi all'opera». (A.C.Q.)



Cultura Corriere


nhmem
zilath mexl rasnal
02/02/2005 18:14
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 84
Registrato il: 08/04/2004
Utente Junior
OFFLINE
Un’intervista del senatore a vita riaccende le polemiche sul carattere totalitario del regime. Negato da Melograni, condiviso da Lupo


«Fascismo bonario»: un ricordo di Luzi divide gli storici


Forse qualcuno si è stupito leggendo l’intervista a Mario Luzi, sul Giornale di ieri, in cui il poeta, interpellato da Pierangelo Maurizio sulla sua collaborazione giovanile alla rivista Primato del gerarca Bruno Bottai, ha definito il fascismo una dittatura «abbastanza goffa e bonaria». Non si stupisce invece Piero Melograni, autore del volume Gli industriali e Mussolini (Longanesi) e di altri saggi sul ventennio nero: «Luzi ha vissuto l’esperienza del regime e sa di che cosa parla. Malgrado il fascismo fosse profondamente illiberale, non lo si può nemmeno paragonare al nazismo o al sistema sovietico, ben più oppressivi e sanguinari. In Italia il clima era di relativa tolleranza: si consentiva ai cittadini di lamentarsi (quello che Giovanni Gentile definì ius murmurandi ) e molti oppositori preferirono non espatriare. È solo a partire dal 1938 che Mussolini, sotto la crescente influenza di Hitler, attua una svolta di tipo totalitario, la cui espressione principale sono le leggi razziali».
Si tratta in sostanza della stessa opinione di Luzi, secondo il quale è con la guerra di Spagna che il regime «si nazifica» e «allora diventa sinistro veramente». Dissente invece lo storico Salvatore Lupo, autore del ponderoso volume Il fascismo (Donzelli), il cui sottotitolo parla apertamente di «regime totalitario». A suo avviso i provvedimenti antisemiti e la stretta alleanza con il Terzo Reich non segnarono una discontinuità, ma furono il prodotto di un logico e consequenziale sviluppo interno della dittatura mussoliniana.
«Senza dubbio il fascismo fu un regime più mite del nazismo e dello stalinismo - aggiunge Lupo - ma ebbe tuttavia aspetti di notevole ferocia. Penso ai conflitti coloniali, con l’uso dei gas tossici in Etiopia e le stragi perpetrate in Cirenaica. Senza contare il sistema concentrazionario allestito durante la guerra, di cui si è occupato Carlo Spartaco Capogreco nel libro I campi del Duce (Einaudi): nei lager italiani della Jugoslavia occupata i tassi di mortalità erano altissimi. Più in generale c’è un graduale e deliberato irrigidimento in senso tirannico che rende legittimo parlare di totalitarismo, sia pure imperfetto rispetto ad altre realtà dell’epoca. Non dimentichiamo poi che era il fascismo stesso a proclamarsi orgogliosamente totalitario».
Melograni ammette che forti tratti totalitari, a partire dal partito unico, erano già presenti nel regime prima del 1938, ma ricorda altri elementi di segno diverso: «Mussolini non governava attraverso il partito, ma utilizzando i prefetti. E non esitava ad affidare incarichi delicatissimi ad alti burocrati legati alla tradizione dello Stato sabaudo e sostanzialmente afascisti, come il capo della polizia Arturo Bocchini. Lo stesso giuramento imposto ai docenti universitari fu una misura più soffice rispetto all’epurazione del mondo accademico invocata dai fascisti estremisti, tant’è vero che uomini come Einaudi, Jemolo e Calamandrei, giurando, conservarono la cattedra. Anche al di fuori dell’università c’era spazio per fermenti culturali eretici, come dimostrano le vicende ricordate da Luzi».
Lupo non è convinto: «È vero che tra gli intellettuali fascisti troviamo di tutto. Ma tra la loro elaborazione e il perimetro della decisione politica c’era un abisso. Mussolini lasciava che si sfogassero tendenze eterodosse sotto l’ala di Bottai, ma solo per controllarle meglio. Certo, quando il fascismo iniziò a sgretolarsi, quei giovani presero la via dell’opposizione. Ma finché il regime rimase saldo, era lo stesso Bottai a non contare nulla. Decideva tutto il Duce, che informava i gerarchi solo a giochi fatti: l’accentramento esasperato del potere nelle mani del capo è un altro sintomo del totalitarismo fascista».

Antonio Carioti

Corriere della Sera 2/2/2005
nhmem
zilath mexl rasnal
03/02/2005 23:29
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 86
Registrato il: 08/04/2004
Utente Junior
OFFLINE

«Traduco in teologia-rock la morale di Nietzsche»

Andrew Morgan, cantautore celebrato dalla critica, studia ad Harvard e mette in musica «La genealogia»


L’amico folgorato dalla lettura di Nietzsche, che per mesi e mesi non aveva più parlato d’altro ossessionando familiari, conoscenti e pure qualche estraneo, è un classico ricordo degli anni di liceo o di università. Generalmente il personaggio in questione finiva per: a) Disamorarsi e passare a altri autori, dimenticando poi quasi tutto di Nietzsche (è il 99,9% dei casi, fortunatamente);
b) Disamorarsi di Nietzsche e fare comunque carriera accademica come filosofo;
c) Restare fissato su Nietzsche, ascoltare molto Wagner e, un giorno, compiere atti assimilabili alla fattispecie dell’apologia di reato (una sparutissima minoranza).
Andrew Morgan invece ha fatto una scelta diversa. Il «nuovo Elliott Smith» (parola della rivista specializzata britannica Uncut ), rocker romantico e intellettuale che ha trovato il tempo di incidere un disco molto amato dalla critica («Misadventures in Radiology») tra un semestre e l’altro di studi teologici alla prestigiosa Divinity School di Harvard, su Nietzsche ha deciso di scrivere un disco rock.
La bizzarra idea è venuta a Andrew - filosofo prestato alla musica che prima dell’iscrizione a Harvard ha studiato anche a Oxford - preparando una serissima tesi di laurea sulla critica nietzschiana del Cristianesimo. E così il ragazzo del Kansas, che spesso si presenta in aula in giacca e cravatta (ma con gli stessi jeans indossati sul palco la sera prima in qualche localino fumoso di Cambridge, Massachusetts) ha deciso di mettere in musica la Genealogia della morale , uno dei testi chiave del pensiero di Nietzsche (uscita prevista del disco - ancora in fase di scrittura e arrangiamento - tra la fine dell’anno e l’inizio del 2006).
L’ultimo caso conosciuto di diretta ispirazione nietzschiana era stata la canzone di Zucchero «Nietzsche che dice» («Oro incenso e birra», 1989). Ma nel testo fornaciaresco la filosofia non appariva, lasciando spazio a esclamazioni poco harvardiane come «Nietzsche che dice boh? / Nietzsche che dice boh boh? / Non c’è confine / tra il bene e il male / non c’è mai fine mai / quante parole / o mamma mia che stress... / single man desperado».
Il ventisettenne americano invece (che si è appena preso un periodo sabbatico lontano dall’università per completare l’opera musical-filosofica) fa sul serio: arruolati due professori di tedesco, passa giornate con la chitarra a tracolla e una copia in versione originale di Zur Genealogie der Moral sulla scrivania al posto dello spartito, traducendo in note il pensiero del filosofo che sussurrava ai cavalli.
Strano? No, pensando alla genealogia di Andrew, così diversa da quella della maggior parte dei suoi colleghi tutti chitarra e amplificatore, ma anche da quella dei compagni di facoltà a Harvard. Suo padre è un ex tastierista pop, mamma è la responsabile del ramo di Kansas City del fan club ufficiale dei Beatles, sua sorella è una musicista classica (che ha anche suonato nel primo disco di Andrew). «La mia famiglia mi ha insegnato che l’amore per la musica leggera non è assolutamente in contraddizione con quello per i libri - ha spiegato di recente a una rivista studentesca della sua università -. Mia sorella suona la viola, così da piccolo mi sedevo sul divano e la ascoltavo mentre si esercitava in salotto. Mio fratello invece era fissato con i Pink Floyd. Così ho imparato subito a non costruire muri. E l’amore per i libri - e per i Beatles - è nel Dna di tutta la famiglia».
Se il mentore è stato proprio Elliott Smith (che pochi mesi prima di morire lasciò utilizzare gratis la sua sala d’incisione a Andrew e alla band che avevano finito i soldi, «un’esperienza da sogno e gesto di bontà e generosità da parte di Elliott che non potrò mai dimenticare»), gli idoli giovanili sono i Radiohead, l’eroe assoluto John Lennon e il modello attuale i Wilco, Morgan stupisce ancora quando rivela il titolo dell’album preferito. Quello che porterebbe su un’isola deserta. Né Beatles né Bach, né l’amato Brian Wilson («il più grande creatore di melodie di sempre»), né Nick Drake (al quale Andrew è stato paragonato dalla rivista Q in una recensione da incorniciare). È «Kind Of Blue» di Miles Davis, una delle più belle incisioni del «superuomo» del jazz.

Matteo Persivale

(Corriere della Sera 31/01/05)

[Modificato da Il Ghibellino 22/03/2005 23.32]

nhmem
zilath mexl rasnal
03/02/2005 23:32
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 87
Registrato il: 08/04/2004
Utente Junior
OFFLINE
LA DIVINITY SCHOOL...
LA DIVINITY SCHOOL
Fondata nel 1816 per educare i leader religiosi


È stato il bollettino della Divinity School il primo a celebrare il progetto del suo studente Andrew Morgan (nella foto, la copertina del giornale) con un articolo intitolato: «Un uomo che odia la fama prova a bilanciare una carriera rock con la vita da studente». La Harvard Divinity School di Cambridge (Usa), dove Andrew Morgan studia teologia, è la più antica degli Usa. Fu, nel 1636, la Corte Generale della Colonia del Massachusetts a stabilire che tra gli obiettivi del college vi fosse anche quello dell’educazione dei leader religiosi: «Dopo che Dio ci aveva portati sani e salvi al New England (...), una delle cose di cui occuparsi era il miglioramento dell’istruzione (...), per non lasciare alle chiese sacerdoti illetterati (...)». Nel 1816 fu fondata la Divinity School per «incoraggiare ogni studio serio e imparziale della fede cristiana».

(sempre dal Corriere 31/01/05)
nhmem
zilath mexl rasnal
04/02/2005 11:20
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 5
Registrato il: 01/02/2005
Utente Junior
OFFLINE
Concordo pienamente con la scelta di Andrew per Kind Of Blue di Miles Devis. Per il resto oserei dire che si è fatto "molto rumore per nulla".
19/02/2005 16:40
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 141
Registrato il: 08/04/2004
Utente Junior
OFFLINE
Le fallofore in conclave nella Roma del Seicento

19/2/2005

Anacleto Verrecchia

A quanto pare la Roma papalina, che alcuni rimpiangono, era un enorme lupanare. Si dirà che le altre città, ad esempio Londra o Venezia, non erano diverse. D’accordo, però a Roma c’era il papa, il Vicedio o luogotenente del Padreterno, il cui compito era semmai quello di redimere l’umanità e non quello di diffondere la puttaneria. A meno che i papi non seguissero alla lettera le parole di Cristo: «Le meretrici vi precederanno nel regno dei cieli». E se le fallofore hanno la precedenza sulla via del cielo, è giusto che l’abbiano anche sulla terra. Del resto, se la prendono comunque. Le cose si misero male, per le puttane di Roma, quando, con il nome di Alessandro VII, fu eletto papa il senese Fabio Chigi, il quale aveva il gusto per la pederastia, tanto che Gregorio Leti, l’autore di Il puttanismo romano, lo chiama «inclito sodomita». Molti diranno che un pizzico di pederastia non guasta mai, come la salvia e il rosmarino. Ma Leti c’informa che in quell’epoca la corte papale era un vero giardino di Epicuro, dove tutti veleggiavano con il vento favonio, quasi che il papa senese vi avesse operato una vera e propria transvalutazione di tutti i valori in chiave sessuale. Le fallofore, poverine, facevano magri affari, perché erano pochi quelli che bussavano alla porta tradizionale, se così posso esprimermi. Che fare? Ci voleva un papa che non sbagli porta e che sia di esempio anche per gli altri. E qui Gregorio Leti, nato a Milano nel 1630 e morto ad Amsterdam nel 1701, ha un’idea diabolica. Sentite. Siamo nella Roma della seconda metà del 1600. Il pontefice Alessandro VII è in fin di vita e la grande batteria di cardinali e di prelati è in subbuglio per la successione. Ma trovare una figura pulita in mezzo a quel drappello di porporati era come trovare funghi in Arno. A questo punto entrano in scena le puttane, le quali si riuniscono in conclave per sceglierlo loro il degno successore di Alessandro VII.
Diavolo d’un Leti! Di tutti gli attacchi fatti alla Chiesa questo è uno dei più devastanti, perché il sarcasmo uccide più di qualsiasi altra arma. Le puttane vogliono rifarsi dei danni «patiti in dodici anni di pontificato per l’introduzione dell’arte sodomitica, con la quale era affatto distrutta la loro mercanzia, con notabil detrimento dell’umana propagazione». Un libro di grande attualità, come si vede; ma siccome non vorrei essere accusato di partigianeria, metto le mani avanti e dichiaro di essere ascetico, quindi al di sopra delle diatribe sessuali. Vorrei solo aggiungere che oggi quelle fallofore se la caverebbero sicuramente meglio, perché, in caso di necessità, potrebbero sempre farsi eleggere al Parlamento come Cicciolina. A muovere lo sdegno dell’autore è, più ancora del puttanesimo, il nepotismo, cui è dedicata la seconda parte del libro. Si tratta di un dialogo tra Pasquino e Marforio. L’opera procede su tre binari: il primo di polemica anticattolica e contro la dissolutezza della corte papale; il secondo, altrettanto sarcastico, sulla divisione sociale delle donne in categorie; il terzo sulla piaga del nepotismo. Il resto, al lettore. Due parole, ora, sulla figura di Gregorio Leti, che Lichtenberg chiamò sarcasticamente «Leti Cacalibri» per l’enorme quantità di carta scritta. Doveva vivere, il disgraziato, con la penna. La sua vita errabonda ricorda un po’ quella di Giordano Bruno. Anche Leti, infatti, nipote di un vescovo ed educato dai gesuiti, fu costretto ad abbandonare l’Italia e a rifugiarsi all’estero. Prima a Ginevra, dove si fece calvinista, poi in Francia, a Londra e infine ad Amsterdam. Il suo temperamento battagliero lo rese inviso a cattolici e a protestanti. Molti italiani, per sfuggire all’Inquisizione, si rifugiarono all’estero e si fecero calvinisti o protestanti, per poi accorgersi che gli uni valevano gli altri. Il male non era nelle varie confessioni, ma nel cristianesimo come tale, vale a dire nel monoteismo. Un dio unico è geloso del proprio potere e si comporta come quelle piante, per esempio il noce e l’eucalipto, che non lasciano crescere nient’altro intorno a sé. Di qui le guerre di religione e le stragi in nome del buon Dio. E non parliamo dell’Inquisizione, che fece più vittime delle pestilenze e depauperò intellettualmente l’Italia.

(in ttL tuttoLibri supplemento de La Stampa p. 7 del 19 02 2005 recensione de: Il puttanismo romano di Gregorio Leti, Salerno, pp. 211, € 12) [SM=g27819]

nhmem
zilath mexl rasnal
19/02/2005 17:32
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 149
Registrato il: 08/04/2004
Utente Junior
OFFLINE
I risultati dei nuovi ritrovamenti archeologici

Le Mura Serviane arretrano di due secoli e vengono datate al VI secolo avanti Cristo


Le Mura Serviane non sono del IV, ma del VI secolo a.C. I libri di storia, secondo i recenti scavi fatti a largo di Santa Susanna e in via XX Settembre con i resti della Torre di Porta Collina, sono sicuramente da rivedere. È la prima novità. Poi: i templi escono dalla cinta serviana e invadono il suburbio a partire dal III secolo a.C. C’è lo zampino delle tante guerre combattute da Roma? Probabile. Ma il fatto è che si portano dietro necropoli, acquedotti, fattorie, ville. Le tombe a inumazione, come la necropoli del VI secolo trovata da poco in piazza Vittorio, o i resti della necropoli di via Turati, dove sono state individuate sepolture pluristratificate, databili al III secolo a.C., s’interrompono però improvvisamente con la fine del secolo. Poi si apre un vuoto. Che cosa è successo dunque in questo periodo intenso e finora poco frequentato dall’archeologia, a vantaggio dei periodi più antichi e poi dei grandi ritrovamenti dell’età imperiale? Gli archeologi romani si sono messi a studiarlo e ora riscrivono la storia della città. L’occasione è dunque il «suburbio». E in particolare quello che nasce fuori dalle mura tra il V e il II secolo a.C., dopo i Re e prima dell’impero, quando la città, vinte ad una ad una le città vicine, procede a un intenso processo di «romanizzazione» che investe tutto l’agro circostante fino al IX miglio. È su questo panorama archeologico che negli ultimi anni si sono concentrate le attività di scavo della Sovrintendenza archeologica di Roma. Un lavoro spesso controcorrente, minato da scarsità di mezzi e da un trend politico-economico che non ha certo nella tutela dei beni archeologici il suo punto di partenza. Coronato però da un’entusiasmante quantità di ritrovamenti che giovedì e venerdì sono stati comunicati in un convegno promosso dall’École française.
Bisogna allora partire dalla relazione conclusiva fatta da Maria Antonietta Tomei, sul lavoro suo e di tutti i suoi colleghi, per cogliere il fiato alla gola che si respira in archeologia. «Il paesaggio unico e inconfondibile dell’agro romano è pressochè scomparso. I massicci, talvolta sconsiderati interventi edilizi hanno provocato quella che Martin Frederiksen ha definito "la scioccante devastazione delle antichità d’Italia". I residui di campagna che ancora restano si configurano come brandelli che sopravvivono tra le periferie in continua espansione...».
Eppure proprio in questo contesto, dal I al IX miglio (cintura presa in considerazione dagli archeologi), avvengono ancora miracoli. In via di Terricola ecco tornare da poco alla luce un edificio fornito di vasca, probabile santuario legato al culto delle acque. A Radicicoli, sotto Ikea 2, ecco riaffiorare ville, necropoli, acquedotti, «stipi» votive. Al V miglio della via Campana tornano, grazie agli scavi francesi, strutture in opera quadrata di tufo, terrecotte votive, antefisse. Un santuario riaffiora sulla Tiburtina. Qua e là riemergono percorsi delle vie pubbliche, come il recente percorso finalmente stabilito della via Laurentina di cui sono stati riscoperti cento metri di basolato a Castellaccio. Recenti scavi Acea hanno invece riportato alla luce un tracciato dell’Appia del II secolo a.C.
La vera novità è che sono riemersi anche i laboratori tessili come quello di Ponte Milvio, gli intensi interventi agricoli, le prime fattorie come gli ambienti padronali ritrovati all’Anagnina o al Torrino (tre ambienti con una corte, oppure alla Romanina con «dromos» di accesso con loculi, ma vicino c’erano anche gli alloggi dei «clientes» con le capanne e un pozzo), le ville di Castel Giubileo e Centrone. Tornano perfino alcune coltivazioni, come quelle della vite, con annessi canali di irrigazione e drenaggio. E ancora tanto altro. Compreso un interrogativo finale di un archeologo: «Come faremo a valorizzare tutto ciò che stiamo trovando?».

Paolo Brogi


Cronaca di Roma


http://www.corriere.it/edicola/index.jsp?path=CRONACA_DI_ROMA&doc=APR
nhmem
zilath mexl rasnal
19/02/2005 17:36
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 150
Registrato il: 08/04/2004
Utente Junior
OFFLINE
«Daremo battaglia per salvare il passato»
IL SOPRINTENDENTE


«Daremo battaglia per salvare il passato»


Soprintendente Angelo Bottini, lei ha appena partecipato a un convegno in cui non solo i suoi archeologi ma anche eminenti studiosi come Fausto Zevi hanno lanciato un disperato appello alle esigenze di tutela per ciò che rimane del territorio. «Sono d’accordo. Il paesaggio ha un portato, una valenza storica. Va valorizzato giuridicamente. E questo comporta problemi e scelte, non sempre facili da adottare, però per quanto mi riguarda irrinunciabili e decisive. Sono ovviamente favorevole a garantire la miglior cornice all’intervento di tutela. Daremo battaglia...»
È anche un problema di piano regolatore. Il suo predecessore Adriano La Regina ha presentato a suo tempo una cinquantina di pagine di osservazioni. Raccoglievano il punto di vista sul campo di tutto lo staff di valenti archeologi che lei ha ereditato.
«Sono arrivato da poco. Ma conosco quelle osservazioni. E non mancherò di tenerle presenti. Ma il problema del suburbio è un problema di identità nazionale. Lì c’è un pezzo unico di storia che non ci possiamo giocare in base alle necessità delle infrastrutture che per quanto necessarie non possono prevalere come se la città fosse senza passato».
Italia Nostra punta il dito contro la legge che la Regione Lazio ha adottato nello scorso dicembre.
«Sì ho sentito il rappresentante dell’associazione che accusava in particolare queste nuove disposizioni che, secondo quanto diceva, consentirebbero in caso di edilizia residenziale di derogare dagli strumenti di tutela. Non conosco questa legge. Mi documenterò al più presto. Penso, in ogni caso, che il problema riguardi l’amministrazione centrale, il ministero...».
Valorizzare il paesaggio. Ma come pensate di farlo?
«Abbiamo l’obbligo di far diventare questo interesse un interesse generale. La tutela dei beni archeologici non può essere l’interesse di un gruppo di studiosi. Il suburbio è un territorio che fa parte della storia, è un territorio tutto così. Ci sono tracce ovunque. Perciò lo considero un problema di identità nazionale. Per il paese si tratta di fare delle scelte col consenso sociale. E anche per noi. Altrimenti siamo perdenti».
Soprintendente, lei è arrivato da poco più di un mese. Tutelare l’archeologia è il suo primo problema. Ma anche valorizzarla. Cosa pensa di promuovere su questo fronte?
«Ho intenzione di eliminare gli uffici della Soprintendenza al Palatino. E di trasferire tutto a Palazzo Massimo. A Santa Maria Nova, in quella sede bellissima, aprirò l’Antiquarium. È un’idea che mi è venuta fin dai primi giorni in cui mi sono insediato nella soprintendenza. Quello è il posto giusto, non solo per noi, ma anche e soprattutto per chi viene a Roma ad ammirare la sua storia e le sue vestigia».

P. Br.


Cronaca di Roma


http://www.corriere.it/edicola/index.jsp?path=CRONACA_DI_ROMA&doc=ZAN
nhmem
zilath mexl rasnal
19/02/2005 17:41
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 220
Registrato il: 13/04/2004
Utente Junior
OFFLINE
Re:


Scritto da: nhmem
A quanto pare la Roma papalina, che alcuni rimpiangono, era un enorme lupanare.


Insomma, col senno di poi questa lunare Roma papalina non doveva poi essere così male... [SM=g27821]

22/02/2005 19:06
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 152
Registrato il: 08/04/2004
Utente Junior
OFFLINE
dizionariettoROMANO

La zona dei Pantani cancellata dai Fori



di MARIO SANFILIPPO

Dopo il X secolo la zona dei Fori è progressivamente interrata fino a 5/6 metri. La Cloaca Massima non funziona e nel Cinquecento gli orti tra i resti dei Fori diventano i Pantani e così il fornice meridionale nel muro di tufo (costruito da Augusto contro gli incendi della Suburra) diventa l’Arco dei Pantani. Nella seconda metà del Cinquecento la Cloaca Massima è restaurata ed è prosciugata l’area dei Pantani. Il cardinale di Alessandria, Michele Bonelli, nipote del papa Pio V Ghislieri, ordina grandi riporti di terra e terrazzamenti (in alcuni punti fino a tre metri) per tracciare le due vie, Alessandrina e Bonella, che prendono il suo nome. Sotto Sisto V, nel 1585-7 l’intera zona è lottizzata con un impianto stradale nel complesso regolare. La zona è urbanizzata con un’edilizia modesta e all’interno dello sterminato rione Monti si organizza il "quartiere dei Pantani", che rapidamente si congiunge con quello della Suburra, anche se rimangono due entità distinte. Dal Cinquecento all’Ottocento una miriade di edifici (casupole, case, palazzetti, conventi, monasteri, conservatori, ospizi, tra cui quello famoso di Santa Galla, brefotrofi, chiese, cappelle) sovrastano i ruderi antichi.
In età napoleonica i primi scavi o sterri liberano parte della basilica Ulpia; con la restaurazione pontificia le demolizioni e gli sterri continuano ai Mercati Traianei e, dopo il 1870, proseguono al foro d’Augusto. Infine nel 1911-13 Corrado Ricci, espressione della cultura dell’epoca umbertina e giolittiana, propone la liberazione completa dei Mercati Traianei e dei Fori Imperiali: un progetto molto più rispettoso dell’esistente di quanto è stato fatto in seguito.
Dal 1924 i lavori di scavo si mettono in moto; ma soltanto dal 1930 Antonio Muñoz, allievo di Corrado Ricci, accelera la liberazione totale dei Fori Imperiali in vista dell’apertura di via dei Monti, poi dell’Impero. Rapidamente si attua un grandioso gioco del domino, demolendo ettari e ettari urbanizzati, così il "quartiere dei Pantani" diventa parte integrante di Roma sparita.




Cronaca di Roma


Corriere della Sera 22 02 05

nhmem
zilath mexl rasnal
25/02/2005 22:43
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 158
Registrato il: 08/04/2004
Utente Junior
OFFLINE

ARCHEOLOGIA
Torna l’Antiquarium,
il museo scomparso

di PAOLO BROGI

Era diventato un museo fantasma. E nei magazzini così come dentro il chiostro di Santa Maria Nova si erano man mano accumulati i tesori archeologici, frutto degli scavi ai Fori. Torna ora l’Antiquarium sulla sommità della collina Velia, tra Colosseo e Palatino. Gli uffici della Soprintendenza saranno trasferiti in via in Miranda. Nel museo statue, fregi, sepolcri, reperti domestici. E un grande tempio...



Cronaca di Roma


http://www.corriere.it/edicola/index.jsp?path=CRONACA_DI_ROMA&doc=BRO
nhmem
zilath mexl rasnal
Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 | Pagina successiva
Nuova Discussione
Rispondi
Cerca nel forum

Feed | Forum | Bacheca | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Crea forum gratis, gestisci la tua comunità! Iscriviti a FreeForumZone
FreeForumZone [v.6.1] - Leggendo la pagina si accettano regolamento e privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 09:44. Versione: Stampabile | Mobile
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com