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Dalla stampa quotidiana (a cura di Nhmem)

Ultimo Aggiornamento: 11/12/2005 22:25
25/02/2005 22:49
 
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Nato all’inizio del ’900 era stato man mano assorbito dalla Soprintendenza. Torneranno in mostra i tesori degli scavi

Barbari, vestali e il Tempio di Venere: rinasce l’Antiquarium

Via gli uffici archeologici da Santa Maria Nova. Tra Colosseo e Palatino torna un grande museo

Un nuovo museo per la città. Torna l’«Antiquarium», la struttura museale dei Fori e del Palatino, in uno dei luoghi più suggestivi di Roma Antica, la Velia. Da Santa Maria Nova, l’ex monastero che ospita ciò che resta dell’antico Antiquarium ideato all’inizio del secolo e poi via via ridotto di dimensioni a favore degli uffici, i funzionari della Soprintendenza Archeologica faranno fagotto andandosene via e tornerà a fiorire un gioiello già dotato di pezzi e spazi pregevolissimi, un gioiello finito nel dimenticatoio. Tornano così alla luce preziose antefisse fittili del VI secolo a.C., grandi «barbari» imperiali in pregiato marmo pavonazzetto come quelli delle collezioni Farnese, tre grandi «vestali», il lunghissimo fregio della Basilica Aemilia, le sculture della Fonte di Giuturna, la «Medusa» del Tempio di Venere e Roma, la «stipe votiva» del Tempio della Concordia. Insomma una festa di resti legati ai Fori e al Palatino, frutto degli scavi di varie generazioni di archeologi, che tra due anni verrà messa a disposizione del grande pubblico recuperando anche uno spazio di rara e nascosta bellezza come il Tempio di Venere e Roma, una specie di seconda Basilica di Massenzio finora inutilizzata.
Febbraio 2005: i visitatori entrano a migliaia, come ogni giorno, dentro il Colosseo, principale attrazione per chiunque visiti Roma. Poi molti di loro affrontano la salita in basolato verso il Palatino, la Via Sacra, che porta al bianco Arco di Tito che sorge sulla sommità della Velia. Una foto ricordo, dopodiché scendono a gruppi verso i Fori, oppure salgono sulla sinistra per il Clivo Palatino a dare un’occhiata alla nostra acropoli. Nessuno va verso l’edificio di destra, quello incapsulato tra la chiesa di Santa Francesca Romana e la piattaforma del Tempio di Venere e Roma, piazzata in faccia all’Anfiteatro Flavio. Eppure lì dentro è pieno di tesori.
Fuori della palazzina a due piani c’è scritto Soprintendenza archeologica di Roma, giusto il più coraggioso dei turisti può dare un’occhiata dentro il vestibolo e individuare alla base della duplice scalinata settecentesca un cartello con su scritto «museo». Ma ieri, per esempio, il cartello era addirittura messo alla rovescia diventando illeggibile dall’ingresso. Quel cartello indica ciò che resta dell’«Antiquarium», un museo fantasma, ridotto a poche stanze del pianterreno, accanto a un chiostro fantastico pieno di reperti e a uno spazio di rara bellezza, una delle due navate di ciò che resta del Tempio di Venere e Roma, una struttura che ricorda l’architettura della vicina Basilica di Massenzio e che è chiusa al pubblico da sempre. Quanto all’Antiquarium attuale, consta di quattro stanzette (la quinta è in uso al personale) nelle quali l’ideatore del museo, il soprintendente dei primi del ’900 Giacomo Boni aveva riunito i resti dei propri scavi e soprattutto i sepolcreti riportati alla luce.
Per il resto il palazzo è attualmente tutto un susseguirsi di strani uffici che occupano primo e secondo piano con funzionari della soprintendenza (35, più la direttrice degli scavi dei Fori, Irene Iacopi) in mezzo a computer, scartoffie e pregevoli antichità romane. Ma nei giorni scorsi è maturata la svolta. È stato infatti il nuovo soprintendente Angelo Bottini, dando seguito a un annoso progetto fatto elaborare fin dal 1986 dal suo predecessore Adriano La Regina, a decidere la riapertura e l’allargamento dell’Antiquarium per farne un’attrazione rivolta alla massa dei turisti in visita. Per Bottini questa è una delle prime decisioni prese da quando ha assunto l’incarico. All’architetto Giuseppe Morganti della Soprintendenza l’onere di dar corso al progetto. Da subito.
«Nel bilancio è stato stanziato già un milione e mezzo di euro per il trasloco degli uffici nei vicini locali di via in Miranda, sempre qui in zona - spiega Morganti -. Inizieremo quanto prima i lavori di adeguamento e contiamo di trasferire i primi uffici entro un anno. Entro due anni l’operazione sarà completata e allora, grazie a un nuovo stanziamento ancora da inserire in un prossimo bilancio, avvieremo i lavori qui a Santa Maria Nova». A conclusione nascerà quello a cui Irene Iacopi ha già dato un nuovo nome: Museo Forense.
«Vi risistemeremo le tombe del sepolcreto arcaico di Boni, valorizzandone meglio i ritrovamenti - aggiunge Iacopi -. E poi tireremo fuori dai magazzini e dal nostro "lapidarium" una grande quantità dui reperti, frutto degli scavi che si sono avvicendati ai Fori dove hanno operato colleghi americani, filandesi, francesi e archeologi italiani come Carandini, Pensabene, Panella. Esporremo così pezzi minuti e grande statuaria, resti pertinenti alle aree templari e materiali di uso domestico».
Senza scomodare i magazzini, basta dare un’occhiata in giro, nelle bacheche di Boni o dentro il chiostro dugentesco. Dadi da gioco, lucerne, ampolle di vetro, pettini, oliere, accanto a capitelli, statue acefale, grandi barbari, capienti bacili, fregi, tombe e sepolcri ricostruiti con gli arredi originari. C’è perfino il calco originario della «Lapis niger». In più c’è il chiostro con le sue colonne ottagonali, ma a lasciare senza fiato è ciò che resta del tempio di Venere e Roma affiancato al chiostro: su un pavimento ricostruito in marmo, sotto il cielo, ecco una decina di grandi colonne di porfido rosso che affiancano la doppia cella dell’abside contrapposta (ce n’è anche una seconda dall’altra parte nella navata che guarda verso il Colosseo). Chiuso da sempre, si erge maestoso e invitante sotto il cielo di Roma. Diventerà un’attrazione.

Paolo Brogi

Corriere della Sera 25 02 2005
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zilath mexl rasnal
25/02/2005 22:52
 
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La Sapienza, sette secoli nel nome della cultura

Una mostra al Vittoriano ripercorre la storia del più antico ateneo della Capitale

La bolla papale, in realtà, è del 20 aprile 1303: i festeggiamenti per i 700 anni dell'università di Roma «La Sapienza» avrebbero dunque dovuto svolgersi due anni fa. Ma tant'è: i finanziamenti sono arrivati in ritardo, ed ecco allora che il più antico e prestigioso ateneo della capitale ha posticipato a quest'anno le celebrazioni per il suo settimo secolo di vita. Ultima, la mostra documentaria che si è inaugurata ieri al Vittoriano e intitolata «I luoghi de La Sapienza», che parte proprio dalla bolla con cui Bonifacio VIII istituì lo «Studium Urbis» - aperto a tutti i settori della cultura - per raccontare la lunga storia dell'ateneo romano. In maniera estremamente sintetica (forse troppo) la mostra allinea soprattutto pannelli che documentano la storia della Sapienza attraverso i suoi luoghi, strettamente connessi, com'è ovvio, alla storia della città di Roma. Due in particolare i momenti su cui gli organizzatori hanno soffermato la loro attenzione: la storia secolare dell'edificio borromoniano in corso Rinascimento, dove l'ateneo ebbe sede fino al 1935; e la città universitaria progettata da Marcello Piacentini durante il fascismo in collaborazione con i migliori architetti dell'epoca. Un complesso (come suggerisce anche un interessante video con opinioni di celebri architetti) che oggi, dopo decenni di damnatio memoriae , viene pressochè unanimemente riconosciuto come un'eccezionale realizzazione per stile e funzionalità (benché superata dai tempi). Oltre gli anni Trenta, la mostra getta poi uno sguardo sul futuro dell'ateneo, con una sezione in cui sono riassunte le possibili aree di sviluppo (dall'ex Snia sulla Prenestina al complesso di Santa Maria della Pietà a Monte Mario). Oltre a video, documenti, foto, disegni e grafici, la mostra allinea anche oggetti e reperti provenienti da 18 musei della Sapienza (fino al 16 marzo, ingresso libero, tel. 06.6780664; tutti i giorni 10-19).
E. Sa.


Cronaca di Roma


http://www.corriere.it/edicola/index.jsp?path=CRONACA_DI_ROMA&doc=PRIMO
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01/03/2005 00:28
 
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Il «tesoro di Priamo» ...resta (per ora) all’ombra del Cremlino

La disputa tra Germania e Russia per il «tesoro di Priamo» si arricchisce di un nuovo capitolo. L’oro di Troia - scoperto dall’archeologo tedesco Heinrich Schliemann nel 1873 sotto le rovine dell’antica città turca e trafugato dal Museo nazionale di Berlino nel 1945 dalle truppe sovietiche - resterà proprietà del governo di Mosca come parte del risarcimento per i danni di guerra. Ad affermarlo in un’intervista al Moskovsky Komsomolets è Anatoly Vilkov, vicedirettore dell’agenzia culturale russa. Il «tesoro di Priamo» è stato abbandonato per circa mezzo secolo in un deposito sotterraneo segreto del Museo Puskin ed esposto al pubblico per la prima volta solo nell’aprile del 1996, con una mostra parziale della collezione. Proprio da metà degli anni Novanta va avanti la contesa tra il Cremlino e Berlino per il possesso del tesoro: la controversia tra i due Paesi sembra però in stallo. Infatti, anche la Russia ha delle pretese sui bottini di guerra tedeschi risalenti al secondo conflitto mondiale. In ogni caso, parlare di «tesoro di Priamo» è storicamente scorretto: l’oro non apparteneva al leggendario re di Troia, ma è di un’epoca anteriore ai fatti narrati da Omero.

http://www.corriere.it/edicola/index.jsp?path=CULTURA&doc=TRIANG

[Modificato da Il Ghibellino 23/03/2005 0.02]

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zilath mexl rasnal
01/03/2005 22:43
 
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Il restauro del Museo Nazionale di Baghdad


Stanziati 1,7 milioni di dollari, anche l'Italia collabora

(ANSA) - ROMA, 1 MAR - Stanziati 1,7 milioni di dollari per il restauro del Museo Nazionale di Baghdad, in condizioni disastrose dal 2003. Nel caos seguito alla guerra, i saccheggiatori avevano trafugato 14.000 reperti: 4.000 sono stati recuperati e altri individuati all'estero (1.000 negli Usa e alcune centinaia in Giordania). Anche l'Italia collabora al restauro, con l'allestimento di un laboratorio e l'invio di esperti che aiuteranno nell'opera di catalogazione dei reperti.

© Copyright ANSA Tutti i diritti riservati 2005-03-01 09:09

[Modificato da Il Ghibellino 23/03/2005 0.09]

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zilath mexl rasnal
01/03/2005 22:46
 
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I tesori irraggiungibili di Baghdad


Presentato alla Farnesina, testimonia l'impegno italiano


(ANSA) - ROMA, 28 FEB - 'Iraq prima e dopo la guerra. I siti archeologici'. Ovvero un libro sui tesori di Baghdad recuperati dopo i saccheggi. Il testo, curato da Pialuisa Bianco, e' dedicato allo sforzo della ricostruzione del patrimonio culturale, dopo le drammatiche immagini dei saccheggi dell'ultima guerra. Il testo sara' presentato a Roma dal ministro degli esteri Fini e dal responsabile dei Beni Culturali Urbani e testimonia anche l'impegno italiano nel recupero dei beni archeologici.

© Copyright ANSA Tutti i diritti riservati 2005-02-28 13:26


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zilath mexl rasnal
02/03/2005 18:48
 
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Pera ha deciso di pubblicare il discorso del senatore a vita
A Firenze la camera ardente. Domani Ciampi ai funerali

Luzi, l'ultimo messaggio al Senato
"Non uomo di parte, né di partito"



ROMA - Mai tradire lo Stato, non essere un uomo di parte. E' questo l'appello contenuto nell'ultimo messaggio del senatore a vita Mario Luzi, scomparso ieri. Discorso che Luzi non ha fatto in tempo a pronunciare, consegnato al presidente del Senato, Marcello Pera, pochi giorni prima di morire. E oggi Pera ha deciso di pubblicare l'intervento come omaggio al grande poeta.

Il testo del discorso: "Signor presidente, onorevoli colleghi, sento di dovere un ringraziamento dal profondo del cuore a quanti, e sono molti, si sono adoperati per questa nomina che mi onora superlativamente. Con pubbliche petizioni sottoscritte da molti cittadini famosi o oscuri, con appelli radio e giornalistici si è prodotta una mozione di simpatia più diffusa di quanto potessi aspettarmi. A tutti indistintamente un saluto riconoscente nella speranza di non deludere completamente l'aspettativa.

Con particolare affetto e devozione rivolgo il pensiero al presidente della Repubblica che mi ha ritenuto degno di sedere in questo seggio. Misuro infatti l'altezza dell'onore fattomi dalla statura culturale e civile di coloro, senatori a vita, che mi siedono accanto in questo consesso. La lista dei nomi ai quali il mio va ad aggiungersi è impressionante e mi fa dubitare di essere vittima di un abbaglio.

No, non è un abbaglio, devo convincermi, e dunque io siedo veramente dove hanno seduto Manzoni, Carducci, Montale, ma anche Garibaldi, Verdi, Verga.
La storia dell'Italia è salita fin qua, e addirittura qua è stata fatta. Il che è avvenuto non infrequentemente.
L'istituzione ha un grande prestigio e ha, allo stesso tempo, una parte incisiva e determinante nella vita politica nazionale. Mi permetto di insistere su questo vocabolo che voglio sia inteso nella pienezza che le aspirazioni tribolate e appassionate delle vicende risorgimentali e postrisorgimentali gli hanno dato, senza diminuzioni palesi o surrettizie.

Non sono un uomo di parte, né di partito e spero neppure di partito preso. Sono qui, suppongo, aldilà dei miei meriti, non dico a rappresentare, ma almeno a significare un lato della nostra realtà troppo spesso trascurato e maltrattato, quando dovrebbe essere privilegiato e sostenuto in tutte le sue manifestazioni di splendore e di bisogno. E' il settore, ma dispiace chiamarlo così, della cultura, dell'arte, della loro storia, dei loro documenti e monumenti, della loro attualità.

Non sono un uomo di parte, dicevo, sono però un uomo di pace e tutto quanto si fa per promuoverne e assecondarne il processo e la durata lo considero sacrosanto, inclusa qualche inopportunità, qualche errore controproducente perdonabile con la buona fede.
Non devo dire molto di più su me stesso se non confermarmi nell'atavico sentimento comune a tutti gli uomini della mia generazione e delle antecedenti alla mia che l'Italia è un grande paese in fieri, come le sue cattedrali.

Lo è secolarmente, non discende da una potestà di fatto come altre nazioni europee, viene da lontani movimenti sussultori fino alla vulcanicità dell'Otto e del Novecento. La nazione si unisce e ascende a se stessa, la sanzione di quella ascesa è lo Stato, per il quale penso si debbano avere, data la nostra storia, speciali riguardi. Revolution e amelioration possono equamente curarlo, ma tradirlo e spregiarlo non dovrebbe essere consentito a nessuno. Con questi pensieri e convincimenti mi associo a questo illustre consesso".

"E' un programma, un testamento culturale ed un messaggio politico", ha detto il presidente del Senato ricordando in aula il senatore a vita.

L'omaggio al poeta. La camera ardente è stata allestita a Palazzo Vecchio. La bara in legno chiaro è posta al centro del Salone, il luogo simbolo della municipalità e cuore della città. Fin dall'apertura della sala, stamattina, molti i cittadini che hanno reso omaggio alla salma del poeta. La prima corona ad arrivare è stata quella del capo dello Stato, che domani parteciperà ai funerali che si svolgeranno nel capoluogo toscano. Accanto alla bara due commessi del Senato e il figlio del poeta, Gianni.

(1 marzo 2005)

http://www.repubblica.it/2005/b/sezioni/spettacoli_e_cultura/marioluzi/ultimomess/ultimomess.html

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zilath mexl rasnal
03/03/2005 19:14
 
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Di nuovo consultabile la storica raccolta di Felix Jacoby dedicata ai frammenti dei «classici»

Tutte le rovine della letteratura in un cd

Quando si racconta la storia degli antichi greci si suggerisce, ai moderni, l’idea che di quel mondo sappiamo per lo meno l’essenziale, o comunque ciò che più importava o che più valeva. Nulla di più ottimistico. Orbene esiste un campo - la storiografia - dove il danno si vede meglio che altrove. La produzione storiografica è stata praticamente ininterrotta e geograficamente estesissima, fino a coincidere con l’estensione stessa del mondo greco e romano: eppure per noi non è che un cumulo di rovine. In un memorabile intervento, vecchio ormai di un quarto di secolo, Hermann Strasburger, uno dei massimi storici del secolo scorso, sviluppò, in proposito, alcuni calcoli. Il suo scritto s’intitolava:Dal campo di rovine della storiografia antica . E chiamava in causa il più importante strumento esistente al mondo in questo campo: la raccolta di Felix Jacoby, I frammenti degli storici greci ( Die Fragmente der griechischen Historiker ). Qui - egli osserva -, sono messi insieme circa 900 autori. Essi però non rappresentano che «un campione scelto a caso». E ancora: a giudicare da quel che sappiamo della estensione delle opere di cui abbiamo solo frammenti, si può stabilire che mediamente il rapporto tra conservato e perduto è di 1 a 40. Rapporto che diventa molto più sfavorevole se si includono nel calcolo le opere scomparse senza che ne sia rimasta alcuna traccia .
Nel corso dell’analisi, Strasburger individuava un paio di «leggi» della conservazione (e perciò anche della perdita) delle opere in lingua greca:
a) Tendenzialmente si conservano maggiormente le opere più tardive. E infatti dei primi cinquecento anni di storiografia in greco si sono conservati unicamente tre autori interi (Erodoto, Tucidide, Senofonte) e un terzo dell’opera di Polibio. Invece del secondo semimillennio si sono conservati, in tutto o in larga parte, Diodoro, Dionigi di Alicarnasso, Strabone, Giuseppe Flavio, Pausania, Arriano, Appiano, Dione Cassio, Erodiano, per non parlare delle quasi per intero superstiti Storie ecclesiastiche . Una maggiore «aspettativa di vita» dei testi nati più tardi si osserva, non a caso, anche fuori della storiografia;
b) I compendi vengono preferiti agli originali. Gli originali (cioè le opere intere ) erano, mediamente, di livello stilistico e intellettuale più elevato. Data l’ampiezza erano più costosi da allestire; di conseguenza erano disponibili, e accessibili, essenzialmente o prevalentemente nelle grandi biblioteche. Però proprio le collezioni librarie conservate in quelle gloriose pubbliche istituzioni si sono rivelate più vulnerabili. Ed è ovvio: in una regione la biblioteca è una, i privati colti sono più d’uno. Dunque la loro scomparsa ha trascinato nella rovina anche una quantità di testi di alto livello, dei quali era in circolazione un limitato numero di esemplari. Gli esemplari da biblioteca andati distrutti non sono stati rimpiazzati da ciò che comunque si conservava presso lettori privati, se non nel caso degli autori «grandissimi» e comunque molto letti. Il «livello» di quei testi ha determinato la loro rarità, e la loro conseguente perdita al momento dei disastri. Se c’erano dei compendi, almeno quelli si sono salvati.
Oggi un grande editore leidense, Brill, ha donato agli studiosi un moderno strumento che accresce di molto l’utilità della già preziosa raccolta di Felix Jacoby: un cd-rom che permette di interrogare quelle migliaia di pagine finora senza indici in cui riposa quasi tutto quello che sappiamo di una parte così rilevante della «letteratura greca perduta».

Luciano Canfora

http://www.corriere.it/edicola/index.jsp?path=CULTURA&doc=VEDO
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zilath mexl rasnal
03/03/2005 19:37
 
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L’INTERVISTA / Il fascino della città, le gallerie, la crisi del mercato: l’autore della famosa copertina di «Porci con le ali» si racconta

Pablo Echaurren: «La mia Roma»

L’artista ricorda trent’anni di lavoro, a cominciare da piazza del Popolo



Ha una bella terrazza, Pablo Echaurren. Una terrazza che abbraccia tutta Roma. Quella dei piani alti e dei tetti, dei campanili e delle cupole, ma anche delle antenne e delle paraboliche. Da Monte Mario al Gazometro, da San Pietro a Villa Medici. Da nord a sud, da est a ovest. L'occhio vi si perde, in questo mare che lancia barbagli di luce qua e là, nel rimando di una finestra, su uno spiovente metallico, come uno sbaffo d'onda in un mare vero. Peccato, per il vento. «Qui c'è sempre vento», dice Pablo, «anche d'estate. D'estate, poi, fa troppo caldo qua sopra». Ma certo è orgoglioso di averla, questa terrazza a Prati, da cui si vede scorrere, al di là dei palazzi, l'acqua scura del Tevere. Invidiabile panorama, non c'è dubbio. Ma la Roma che Echaurren ama è più segreta, più nascosta, quella che si coglie nella spessa ombra dei vicoli e dei cortili, quella degli odori forti che emanano i muri ammuffiti, quella dei vecchi carretti abbandonati dietro portoni sbilenchi. Pablo, «Paino» affettuosamente per gli amici, è nato a Roma, da madre siciliana e padre cileno, il grande pittore surrealista Sebastian Matta. Ma è un legame, quello con la patria di Neruda, che Echaurren sente molto lontano. «Non sono mai stato in Cile», dice «e non parlo spagnolo».
Artista poliedrico, vulcanico, dai mille interessi, collezionista di tutto ciò che è Futurismo, Echaurren crea, dalla fine degli anni Sessanta, fumetti d’avanguardia, scrive romanzi, passa con incredibile disinvoltura dalla pittura al disegno, si avventura con passione e abilità nel campo della ceramica. Attraversa felicemente ogni sorta di sperimentalismo artistico. E compone copertine come quella del 1976 per il libro «Porci con le ali» di Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice, per Lotta continua, Linus, Frigidaire e altri. Roma, l’estate scorsa, gli ha dedicato una antologica negli splendidi ambienti del Chiostro del Bramante.
Roma è ancora una città per artisti?
«Roma è una città "fatta" dagli artisti, nel senso che uno cammina per strada e calpesta polvere di secoli, di millenni di arte, oltre che naturalmente di persone normali che ci sono vissute e morte, di botteghe che si sono aperte e chiuse. Calpesta la polvere, quella vera, dei corpi che hanno edificato, prima dal nulla sui sette colli e poi in tutti i corsi e ricorsi storici, lo splendore di Roma costruendo, dove c’erano paludi e malaria, tante cattedrali per un popolo di pastori con le loro pecore, come si vede in tante oleografie. Ma oggi è diverso il rapporto con gli artisti».
Che cosa ha provocato la frattura con il passato?
«Io non so cosa, ma è certo che la quantità si è sostituita alla qualità. C’è troppo di tutto, in ogni campo. Troppi artisti. Una sovrabbondanza. Quando ho cominciato a dipingere, alla fine degli Anni Sessanta, di artisti ce n’erano in tutto un centinaio. Oggi forse se ne contano a migliaia. Artisti di tutti i generi, che non dialogano fra di loro come avveniva un tempo, quando per esempio gli astrattisti frequentavano i realisti e magari si prendevano a bastonate, ma almeno l’uno conosceva il lavoro dell’altro».
Qual è la situazione oggi?
«Oggi esiste un unico grande filone di tipo internazionale, quello che fa il giro delle sette chiese dentro e fuori dall’Italia, quindi una serie di artisti, sempre gli stessi, che vengono selezionati per rappresentare il nostro Paese o comunque per far parte di quella specie di magma internazionale che determina qual è il mercato, qual è lo stile che va in quel momento. E dall’altra esistono invece spore senza un agglomerato che riesca in qualche modo a sostenerle. Tutte queste realtà hanno le loro cattedrali nelle gallerie comunali d’arte moderna e contemporanea che non svolgono il loro ruolo istituzionale, non fanno conoscere tutto ciò che si crea in città. Lo stesso avviene al Macro, come dappertutto. Diciamo, per paradosso, che invece di costruire una cattedrale nel deserto si è riusciti a portare il deserto nella cattedrale. Se si va in uno di questi luoghi, si nota all’inaugurazione la presenza di artisti, critici, un po’ di pubblico selezionato, che è quello di riferimento dell’artista in mostra, ma il giorno dopo non entra più nessuno. Il deserto nella cattedrale».
Molto dunque è cambiato dagli anni Sessanta.
«Certo, perchè siamo tanti e perchè c’è, in qualche modo, una struttura (quella che Bonito Oliva chiamava la catena di Sant’Antonio: critico - gallerista - mercato) che lavora lodevolmente per alcuni e tende a fare terra bruciata attorno a loro. Tutti gli altri è come se non esistessero. In questo Roma è una città particolarmente odiosa».
Roma è una città che si fa amare .
«Forse solo all’alba Roma è piena di fascino. Roma la senti di più all’alba perchè poi si riempie di gente, di auto, di rumori e di corpi. Allora mi piace di meno, e quando posso vado in campagna a ricaricarmi. Via del Corso è diventato un qualunque corso di un qualunque paese dove si fa lo struscio. Ma, per un romano come lo sono io, il legame resta, senti come un legame con l’asfalto, con le pietre. Anche se è vero che fatichiamo a conoscerla, questa città. Per anni passi davanti a una chiesa e poi, un bel giorno, ci entri e scopri cose incredibili. Come il cuore di San Carlo nella basilica di via del Corso. Il cuore rinsecchito del santo. È una cosa di una bellezza assoluta. Quel cuore sembra il cuore di Roma, che sta lì rinsecchito in una teca d’oro, però se ci vai accanto ti lancia ancora delle pulsazioni. Che te ne frega, poi, se è di San Carlo».
Lei ha lavorato anche a Rebibbia, con i detenuti.
«Sì, è stata una bella esperienza. Fui mandato dall’assessore Borgna con l’idea che Rebibbia non dovesse rimanere una discarica oscura ai margini della città. Il frutto del laboratorio finì in una mostra, "Gattabuismo", a Palazzo delle Esposizioni. E a me servì per scoprire la periferia, che è un’altra città, un pezzo di città che merita di essere conosciuto».
C’è qualche traccia di Roma nelle sue opere?
«Sicuro. Ho fatto, per esempio, il rinocerontino esposto l’estate scorsa nel Chiostro del Bramante, che era un omaggio all’elefantino della Minerva. C’è poi in molti teschi che dipingo e con i quali mi collego alla sua storia millenaria. Camminando per le strade, sento la polvere dei morti. Lo dico in positivo. Per esempio, vado spesso a vedere la Cappella dei cappuccini in via Veneto. Ci sono quei teschi, quella polvere, prodotta anche dalla desquamazione della pelle umana, che diventa terriccio, è un materiale in qualche modo organico che rilasciamo. Ma il pennellone del moderno continua a cancellare l’antico. Da ragazzino, frequentavo via del Governo vecchio, piazza dell’Orologio: lì sentivi proprio la Storia, sentivi la muffa dei palazzi, l’orina dei gatti. C’erano quegli androni dei palazzi del ’500, del ’600. Enormi, bui, che facevano paura ai ragazzini».
L’artista, mi sembra di capire, soffre di solitudine.
«Una volta era diverso. Quando ho cominciato a interessarmi di arte, diciamo in seconda-terza liceo, andavo a piazza del Popolo, alla libreria dell’Oca, passavo da Feltrinelli dove c’erano le cravatte, dove c’era di tutto, cose in plastica fluorescente, andavo da Fulgenzi con tutti quegli ammennicoli pop e hop, incontravo artisti. C’era tutto un mondo che si poteva incontrare. Davanti al bar Rosati ho conosciuto Pino Pascali. Chiacchieravo con lui, aveva una bellissima moto nero cromata. Crescendo conoscevi altri artisti, li frequentavi, ci si scambiava idee...».
E adesso?
«Oggi tutto questo resiste, ma solo per piccoli gruppi. Ognuno tende ad avere le sue gallerie di riferimento e quel giro è obbligato. Nessun visitatore di una certa galleria andrà mai in una che fa una cosa di tipo diverso. Lo stesso vale per gli artisti. Forse c’è anche molto competizione non esplicita. Siamo talmente tanti, e i soldi sono talmente pochi, che si vive con la paura che qualcuno ti sottragga la tua fetta di torta. Oggi il mercato è fermo anche se c’è chi batte la grancassa. Non esistono grandi collezioni e le stesse grandi mostre a Roma non sono quasi mai grandi mostre, non arrivano mai i grandi capolavori».
Sopravvive, in qualche modo, il mito del Grand Tour?
«Ancora c’è chi viene a Roma. Abbiamo il caso eclatante di un artista che è assente quest’anno alla Quadriennale, uno dei più grandi del mondo, Cy Twombly, che aveva a suo tempo lasciato gli Stati Uniti per venire qui e ha ancora la sua casa a Roma e non è più tornato indietro. Si sente nei suoi quadri un po’ di Espressionismo americano, però si sente estremamente la cultura neoclassica, classica, greca e romana».



http://www.corriere.it/edicola/index.jsp?path=CRONACA_DI_ROMA&doc=DIST
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DISCUSSIONI
Se la chiesa si trasforma in museo

Siena. Appena si entra nella cattedrale, si deve ritirare un numero; si attende che compaia scritto in rosso nello schermo digitale e quindi, come al supermarket, si accede alla cassa per pagare l’ingresso, lo sportello è del tutto simile a uno bancario. Infilando il biglietto elettronico nella apposita macchina, finalmente si può sbloccare il tornello che regola l'accesso al luogo più sacro di Siena. Firenze. A Santa Maria Novella, la biglietteria ha l'aria meno aggressiva di un piccolo chalet di montagna, costruito al centro esatto del chiostro rinascimentale, forse per lo zelo di dimostrare la conoscenza della simmetria del luogo. Non si fa in tempo a spingere il portone d'ingresso della chiesa e a farsi il segno della croce che viene chiesto il biglietto da due custodi piazzati dove una volta c’era l'acquasantiera. La chiesa è vuota, non ha panche né sedie, come quelle protestanti.
Domanda: preti, frati, vescovi si rendono conto di trasformare le chiese in musei? E che quelle opere d'arte nate dalla spiritualità dei cittadini che le hanno commissionate a suffragio delle loro anime, diventano così altrettanti quadri profani, come una natura morta o una battaglia fra fra Amore e Psiche?
Non un fedele si aggira in queste chiese dove per entrare bisogna pagare; non una preghiera si leva verso madonne o crocifissi, confortati per decine di secoli dai colloqui con i fedeli.
La tutela delle opere è un problema, ma siamo sicuri che il modo di risolverlo sia paganizzare i luoghi santi? Non è forse meglio cacciare il mercante dal tempio e tornare al libero, promiscuo accesso di credenti e turisti che, insieme, come è stato per secoli, fanno amorosa compagnia ai santi?

Francesca Bonazzoli

Corriere della Sera 6/3/05
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zilath mexl rasnal
07/03/2005 01:48
 
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A parte una certa confusione di piani -che vorrebbe dire "paganizzare i luoghi santi"? - è un problema, quello della prostituzione delle chiese, che ho sempre sentito e che dovrebbe irritare chiunque sia disposto a riconoscere il carattere sacro degli edifici di culto dei cristiani (almeno sino al gotico).
07/03/2005 15:38
 
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Era un mercoledì, quel 4 dicembre del 1890, quando Crispi - ...

Era un mercoledì, quel 4 dicembre del 1890, quando Crispi - il «piccolo Bismarck», che allora teneva in mano le redini della nostra «Italietta» - telegrafa a Carducci, informandolo che il re Umberto I l’aveva appena nominato senatore, «onorando così in Lei l’amore di patria fatto altissima poesia». Giosuè Carducci, classe 1835, aveva già cinquantacinque anni e - come sappiamo dai banchi di scuola - oltre alla fama di poeta, conquistata con Rime nuove , Giambi ed epodi e le Odi barbare , aveva all’attivo anche un singolare percorso politico-civile, che dal fiero giacobinismo aveva finito per condurlo a celebrare anche i fasti di casa Savoia, dopo essersi inchinato all’«eterno femminino» della regina Margherita. L’aveva fatto, quel simbolico «inchino», esattamente nel 1878. E dunque, nella nomina senatoriale, c’era sì il riconoscimento ufficiale all’artista e al poeta cantore della «grande Italia», ma c’era anche un’esplicita «legittimazione», con cui la Corona voleva definitivamente «agganciare» a sé l’antico «leone di Maremma», e riconoscerlo come il «poeta vate», che dalle sponde giovanili di un ardente patriottismo democratico-repubblicano era approdato a un esplicito nazionalismo filogovernativo.
A Palazzo Madama Carducci fa il suo ingresso poco dopo, esattamente il 30 gennaio del 1891; e subito confessa alla moglie che «appena ricevuta la medaglia d’oro, la perdei», aggiungendo: «Se la rivoglio, come devo, mi occorrerà spendere venti lire» (ma, per sua fortuna, non dovrà farlo, perché la famosa «medaglietta» la ritroverà presso un macellaio...). Comunque, a Roma Carducci sarà sempre «un senatore con la valigia in mano», come racconta Roberto Balzani, presentando il volume dei Discorsi parlamentari , appena uscito nella collana dell’Archivio storico del Senato (Il Mulino, pp. 190, 15). E del resto, lo riconoscerà lo stesso Carducci: «Non sono per Roma, (...) ho bisogno di solitudine»; anzi, confermando la sua fedeltà a Bologna, preciserà che nella capitale «lo scirocco e la pioggia, la camorra e la chiacchiera, se non mi fiaccano, mi affrangono».
Lascia passare addirittura un anno, prima di «debuttare» il 17 dicembre del 1892 con un discorso, breve e anche abbastanza generico, a proposito dello «stato di previsione di spesa del ministero della Pubblica istruzione». Semmai, è nel luglio del 1895 che riprende la parola a proposito del «XX settembre giorno festivo per gli effetti civili»; e stavolta lo fa con un intervento infiammato e retorico, spiegando che l’Italia aveva «il dovere» di celebrare quella data storica (quando nel 1870, con la breccia di Porta Pia, i nostri bersaglieri «liberano» Roma), «per riaffermare nell’espansione del sentimento nazionale l’alleanza fra la rivoluzione e la tradizione, fra la democrazia e la monarchia, in virtù della quale l’Italia sta».
O rmai Carducci era diventato un convinto «filo-crispino», pronto non solo a testimoniare «l’obbedienza al dittatore» (sono sue parole dell’agosto 1895), ma a sentire tutto il trauma e lo sconforto per la catastrofe di Adua, nel marzo del 1896, e per la conseguente scomparsa politica di Crispi, che gli faranno subito esclamare: «Povera Italia, a che degenerazione e a che perfidia di uomini ridotta!». Del resto, la sconfitta in Africa segna anche per lui la fine di un’esperienza politica, peraltro abbastanza breve.
Tornerà a parlare nell’aprile del 1897, per difendere gli insorti di Creta, esaltando con la solita oratoria passionale la gioventù che, appena aveva avvertito di nuovo gli squilli «della tromba di Senofonte, filosofo, oratore e capitano», insorge, «scuote via dal cuore la viltà» e «corre a combattere per la patria, per la libertà, per l’idea, queste tre sole realtà vere». Anzi, contro le pretese egemoniche delle potenze occidentali il «Vate della Terza Italia» denuncia la politica del cosiddetto «concerto europeo», che a lui sembra «il bramito torbido, bieco e ferino delle potenze grosse, dei leoni, degli orsi, dei tori, sulla preda prossima futura». E così, riesce a suscitare fra i colleghi anche delle «ilarità», come fedelmente registrano (a futura memoria) i verbali del Senato.

Corriere della Sera 7/3/05

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zilath mexl rasnal
07/03/2005 15:57
 
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LA MIA ROMA / Intervista al rabbino capo: 53 anni nella Capitale, la ripresa dopo la guerra, gli incontri con i pontefici
«Il dialetto del ghetto? Una sfasatura dell’italiano»
Elio Toaff e il rapporto della comunità ebraica con la città: dalla Sinagoga ai nuovi quartieri



Gli piace ricordare, quando capita nel discorso, d’essere padre di quattro figli, tre maschi e una femmina. Sorride spesso ma di lontano, come chi ha visto passare molto mondo e tanto dolore sotto i suoi occhi. Partigiano sui monti della Versilia, laureato in giurisprudenza e in teologia, Toaff è cresciuto fra i libri. Il padre Alfredo, rabbino a Livorno, era infatti un apprezzato grecista. In quali zone della nostra città ha abitato e quali preferisce?
«Sono sempre stato qui, in via Catalana. Meta delle mie passeggiate quotidiane è l’isola Tiberina, dove ha sede l’ospedale ebraico. Aggiungerò che mi piacciono molto i Castelli e il loro paesaggio, pur cosi vicino alla Capitale, mi ispira una grande pace».
In che condizioni ha trovato la comunità israelitica, nel 1951, giungendo a Roma?
«La guerra si era conclusa da pochi anni. Gli ebrei romani, quando sono arrivato qui, dopo alcuni anni trascorsi a Venezia, conoscevano un momento di grave difficoltà economica. Il ghetto si era spopolato. Molti fra quanti non erano stati deportati il 16 ottobre 1943, avevano cercato rifugio fuori città, riparando un po’ ovunque. Vista la difficoltà dei tempi, stentavano però a rientrare. Cosi la rinascita del ghetto è stata lenta, graduale. Da allora, in ogni caso, si è avuto un notevole progresso economico favorito, in un primo momento, dall’aiuto delle organizzazioni ebraico-americane».
In un’intervista a Alain Elkann («Essere ebreo», Bompiani ed.) lei affermava che l'ebraismo romano si è come evoluto. Che cosa intendeva dire?
«Quando sono venuto a Roma c’erano i residui di quella che era stata l'emarginazione del ghetto. Oggi questo non esiste più. Tanto che gran parte degli ebrei hanno lasciato il loro vecchio quartiere, stabilendosi nelle zone più diverse. Da Monteverde ai Parioli, ai Prati, eccetera».
La comunità ebraica romana è la più antica fra quelle italiane. Non è cosi?
«Le basti che quando l’imperatore Tito, dopo la distruzione di Gerusalemme nel 70 d. C. , condusse a Roma come schiavi i giovani ebrei, i loro correligionari provvidero immediatamente a riscattarli. Questo vuol dire che un primo nucleo di ebrei era già saldamente insediato nella Capitale dell’Impero».
I romani sono naturalmente portati a un curioso scetticismo che non rinuncia alla fede ma la vive con pigrizia quando non con negligenza. Questo vale anche per gli ebrei?
«Diciamo che gli ebrei romani sono generalmente credenti ma non sempre, in egual misura, osservanti. Mi spiego meglio. Nella comunità ebraica i valori religiosi si sentono ancora molto. Gli ebrei romani non possono tuttavia considerarsi campioni nell'osservanza dei riti».
Mi dia, se possibile, una definizione dell’ebreo romano.
«A Roma si incontra un tipo di ebreo un po’ diverso, rispetto a quanti accade di incontrare in altre comunità italiane e non. L’ebreo romano è molto attaccato all’ebraismo ma lo pratica a suo modo. Secondo una sua ricetta».
Anche fra gli israeliti della Capitale, come fra i cattolici, si registra una diminuzione delle nascite?
«Purtroppo sì, almeno in qualche misura».
Pier Paolo Pasolini ha fatto uso, nel suo romanzo «Ragazzi di vita», di parole derivate dall’ebraico-romanesco. Nelle strade intorno alla Sinagoga si parla ancora questo particolarissimo dialetto?
«Non è un dialetto. É una sfasatura dell’italiano influenzata dal romanesco più antico e tradizionale. Gli ebrei parlano ancora questa lingua nel ghetto».
É vero che gli ebrei sono contrari alla conversione nella loro religione? Perché?
«La ragione è molto semplice. L’appartenenza alla religione ebraica è uguale all’appartenenza al popolo ebraico. Non ci si può, dunque, assimilare a un popolo che non è il proprio».
Quanti sono, attualmente, gli ebrei della comunità romana?
«Dai dodici ai quindici mila. É la comunità più numerosa d’Italia».
Quanti erano gli ebrei, in Italia, alla promulgazione delle leggi razziali?
«Erano trentaquattromila nell’intero territorio nazionale. Nessuno voleva credere che fossero così pochi».
Numerosi artisti e intellettuali, vissuti a Roma, erano di origine ebraica. Di fatto, però, hanno preferito tacerlo o non dar peso alla cosa. Perché?
«Per molti motivi, è spesso scomodo per uno scrittore o un pittore venir etichettato come ebreo. C’è ancora chi, fra il grande pubblico, può non gradirlo».
Non taceva certo le proprie origini l’architetto Bruno Zevi. Come la metteva tuttavia con il suo irriducibile, coraggioso laicismo?
«Più che alla religione ebraica, Zevi era legato all’ebraismo ossia a quella civiltà ebraica di cui si sentiva orgogliosamente parte. Zevi, voglio anche aggiungere, dava grande valore all’amicizia come ho avuto modo di sperimentare personalmente».
Giorgio Bassani, che non era romano come Zevi ma nella Capitale è vissuto a lungo, era anche lui un ebreo non credente ma molto attaccato alle sue origini. Non avrebbe, altrimenti, scritto i libri che ha scritto. Conosceva personalmente Bassani?
«Certo. Posso dire che ho molto apprezzato la sua intelligenza e il suo spirito. Si saldavano in un uomo difficile da dimenticare!»
Roma è, ovviamente, la capitale del Cristianesimo. Che ricordo ha dei Papi succedutisi nell’ultimo mezzo secolo?
«Giovanni XXIII aveva un rapporto molto aperto con la comunità ebraica, tanto da lasciare in noi un ricordo che definirei affettuoso. Quando era in agonia, mescolati alla folla dei cattolici in preghiera a piazza San Pietro, c’erano numerosi ebrei intenti alla letture dei salmi. Non avevano dimenticato che un sabato, passando con il suo corteo di automobili sul Lungotevere e vedendoli uscire dalla sinagoga, si era fermato a benedirli. Paolo VI non l’ho conosciuto personalmente ma è stato il papa che ha iniziato il dialogo con l’ebraismo. Con Giovanni Paolo II ho un ottimo rapporto. Il giorno della memoria ha chiesto che fossi vicino a lui. Wotjla è un grande politico, ha cambiato positivamente il corso della storia».
E Pio XII? Come si condusse con gli ebrei durante le leggi razziali? La discussione è stata ripresa anche di recente, proprio sul nostro giornale.
«Non mi pronuncio riguardo al rapporto di Pio XII con gli ebrei, durante le persecuzioni nazifascite. Non ho abbastanza documenti, rischierei di dire delle inesattezze. Certo il suo comportamento è stato molto discutibile».
É vero che, durante i tragici giorni delle deportazione nei campi della morte, un certo numero di ebrei romani trovò scampo, rifugiandosi in Vaticano?
«Non mi risulta. É vero, invece, che alcune decine di ebrei furono ospitati e protetti da istituti religiosi, retti da suore e preti».


Antonio Debenedetti

Corriere della Sera 7/3/05 Cronaca di Roma

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zilath mexl rasnal
09/03/2005 23:04
 
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INEDITI Nei Meridiani gli scritti civili del poeta. Da cui emerge la rivalità con il capo del fascismo, pronto a finanziare le sue imprese per tenerlo in disparte
Così d’Annunzio svuotava le casse del Duce
di MARZIO BREDA


Il rito del discorso al balcone è stato a lungo analizzato come metafora del fascismo, perché specchio e metronomo del consenso. Ora, un diario ritrovato fa emergere che quelle esplosioni di delirio individuale e collettivo ebbero un’anticipazione con Gabriele d’Annunzio, durante l’avventura di Fiume, attraverso «esperimenti» che è probabile abbiano ispirato Mussolini. Tanto più questo è probabile se è vero quanto sostenuto dallo storico Ernest Nolte, quando ha osservato che «molto dell’impresa fiumana si è riversato e prolungato nel regime» e che il futuro dittatore fu proprio allora «per la prima volta disposto a sottomettersi a un altro uomo». Il Vate, appunto. Non a caso i due s’incontrarono a più riprese nella città adriatica ed è quasi impossibile che il Comandante non si sia vantato dei suoi raptus retorici con l’aspirante duce. Quantomeno per narcisistico orgoglio. Annota d’Annunzio nei suoi taccuini: «Il popolo tumultuava chiamandomi, sotto le mie finestre la disumana massa ribolliva come materia in fusione... certe cadenze e clausole mi balenavano dentro come quei baleni che appariscono a fior del metallo strutto... Una forza non più contenibile mi saliva a sommo del petto, mi anelava nella gola: credo mi soffiasse non so che fluorescenza tra i denti e le labbra, gittavo un grido, i miei ufficiali accorrevano, spalancavano la porta, facevano ala, con un passo violento come lo scatto della balestra andavo alla ringhiera, andavo ad bestias? ad animos? sì, al popolo».
Insomma: i balconi visibili o invisibili di ogni dittatura - quello di Palazzo Venezia è in realtà un balconcino che sporge di soli 40 centimetri - producono una sorta di transfert, per cui chi vi si affaccia si sente folla mentre la folla si identifica in lui. Vi si origina uno scambio di energie (ecco la fluorescenza) che consente non solo di «dialogare con la storia», come pretendeva di fare il capo del fascismo, ma di padroneggiarla.
Canto e spada evocati insieme, la lezione del «poeta soldato» che deve aver suggestionato Mussolini è oggi riassunta in una pagina rivelatrice della coppia di Meridiani Mondadori in uscita in questi giorni sotto il titolo Prose di ricerca . Una raccolta di testi politici e autobiografici di d’Annunzio, la testimonianza di un protagonismo intellettuale che colpisce l’Europa: dal precoce esordio all’approdo parlamentare, alla guerra, ai 15 mesi di «governo creativo» a Fiume (che gli valgono la definizione di «vero rivoluzionario» da Lenin) fino al ritiro di Gardone. E la sorpresa più interessante di tante vite sta in alcuni brani che rimandano al confronto-scontro con il capo del fascismo. Il quale patisce il Vate «come un concorrente insidioso e ne risarcisce la defilata acquiescenza con danaro sonante»: una ventina di milioni stanziati tra il 1923 e il ’38, quasi altrettanti milioni di euro adesso.
«Un fiume di soldi di cui si serve non soltanto per la stampa dei suoi libri del passato e di quelli ancora da scrivere» spiega Annamaria Andreoli, presidente del Vittoriale e curatrice dell’antologia. «Infatti d’Annunzio intende contrapporre all’"uomo nuovo" Mussolini, che ha sperperato e usato il suo mondo ideale, la propria eccellenza di artista e condottiero, con un doppio allestimento polemico. Da una parte l’opera omnia, che comprende ben 80 titoli, dall’altra il Vittoriale, cittadella che celebra l’eroe del 1915-18». Dopo la marcia su Roma, che rifiuta di guidare come gli avevano chiesto Grandi e Balbo, non mette mai più piede nella Capitale. Si stabilisce a Gardone, recludendosi nella dimora-sacrario eretta per il milite noto , cioè se stesso. «E il Vittoriale è una variante del Vittoriano, l’Altare della Patria in cui si custodisce il milite ignoto , formula coniata da lui, il grande comunicatore della prima guerra di massa della storia».
Il monumento di parole e il monumento di pietre procedono di pari passo, come illustra anche l’atto di donazione del Vittoriale allo Stato, capolavoro di arte notarile. «Io ho quel che ho donato» fa incidere d’Annunzio sull’arco d’accesso al Grande giocattolo in muratura che diventa il suo eremo. «Il che significa che quanto maggiori sono i finanziamenti di cui dispone, tanto più magnifico sarà il dono» aggiunge la Andreoli. E’ il sottinteso di un «beffardo gioco al rialzo, riuscito, dato che quelli con il duce sono i soli conti che tornano, nella sua paradossale gestione economica».
E’ anche dalle prose civili dell’Immaginifico che fermentano i radicalismi eversivi del primo fascismo. Se ne inquieta lo stesso d’Annunzio, sin da quando il movimento non è ancora regime. E pure per lui il delitto Matteotti, nel 1924, segna uno spartiacque: è «una fetida ruina». Così come più tardi, in un’invettiva indirizzata a Mussolini nel ’33, giudicherà altrettanto rovinosa l’alleanza con «il marrano Hitler dall’ignobile faccia... pagliaccio feroce non senza ciuffo prolungato alla radice del suo naso nazi».
Ma il Vate «rimaneva un letterato della politica, prigioniero del suo mondo di parole incantate», secondo un giudizio mutuato da Renzo De Felice e sul quale Annamaria Andreoli concorda. «Fu un politico del gesto, amante dei colpi di mano. Un nazionalista, un conservatore, un liberale di destra. Un ingenuo Giovanni delle Bande Nere, se si vuole. Comunque mai fascista».
Certo: è lui, da esperto «spulciatore di vietumi» ad aver rivisitato nel 1917, con il volo su Pola, un grido d’incitamento grecoromano adottato dagli squadristi, «Eia eia eia Alalà». Ed è sempre lui ad aver prestato ai fascisti lo sprezzante «Me ne frego, me ne strafotto». Tuttavia, «l’usurpazione del suo nome lo infastidisce e lo induce a trattare il dittatore dall’alto in basso, minimizzandolo pericolosamente». E’ persuaso che il duce cadrà da solo e che gli italiani si rivolgeranno a lui per la guida della patria di cui ha allargato i confini. «Come gli eroi delle favole egli non muta, resta se stesso e si isola in attesa di essere "trovato"».
Aspettando gli eventi, con il «caro Ben» tanto vale scherzare, dice agli amici quando invia a Palazzo Chigi le 27 sestine del Carmen votivum . «Da circa 13 anni io non scrivevo versi... una mattina, dopo aver molto calcato una bella donna, risalii nella mia officina ancor calda e mi risedetti alla mia tavola... Perché, d’improvviso, una fresca vena di poesia mi salì dalla coglia possente alla sfrontata fronte? Perché scrissi, con un impeto giovanile e con un’ironia sottile, la Tenzone fra il Triangolo e il Circolo? Forse sei anche tu talvolta invaso dalla perplessità euclidea tra le due figure». Mussolini percepisce lo sfottò e la sua risposta è frettolosa e imbarazzata: «Ti ringrazio e ti abbraccio».
Di quegli stessi mesi, ma con tutt’altra maschera, è una lettera che un ormai anziano d’Annunzio spedisce al giovane padre Pio da Pietrelcina, invitandolo a raggiungerlo sul Garda. «Anch’egli, come il monaco, ha le sue stigmate»: forse le mani bucate per il troppo spendere, forse le ferite dello spirito. Adesso, toccato dalla «turpe vecchiezza» e alla «coraggiosa ricerca di sé medesimo», sente il bisogno di «un colloquio fraterno». «Caterina la senese mi ha insegnato a "gustare" le anime. Già conosco il pregio della tua anima, padre Pio. E son certo che Francesco ci sorriderà». Il duce è dimenticato. Altre cose, più serie, premono.



http://www.corriere.it/edicola/index.jsp?path=CULTURA&doc=BRE
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zilath mexl rasnal
09/03/2005 23:09
 
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Cari italiani, vi dono il Vittoriale
I BRANI

Pubblichiamo alcuni brani inediti di Gabriele d’Annunzio contenuti nei volumi «Prose di ricerca» (Meridiani Mondadori) in libreria da oggi
Profezia sul comunismo, 1926

Il popolo russo (...) ha liberato per sempre il mondo da una illusione puerile e da un mito sterile. È ormai dimostrato per sempre, dalla più vasta e terribile esperienza che sia stata concessa a una dottrina umana, è dimostrato come un governo escito da una dittatura di classe sia impotente a creare condizioni di vita sopportabili.
Il dono del Vittoriale, 1923
Io donai e dono il Vittoriale agli Italiani considerandolo un testamento d’anima e di pietra, immune per sempre da ogni manomissione e da ogni intrusione volgare. (...) Già vano celebratore di palagi insigni e di ville suntuose io son venuto a chiudere la mia sobria ebrietà e il musicale mio silenzio in questa vecchia casa colonica, non tanto per umiliarmi quanto per porre a più difficile prova la mia virtù di creare e di trasfigurare. Tutto infatti è qui da me creato e trasfigurato. Tutto qui mostra le impronte del mio stile nel senso che io voglio dare al mio stile. (...) Tutto è qui dunque una forma della mia mente, un aspetto della mia anima, una prova del mio fervore. Come la morte darà la mia salma all’Italia amata così mi sia concesso preservare il meglio della mia vita in questa offerta all’Italia amata.

http://www.corriere.it/edicola/index.jsp?path=CULTURA&doc=VATE

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zilath mexl rasnal
12/03/2005 16:09
 
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Un «corridoio» per unire Villa Poniatowski col museo di Villa Giulia

Un secondo gioiello acquisito è la «Rocca Albornoz» a Viterbo


Anna Maria Moretti è contenta. La sovrintendente archeologica del Lazio, ex sovrintendente dell’Etruria meridionale (sovrintendenza oggi accorpata dal ministero dentro quella regionale), sta per dotarsi di due nuovi gioielli, la Rocca Albornoz a Viterbo e Villa Poniatowski a Roma. Più un corridoio, di vitale importanza. Grazie all’accordo con i francesi Villa Poniatowski infatti, appena restaurata, sarà riunita a Villa Giulia sede nazionale del Museo Etrusco grazie a un vialetto che sarà aperto alle falde della scarpata su cui sorge la fronzuta collina di Villa Strohl-Fern.
In arrivo due gioielli per l’arte etrusca. Rocca Albornoz sarà inmaugurata il prossimo sabato 19 marzo. Esporrà le meraviglie etrusche trovate in quel ricco tessuto archeologico che è il viterbese: da San Giuliano, a Blera, Barbarano, Vetralla, Grotte di Castro, Bisenzio. Un evento.
Il secondo gioiello è Villa Poniatowski, che sorge a un tiro di schioppo da Villa Giulia. La Villa, allestita nel ’700 dal principe Stanislao Poniatowski, ha attraversato alterne vicissitudini nel corso della sua storia: fu danneggiata durante la Repubblica Romana del 1849, negli scontri tra Garibaldi e i francesi. In seguito vi trovarono sede alcune installazioni industriali, come le concerie Riganti e, dopo l'8 settembre '43, vi si insediò un comando delle SS.
Lo Stato l’ha acquisita nel 1988, il restauro è ormai cosa fatta e grazie ai 31 miliardi spesi sono stati riportati alla luce cicli pittorici e decorativi come quelli della Sala Indiana, della Sala d’Ercole e della Sala Egizia, che erano andati perduti o erano stati occultati a fine ’700 dal Valadier, che Poniatowski aveva incaricato dei lavori di sistemazione. Dal 2001 la villa ha aperto battenti per ospitare mostre: dalle «Ricerche archeologiche a Veio, Ceveteri e Vulci», al «Centenario dei Borghese», alla fotografica «Roma com’era» allestita nell’Essiccatoio. Ora diventerà una sede permanente del Museo etrusco.
Spiega la sovrintendente Anna Maria Moretti: «Vi sistemeremo quanto prima il "Latium Vetus", con i reperti di Satrico, Palestrina e dell’Umbria, attualmente ospitati nell’ala destra di Villa Giulia. In quell’ala al loro posto, effettuato il trasferimento, andrà Veio con tutte le sue meraviglie. Tireremo fuori dai depositi molti reperti che andranno a fare da cornice al grande Apollo, insieme alle antefisse e ai sistemi decorativi. In questa nuova esposizione troveranno posto i materiali delle necropoli del IX, VIII e VII secolo avanti Cristo. E insieme mostreremo le documentazioni degli scavi effettuati anche dai colleghi archeologi della Sapienza, da Colonna a Bartoloni e Carandini».
Buone notizie dunque per chi ama l’archeologia e le bellezze etrusche. La cornice destinata ad accoglierle sempre meglio unirà al Ninfeo, all’Emiciclo, alle Logge, alla Fontana Bassa, ai Telamoni di Villa Giulia anche la Villa Poniatowski allestita da un principe annoiato, nipote del re di Polonia.

P. Br.

da Corriere della Sera 12 03 05


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zilath mexl rasnal
15/03/2005 00:07
 
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Archeologia: Lucca fu etrusca

Un reperto etrusco del VI secolo a.C. ritrovato nella citta'



(ANSA) - LUCCA, 12 MAR - Una coppa di bucchero del VI secolo a.C., appartenente all'arte etrusca, e' stata trovata durante i recenti scavi a Lucca. Questo conferma l'origine etrusca della citta' toscana che nell'area lungo il fiume Serchio e nella Piana ha ospitato comunita'etrusche. La coppa e' stata portata in superficie durante gli scavi archeologici nell'area del convento di San Ponziano durante i lavori di restauro ed adeguamento funzionale per la sede dell'Istituto di Studi Avanzati di Lucca.

http://www.ansa.it/main/notizie/awnplus/cultura/news/2005-03-12_4322667.html

[Modificato da Il Ghibellino 23/03/2005 0.00]

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16/03/2005 00:02
 
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Se in un testo scolastico di storia non trovassimo nulla ...


Se in un testo scolastico di storia non trovassimo nulla sullo sbarco in Normandia del ’44, sulla guerra del Pacifico, e insomma su tutto quanto in quel conflitto non ha coinvolto direttamente l’Italia, rimarremmo esterrefatti. Eppure è proprio questo che succede nei manuali di molti Paesi: succede cioè che le vicende mondiali vi siano trattate solo in un’ottica angustamente nazionale, secondo una specie di autarchia storiografica che nemmeno il fascismo giunse mai a praticare. Ecco dunque che un manuale in uso nelle scuole ukraine può ignorare le vicende della seconda guerra mondiale relative non solo agli altri fronti di guerra ma anche ai territori del fronte orientale diversi dall’Ukraina. Ecco che in molti Stati la storia nazionale e la storia generale sono oggetto di due manuali diversi, con una netta prevalenza della prima. La storia nazionale, ad esempio, rappresenta i tre quarti dell’insegnamento della storia in Serbia; e in Bulgaria l’intera storia europea è trattata solo per l’influenza che essa ha avuto nella regione balcanica. Questi e molti altri esempi si trovano in un libro di grande interesse che Giuliano Procacci ha dedicato ai manuali di storia in uso, in questi anni, nel mondo. Ed è un libro che lascia spesso senza parole, poiché ci mostra un panorama davvero sconcertante di mitologie storiche, di falsificazioni del passato, di uso della storia come arma di combattimento ai danni di altri Paesi o di propri concittadini di diversa religione o etnia: ci mostra cioè quanto sia diffuso in buona parte del globo quell’uso politico del passato che ha costituito uno dei più discutibili caratteri della storia europea tra Otto e Novecento, e che l’Europa occidentale ha infine superato per vederlo ora assiduamente praticato in quasi tutto il resto del mondo.
Un frutto tardivo del nazionalismo ottocentesco, e della sua capacità di dotare la propria nazione di origini antichissime ma più o meno inventate, sembra prender corpo ad esempio nell’Azerbaijan, dove si discute sulla data nella quale collocare la nascita di uno Stato azero che in realtà non è mai esistito. Oppure in Georgia, dove le prime testimonianze della nazione georgiana, risalenti al medioevo, vengono retrodatate all’antichità e perfino alla preistoria. In India, dunque in un contesto del tutto diverso, le correnti fondamentaliste indu hanno cercato di espellere dalla storia indiana ogni apporto musulmano e cristiano, sostenendo a tal fine le origini autoctone delle popolazioni ariane. Nei manuali in uso nelle scuole palestinesi è invece lo Stato di Israele ad essere ignorato o ad essere citato, scrive Procacci, «nei termini di un antisionismo che facilmente sconfina nell’antisemitismo».
In Paesi come il Pakistan o l’Iran la storia viene fatta iniziare con l’islamizzazione del Paese, ciò che si accompagna volentieri alla tendenza a cancellare le tracce di altre civiltà: apprendiamo che in Sudan un futuro ministro dell’istruzione si sarebbe pronunciato a favore della rimozione delle statue «non islamiche» dai musei (un fatto che indurrebbe a considerare il caso dei talebani afgani meno isolato di come in genere si ritiene). In Arabia Saudita la storia del mondo non islamico è totalmente ignorata e per il resto viene ricompresa nell’educazione islamica; e questo rende assai dubbio che, in casi del genere, si possa ancora parlare di insegnamento della storia.
Non sempre i manuali presentano la stessa versione della storia nazionale; è anzi una differenza non da poco la presenza o meno di manuali diversi e della possibilità di scelta che ne deriva. Uno Stato in cui le differenze appaiono accentuate è la Russia, l’unico caso in cui Procacci abbia condotto un esame diretto dei manuali di storia, essendosi dovuto basare per il resto, a causa della vastità dell’argomento, sugli studi esistenti. E il caso russo costituisce un ottimo esempio di un’altra caratteristica diffusissima nell’insegnamento della storia. Mi riferisco all’accentuata celebrazione delle glorie nazionali, che tanto più colpisce nel caso dei manuali russi, divisi sul giudizio da dare su tanti temi fondamentali - dallo zarismo al comunismo - ma uniti nell’accettare, ad esempio, la versione della seconda guerra mondiale come «grande guerra patriottica» elaborata a suo tempo da Stalin.
All’esaltazione delle glorie nazionali corrisponde la cancellazione delle pagine oscure, spesso dei veri e propri crimini, compiuti dal proprio Paese. Se i manuali croati sono giunti a rivalutare il regime ustascia di Ante Pavelic?, quelli giapponesi hanno pervicacemente negato il massacro di 300 mila cinesi compiuto dal loro esercito a Nanchino nel 1937. Anzi, in Giappone la guerra contro gli Stati Uniti è stata spesso interpretata, con poco rispetto dei dati di fatto, come una guerra volta a proteggere tutta l’area del Pacifico dagli appetiti coloniali dell’Occidente. Non è privo di importanza, comunque, che in Giappone certe alterazioni del passato siano state oggetto delle animate critiche di una parte almeno dell’opinione pubblica, laddove in tanti altri paesi questo non è potuto accadere.
Diverso, ma non meno sconcertante, appare il panorama dei manuali spagnoli, in cui le tendenze di acceso nazionalismo identitario descritte per altri Paesi si presentano a livello regionale, nei manuali delle varie «comunità storiche». Così in un manuale adottato in Castiglia il merito di avere concluso la riconquista e di aver finanziato la spedizione di Colombo è attribuito interamente alla regina Isabella senza neppure accennare al suo sposo Ferdinando d'Aragona. I manuali galiziani dedicano solo mezza pagina alle vicende spagnole comprese tra la guerra civile e la caduta del franchismo. I manuali baschi ignorano l’intera storia spagnola dai secoli XVI al XVIII e oltre.
Tutto ciò dà luogo a una frantumazione del passato, alla negazione della possibilità stessa di una storia nazionale che per certi versi richiama la frammentazione nei programmi scolastici verificatasi negli Stati Uniti, dove si sono affermati standard di insegnamento della storia di tipo multiculturalista, i quali hanno messo in discussione la possibilità di una sua rappresentazione unitaria perché questa oscurerebbe - si è sostenuto - lo specifico apporto delle diverse componenti etno-culturali. In tal modo la storia che si studia a Los Angeles non è la stessa che si studia a New York: da questo punto di vista gli Stati Uniti si collocano davvero agli antipodi di quella storia accesamente nazionalistica che sembra predominare, a giudicare dal libro di Procacci, in gran parte degli Stati del mondo (e anche in Spagna, seppure a livello substatale).
In un saggio del 1928 Paul Valéry denunciò i pericoli di una storia che «fa sognare, inebria i popoli, produce in loro falsi ricordi, esagera i loro riflessi, mantiene aperte le loro vecchie piaghe, li tormenta nel riposo, li conduce al delirio di grandezza e di persecuzione, rende le nazioni amare, superbe, insopportabili e vane». Queste parole si applicano bene all’uso spregiudicato che della storia fecero, nel XX secolo, le varie dittature di destra e di sinistra, e ancora prima avevano fatto un po’ tutti gli Stati europei che si erano gettati, anche «a causa della storia», nella fornace della Grande guerra. Il libro di Procacci sembra indicare che quelle parole, sol che si guardi fuori dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti, non hanno perso purtroppo di attualità.


Il libro di Giuliano Procacci «Carte d'identità. Revisionismi, nazionalismi e fondamentalismi nei manuali di storia», Carocci editore, pagine 205, 18,10, sarà in libreria dal 17 marzo


http://www.corriere.it/edicola/index.jsp?path=CULTURA&doc=BELERDELLI

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zilath mexl rasnal
17/03/2005 00:08
 
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Alla vigilia del sessantesimo anniversario della fine della Guerra tornano le polemiche sul memoriale ai caduti dell’Armata Rossa di Treptow
Berlino, gli storici correggono le parole di Stalin

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
BERLINO - Sotto la tempesta di neve, il memoriale di Treptow appare ancora più eroico e celebrativo. Le ricorderebbero di sicuro molto bene, queste condizioni atmosferiche, gli oltre settemila soldati dell’Armata Rossa, caduti nella battaglia di Berlino e seppelliti sotto la sterminata distesa di granito svedese, tutto proveniente dalla ex-cancelleria del Reich, che Albert Speer aveva realizzato per Hitler. Fu costruito dai vincitori nel 1949. Cimitero e monumento insieme, dieci ettari di parco della memoria, nei quali onorare i caduti e celebrare la vittoria sulla Germania nazista. Con uno storico d’eccezione a ricostruire, pro domo sua naturalmente, le vicende che avevano preceduto quel pur sacrosanto trionfo: Josef Stalin.
Venire a Treptow è come attraversare un’invisibile porta del tempo. La Storia si è fermata, in quest’angolo di Berlino Est. L’Unione Sovietica dello stalinismo vive all’ombra dell’immensa statua di bronzo, alta più di trenta metri: un soldato russo, col piede sopra una svastica, che impugna la spada con la destra e stringe al petto un bambino tedesco col braccio sinistro. Di fronte a quello, ordinati in doppia fila a delimitare il vialone con i quattro grandi ossari, otto coppie giustapposte di blocchi in travertino bianco. Su ogni coppia, due bassorilievi identici e una citazione a caratteri d’oro, scritta da una parte in russo e ripetuta dall’altra in tedesco.
Le frasi vengono dal celebre Discorso sulla Grande guerra patriottica , inno del dittatore alla causa, al partito e dunque a se stesso. Sono quindici anni, da quando la caduta del Muro segnò la fine della Ddr e del culto di Stato a Treptow, che le associazioni delle vittime dello stalinismo e gli ex dissidenti chiedono che le tracce di Stalin vengano cancellate dal monumento. Pretesa oggetto di infinite discussioni, sull’eterno rovello se la memoria, anche la più terribile, e i suoi simboli possano essere rimossi o meno.
Richiesta comunque impossibile da soddisfare, perché l’intoccabilità di Treptow fa parte di un accordo internazionale, quello che, nel 1990, sancì la riunificazione tedesca. Concesse quasi tutto, un Michail Gorbaciov ormai indebolito, in quel negoziato con l’Occidente e con Helmut Kohl, compresa la permanenza della nuova Germania nella Nato. Ma salvò Treptow, impegnando nero su bianco la Repubblica Federale a mantenerlo e curarlo, assicurando i fondi necessari. Alla vigilia del sessantesimo anniversario della fine della Guerra e del crollo del nazismo, la polemica è divampata nuovamente. E di fronte alle pressioni di quanti preferirebbero veder cancellate le tracce staliniane, il Comune di Berlino ha fatto una scelta piuttosto originale. Così, invece di essere cancellate o cambiate, le frasi di Stalin verranno commentate. L’incarico di affiancare ai blocchi di travertino di Treptow delle tavole «chiarificatrici» è stato affidato agli esperti del Museo russo-tedesco di Karlshorst, ospitato nello stesso edificio di Berlino-Est dove il feldmaresciallo Keitel firmò la resa nelle mani del generale Zukhov.
«Non si tratta - spiega Peter Jahn, direttore del museo - di correggere le citazioni di Stalin, ma di contestualizzare, nel suo tempo e nel nostro tempo, l’intero memoriale. Quindi, non solo le frasi, ma anche la genesi del monumento; l’architettura, che rispecchia canoni ideologici e autoreferenziali; il suo significato per un Paese, che in quella guerra ebbe più di 25 milioni di morti, soprattutto civili. E poi non dimentichiamo che Treptow è anche un cimitero, dove sono sepolti 7200 soldati. Quei blocchi sono dei sarcofaghi, non si possono correggere le scritte su una pietra tombale, anche se capisco perfettamente lo stato d’animo di chi è stato vittima dello stalinismo».
Furono 20 mila i morti russi nella battaglia di Berlino, un numero uguale a quelli tedeschi. Altri duemila vennero seppelliti poco lontano dalla Porta di Brandeburgo. La maggior parte riposa al cimitero di Schoenholz, nel quartiere berlinese di Pankow.
«Per due decenni, l’Armata Rossa aveva difeso il pacifico e orgoglioso lavoro di costruzione del popolo sovietico. Ma, nel giugno del 1941, la Germania hitleriana, rompendo la parola data, invase il nostro Paese, violando in modo proditorio e brutale il patto di non aggressione. Così l’Armata Rossa si vide costretta a scendere in campo, per difendere il suolo patrio». Così recita il testo staliniano, scolpito sulla prima coppia di blocchi. Tutto vero, naturalmente. Ma senza alcun cenno al fatto, che il cosiddetto Patto di non aggressione, quello firmato da Molotov e von Ribbentrop nel 1939, fu anche un accordo scellerato di spartizione, in base al quale il Terzo Reich e l’URSS fecero un boccone della Polonia, mentre Mosca si assicurò anche mano libera nel Baltico.
Le nuove tavole, che saranno realizzate in cristallo con la tecnica della serigrafia, dovranno spiegare anche questo. «Ma il punto - tiene a precisare Jahn - non è quello di offrire un’interpretazione alternativa e più corretta della Storia, non è questo il nostro lavoro. Il nostro scopo, è di spiegare in breve alle persone, specie ai giovani, che vedono questo oggetto esotico nel cuore della città, perché fu costruito, cosa fu la battaglia di Berlino, quali avvenimenti storici la precedettero».

«L’ideologia dell’uguaglianza fra tutte le razze ancorata nel nostro Paese, l’ideologia dell’amicizia fra i popoli ha conseguito la vittoria totale contro l’ideologia fascista hitleriana del nazionalismo bestiale e dell’odio razziale». «Una grande missione di liberazione vi è stata trasmessa. Possano in questa guerra darvi coraggio e farvi da modello i nostri eroici predecessori, Alexander Nevski e Michael Kutuzow. Possa darvi forza la bandiera vittoriosa del grande Lenin».
«I banditi di Hitler si sono posti come scopo di schiavizzare o annientare i popoli dell’Ucraina, della Bielorussia, del Baltico, della Moldavia, della Crimea e del Caucaso. Il nostro obiettivo è chiaro e nobile: vogliamo liberare il nostro suolo sovietico».

Paolo Valentino

()http://www.corriere.it/edicola/index.jsp?path=CULTURA&doc=APRE

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zilath mexl rasnal
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Nel carcere di Castel Nuovo a Napoli, nel corso del 1624 o ...
Sbagliò sulle comete ma resta il padre della scienza moderna



Nel carcere di Castel Nuovo a Napoli, nel corso del 1624 o nell’anno successivo, Tommaso Campanella scrive una Apologia della Immacolata Concezione. Polemico, sottile, persino qua e là tartufesco, il filosofo affronta un tema molto dibattuto in quel tempo cercando di dimostrare come il dogma fu sempre caro all’ordine dei domenicani (a cui apparteneva) e che gli stessi, per intelligenza e santità, sono superiori a tutte le altre famiglie religiose. La tesi non aveva - e non ha - né capo né coda, ma la veemenza di Campanella e i sillogismi seminati ad arte sanno ammaliare. Tommaso d’Aquino è letto alla bisogna: si «dimostra» che un passo delle Sententiae , favorevole al concepimento immacolato di Maria, è più vero di un altro della Summa Theologiae , dove il santo dottore è contrario. Al di là delle astuzie del pensatore, l’ Apologia della Immacolata Concezione (di cui è appena uscita una traduzione di Alfonso Langella presso le edizioni L’Epos di Palermo, pag. 276, 18,80), offre un esempio del metodo scolastico di fare polemica. Quello nuovo, invece, legato alla scienza sperimentale, lo si poteva leggere dal 1623 in un libro apparso a Roma: si intitolava Il Saggiatore . Lo aveva scritto Galileo Galilei, da tempo nel mirino dei teologi, e a cui frate Tommaso dedicò già nel 1616 un’altra Apologia per rintuzzare i loro colpi.
A prescindere dai confronti e dai rimandi di metodo, l’opera galileiana avrà ben altra portata rispetto alle due campanelliane. Nata per una disputa con il gesuita Orazio Grassi, che aveva pubblicato con lo pseudonimo di Lotario Sarsi la Libra astronomica, nei 53 capitoli che compongono Il Saggiatore si confutano passo per passo le tesi del religioso intorno alla natura delle comete. Anche il titolo è polemico: nell’introduzione Galileo oppone alla libra (una bilancia e, allo stesso tempo, il segno in cui era comparsa la terza cometa del 1618) il più preciso strumento dei saggiatori d’oro, precisando tra l’altro che detta cometa apparve nel segno dello Scorpione. Poi lo scienziato, come si suol dire, getta il cuore oltre l’ostacolo trattando la sostanza e il moto di codeste entità celesti. Sostiene, tra l’altro, che esse sono apparenti e non reali, generate da effetti ottici e provocate da vapori esalati dalla Terra. Chiama quindi in causa il valore del telescopio, del quale si attribuisce la paternità scientifica; infine, per battere il gesuita (e le tesi del danese Tycho Brahe, a cui Grassi si rifaceva), ci offre preziose riflessioni sull’aderenza dell’acqua e del fuoco ai corpi lisci, sul rapporto tra moto e calore, sull’illuminazione dell’aria.
Oggi sappiamo che l’ipotesi di Galileo sulla natura delle comete è errata, ma Il Saggiatore resta un’opera indispensabile per la scienza moderna. In essa si legge il celebre passo che feconderà molte idee: «La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo)...». E due righe oltre: «Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto». Qui, insomma, viene formulata la nuova visione del sapere scientifico, che per Galileo nasce da «sensate esperienze» e «certe dimostrazioni».
La citazione riportata l’abbiamo tratta dall’edizione critica de Il Saggiatore, appena pubblicata da Antenore di Padova e curata da Ottavio Besomi e Mario Helbing (pag. 702, 59). Un lavoro eccellente che restituisce nella sua forma integrale quest’opera basilare di Galileo. Innanzitutto va osservato che la paragrafatura tiene conto di quella originale, ed è a capitoli; ad essa ne è stata aggiunta una nuova con ulteriori divisioni interne, che consente maggior precisione per i rinvii. Inoltre sono state restituite con un esame critico le Postille di Galileo alla Libra (e per la prima volta si è proposta una versione di quelle latine ); dell’opera ricordata del gesuita Grassi è stata anche offerta una nuova traduzione. Infine, tra le molte altre qualità di questo Saggi atore, va riconosciuto il merito di un commento integrale, il primo degno di tale nome. Poi tante meticolosità filologiche: il manoscritto perduto, le caratteristiche dell’edizione princeps , varianti e amenità care ai topi di biblioteca.
Nella recente biografia di Michele Camerota Galileo Galilei (Salerno Editrice, pag. 704, 34), viene ricostruita la polemica dello scienziato con Orazio Grassi in un gustoso capitolo intitolato «Comete, atomi ed Eucarestia». Si parla giustamente di «umori caustici» della replica galileiana e dell’uso di «motteggi al limite dell’insolenza», ma si ricorda anche che l’accanito gesuita non si ritirò umilmente e replicò a sua volta accusando Il Saggiatore di contenere tesi sulla materia capaci di pregiudicare il miracolo dell’ostia consacrata. Come andò poi a finire è cosa lunga da narrare. Diremo soltanto che Galileo fu di nuovo combattuto dai teologi con lo stesso zelo con cui osteggiavano materialisti e reprobi. Ma qui il discorso si fa ampio e Susanna Gambino Longo in un saggio appena uscito a Parigi da Honoré Champion, Savoir de la nature et poésie des choses (pag. 338, 56) ricorda che numerose intuizioni scientifiche moderne - galileiane comprese - presero avvio grazie alla sostituzione di Aristotele con Lucrezio ed Epicuro. Vale a dire con due diavoli. E tali parevano non soltanto al povero padre Orazio Grassi.

(http://www.corriere.it/edicola/index.jsp?path=CULTURA&doc=ELZEVIRO)

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zilath mexl rasnal
17/03/2005 00:19
 
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Graffiti e consapevolezza
IL SENSO
DEI SIMBOLI

di VALERIO MAGRELLI


Con una scelta di grande fermezza, il sindaco Walter Veltroni è intervenuto personalmente per cancellare dai muri di Roma alcune scritte e simboli razzisti. Si tratta di una decisione meritoria, per indicare l'atteggiamento dell'autorità su un fenomeno sempre più preoccupante. Tuttavia, al di là della condanna, vale la pena interrogarsi sul significato di questa moda giovanile. La prima cosa da notare riguarda la varietà di una pratica riconducibile al generico bisogno di «animare» le superfici parietali della città. Rispetto all'orizzontalità e alla figuratività dei madonnari, che scelgono come supporto i marciapiedi, chi predilige gli schermi verticali opta per una comunicazione aggressiva, sgargiante, violenta. Certo, sarebbe bene che, accanto ai divieti, si prevedesse, almeno per i graffiti, la creazione di spazi destinati ad accoglierli. È lo stesso problema degli skate: li si bandisca laddove producono danni, individuando luoghi in cui, viceversa, consentire la loro diffusione.
Ma veniamo alle scritte, o meglio, ai simboli politici. Per molti anni, quando Roma divenne teatro delle lotte riesumate in queste ultime settimane (dal rogo di Primavalle alla morte di Valerio Verbano), gli stemmi scarabocchiati sui muri costituirono una specie di basso continuo. A differenza di oggi, però, i protagonisti di allora erano perfettamente coscienti di cosa significassero gli emblemi dei rispettivi schieramenti.
Girando per le strade, raccogliendo le testimonianza istoriate sugli intonaci, ritroviamo di tutto, e lo sa bene Veltroni, il cui romanzo, «Senza Patricio», prende appunto le mosse da una frase tracciata in una via di Buenos Aires. Eppure, nel caso di Roma, gli stessi simboli acquistano, a distanza di trent'anni, un senso completamente differente. È quanto mi sorprendo a pensare scrutando, su un palazzo, due piccole svastiche rosa. In un'impronta simile c'è qualcosa di talmente casuale, inconsapevole, contraddittorio e immotivato, che viene spontaneo domandarsi se l'autore del segno sia effettivamente in grado di comprenderlo, o non lo confonda piuttosto con un semplice logo pubblicitario.
Nessuno pretende che i militanti conoscano le implicazioni di un'immagine millenaria, la cui forma, secondo René Guénon, «rappresenterebbe l'Orsa Maggiore vista in quattro posizioni diverse nel corso della sua rivoluzione intorno alla Stella polare». Il punto è un altro. Sarebbe interessante sapere se chi inneggia ai segnacoli del nazismo sia al corrente di quanto ne scaturì. Secondo Guénon, le braccia dello «swastika» (questa la traduzione di uno studioso come Francesco Zambon) raffigurerebbero la ripetizione della lettera greca «gamma», cioè la G, iniziale della parola «geometria». A me i suoi ganci, invece, fanno pensare alle stanghette degli occhiali ammucchiati a Auschwitz, strappati alle vittime insieme ai loro beni, ai vestiti, ai capelli, ai denti d'oro. È su questo che oggi occorrerebbe riflettere, ogni qual volta si delinei una «swastika».

()http://www.corriere.it/edicola/index.jsp?path=CRONACA_DI_ROMA&doc=FONDO

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