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Racconto: Dissolvenza In Nero

Ultimo Aggiornamento: 01/10/2004 21:10
01/10/2004 21:10
 
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Non riesco a credere quanto sia stato facile: quella fredda sensazione sulla lingua, il sapore del metallo sporco.
Una mano tremante, la morsa sudata sul grilletto.
Una vita di miseria fissata in un determinato flash. Poi il calore, il torpore, il sapore di zolfo. Un proiettile che mi attraversa il cervelletto. “Enry, questo dolore: questa è la pace...” le ultime parole dette dal mio angelo divengono sempre più sfumate, distanti. Sul mio volto cadono le sue lacrime, calde e amare. Scusami, Nat. Per un attimo, la mia scelta mi appare forse ingiusta. Forse avrei potuto scegliere di resistere al vuoto che sento dentro, forse la mia vita avrebbe potuto essere diversa. Forse.
Ormai non ha più alcun senso.
Niente ha più senso mentre scivolo nell’oblio.
Avverto la presenza di una terza persona. Non riesco a distinguerla, la mia vista è appannata dal sangue. La sua voce è calda, inquietante. Pare proseguire il discorso iniziato dal mio angelo.
“...quella pace che tu non avrai mai....”.
Mi viene poggiato sulle labbra un liquido, il suo gusto è amaro, salato, caldo. Sangue?
Mi costringe a berne alcuni sorsi. No.... voglio passare nella quiete i miei ultimi istanti.
Scusami, Nat. Ti prego, perdonami....
Dissolvenza in nero.

E’ forse questa la morte? Pareti claustrofobiche mi opprimono. Il mio corpo inerte è disteso nell’oscurità totale. Riesco a percepire sopra di me, tastandola, una superficie che mi impedisce di assumere altra posizione se non restare prono. Che Dio mi abbia maledetto a passare l’eternità rinchiuso in questa... bara? sepolcro? Non riesco a capire cosa sia.
No, non sono morto.
Sento il mio corpo, lo posso toccare, lo sento animato.... vivo. L’aria presto mi mancherà... devo uscire. Arriva repentina un ondata di adrenalina, quando l’angoscia di dover passare l’eternità in questo luogo mi coglie. Gratto con le unghie il coperchio, frenetico, finché non mi si spezzano. Urlo con tutta la voce che ho, fino a lacerare le mie corde vocali. Dopo qualche minuto di panico riesco a riprendere il controllo, quel raziocinio che mi caratterizza. Che caratterizza il genere umano. Mentre tento di focalizzare i pensieri, sento qualcosa di dolce e selvaggio che mi anima, mi impedisce la concentrazione. Un istinto primordiale che mi spinge a scavare con le mani nel legno che mi racchiude, per raggiungere la libertà.
Mi lascio andare alla mia animalità.
Continuo ad urlare, raschiare le pareti con le mani finché le mie falangi non sono completamente scarnificate, e dentro me riesco quasi a veder scivolare via le vestigia della ragione, stravolta da questa nuova forza che mi domina. Riesco a percepire l’odore del sangue, la consistenza della furia che mi muove con sconcertante violenza, riesco a concentrarla in un singolo istante, un singolo colpo. Il legno cede sotto l’immane pressione e la mia mano tocca la fredda terra che mi sovrasta. Fuori da ogni capacità di autocontrollo, smembro il resto del coperchio finché non apro un varco che mi permetta di uscire da questa trappola. I miei muscoli bruciano e si strappano, sottoposti ad uno sforzo incredibilmente maggiore a quello che sono nati per sopportare. Scavo, senza accorgermene, con frenesia, isteria. Per minuti. Per ore. Per anni. Non riesco a rendermene conto: la percezione del tempo e dello spazio, in questa situazione innaturale, mi è assolutamente aliena. Il mio corpo è completamente immerso nella terra umida e si agita convulsamente per uscirne.
Un ultimo sforzo ferale permette alle mie mani rovinate di trapassare la terra, giungendo al livello del suolo. A pieni polmoni, tiratomi su, inalo l’aria fredda della notte. Attorno a me, quella che appare come una discarica si estende a perdita d’occhio. Riesco a percepire ogni singolo odore ributtante da essa emanato, talmente è satura di quei prodotti di consumo tanto amati dalla società civilizzata.
Lascio cadere a peso morto il mio corpo su quel putridume, mentre tento di ricostruire gli avvenimenti che mi hanno portato a questa follia. Niente. Sento i ricordi che defluiscono dalla mia mente non appena tento di riesumarli. Li sento vividi nella memoria. Sono sicuro di conoscerli. Ma appena tento di focalizzarli con precisione, sfuggono dalla mia mente. Solo la decadenza rimane, il vuoto, l’incertezza delle scelte, gli errori che mi hanno portato a questo, solo il dolore.
Nat. La sua figura mi tormenta. Solo lei è rimasta immutata, incisa a caratteri di fuoco, nelle rovine della mia memoria. Solo le vaghe sensazioni del desiderio che infondeva nell’aria, le memorie del suo gelido bacio mi riscaldano come le onde sussurranti del fiume Acheronte. Nat. Solo il tuo nome rimane a colmare la mia miseria.
Ma ora devo trovarla. E’ l’unico vincolo che mi mantiene interessato a sopravvivere.
Cammino, barcollando, tra i rifiuti e i ratti. Il mio corpo... lo sento diverso. Intorpidito, freddo, alieno.
Mi muovo per inerzia, retto unicamente dalla passione, con la muscolatura in fiamme e la mente ottenebrata. In lontananza, noto un furgone atto al trasporto dei rifiuti. Mi avvicino celere, silenzioso come un predatore, e mi nascondo all’interno di esso, nel vuoto vano adibito alla raccolta rifiuti, nella speranza che mi porti in qualche luogo. Qualsiasi luogo. Lontano da qui. Non riesco a capire perché io sia qui, cosa sia successo, ma non ha importanza. Devo tornare a casa. Devo tornare da Nat.

Il viaggio è tranquillo, nel buio della notte, in compagnia di nient’altro che pattume. Ciò che però non riesce a trovare pace è la mia mente: per tutto il viaggio non riesco a focalizzare alcunché. Mi sforzo per formulare pensieri, ricordare, organizzare un piano. Non c’è modo. Sento un velo sul mio raziocinio, che mi impedisce di svolgere pensieri coerenti, di porre attenzione su qualsiasi cosa. L’angoscia presto mi assale, il sudore copre la mia gelida fronte. E’ forse questa la mia dannazione?
L’unica cosa che resta è la paura, l’ossessione per la pelle perlacea del mio angelo. I minuti passati in viaggio scorrono spaventosamente lenti, finché vedo l’aurora che all’orizzonte illumina le colline circostanti con la sua soffusa luce. Appena il sole fa capolino dal suo sepolcro celeste, e i suoi raggi baciano la mia pelle rovinata, una morsa mi stringe lo stomaco. Come una fobia scritta nel mio DNA, il terrore mi stravolge e mi riduce alla passività. Vedo la mia carne che avvizzisce e si riduce in cenere al contatto con la pura luce dell’alba. Per un attimo rimango paralizzato, incredulo, mentre strato dopo strato, la mia pelle annerisce e scivola via. Istintivamente, mi nascondo in una zona d’ombra, tremando febbrilmente. Vorrei inorridire per questo innaturale prodigio, ma non riesco a stupirmene. Non riesco a ragionare sulla mia attuale condizione. Nella mia mente è calata una nebbia psichica che mi impedisce di svolgere i più elementari sforzi di analisi. Accetto tutto ciò che vedo, senza capirlo, senza chiedere il perché. Lecco le mie ustioni e sprofondo in un sonno senza sogni, nero, simile alla morte. Sprofondo nel Torpore.

Quando apro gli occhi, mi accorgo che la meta è prossima. Vedo in lontananza il parco che si estende vicino alla mia abitazione. Non riesco a percepire alcuna tranquillità dalle verdeggianti distese, dal giocare spensierato dei bimbi, dalla tenerezza delle numerose coppie che lo popolano. La mia attenzione è focalizzata dai raggi striscianti del Sole, divoratore di carne, e non riesco a pensare ad altro se non alla morte che mi attende nella sua calda radianza.
Nat. La devo raggiungere.
La forza che mi stravolse in precedenza, nel freddo del mio sepolcro, riemerge con straordinario impeto. Dilania la mia mera essenza, riducendomi all’animalità più spontanea. Il mio corpo entra in azione, lanciandosi dal furgone, in una corsa a perdifiato per i prati. Posso osservare i miei movimenti ferali, mentre corro ricurvo, a quattro zampe, lanciando miseri mugolii, mentre la luce arde le mie carni e le annerisce. Non posso farci niente.
Perso il controllo, sfreccio celere tra i bimbi e gli adulti che mi osservano inorriditi. Nonostante il dolore lo strazi, il corpo continua nella sua folle corsa contro il tempo, indifferente alle disperate ordinanze silenziose che il cervello impartisce. Ruggisco dall’agonia, mentre il mio domicilio si staglia sempre più vicino.
Salto inferriate, sfondo cancelli, porte. Nessun vincolo può fermare il mio corpo, ormai autonomo.
Mi lancio in una folle corsa per le scale del palazzo, sibilando lamenti per le carni piagate, per le cicatrici dovute ai raggi del Sole, divoratore di carne.
Giungo alla porta della mia casa, la meta di questo viaggio allucinante. Un rifugio dal dolore della luce. Casa.
Sento il rumore di uno sparo.
La porta è aperta. Entro, e sprofondo nel buio del mio domicilio. La porta si chiude alle mie spalle, e il suo cigolio sembra presagire una sventura imminente.
Avverto l’odore del Sangue.
Mi lancio alla cieca attraverso le stanze, bramoso, affamato, come mai fui prima. In me, la belva è ansiosa, non l’uomo. Osservo i luoghi in cui vissi da una diversa prospettiva ora. Mi appaiono più freddi e inospitali, come se ormai non fossero più la mia casa, il mio rifugio.
Guidato dall’olfatto, seguo la pista come un segugio famelico, muovendomi tra le ombre, completamente soggiogato a impulsi ferali sempre più intensi. Giungo di soppiatto davanti alla porta della mia vecchia camera. E’ chiusa.
Sento, oltre il legno della porta, il pianto sommesso di una ragazza. Una ragazza.... una frase, da lei pronunciata singhiozzando: “Enry, questo dolore: questa è la pace...”
Sfondo la porta urlando, disperato. Nat siede su un letto, il mio letto, innanzi alla carcassa..... innanzi al mio corpo.
Il mio sangue tinge le pareti della stanza.
Una pistola fumante è serrata tra le mie mani.
Urlo, piango, provo a parlare, ma nessun suono esce dalle mie labbra. Il mio angelo sembra non vedermi, né sentirmi. Affianco a lei, una figura, seduta sulla sedia della scrivania, attende annoiata. Sembra che, come me, anche questa sia invisibile agli occhi, rigonfi di dolore, di Nat.
Appare come un maschio bianco, vestito in sfarzosi abiti barocchi, dorati e porpora. E’ anziano, indossa una maschera d’oro dalla splendente bellezza, dal profilo energico e sapiente. L’icona della gloria. Due magnifiche ali perlacee fuoriescono dalla sua schiena. Il suo corpo è ricoperto di intricati tatuaggi tribali, privi di alcun senso, che si deformano sulla sua pelle come serpenti vivi.
“Voglio vivere !!!!!” urlo a squarciagola, soffocato dalle lacrime “Fai qualcosa !!!!!”
Il vegliardo si rivolge a me, pacato: “Arrivi in ritardo.... Sorpresa, ragazzo!!! Sei morto!!! Accettalo, non ci puoi fare niente. Non puoi rinnegare l’istante in cui hai scelto di non vivere.”
Per l’ennesima volta la ragione è scavalcata dalle pulsioni. Scavalco il letto in un solo balzo e giungo innanzi al vecchio, afferrandolo per il collo, e sollevandolo a trenta centimetri dal suolo. Le mie unghie spezzate penetrano nella sua carne, a causa dell’eccessivo impeto della morsa. Il suo corpo di dimena. Probabilmente l’urto con la parete gli ha spezzato un’ala. Agita convulsamente le mani, tentando di mettermele in faccia. Improvvisamente, lo lascio andare, rendendomi conto delle mie azioni. Stavo per uccidere l’unico che mi avrebbe potuto tirare fuori da questa follia. Sbraito, al limite dell’autocontrollo: “PARLA”. Ho il fiato corto, mi bruciano i muscoli, e le unghie sono rosse dal sangue e brandelli della sua carne.
“Hey, ma che cosa credevi di fare ?!?!” mi dice, mentre si rialza e si massaggia il collo “Guarda che ‘sto casino è tutta colpa tua.... sei morto, rilassati. Non è male come credi. Tutti muoiono. Credi che siano lacrime quelle che ti solcano il volto?”
Mi osservo confuso allo specchio. Due rigagnoli di sangue sostituiscono quelle che dovrebbero essere lacrime. Il mio volto, la mia carne..... è carne morta, distorta in un ghigno ferale.
“Posso fare ancora qualcosa, se no non sarei qui. Io non voglio morire.” gli dico. Dal tono di voce, traspare evidente che la mia non era una constatazione. Appariva più come una minaccia.
Il vegliardo continua: “Il sangue è il principio di tutte le vite.... e come vedi da queste pareti, anche la loro macabra conclusione. Perché vuoi vivere? Hai scelto volontariamente di morire. E’ una contraddizione in termini, te ne rendi conto? Ora come ora, non sei proprio vivo.... capisci? Sei solo un’ombra della tua vita che sta scomparendo, gli ultimi residui primitivi della tua mente morente. Ciò vuol dire che il tuo corpo fisico tecnicamente non è ancora morto.... ma manca ancora poco. Hai sbagliato mira, evidentemente.... probabilmente l’Enrico su quel letto è solo in coma. Fortunatamente le emorragie lo stanno uccidendo. Speriamo in fretta, così potrò andarmene via da questo posto... così fisico.”
Il Sangue è il principio di tutte le vite.... e la loro conclusione... un ciclo.
Mi mordo il polso, e vedo il sangue scorrere copioso dalle vene bluastre. Salto sul letto, e poggio la ferita alla bocca del mio corpo morente. Penso alle parole del mio angelo, ancora seduta a piangere, ignara delle forze invisibili che agiscono attorno a lei. Sogghignando, proseguo la sua frase: “...quella pace che tu non avrai mai. Tu devi vivere, Enry. Per Nat. L’amore può sconfiggere la morte.”
Il vecchio mi guarda seccato, con un atteggiamento di scherno: “Hey, ma che frasaccia ad effetto... sei proprio un gran figo, allora.....”
La mia essenza si sgretola, le mie molecole si sciolgono, e vengo risucchiato, senza dolore, senza pensieri, nel buio. Dissolvenza in nero.

Eccomi tornato nella bara. Devo agire con velocità, non impeto. Questa volta non posso permettermi di perdere il controllo. Devo spezzare questo ciclo prima che sia troppo tardi. Focalizzo le energie, sfondo la bara in un singolo, stupefacente pugno.
La carne è debole.... il dolore è accecante.
Con un sinistro scricchiolio, le ossa della mia mano destra si frantumano e le articolazioni si spezzano. Ignoro l’agonia, mentre con l’altra mano scavo il terriccio fetido. Giunto in superficie, perdo attimi preziosi ad osservare alla luce della luna, inorridito, le ossa esposte della mia mano, fuoriuscite da un ammasso informe di carne morta. Perdo sangue, mi sento intorpidito.
Vedo in lontananza il netturbino avvicinarsi al camion addetto al trasporto dei rifiuti. Si ferma, per accendersi una sigaretta.
In un attimo, le mie intenzioni si fanno chiare: mi appare come una preda. Sono affamato. E la mia fame è un bisogno diverso da tutti gli altri.
Con passo felpato, celato dalle ombre notturne, mi avvicino in silenzio all’uomo. Sono alle sue spalle, e lui neanche percepisce la mia presenza, è totalmente alla mia mercè....
Ora... questi umani.... sono.... cibo.
Senza capire appieno il motivo della mia azione, affondo i denti sul suo collo, strappando carne, tentando di trovare la carotide da cui fuoriuscirà il rosso nettare, linfa vitale. Ci stringiamo in un freddo abbraccio: lui paralizzato dal terrore, io eccitato dalla caccia. Mentre la sua vita fluisce nelle mie vene, ho l’impressione che gradualmente i ruoli si stiano invertendo. Sento la sua paura, amplifica la mia eccitazione, entra nel mio corpo e lo scuote violentemente con freddi brividi.
Lui si ammansisce e freme, nella stretta dell’abbraccio. Lascio cadere il guscio vuoto, il suo corpo morto. E’ sangue ovunque: ricopre me e tutto ciò che mi circonda.
Un caldo tepore mi pervade, mentre vedo le mie carni rigenerarsi e guarire, le mie piaghe sparire come neve al Sole. Mai prima provai un tale senso di simbiosi con una persona, l’orgasmica comunione delle carni.
Mi scuoto dall’estasi, e salgo frettolosamente sul camion, lasciando pozze di sangue ovunque mi posi.
Accendo il furgone e parto al massimo della velocità. Dopo ore e ore di guida incessante, il Sole fa capolino dal suo sepolcro terreno, rischiarando le pianure con il suo pallido scintillio. Continuo a guidare, nonostante la pelle annerisca e bruci, nonostante l’inumana sofferenza. Dopo alcuni minuti, i muscoli esposti si contraggono fuori controllo, mentre il mio corpo, lentamente e inesorabilmente, inizia a tramutarsi in cenere. Vedo in lontananza i prati prossimi al mio domicilio, e li attraverso a tutta velocità con il camion, incurante dei bambini e gli adulti che giocano felici sui manti erbosi.
Sento qualche urto sul cofano. Un urlo.
Non importa. Il tempo è sempre meno.
Sfondo con il furgone il recinto esterno e il portoncino interno del mio palazzo, parcheggiando affianco all’inizio della scalinata. Dopo una corsa per i sette piani del condominio, giungo innanzi alla mia porta. La spalanco senza esitazione, poiché già sapevo che sarebbe stata aperta.
Una volta immerso nell’oscurità, aguzzo l’olfatto, la mia principale guida in assenza della vista. Corro, frenetico, alla porta della mia camera. Silenzio.
Una volta entrato, mi si para davanti uno scenario differente dal precedente. Tiro un sospiro di sollievo.
Forse, la mia.... la nostra vita continuerà, Enry.
Seduta sul mio giaciglio, Nat osserva rassegnata il mio corpo. Enrico ha una pistola infilata in gola.
Una mano tremante, la morsa sudata sul grilletto.
All’altro lato della sala, il misterioso anziano mi osserva, stanco. Rimane in un emblematico silenzio. Sembra curioso di vedere la mia prossima azione.
Senza perdere tempo, balzo verso la pistola, riesco a sfiorarla con un dito, e questa devia di qualche centimetro la sua traiettoria. Sento distintamente lo stridio del cane sulle pareti metalliche della pistola, e il rumore di questo che urta la pallottola mi penetra nelle ossa, come il boato di una stella che esplode. Un flash di luce mi brucia le retine. Avverto l’odore del sangue, e il rumore liquido di una pallottola che attraversa la guancia di Enrico. La mia essenza viene risucchiata nel nulla. Semplicemente, senza rimorsi o particolare melodramma, scompaio, come un sogno spazzato via dal mattino. Dissolvenza in nero.

Apro gli occhi. Sento il mio corpo, disteso su un morbido letto d’ospedale. La vista è annebbiata, e la testa è confusa. Un tubo, collegato ad un bizzarro macchinario medico, mi percorre l’esofago, fino a giungere nello stomaco. Un ago penetra le mie vene, iniettando al loro interno chissà quale intruglio nutritivo. Lo sento pienamente, sento ogni singola cellula del mio corpo attiva e senziente, sento che questo è il primo giorno della mia vita reale, della mia vita consapevole. Voglio vivere. Voglio amare. Ho dovuto attraversare quell’orrenda tortura psichica, che mi ha temprato e reso forte. Ora posso affrontare ogni dolore, con la sicurezza che mai altra pena sarà uguale a ciò che ho dovuto passare per meritarmi una vita che splende, una vita positiva. Ora è il tempo degli eroi. E’ tempo di concretizzare ogni mio sogno, ogni mia aspirazione.
Sorrido goffamente, ostacolato dal tubo.
Nat è prossima a me. La vedo avvicinarsi, dal corridoio ospedaliero, splendente come un raggio di sole al mattino. Si avvicina in modo lento e solenne, come un angelo il cui sguardo può lenire il dolore e redimere un’anima impura come la mia. Ricambia il mio sorriso, con infantile e manifesta gioia.
Il suo sguardo vuoto, però, sembra diverso da quello vitale e seducente che da sempre la contraddistingue. Quando la vista mi si schiarisce, distinguo chiaramente due ali angeliche avvolgerla, e una maschera dorata sovrastarla. L’anziana apparizione, alle sue spalle, l’abbraccia dolcemente. Nat alza il suo candido braccio e spegne con disinvoltura le macchine che mi tengono in vita, poi si avvicina al mio giaciglio, accarezzandomi dolcemente il viso.
“Non puoi tornare indietro” dice il vecchio con voce roca. “Ormai il dado è tratto, ciccino.”
Il gelido bacio di Naty sembrò sussurrarmi l’eterno inganno della redenzione, l’illusoria quiete della salvezza.

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