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Ultimo Aggiornamento: 26/09/2018 12:44
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24/09/2018 16:49
 
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Il Massacro di Martano

L'antico castello feudale – Sorpresi da Ciro – Strage degli abitanti – Uccisione della principessa – L'unico superstite.




Racconto elaborato dalla sig.ra E.M. Church sulla base di appunti dello zio,gen. Richard Church,Governatore di Terra di Bari e di Terra d'Otranto
(nel disegno: la cattura di Ciro Annicchiarico)

Al processo fu domandato a Ciro quanti omicidi aveva commessi. «Chi lo sa!», rispose freddamente, «sessanta o settanta, forse!».
Uno di questi delitti fece speciale impressione sul generale Church. Non solo una volta egli ne narra i particolari, ma più volte vi fa allusione nelle sue memorie, né è da sorprendere se un tal fatto fece un'incancellabile impressione sulla mente del gentile e cavalleresco Inglese!
L'antico castello feudale di Martano, egli dice, è situato in cima alla pittoresca cittadella dello stesso nome e domina una stupenda veduta. Al di là delle onde azzurre si scorge l'opposta riva dell'Adriatico e le montagne albanesi in fondo; mentre, vicino, si estendono pianure verdi, boschi di ulivi, vigneti, fino ad Otranto, per quattordici miglia di estensione. Questo antico castello apparteneva alla principessa di Martano, bellissima e giovane orfana di venti anni, sola padrona di un grande patrimonio e di estesi possedimenti, che viveva fra i vassalli nella casa dei suoi antenati, adorata da chi la circondava, pura ed ingenua, felice e tranquilla, e come avrebbe potuto essere altrimenti?
Essa aveva molti pretendenti, ma per nessuno aveva parola d'incoraggiamento, dichiarando ridendo che le cure per i sottoposti, la compagnia del piccolo cuginetto (un orfanello di sette od otto anni), la gentile tutela del vecchio cappellano e della governante (entrambi suoi lontani parenti e a lei devoti) assorbivano tutto il suo tempo e i suoi pensieri e non desiderava altro.
Le case della città di Martano erano sparpagliate irregolarmente su e giù, poche sulla strada, essendo quasi tutte isolate e circondate da giardini. Un ripido sentiero conduceva al castello, situato a qualche distanza dal paese e separato da ogni altro edificio.
Un'oscura notte di dicembre del 1814, gli abitanti del castello di Martano si erano augurati scambievolmente l'abituale felice notte; il vecchio servo aveva, come di consueto, chiuso a chiavistello le grandi porte (poiché, sebbene il fosso fosse stato riempito, e i bastioni demoliti, rimaneva sempre il cortile cinto da muri e i grandi portoni) e tutti andavano pacificamente a letto. La giovane principessa, congedata la cameriera, si disponeva a riposare, quando sentì bussare alla porta dell'appartamento ed entrò la governante.
«Non dormite, cara figlia? Tanto meglio, poiché dovete vestirvi e scendere a ricevere Sua Eccellenza il comandante della provincia. Questo povero signore è stato trattenuto per via nel recarsi ad Otranto e chiede la vostra ospitalità. Volete Venire?».
«Certamente, mia cara», rispose la ragazza. «Mandatemi Lucia e vi seguirò subito». «Poiché», osserva il generale Church, «tale è l'ospitalità dei nobili, della borghesia e di tutti gli abitanti delle Puglie in genere, che, a qualunque ora arriviate alle loro case, siete sicuri di essere il benvenuto, e molto probabilmente il padrone di casa stesso scenderà a ricevervi».
Quindi, come cosa naturale, la principessa si preparava a discendere per andare a ricevere il suo ospite.
Ahimè! non era un viaggiatore attardato che bussava quella notte alla porta del castello, ma Don Ciro con una banda di quaranta o cinquanta birbaccioni, che facendosi credere il comandante della provincia scusava il suo arrivo a quell'ora, con l'oscurità della notte, coll'inclemenza del tempo, colle condizioni poco tranquille del paese, e colla distanza da Otranto. Fu introdotto: il vecchio servitore tolse gli enormi catenacci nel mentre ordinava agli altri servi sonnacchiosi di far presto, di prendere dei lumi e di avvertire la principessa. I suoi ordini furono tosto obbediti; i servi si affrettarono a discendere l'ampio scalone di pietra. Chi portava torce, chi attizzava il fuoco semispento, chi provvedeva cibi e vini, tutti ansiosi di mostrare il loro rispetto al comandante. Non appena aperte le porte si udì scalpitìo di cavalli e una banda di uomini armati s'inoltrò nella corte. Alcuni rimasero a cavallo a guardia della porta del castello, altri smontarono e seguirono il loro capo, che si faceva strada nell'ingresso. Non vi era possibilità di resistenza, né tempo nemmeno per dare l'allarme. Il vecchio servo fu ucciso nel mentre si avanzava desideroso di accogliere cortesemente gli inaspettati ospiti. Con una mano venivano tolte le torce dalle mani dei servi, mentre l'altra vibrava il colpo mortale. I cadaveri furono gettati nel cortile e gli assassini si precipitarono in casa uccidendo e saccheggiando. Il canuto cappellano, la vecchia governante, i servi, uomini e donne, nessuno fu risparmiato. Quanto alla vaga giovane principessa…
Essa era in camera, conversando allegramente con le sue cameriere, mentre si preparava a scendere per ricevere il comandante. Il rumore di passi sulla scala, un certo tramestìo e movimento attirò l'attenzione di una delle donne, che uscì di camera per vedere che cosa succedeva. In cima alla scala incontrò un uomo armato. Interrorita domandò.
«Che comandate, signore?».
«È questa la camera della principessa?».
«Sì, che cosa volete?».
«Niente».
Indi un grido e la poveretta cadde al suolo trapassata da un pugnale, mentre Don Ciro le passava dinanzi precipitandosi nella camera dove si teneva la principessa, pallida e tremante ma pur sempre padrona di sé, come si conviene a persona della sua nascita ed educazione, senza lagrime o preghiere e rispondendo al breve saluto di Ciro con cortese giovanile dignità. Il colloquio fu corto.
«Principessa, sappiamo che avete una forte somma di danaro in casa. Dov'è?».
«Là, in quella cassaforte».
«Dove sono le chiavi?».
«Sulla tavola presso il camino».
«E i gioielli?».
«In quella cassetta sulla tavola».
«Ne avete altri?».
«Non in casa».
«Benissimo. Lasciatemi vedere».
Aprì la cassaforte, che conteneva 36,000 ducati, e gli occhi gli si iniettarono di sangue nel mentre faceva scorrere le monete d'oro fra le avide dita; aprì poi la cassetta dei gioielli e ne uscì perle, brillanti e rubini, anelli rilucenti e braccialetti d'oro, che avevano adornato molte belle e nobili dame di secoli passati; indi, orribile a dirsi, ma vero, esclamò ferocemente: «I filosofi ne dicono che il cane morto non può abbaiare», e col pugnale colpì la principessa e la cameriera.
Nel frattempo il resto della banda aveva finito il suo compito sanguinoso e, trovato vino e cibi e attizzate le legna nel focolare, se la godeva allegramente nella sala macchiata del sangue delle vittime, e tracannava sorsi di vino alla salute della «bella principessa».
Trascorso un po' di tempo Don Ciro dette il segnale della partenza e, dopo qualche disputa sulla divisione delle spoglie, se ne andarono dando fuoco al mobilio della sala grande e chiudendo con cura le porte che davano sul cortile affinchè qualche passante non si accorgesse dell'accaduto.
Ma vi era stato un testimonio non visto del delitto.
Il ragazzo, cui accennammo, lo sventurato cuginetto e compagno della principessa, era stato svegliato dal grido di agonia della cameriera. La sua camera era attigua a quella della principessa ed egli correva da lei per sapere e per esser difeso nel momento appunto in cui Ciro apriva la porta. Il bambino, terrorizzato, si nascose sotto una tavola coperta da un pesante tappeto frangiato di seta e oro, e là rimase inosservato, spettatore allibito della scena.
Quanto vi rimanesse non potè dirlo, ma dal suo stupore lo scosse finalmente il fumo soffocante che cominciava a invadere l'appartamento. Tremante e coi denti che gli battevano, non osando volgere gli occhi al bianco ammasso che giaceva immobile al suolo, il povero piccino uscì dal nascondiglio e passò da una stanza silenziosa all'altra, troppo spaventato per discendere, finchè giunse ad una finestra abbastanza vicina al suolo per potersi calare nel giardino; indi, a tastoni, nell'oscurità, scalò un muro basso e si fece strada attraverso sentieri ripidi e sassosi fino alla casa del sindaco di Martano, dove giunse quando appena l'alba grigia di quel giorno d'inverno cominciava a risvegliare gli abitanti dal loro sonno. Senza fiato e tremante il fanciullo non potè dire altro se non che qualcosa di terribile era accaduto al castello: e, dato l'allarme, i cittadini, con a capo il sindaco, si precipitarono verso il castello, che stava là chiuso, in apparenza come se nulla fosse successo.
Ma le porte cedettero agli sforzi, si spalancarono e… quale orrendo spettacolo si presentò agli occhi dei primi che penetrarono nella grande sala d'ingresso! Non rimaneva altro da fare se non seppellire i morti e destinguere il fuoco. Tutti compresero chi era l'autore di quel nefando delitto. Tutti avevano amato la bella principessa e di tutto cuore avrebbero veduto punito l'assassino. Il piccino potè poi dare una descrizione di Don Ciro e dell'accaduto. Fra i mucchi di cadaveri distesi al suolo, un servo e la cameriera che per prima aveva parlato con l'abate respiravano ancora, e, portati in città e medicati con cura, vissero abbastanza per firmare una deposizione davanti ai magistrati. Ma qui ebbe termine l'affare. Ciro Annichiarico si era circondato talmente dalla fama di stregone che il popolo non osava nemmeno maledirlo ad alta voce per tema che gli spiriti a lui familiari non gli ripetessero ciò che era stato detto.

[Modificato da M@rcon 26/09/2018 12:44]
07/02/2017 16:50
 
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Avete presente un uggioso pomeriggio domenicale, con la pioggia che batte sui vetri e allaga le strade e non puoi neanche uscire di casa per fare due passi?
Beh, è proprio in un pomeriggio così che una fortuita circostanza mi porta a mettere insieme i tasselli di questa storia, che mi risulta poco conosciuta, di settantaquattro anni fa. L'ho ricostruita interamente on line e non è stato facile, perché -devo dire- le fonti italiane non aiutano molto; i maggiori dettagli e riscontri li ho ricavati da fonti inglesi.

Sono dunque lì che cerco qualcosa da fare e alla fine decido di mettere un po' d'ordine in quello che con molta presunzione chiamo "il mio archivio" e che da parecchio tempo trascuro. Apro un pacco di vecchi giornali e m’imbatto in una copia sdrucita della Gazzetta del Mezzogiorno del 16 marzo 1943, il cui titolo a caratteri cubitali colpisce la mia attenzione; riferisce con entusiastica enfasi dell' affondamento, da parte di un sommergibile italiano, di una nave britannica nell’Oceano Atlantico, la "Empress of Canada".



Mi si accende una lampadina, io ho già visto da qualche parte il nome di quella nave e dopo un po' infatti ricordo: l'ho letta nell’elenco dei militari del Comune di Castrignano dei Greci, in provincia di Lecce, dati per dispersi durante la Seconda Guerra Mondiale. È il paese d'origine della mia famiglia paterna e lo considero anche il mio. Da qui il mio interesse. Controllo la lista che ho a disposizione e ne ho conferma: si tratta di un militare dichiarato disperso in seguito all’affondamento proprio di quella nave, un ragazzo di ventitré anni.

La RMS (Royal Mail Ship) “Empress of Canada” era un piroscafo di 21.500 tonnellate, una bella nave, costruita a Glasgow per una società canadese e varata nel 1922. Con base a Vancouver, in Canada, era stata utilizzata su lunghi tragitti da e per l’Estremo Oriente. Nel 1939, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, era stata però convertita in trasporto truppe e faceva la spola fra Australia, India e Inghilterra.




Il primo marzo 1943 questa nave lascia il porto di Durban, in Sudafrica, per dirigersi appunto verso l’Inghilterra.
A bordo trasporta prigionieri di guerra italiani e rifugiati polacchi e greci. Durante la navigazione il comandante riceve l’ordine di fare tappa anche a Takoradi, in Ghana –allora colonia britannica- per imbarcare altri passeggeri. Quando lascia quest’ultimo porto, a bordo ci sono 1.800 uomini, fra cui 400 italiani. Come mai anche italiani?
Nel novembre del ‘41 erano cessate le ultime resistenze italiane in Africa Orientale e i nostri soldati erano stati fatti prigionieri dagli Inglesi. Più di centomila affollano i campi del Sudafrica; famoso quello di Zonderwater. Con la guerra la manodopera scarseggia, soprattutto in agricoltura, e così molti di loro vengono mandati in Inghilterra, ovviamente per mare. Sulla nave, durante la navigazione diurna, i prigionieri sono relativamente liberi, possono muoversi, ma durante la notte vengono rinchiusi nella stiva per motivi di sicurezza; circostanza che renderà più difficili le operazioni di salvataggio.
Non dispongo di elementi sufficienti per stabilire se il protagonista di questo racconto sia stato imbarcato nel primo o nel secondo porto; la comunicazione alle autorità locali del tempo ci dice solo che si trovava su quella nave.

Ripresa la navigazione, intorno alla mezzanotte fra il 13 e il 14 marzo, il piroscafo si trova in pieno Atlantico, tra le isole di Sant’Elena e Ascension. Esattamente in quell’area è in missione un nostro sommergibile, il “Leonardo da Vinci”, al comando del tenente di vascello Gianfranco Gazzana Priaroggia, 30 anni, milanese, considerato già un eroe di guerra per i suoi successi.



Il “da Vinci” è il più moderno ed efficiente sommergibile della Marina Militare Italiana, tanto da essere scelto e preparato tecnicamente per un audacissimo progetto: violare il porto di New York. Non se ne farà nulla a causa degli eventi successivi.
In piena notte quindi, questo sommergibile intercetta la Empress e la silura. La nave non è scortata e quindi niente soccorsi. Le perdite saranno infatti numerose: 392 vittime, tra morti e dispersi; più della metà italiani. Solo uno viene preso a bordo del “da Vinci”, il s.t. medico Vittorio Del Vecchio, che –trasbordato successivamente sul sommergibile “Finzi”- si salverà e diventerà un famoso docente dell’Università di Roma.

Prezioso il resoconto da parte di un altro sopravvissuto, Pietro De Ambrosis:

Un giorno comunicano a me e ad altri duecento prigionieri italiani che saremmo stati trasferiti, senza conoscere la destinazione. Il 1° marzo 1943 partiamo da Durban, Sud Africa a bordo di quello che una volta era stato un bel transatlantico da crociera, l’EMPRESS OF CANADA, l’imperatrice del Canada. A bordo c’erano già altri prigionieri italiani provenienti dall’India, oltre a inglesi, polacchi, francesi. Noi prigionieri italiani eravamo sistemati nella stiva, in condizioni tutt’altro che agevoli e igieniche. La notte tra il 13 e 14 febbraio 1943 udimmo uno scossone e un boato terribili che ci svegliarono. Non comprendemmo che cosa fosse successo ma poco dopo ci fecero uscire e cominciarono a farci indossare i giubbotti di salvataggio, formati da due materassini che venivano legati uno davanti e uno dietro. Un siluro aveva colpito la nave che imbarcava acqua. Ci trovavamo tra l’isola di S. Elena e l’isola di Ascension, in pieno oceano Atlantico. Quando la maggior parte di noi si trovava già in acqua, arrivò un secondo siluro che fece colare a picco la nave. Mi salvai perché un’ondata mi portò lontano e non fui investito dallo scoppio e dai detriti. Il sommergibile che ci aveva silurato uscì a pelo d’acqua e il comandante uscì fuori. Scoprimmo che si trattava del LEONARDO DA VINCI, italiano. Prima di rientrare nel sommergibile e reimmergersi, l’equipaggio gridò un “Viva l’Italia” che suonava poco consono al momento. Trovai una scialuppa vuota. In pochissimo tempo la scialuppa fu piena in modo straordinario. Il mare era liscio come l’olio e la barca galleggiava solo per pochi centimetri fuori dall’acqua. Disponevamo di caramelle e poca acqua, trovata sulla scialuppa. Gli squali si aggiravano e divoravano tutto quello che trovavano. Per tre giorni andammo alla deriva, succhiando caramelle. Arrivarono poi dei cacciatorpediniere e raccolsero quelli che erano ancora vivi. Fummo portati in Inghilterra, a Liverpool e in seguito fummo destinati ai campi di concentramento e poi ai campi di lavoro fino al 1946”.

Dopo l’affondamento dell’Empress of Canada, il sommergibile italiano prosegue verso l’Oceano indiano, dove affonda altri navigli nemici, per riprendere infine la rotta di rientro ai primi di maggio. Si dirige perciò verso Nord per raggiungere Betasom, la base dei nostri sommergibili a Bordeaux, nella Francia occupata dai tedeschi. E così il 23 maggio 1943, al largo di Finisterre, sulla costa spagnola, il Leonardo da Vinci incrocia due convogli inglesi, questa volta sotto scorta di navi da guerra; due di esse, le fregate Active e Ness, lo intercettano e lo costringono a immergersi. Lo attaccano quindi con bombe di profondità e non desistono fino alla certezza del suo affondamento. Dell’equipaggio non si salva nessuno.
Il comandante Gazzana riceverà la medaglia d’oro alla memoria; due sommergibili, di cui uno ancora in servizio, avranno il suo nome.
Il militare salentino, come abbiamo anticipato, sarà dichiarato disperso. L’ unica traccia che rimarrà di lui sarà una sbiadita annotazione agli atti del suo comune d'origine.

A questo punto…che dire: i protagonisti di questa storia - i cui destini si sono così drammaticamente incrociati in una notte di marzo di tanti anni fa - torneranno, com’è inevitabile che sia, nell’archivio che finora li ha custoditi.
Sarà stato allora vano raccontarne la vicenda? Non credo: riflettere sulla tragica assurdità della guerra non sarà mai tempo sprecato.
M.Conti/



Quando erano partiti, cantavano così:
(cliccare sui titoli o sulla freccetta di start, in basso)

[Modificato da M@rcon 29/03/2018 18:04]
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