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Recensione - Ianua – Disobbedisco!

Ultimo Aggiornamento: 13/04/2006 08:52
13/04/2006 08:52
 
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Titolo: Ianua – Disobbedisco! (Cd, antica fonografia il levriero 2005)

Questa recensione sarà molto atipica, per hé sarà composta in maggior parte da parole altrui, sia per la presentazione del gruppo stesso, mirabilmente esposta nel sito degli Ianua stessi (http://www.illevriero.it/ianva/disobbedisco-e.asp), sia per l’analisi del contesto, così complicato da meritare una cospicua sezione, attinta da varie fonti. Lascio subito la parola al gruppo, rivelazione e felice sorpresa nel panorama neo folk internazionale:

"IANVA nasce negli ultimi giorni del 2003 su iniziativa di Mercy (Malombra, Il Segno Del Comando, Helden Rune) e Argento (Antropofagus, Spite Extreme Wing). Lo spunto viene fornito da un paio di brani che i due firmano (il primo sotto la denominazione di Heldenplatz, il secondo attribuito a S.E.W.) per una compilation underground italiana circolata esclusivamente fra addetti ai lavori.

Il fil rouge delle due composizioni si originava dalla profonda suggestione esercitata sui musicisti da alcune letture riguardanti l’epopea dell’Impresa Fiumana. I brani inclusi nella compilation fotografavano idealmente un incipit e un epilogo. Da qui la tentazione di tracciare un lavoro che deve molto alla tradizione italianissima (per diritto acquisito, se non di primogenitura) del disco concept di filiazione art-rock di settantiana memoria. E’ la nascita di ‘Disobbedisco!’.

Il filo della vicenda narrata viene fornito, in particolare, da un misconosciuto libro di memorie pubblicato a proprie spese e in età avanzata (e rinvenuto dai nostri su un’anonima bancarella), da un ufficiale a riposo (tale Col. Giovanni Laurago, classe 1898), dal titolo “Mai Così Colmo Di Vita”. Qui l’anziano militare ricorda, con accenti talvolta spassosi, ma molto più spesso vibranti di commozione, i giorni in cui, coi gradi di giovane tenente del corpo degli Arditi, venne affiancato in qualità di attendente a uno dei principali responsabili della sicurezza interna della Libera Repubblica di Fiume all’indomani dell’Impresa dannunziana."

Qui devo dare subito man forte al gruppo, confermando la primogenitura del loro lavoro dall’art-rock, costruendo (così come le grandiose rock opera dei ’70) un concept album di ambiziosissima portata, (tanto che per capirlo appieno bisogna comunque leggere le note della pagina in rete) i cui riferimenti vanno dal rock progressivo alle voci migliori della musica leggera italiana, spaziando dalle orchestrazioni al cantautorato d’autore, di cui forse è meglio tacere ogni fin troppo famoso nome per evitare ingiusti paragoni e rimandi che non sono così espliciti. Il gruppo ha forza e personalità propria da svincolarsi sia dai cliché del genere sia dai padrini della musica italiana, rendendo tanto originale lo sforzo quanto encomiabile 8anche se dal mio gusto non perfettamente riuscito).
Finite le premesse, a questo punto per me è essnziale aprire un lungo flashback riguardante lo scenario in cui si svolge la vicenda narrata in tanti capitoli quante le canzoni, ossia le vicende del Comandante e dei suoi legionari, cui spicca il Maggiore Renzi e una maliarda avventuriera di nome Elettra Stavros, con tutti i risvolti del caso. Ma per meglio capire cosa significhi l'impresa Fiumana (forse la vera protagonista di questa storia cantata), e qui riferire tutta l'attività frenetica di D'Annunzio nei quattordici mesi dell'avventura fiumana, dovremmo chiedere un centinaio di pagine in più, ma vediamo almeno di riassumere per comprendere a fondo cosa abbia significato quell'eperienza, sia dal lato emotivo, umano ed estetico (il fondamento su cui si poggia tutto l'impianto artistico del disco e tutta la weltschaung del gruppo), che quella politico, per amor della accuratezza storica.

L'impresa di Fiume fu il risultato di agitazioni di alcuni piccoli gruppi di italiani della città che si erano visti (grazie a Wilson che dettava legge e tracciava le sue "righe Wilson" sulla cartina dell'Europa con la massima disinvoltura, grazie al peso avuto dagli USA nel primo conflitto mondiale - ma anche alla cecità dei politici italiani) esclusi dall'Italia. L'Italia nonostante grandi manifestazioni di piazza nel Paese e un'accesa campagna di stampa su quella che si diceva essere una "vittoria mutilata", torna a sedersi alla conferenza il 29 MAGGIO, ma ottiene solo i territori che (disse Wilson), "si è già presa senza il mio permesso", rimanendo l'Italia delusa e beffata. Un netto rifiuto invece sul territorio di Fiume (che nel patto l'Italia aveva lasciato alla Croazia, ma nello stesso patto la Dalmazia gli spettava).

Ecco l'impietoso riassunto della vicenda narrato da Martin Clark In "Storia dell'Italia Contemporanea", Bompiani, già RCS, 1999:

"A settembre GABRIELE D'ANNUNZIO acconsenti a guidare un colpo di militare organizzato da alcuni alti ufficiali dell'esercito, da importanti nazionalisti e da due industriali. Marciò su Fiume con 2.000 "legionari" [i cosidetti Arditi del Popolo NdR], per lo più disertori o ammutinati dell'esercito. Il Comandante sarebbe rimasto a Fiume per quindici mesi, continuando, a urlare il suo disprezzo verso Cagoja [nomigliolo affibiato a Nitti dal vate NdR] e anche verso il suo successore, Giolitti. Fiume divenne il simbolo del fervore patriottico e delle vitalità giovanile. Futuristi, ex militari, nazionalisti, sindacalisti anarchici e avventurieri vi si precipitarono da tutta Italia. Scorrazzarono in lungo e in largo in cappa e spada (letteralmente), molestando i cittadini, e divertendosi un mondo. Il regime era una festa permanente, tutta processioni e cerimonie, danze e slogan. L'idea dannunziana della democrazia era simile a quella che, più tardi, sarebbe stata di Mussolini: lunghi discorsi retorici fatti da un balcone verso le folle estasiate, che gratificano l'oratore con le loro acclamazioni."

Sebbene al giorno d'oggi di D'Annunzio si conoscano tutti i difetti e quasi per niente le grandissime virtù, le righe riportate hanno forza e concisione che fanno capire cosa sembrasse l'impresa di Fiume. Tornando al dettaglio, il 12 settembre 1919, vista la piega presa dalla conferenza di pace, Gabriele D’Annunzio decise di rompere gli indugi e a capo di una colonna di volontari, entrò in Fiume, dove i suoi furono accolti dalla popolazione entusiasta e letteralmente coperti di fiori e di serti di alloro. Nei giorni successivi le truppe francesi, inglesi e americane abbandonarono la città e per Fiume iniziarono i giorni della splendida “avventura” della Reggenza dannunziana.

"D'Annunzio inventò, inoltre, molti degli altri tratti folcloristici che il successivo regime fascista avrebbe fatti propri, tra cui le milizie, il saluto romano, l'olio di ricino per i dissidenti, e persino l'insensato urlo "Eia eia alalà" [in realtà deriva dal greco, e alalà era una parola vetusta ma usata anche dal Carducci NdR]. Ma l'impresa di Fiume non fu soltanto una specie di opera comica, né un "maggio 1968" della Destra. Il Comandante emetteva proclami "urbi et orbi". Fondò la Lega di Fiume, una, specie di "anti-Società delle Nazioni" per i popoli oppressi, e all'interno della città proclamò una Costituzione rivoluzionaria, scritta in gran parte dal suo amico sindacalista Alceste De Ambris. Vi si proclamava che Fiume era uno "Stato di produttori". Chiunque volesse farne parte doveva essere membro di una delle dieci "gilde", o "corporazioni" che guidavano l'economia. La camera alta del parlamento sarebbe stata eletta all'interno di queste corporazioni."

D'Annunzio (Il Comandante, come ormai era da tutti definito) era piuttosto preoccupato di creare quel clima che avrebbe dovuto fare di Fiume, città-olocausto, il faro di una ripresa nazionale all'insegna di valori in verità non bene precisati, ma che avevano come denominatore comune l'azione bella ed eroica. Il poeta presentava sé stesso e i suoi seguaci come i rappresentanti della vera Italia, incarnazione di una forza spirituale superiore, e i suoi soldati come i genuini rappresentanti delle forze armate, quelli che non avevano mai smobilitato, e che non accettavano nessuna mutilazione della Patria.
In questo senso da subito D'Annunzio espresse il rifiuto a qualsiasi negoziato con “Cagoia”: l'unica cosa che il governo italiano poteva fare per riscattarsi era dichiarare l'annessione di Fiume. Su questi toni e con questi temi erano le adunate di popolo, praticamente quotidiane, che furono in pratica l'unica forma di governo esercitata da D'Annunzio. Il popolo, guidato dal poeta-soldato, detentore dell'ideale e della bellezza, diveniva al tempo stesso protagonista e strumento degli eventi.
In questo clima, con le giornate impegnate in adunanze di piazza e le notti in feste collettive, si realizzava quello che sarebbe stato poi l'inganno costante della politica dei paesi totalitari: l'illusione della partecipazione, l'utilizzo del popolo come cassa di risonanza di decisioni già prese dal vertice, scavalcando ogni organo rappresentativo. In D'Annunzio non c'era di certo un intento studiato di potere: il popolo era per lui piuttosto la platea necessaria, Fiume era il laboratorio dove tutto era possibile, purché incanalato nelle concezioni estetiche del poeta.
Nacque allora a Fiume il saluto col braccio alzato, la cintura col pugnale, la camicia nera istoriata di teschi, quindi tutto il funebre armamentario di simboli e di emblemi che in seguito doveva caratterizzare il fascismo. D'Annunzio, il vate, governava sulla pubblica piazza, interrogando la folla dal balcone: "A chi, Fiume?". E la folla in coro: "A noi!". "A chi, l'Italia?". "A noi!".
Fu con questa procedura che egli elaborò e promulgò la famosa "Carta del Carnaro", traduzione delle sue concezioni politiche e sociali: il potere doveva essere gestito dai migliori, la popolazione doveva essere divisa in sei categorie di produttori, la religione nazionale di Fiume doveva essere la Bellezza e l'Armonia, per cui la ginnastica e il canto rappresentavano doveri sociali, lo Stato doveva provvedere agli anziani e ai disoccupati, i sessi erano parificati, e al libero amore non era posto altro limite che quegli estetici: dovevano farlo solo i belli e in bella maniera.

Non a caso a Fiume conversero nazionalisti, che furono comunque i primi protagonisti dell'impresa, ma in seguito anche anarchici e sindacalisti. La Costituzione di Fiume, tanto avanzata quanto irrealistica per l'epoca e che comunque non trovò mai pratica attuazione, fu scritta a quattro mani con quell'Alceste De Ambris, eminente anarco-sindacalista, i cui precedenti politici nulla avrebbero avuto da spartire coi motivi che spinsero i primi legionari a marciare sulla città. Uno dei pochi ad accorgersi della sua statura di rivoluzionario fu, ironia della sorte, Lenin che da Mosca proclamò “ D’Annunzio, l’unico rivoluzionario che ci sia in Italia”. Questa imprevista collusione fra nazionalisti e sinistre non fu che il primo degli elementi di confusione causati dalla vicenda di Fiume, che a sua volta visse l'anno di governo dannunziano in una confusione quasi eretta a modello esistenziale. D'Annunzio non aveva mai avuto una collocazione politica precisa, o meglio, gli si poteva attribuire qualsiasi collocazione, perché la politica, intesa come progetto di una società, e quindi fondata su basi teoriche economiche e sociali, ma capace anche di modulare queste basi teoriche sugli sviluppi storici, la politica, dicevamo, esulava dai suoi interessi. Se D'Annunzio non inseguiva progetti di potere, inteso almeno nel senso tradizionale del termine, c'era nel paese un altro uomo che invece sapeva far politica e che inseguiva progetti di potere, inteso nel senso più assoluto del termine.
I rapporti tra D'Annunzio e Mussolini non furono mai cordiali, perché il futuro Duce, che in quegli anni iniziava la sua scalata, ma si rendeva conto del fatto che il movimento fascista era ancora troppo debole per un'azione di forza, mantenne sempre un atteggiamento di fatto prudente nei confronti dell'impresa fiumana. Come esempio dell'abilità di Mussolini di sfruttare la situazione fu la sottoscrizione pubblica a favore di Fiume, lanciata dal giornale "Popolo d'Italia"; raccolse una cifra considerevole, sopra il milione, e subito iniziarono le voci sulle strade che di preciso presero quei soldi, perché Fiume non li vide mai.
Nel giugno del 1920 tornò al potere Giovanni Giolitti, appoggiato anche dai nazionalisti e da Mussolini, che vedevano in lui l'unico uomo in grado di far uscire il paese dal caos.
E Giolitti fu l'uomo che seppe liquidare Fiume; ma si assicurò l'appoggio di Mussolini, pronto a scaricare il poeta ora che l'avventura fiumana, non avendo di fatto risolto nulla, stava per ripiegarsi su sé stessa.

"Giolitti, che successe a Nitti come presidente del Consiglio alla metà del 1920, fu più efficace. Cominciò a negoziare direttamente con gli jugoslavi, e nel novembre 1920 le due nazioni giunsero a un accordo.Il giorno di Natale del 1920, Giolitti compì l'ultimo passo, e mandò la marina militare a sloggiare i legionari. D'Annunzio si arrese quasi immediatamente. Il regime del Comandante era terminato."

Nel Natale del 1920 le truppe regolari entrarono in Fiume, dopo che una cannonata, sparata da una corazzata, aveva colpito la stessa residenza del Comandante. Dopo il "Natale di sangue" i legionari, che avevano perso una cinquantina di uomini, abbandonarono Fiume indisturbati; D'Annunzio si trattenne ancora per poche settimane e poi se ne andò, indisturbato anche lui. Mussolini dalle colonne del Popolo deprecò "l'atto fratricida", ma sostenne anche che il trattato di Rapallo era l'unica soluzione possibile, e che il merito di aver sottratto Fiume alle mire slave andava comunque al poeta e ai suoi valorosi.
Il futuro Duce teneva fede ai patti stipulati con Giolitti e se il Fascismo al potere avrebbe poi esaltato la figura del poeta soldato (che nel 1925 ricevette il titolo di Principe di Monte Nevoso e nel '37 la presidenza dell'Accademia d'Italia), è curioso notare come nei testi storici scritti in periodo fascista sull'impresa fiumana si glissi molto velocemente.
Si è detto spesso che D'Annunzio fu l'ispiratore di Mussolini; è un giudizio grossolano, non foss'altro perché entrambi i personaggi non avevano una linea politica.
Il Poeta perché non gli interessava, velleitario amante del beau geste, il Duce perché la sua politica fu sempre e solo quella brutale e realistica della conquista, prima, e della conservazione, poi, del potere.
Mussolini era del tutto lontano dagli svolazzi dannunziani e, come vedevamo, seguì l'avventura fiumana solo per saggiarne la consistenza e valutarne l'eventuale utilità (infatti copierà da D'Annunzio tutto l'apparato scenico, tra cui i motti ivi compresi i dialoghi con la folla). Ma di sicuro D'Annunzio gettò un seme pericoloso con un metodo, che per lui fu patologico bisogno di platea, ma per altri fu uno strumento di potere.

A questo punto si può venire al disco in sé per sé: l’introduzione, detta “colpo di maglio”, rievoca con la voce d’epoca del generale Enrico Caviglia nell’esortazione alla resistenza nelle fasi conclusive della prima guerra mondiale, con un teso suono guerresco che sfocia in una marcia militare scandita dal rullo e dalle fanfare. Segue la ballata dell’ardito, dove fa comparsa il Renzi che accompagna un prigioniero austriaco tra la tristezza della guerra e della stanchezza. Una corposa composizione, dove tromba, piano, chitarra classica, percussioni e fisarmonica si armonizzano alla voce quasi declamante del nostro personaggio, in preda ad una rabbia contro non chi le guerre le combatte, ma chi le pensa. La “vittoria mutilata”, segna la delusione che seguì la vittoria con l’Austria-Ungheria, la delusione degli ideali e la maturità e la volontà di resistere all’ingiustizia che diventa epocale, musicata come prima, ma con un coro di sottofondo e degli affondi di rime e ritornelli più incisivi rispetto a prima. “Di nuovo in armi” apre con una sventagliata di mitra a batteria, per una decisissima marcia orgogliosa e beffarda, all’insegna del coraggio sventato (vero simbolo di virilità per i soldati, piuttosto che la forza) e del glorioso ingresso dei legionari nella città di fiume, al grido del famigerato “eja eja – alalà”, italiana versione del “hip hip - urrà”. Il “Tango della Menade” apre letteralmente il sipario sull’eroina Elettra, ambigua e seducente mangiatrice di uomini, che sulle note - appunto del tango – cantato come potrebbe cantarlo Mina dell’epoca d’ora, che già spasima per il Maggiore. Sangue Morlacco invece è un tipo di vino che infiamma il ballo popolare dal sapore tutto mediterraneo durante un pranzo collettivo, dove ben si rappresentava il conflitto/fusione tra le anime tradizionaliste e quelle avanguardistiche/futuriste che caratterizzavano i legionari, in un pastiche del famoso cacciucco livornese come pasto. Alla felice sagra di paese seguono le notti bianche del Renzi – “per non dormire”, appunto, famoso motto del vate – che ha bisogno di un confidente (nel caso il tenente, autore del libro ispiratore della vicenda) per la straziante scoperta del coinvolgimento della Stavros in un’azione che ha ucciso varie uomini. Come capo del controspionaggio, si trova combattuto tra il dovere e la passione ruggente per questa donna così misteriosa… Acchito orientaleggiante e poi echi quasi alla Morricone si susseguono incalzanti, sottolineando l’agitazione eloquente di quelle notti. “Traditi” fa presagire la tragedia che si sarebbe consumata nel dicembre del ’20, quando l’esercito regolare italiano si avvicinava minaccioso con la chiara intenzione di bombardare la città, e solo le parole del Comandante possono ridare speranza al popolo fiumano. Il commiato per l’imminente attacco è soffuso da tromba e un cupo coro a synth, per risollevarsi in un crescendo, ma è solo un preambolo alla disperazione di Fuoco a Fiume. Renzi incapace sul da farsi si rifugia nella droga per perdere i sensi nella descrizione iniziale fatta da Elettra, fatta incarcerare a prezzo della freddezza del Maggiore. Mentre lei pensa, si sveglia il Renzi, che canta la seconda metà della canzone, ancora coi sensi ottusi dall’oppio. La vicenda si sta per concludere, perché “Muri di Assenzio” è l’epilogo non solo della vicenda dei nostri, ma di tutta Fiume, oramai tutti i soldati son schierati Renzi si è destato del tutto e non rimane che il tempo epr gli ultimi rimpianti. La musica, a metà tra la ballata ed una marcia è un vigoroso duetto di piano e fisarmonica, mentre l’onnipresente tromba contorna; partono le cannonate quando i due si incontrano per l’ultima volta: una promessa, un bacio e poi un’ultima pallottola (fino ad allora cercata per metter fine al mal di vivere di questo soldato tormentato, ora beffardamente traditrice proprio quando qualcosa di importante si stava affacciando nella vita di entrambi) fa da epilogo, con la malinconia del trillo di piano. L’outro è un pezzo di piano, serio e sognante, ma non triste; quando si pensa che non ci sia altro, dopo un minuto di silenzio parte la traccia fantasma, vera corona: è una versione di “o surdato ‘nnamurato”, la famosissima canzone popolare che coniuga gli aspetti folcloristici e militareschi di tutta la vicenda, una piccola gemma e tocco di genio.

Il disco punta tutto su melodie, intricate canzoni piene di note e di strumenti incastrati con molta perizia tecnica, testi scanditi con voce carismatica, all’insegna dell’ideale D’Annunziano (la coesistenza di opposti come arte e azione che trae forza anche dalla coesistenza), assurto a stile di vita., cammei di nomi importanti come Andrea Chimenti, un congruo numero di musicisti coinvolti, un lavoro di ricostruzione e di artwork del libretto veramente stupefacente (ivi sono foto d’epoca, immagini, emblemi, ritagli di giornali che conservano il sapore dell’inebriato momento). Ma nonostante la compattezza dell’album e la pregevolissima abilità, decisamente fuori dal comune, nonostante tutto non riesco ad entusiasmarmi. Forse è il mio gusto personale che non ama gli intrecci sonori complicati e lunghi stile anni ’70 che invece sono il perno, forse c’è davvero troppa carne al fuoco, e la mancanza di immediatezza rende le cose meno incisive. Non ci sono motivetti facili, è tutto molto complesso e servono molti ascolti per assimilare, che a dipendenza dei gusti è una grandissima forza o una pecca.
Per molti un capolavoro, per altri “solo” un gran buon album.

Tracklist:
Intro: Colpo Di Maglio
La Ballata Dell’Ardito
Vittoria Mutilata
(XII – IX – MCMXIX) Di Nuovo In Armi!
Tango Della Menade
Sangue Morlacco
Per Non Dormire
Traditi
Fuoco A Fiume
Muri D’Assenzio
Outro: Amor Sola Lex

genere: neo folk/art rock
anno: 2005
voto: 7,5
foto:
sito del gruppo: http://www.illevriero.it/ianva
sito dell’etichetta: http://www.illevriero.it
paragoni: Orchestre Noire, Dernieré Volonté, Pierrot Lunaire

Stat rosa pristina nomine, Nomina nuda tenemus -------,--'-{@

Abbassa i vicini che disturbano il volume!
La vita è troppo corta per musica noiosa
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