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Carne secca. (ok) approvazione RIPOSO)

Ultimo Aggiornamento: 05/04/2015 01:09
31/03/2015 21:49
 
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Serafin, Gheof.
RIASSUNTO: Avete presente quando si prende una sbronza epocale, di quelle che neanche riesci a reggerti in piedi, non riesci a capire quale è il cielo e quale la terra, quando ti viene da ridere ma se ridi poi ti salgono i conati di vomito? Beh, le sbronze amplificano lo stato vitale di ognuno di noi. Lo alterano al massimo. E potete immaginare Goffredo che è convinto d’essere ubriaco con addosso il sentore d’aver provato un piacere così forte da rischiare la follia. Bene. Lui, dopo il morso di Melisande la succhiasangue, ha voluto mettersi in piedi a cercare di trovare la strada di casa da solo. Elegantissimo, bianco come un cencio, barcolla nei pressi della piazza del mercato a notte fonda. Bancarelle chiuse, lo stomaco stritolato in una morsa. Un altro passo ed il vomito è assicurato. Quindi si ferma, blocca il suo stentoreo vagare cercando aria. Ma più si respira più si ha la sensazione di venire meno. Ma quel piacere. Ma quella forza. Ma perdere il controllo per del vino. Ma dannazione. Ma diamine. Ma bestemmie non dette però pensate con vigore. Da un vicolo una figura ammantata si inerpica in quelle viuzze solitarie. Mantello scurissimo, passo agile e la solita fauna Barringtoniana. Gli ubriaconi della notte fonda. Pochi, solo uno, riversato contro una bancarella. Ma lei, Serafin, riconosce in quella casacca elegante, dietro quella testata di capelli sale e pepe un uomo che molto probabilmente non avrebbe mai creduto di potersi materializzare nella figura di Goffredo. Sempre così controllato. Sempre così fermo. Ma può Goffredo ridursi così? E per quale motivo? Chiederglielo? Ma che. Ma che cosa. Senza pensarci, la ranger estrae dalla sua borsa un pezzo di carne essiccata. Che SCHIFO. Salata. Forte. Odore di sangue raggrumato, indurito dal sole. Di spezie appiccicate tra le trame filacciose del pezzo di carne. Vi viene nausea? A me sì. Figuriamoci ad uno che ha voglia di vomitare. Che ha tutta la bile della debolezza che trabocca dall’esofago. Uno sguardo in tralice verso quella figura. Ma che fa. M’ammazza? Mi deruba? Poco male. La vita vuole così. Dio vuol… esplode in terra bile, insozza il pavimento. Debolezza intensa. Non si regge in piedi lui. Non ce la fa più. E Serafin lo comprende. Si appresta a sostenere l’uomo per il fianco, cercando di non farlo cadere sul suo stesso vomito. Tremendo. Puzza. Odoraccio. Alla sua età non dovrebbe ridursi così. Glielo ricorda Serafin da sotto il cappuccio e lui riconosce immediatamente la voce di lei. L’orgoglio di un uomo, abbiamo presente? Bene. L’orgoglio di un uomo di 43 anni, vicino ai 44, un uomo Italiano, che cerca di farcela da solo. Di gestirsi da solo. Che vuoi. Non sono affari tuoi. Che vuoi. Intanto ti ricordo una cosa. Holgar verrà a ritirare il materiale. Vieni. Distogliamo l’attenzione da me. Pensa a quello che devi fare, quello che ti dico io, non ad altro. Ed allora, già che ci sei Serafin, accompagna questo derelitto della vita al palazzo del Governatore. Fatti i fatti tuoi. Ma lei non ha detto niente. “Ma lei non ha detto niente”! E si ritrovano a passeggiare tra le vie di Barrington con quest’uomo che sapete che fa? La conosce talmente bene, talmente bene che ne imita addirittura le espressioni. La prende in giro! Ma eccoli qui, arrivati al palazzo del governatore. Mura invalicabili, mura gigantesche, le mura di una fortezza, di una prigione. La stessa dove, volutamente, Serafin lascia le chiavi a Goffredo, lasciando a lui la decisione se liberarla o meno. E vieni. E vieni Serafin. E vieni da me. Vieni dentro il Palazzo del Goverantore. Non c’è bisogno di dirlo neanche. Lei lo sa da sé quello che deve fare. E ci va, dentro quell’atrio, tra le poltrone, dove Goffredo si accomoda pesantemente e stanco, privato di tutte le sue forze. Ma non la lascia andare, macchè. Le indica semplicemente di andare da lui, di avvicinarglisi e lei? Lei lo istiga fino alla fine fino a che non si accoccola su di lui, sopra le sue gambe, come una piccola bambina indifesa tra le braccia del padre. Ed il padre putativo, il padre geloso, il padre maniaco la abbraccia a sé, le carezza il viso ed intona a bassa voce una ninna nanna italiana che si spegne nello stesso momento in cui lui si addormenterà, svenendo letteralmente lasciando a lei la decisione su cosa fare. E resterà fino a che lui non le aprirà la porta. Resterà. Serafin RESTA.

COMMENTO: Non posso commentare. Non c’è niente da dire. Io ho perso le parole. Tutto nato dal nulla. Che cosa, che cosa si sta creando tra questi due.
Solo una cosa, prima che mi dimentico, preda di un’estasi totale:
Richiedo l’approvazione della role come riposo a seguito di questa, Mheregiah, Paradiso e Castigo. in cui Gheof viene salassato dalla vampira Melisande.


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GHEOF -Piazza Mercato- Ha voluto alzarsi dalla poltrona una volta risvegliatosi. Ma si può? Si può arrivare a conciarsi in queste condizioni? Bere così tanto da non capire più niente? Da non RICORDARE più nulla se non l'eco lontano delle risate della donna dei veleni? Ha aperto gli occhi allargandoli in maniera esagerata. Con una stanchezza addosso impressionante. No. E' vero. Non è proprio la cosa migliore decidere alla fine di incamminarsi nel pieno della notte, non a Barrington e NON in quelle condizioni. Ma lui ha voluto alzarsi ed andare. Dopotutto doveva SOLTANTO prendere il suo veleno e tornare a palazzo per rimettere in ordine ogni cosa. Un obbligo impellente. Ritirarsi, andare nella sua stanza, mettere al sicuro la fiala di vetro che ora è nascosta all'interno della scarsella dentro un panno pulito e BASTA. Ma si sono dilungati. Il vino era buono, è vero. Era troppo buono. E quanto se ne è versato? Lui ricorda bene il bicchiere e mezzo, il mezzo versato proprio da sè stesso e... poi? Poi seduto lì. Ma i ricordi non tornano a galla. Non ce la fanno. E questa non è cosa buona per Goffredo che della sua DANNATA memoria conosce ogni stilla. Ma questa notte è mancata. Persa. Svanita. Ricorda le parole. I sorrisi. Il vino. l'odore del vino. E poi? Non basta. Non basta perchè quello che sente ancora fremere addosso alla pelle è una sensazione che se la tiene appiccicata sul corpo. Su tutto il corpo. Non riesce a camminare bene. Ha preso i braccioli della poltrona ed ha voluto forzatamente andare. Non ha chiesto scuse. Ha guardato soltanto Melisande negli occhi scuotendo il capo. Andarsene via da lì. E ritrovare la via di casa. Ma in quelle condizioni, Goffredo, non è semplice, vero? Cosa sente? Che cosa prova? Nausea. Una fortissima nausea. Infatti, signori e signore, ha perso la via di casa. Sta muovendo letteralmente i passi verso... dove? E' che la strada andava dritta. Ma poi ha barcollato. Lo ha fatto sostenendosi ad un muro. Controllo sul corpo NULLO. Si è fermato durante la strada. Lo ha fatto cercando aria, cercando il contatto con la realtà. Perchè non lo sente più. Mano sulla bocca. La frega. Lo fa con forza ma lo stomaco è strizzato dal corpo che abbisogna di sostentamento. Il suo corpo reclama il suo sangue. Goffredo è bianchissimo in viso. Pallido. Ma eccola. Eccola una fortissima fitta alla tempia. Mal di testa. Sensi ottenebrati. E' vero. Non sente quasi le gambe che vanno avanti da sole. Ha paura, lo sapete? Questi sono qui momenti in cui non si dovrebbe vedere Goffredo. Non lo si deve vedere così. Privo di ogni suo controllo. Controllo del corpo. Della parola. La vista. Ci vede sbiadito. Ed infatti è lì adesso. Come ci sia arrivato in questa piazza neppure lo sa. Non ne ha idea. Inspira dal naso e butta giù l'aria. Lo fa ma eccolo, lo stomaco! Eccolo lì che si stringe. Si schiarisce la voce ma sale, in quell'atto incauto, uno spruzzo d'acido proveniente da chissà quale delle sue budella attorcigliate. La bile che gli strozza lo stomaco risale lungo l'esofago e va a depositarsi in fondo alla gola. E deglutisce. Impreca. Lo fa a voce bassissima ma impreca violentemente. Deglutisce l'acido. Nausea prepotente. Forte. I capelli Goffredo li aveva messi in ordine, tirati indietro. Ma adesso sono scompigliati. Piacere. Piacere estremo, piacere forte. Mal di testa. Dalla bocca la mano risale in cima agli occhi. Li copre ed esce un lamento dalla bocca. E' un lamento brevissimo. Un lamento che se la prende con l'impotenza del suo corpo e della sua mente. La sua scarsella a tracolla. Una casacca nera, avvitata, i bottoni lucidati a puntino, ricami di filo nero appena in rilievo dove il colletto l'ha sbottonato a lasciare aria, per darsi la parvenza di poter respirare un po' di più. Il mantello posato sulle spalle. E' praticamente con una mano appeso contro il trave di una bancarella del mercato. Una mano si sostiene là. Non c'è nessuno a quest'ora della notte. Nessuno. Goffredo è troppo, troppo debole per andare avanti per proseguire. E lo stomaco si attorciglia. Sempre di più. Sempre di più. Di più. Piacere. Risa di Melisande. Droga. Veleni. Castigo. Paradiso. Dio che lo punisce? Dio, lo sta punendo perchè molto probabilmente sta tirando un po' troppo la corda per la sua età? Serra la bocca. Spinge il viso in avanti. Raccoglie la saliva dentro la bocca e sputa in terra. E' un filo di saliva denso che rimane appeso alla bocca che adesso resta molle verso il basso. Goffredo vuole vomitare. Inspira forte perchè la sua mente si rifiuta di farlo. Ma il corpo di Goffredo ha bisogno di liberarsi dal peso che gli pesa sullo sterno e più giù, dentro lo stomaco. Le ciocche di capelli davanti alla fronte. Gli occhi guardano in terra. Si socchiudono. Si maledice. Ah che cosa ha provato. Ah, che cosa è successo. A, non capisce più niente.]

SERAFIN [Piazza Mercato] Le vie disarticolate di Barrington ricordano dei vasi sanguigni irrorati di anidride carbonica. Si ingarbugliano tra un bivio e l'altro, strozzando il poco ossigeno che circola da queste parti. Alla fine, proprio come delle vene, tendono a concentrarsi tutte verso il fulcro della città, l'organo vitale che, ad un'ora precisa del giorno, sembra quasi spegnersi, adattarsi ai ritmi rallentati - così dovrebbe essere per tutti, perlomeno - della notte, come un cuore a riposo. Tum - tum. Il vociare sconnesso degli ultimi drappelli che si sono allontanati in vista del tramonto. Tum. Le grida dei mercanti in lontananza. Tum. Il cibo che ha sottratto a quel balordo di un fruttivendolo, al prezzo di... cosa? Un sorriso generoso e una smorfia sbarazzina, di quelle che fai fatica a dimenticare, o a fingere di non vedere, anche impegnandoti a sufficienza. 'Quello quanto viene?' Un dito puntato sulla merce e l'altra mano pronta ad agguantare il tozzo di pane che ora riposa indisturbato sul fondo della scarsella. La sente sbattere ripetutamente contro un fianco. E' piena, sicuramente più di quanto non lo fosse nel momento in cui ha deciso di spingersi fin qui per procurarsi da mangiare - perché piuttosto che fare l'elemosina al sanitarium ha preferito rimettersi all'arte che ha affinato con gli anni, quella che da ragazzina faceva la differenza fra la vita e la morte. Fra il sacrificio del digiuno e uno stomaco contento, ché con poca forza nei muscoli non si riesce nemmeno a camminare decentemente. - Avrebbe potuto chiedere ospitalità a Yvonne - o al brutto giro di gente che non le avrebbe di sicuro negato un pasto caldo, in cambio di 'qualcosa' -. Avrebbe potuto, più semplicemente, sborsare i soldi necessari a rifocillarsi se il bisogno di nuocere in qualche modo a questa città non l'avesse animata, nel fondo. E' davvero questo, poi, il motivo per il quale stanotte ha deciso di sottrarre al proprio guardaroba i panni che un tempo le erano tanto cari? Quelli della ladruncola? O forse è solo l'idea di doversi mettere nei guai a tutti i costi? Lo smacco personale da rivolgere al mondo, in assenza di un tetto stabile che sì, avrebbe potuto riguadagnarsi facilmente con qualche smanceria, se non preferisse l'incostanza di questa vita a tutto ciò che le mura protettive del sanitarium avrebbero potuto offrirle, senza pretendere da lei chissà cosa. Forse le mancava questo: il fatto di potersi conquistare a fatica l'aria che respira. Grazie Serafin, per questo cibo. Si passa un pollice sulla bocca. Preme contro il labbro inferiore, umido, carezzandolo col polpastrello da un lato all'altro, fino a storcere un attimo la linea più nutrita. Finisce di masticare solo quando riporta la mano sotto l'ombra del mantello grigio scuro che la copre da cima a fondo, dalla sommità del cappuccio tirato sulla testa, ai bordi inferiori, logorati dal tempo, che le sfiorano a tratti irregolari i polpacci. Le falde si aprono verso l'esterno come ali, sfregando l'aria che la sferza in viso e le mette in disordine le poche ciocche sfuggite al controllo della treccia. Le armi sono nascoste, come al suo solito. E' una figurina innocua, in fin dei conti. Una ragazzina finita accidentalmente nel posto sbagliato all'ora sbagliata, per quanto non vi sia la fretta di chi spera di rincasare presto nei passi della ranger. E' tutto estremamente... lento. Cammina come se fosse svogliata, con la flemma di una che ha stabilito di ritardare di qualche ora la partenza. Direzione? Avalon. Vuole godersi quella che potrebbe essere la sua ultima notte a Barrington per qualche tempo. Non sembra neppure guardarsi intorno, però. Ha lo sguardo dritto, fisso sulla strada. Lo sguardo fermo di chi non sembra contemplare nessun'altra direzione al di là di quella appena intrapresa. Cammina lungo i margini degli ultimi edifici, sfuggendo ai coni di luce rigettati dalle poche fiaccole appese agli angoli della strada. La città sembra deserta, stanotte. Il mercato lo è sempre, a quest'ora. Dovrebbe esserlo. E' proprio così che le cose dovrebbero andare. La cellula che irradia il fibroma, dentro il cuore spento di Barrinton, dovrebbe defluire assieme al sangue in tutt'altro verso. Cambiare rotta. Sarebbe andato così se non fosse per il fatto che sembra esserci uno di quegli ubriaconi scellerati, lì, di quelli che si fiondano da una bettola all'altra per viziarsi d'alcool finché l'impulso di vomitare anche l'anima non li riduce nello stato in cui si trova questo. Questo particolare individuo che la fa sospirare leggermente, fremere le ciglia e chiudere gli occhi un secondo solo. Non altera la lunghezza del proprio passo neppure di una virgola. Li conosce gli ubriaconi. Ci ha avuto a che fare diverse volte. Quando non sono colti da un istinto violento e animale, sono perfino di 'buona' compagnia. Un sorriso autentico te lo strappano di sicuro, specie nel momento in cui si mettono a cantare a squarciagola in mezzo alla strada, svegliando quelle donnone acide di mezza età che si affacciano dalle finestre dimenticando di togliersi la cuffietta dalla testa e l'aria da bestie incarognite sui volti stropicciati di sonno. Questo pare ridotto piuttosto male, comunque. E' talmente cotto da non riuscire a reggersi in piedi. Lo vede barcollare e appendersi con una mano alle travi della prima bancarella disponibile, ciondolare come se le gambe fossero sul punto di cedere e poi chinare la testa. Si aspetta già di sentire il primo conato di vomito, perfino da quella distanza. Sconvolta? Per nulla. Nauseata? Men che meno. Queste scene erano all'ordine del giorno, un tempo. Lo vede mentre lui le da le spalle. Sembra agghindato troppo bene, per essere un semplice poveraccio. Maledetta apparenza. Da quel punto non vede nient'altro che una chioma scura e i contorni di una strana sensazione farsi vivi nel momento stesso in cui l'Ombra finisce quasi per raggiungere la bancarella presa di mira dall'uomo. Se prima aveva lo sguardo annoiato e rassegnato di chi non riesce più a stupirsi di nulla, adesso lo cambia con uno più diffidente e incuriosito, che le fa assottigliare leggermente gli occhi e rallentare di poco il passo. Non avrebbe fatto altro che passargli su un fianco e poi oltre, indisturbata e silenziosa come una lince, se non avesse spinto gli occhi lungo quel profilo. Lui non si sarebbe nemmeno accorto di non essere più solo. E' talmente silenziosa da non sembrare del tutto umana. Gli vede il profilo destro, mentre tiene la testa girata in quella direzione. Si muove con cautela, restando fuori dal suo raggio d'azione, malfidata come pochi altri. E' nel mezzo secondo che impiega per riconoscerlo che lo sguardo di Serafin cambia ancora: da scettico diventa consapevole, conosce un guizzo irrisorio, indefinibile, che le fa sbattere le ciglia un paio di volte come per metterlo a fuoco e poi muta, di nuovo. Sospira dalle narici. Affonda una mano nella scarsella. Le basta mezzo passo per finirgli vicino, su un fianco. Quando afferra la fetta di carne essiccata che aveva conservato per il giorno seguente ci mette poco a fargliela finire sotto l'altezza delle narici. Il tempo di trasmettere al cervello quel forte, speziato, odore e la sfila di lì, velocemente, con fare pratico. Si guarda intorno. Un attimo solo. Quanto ci metterà ad insozzare il selciato? Uno? Due minuti? Forse anche meno. Non dice una parola.

GHEOF -Bancarella- Non vede più nulla in questo preciso istante. Soltanto il filo di saliva che cade in terra seguito poi da un improvviso rapimento del labbro inferiore. Lo raccoglie, cerca di succhiarlo trattenendolo tra i denti. Tra poco le forze ritorneranno, non è vero? Gli occhi si socchiudono. Stringe il trave di legno con la mano issando il volto lentamente. Pianissimo, pianissimo. Gli occhi sono chiusi e distesi come se stesse ascoltando chissà quale melodia piacevole, ma c’è tutt’altro dietro le palpebre. Un deglutire nuovo e labbra che ora s’umettano piano. Molto molto piano. Alza un angolo della bocca in quella che è una smorfia. Ma come ha fatto ad arrivare a conciarsi in questo modo? Perchè? ma come dannazione è possibile, come. Arriccia il naso un attimo raschiandosi ancora una volta la gola. Scuote il capo impercettibilmente. Lo fa perchè sta cercando l’equilibrio. Apre gli occhi. La luce sbiadita della notte da fastidio. Li apre con le iridi che cercano un punto fisso di fronte a sè. No, in queste condizioni non poteva farsi vedere da quella donna, nossignore. Da solo. Da solo può pure mugolare. Lo trova il punto dove fermarsi con gli occhi? Fa fatica, una faticaccia enorme. Gli passano per la testa tutte le parolacce di questo mondo e di altri. Prenderebbe a calci qualcosa se ne avesse la forza, lo vorrebbe veramente. Dovrebbe esserci un letto adesso e coperte calde a proteggerlo, tenerlo a bada, lontano da tutto. Da tutti. Quattro mura e nessuna dannata casacca avvitata. Ma non capisce molto adesso. E’ tutto confuso. I rumori della notte, assenti, sembrano quasi assordanti. Ok, calma. Un attimo di calma. Nessun passo. Niente. Non sente niente. Sente tutto. Ma non si accorge di nessuna presenza incappucciata. Potrebbero, per come è messo in questo momento, derubarlo, picchiarlo perchè è un uomo maturo con una casacca troppo rifinita per essere un semplice barbone o manovale qualsiasi. La punta della lingua va a puntellarsi a carezzare il palato inferiore. Bocca chiusa, mento che si pronuncia in avanti.] Eh. [Lo dice senza un reale motivo. Inspira dalla bocca e ferma gli occhi. Lo fanno un movimento che potrebbe apparire come se l’iride cadesse lateralmente andando a poggiarsi a crollare sull’angolo dell’occhio. La pupilla, al centro, si sofferma sulla figura che adesso gli sta al fianco. Una figura incappucciata. Grigia. Sì. Ha il volto pallido, estremamente. Un brivido. Un brivido ed un’altra fitta alla testa. Gli angoli della bocca sono tirati verso il basso, in una chiarissima smorfia di disgusto. Guarda. Osserva lei. Lui. Quella cosa lì vicino. Corruga la fronte. Rabbia. Rabbia. Sono occhi rabbiosi. Và via. Và via, merda. Le mascelle si tendono. I suoi occhi sono spenti. Solo in fondo è illuminata una luce, quella di un piacere consumato in una maniera indicibile. Ma è arrabbiato. Una cosa gli è vicina, troppo vicina ed un in momento così delicato è inopportuno. La mano si serra con fermezza attorno al trave della bancarella. Fissa nel fondo di quel cappuccio. I tratti di qualcuno. Qualcosa. Cosa. Chi sei, cosa sei, levati dalle PALLE. Sbuffa aria dalla bocca che schiude. Non molla lo sguardo da là. Non riuscirebbe a fare altrimenti. Ma qualcosa arriva, inaspettato. Un odore pungente. Vivo. Sale. Salato. Amarostico. Sangue raggrumato, indurito. Carne. Carne di qualche bestia ammazzata, privata dei peli, SALATA, spezie. Cosa ci mettono lì dentro? Spezie. Lo stomaco si stringe. In un impulso improvviso. La forza adesso le palpebre la trovano per allargarsi. Le iridi saettano fino al centro degli occhi. Guarda ancora il cappuccio. Gli angoli della bocca si tirano verso il basso, di più. Lo stomaco bolle. Ribolle. Sangue. Sangue. Il cuore batte forte. Tum tum. Tum tum, Tum tum tum. Il corpo ha bisogno del sangue perduto. Pompa veloce. La testa. Una fitta. Carne essiccata . Inspira dalle narici. Il cervello ha bisogno di aria. Anche il cuore perchè pompa troppo velocemente. Ossigeno. Spezie. Ossigeno. Sale. Ossigeno, carne. Trattiene l'aria. Arriva. Arriva arriva. Arriva la bile. Sale. Sale frenetica a sbattere contro l'esofago. Arriva Goffredo. Arriva. Non ha mangiato niente. Non ha mangiato nulla. Ricorda d'aver bevuto tanti, tantissimi bicchieri di vino. Fiumi. Così tanto da stordirlo. Così tanto da fargli dimenticare quello che è stato detto. Ha dato i soldi, ha il veleno. Lo ha messo al riparo. S'è accomodato. Ha parlato. Ha BEVUTO. Ha provato qualcosa di estremo. Estremo. Con la voglia di averne di più. Con più forza. Con più intensità. Ed è esploso. Ed era così bello, così invadente che ci sarebbe morto là in mezzo. Ci sarebbe morto pur di provarlo ancora. Non capisce. Niente. La mano libera, con una spinta del braccio che si muove d in direzione di quel qualcosa, si dirige ad afferrare la prima cosa che gli capita d'afferrare. Un braccio? Un gomito? Una spalla? Un fianco? Una vita? Lo fa con forza. La forza di chi ha bisogno di sostenersi a qualcosa perchè ARRIVA. E' lì! Con i polpastrelli forse dovrebbe arrivare a sfiorarle il fianco. Sfiorare? AH AH AH. E' una presa che potrebbe essere troppo forte per somigliare solo lontanamente ad uno sfiorare. Perchè se trovassero il tessuto del mantello dovrebbe arrivare a strizzarlo, forse prendendo anche della pelle. Fianco. Qualsiasi cosa essa sia. Si spinge in avanti con il busto e vomita. Vino. Rosso. Rosso. Ma quello che è più evidente è robaccia verdastra, gialla. Non è così tanto vino. DAVVERO. E' tutta roba che proviene direttamente dalle viscere di quest'uomo. Schifo. E' un gustaccio tremendo. Indescrivibile. Vomita. Non è solo un conato. Sono due. Tre. Di quelli che non ti danno il permesso di respirare. E ti ritrovi, magari a ad ingoiarne una goccia. E quindi ancora. Ambo le mani stringono i sostegni che hanno trovato. Un trave di legno da una parte e Serafin dall'altra. Chiunque esso sia. Il mantello si piega in avanti. Si sporca le scarpe. Gli occhi stretti. Bocca aperta. Viso che s'arrossa. Aria. Ne cerca. La trova. Lo fa per raschiare la gola dal catarro che s'è portato dietro. E' una scena tremenda e disgustosa. Ridursi in quel modo. Ha vomitato, alla fine. Ce l'ha fatta. E' debole, molto. Inspira dal naso. Non dice niente. Non ha la forza di fare niente. Lo stomaco è svuotato totalmente. Chiunque sia, questa persona incappucciata, chiunque sia, adesso può fare veramente quel che vuole di lui. Può anche ucciderlo. Non farebbe niente per proteggersi. Le gambe non hanno forza. Dio, abbi pietà di lui. Almeno tu.]

SERAFIN [Piazza Mercato] E' arrabbiato? Accidenti se lo è. Qualcosa le dice che, se avesse avuto più forza di quella che le sue braccia dimostrano in questo preciso momento, probabilmente a quest'ora avrebbe già tentato di spingerla via, cacciarla senza il minimo riguardo, con il fare brusco, di uomo cocciuto, orgoglioso fino al midollo. Restare da solo. Solo nel momento peggiore. Solo nello schifo. Solo nel disgusto. Solo. Perché nessuno dovrebbe vederlo in quello stato. Goffredo d'Altavilla, Custode Rerum del clan mediterraneo, ridotto alla stregua del primo fra gli ubriaconi di questa città, a ciondolare tra le bancarelle del mercato come un pazzo, più bianco di un lenzuolo appena steso, con i capelli in disordine e le vesti da nobiluomo ad opporsi al ritmo dei suoi stessi scompigli interiori. Lo guarda là, là dove piega il viso per cercare di capire chi è che si nasconde esattamente sotto l'ombra del cappuccio logoro che le copre la testa, oscurandole buona parte dei lineamenti. Lei invece lo vede benissimo. Vede i suoi occhi neri, anche quando quelli vanno a riempirsi della rabbia indecorosa che le riserva, sperando di farla desistere. Continua a fissarlo da lassù, senza mutare, neppure di una virgola, l'espressione quasi illeggibile che in questo momento la caratterizza, che le fa tenere le labbra serrate in una piega anonima e gli occhi azzurri concentrati sul suo volto pallido, fermi, come se non fosse minimamente sconvolta all'idea di ritrovarselo lì, a sbandare in mezzo alla strada come un disperato. Come. Se. Nella scala delle sue priorità attuali, semplicemente, l'intento di farlo 'liberare' occupa il primo posto. E' una di quelle cose per le quali non serve nemmeno star lì a pensarci troppo. Lo fai e basta. Perché è quello che senti. Senti. Sentire. Lo senti l'odore aromatizzato della carne secca? Dovrebbe disturbarti e farti salire la bile fino alla bocca dello stomaco e poi oltre nel giro di pochi secondi. Suo padre, perlomeno, ne impiegava all'incirca trenta. Diceva di avere sempre un maledettissimo cerchio alla testa, che si prolungava per ore e ore. Quello, più il senso di nausea perenne che gli faceva corrucciare la bocca e imprecare in tutti i modi umanamente conosciuti, e non, senza rifletterci troppo. Tendeva ad offenderla frequentemente e poi finiva sempre per pentirsene. Il patto era semplice, fra i due: tu bevi un bicchiere di meno al giorno e io evito di dire tutto alla mamma. Che poi non avrebbe tradito il suo 'piccolo segreto' in ogni caso, beh, quella era tutt'altra storia. - Quanti, oggi? - Uno - Sì, come no... - Due - Vecchio! - Tre. - Avevi promesso... - Ne avevo bisogno - Vieni, ti metto a letto -. Eccolo lì, l'impulso di vomitare. Lo sente arrivare come se la riguardasse personalmente. Sente le sue stesse viscere contorcersi per un istante buono, sull'esordio del primo conato. Ecco perché va a caccia d'altra aria. Guarda la strada anche senza vederla, muovendo gli occhi, inspirando dalle narici. Tiene le labbra strette. Chiude gli occhi un attimo, mentre si rifornisce d'ossigeno. Ha la fortuna di avere uno stomaco temprato. Se così non fosse non sarebbe mai sopravvissuta in guerra, non senza rigettare i pasti ad ogni metro tracimato tra corpi dilaniati e pozze di sangue zampillanti, ferite aperte come squarci di una veste malandata. Non le fa impressione, l'atto in sé. Forse la colpa è data dal fatto che lo vede pallido come un cencio. Reagisce alla sua maniera, Serafina. Il sostegno temporaneo che finisce per guadagnarsi contro il proprio fianco la induce a spezzare l'uniformità che la posizione dei piedi le garantiva fino a un istante prima. Deve spostarne uno lateralmente e poi indietro, pur di mantenere l'equilibrio necessario a tenerli entrambi dritti. Sente il mantello tirarsi, assieme alla stoffa della blusa azzurro cenere che la copre fin sotto il collo, aderita al busto di donna come una guaina. I respiri che prende in questo momento sembrano più rumorosi del solito. E' proprio quando la terra comincia ad accogliere il frutto di quel rigetto che gli occhi tornano a depositarsi sulla testa china di Goffredo, piegato nell'impulso di liberarsi. Dilata un secondo le narici. Quanto diamine hai bevuto, disgraziato d'un italiano? Certo. Mica può immaginarselo, lei, che le cose sono andate diversamente. Le pare solo assurdo il fatto che abbia perso il controllo a tal punto. LUI. O ha avuto una ragione, o una compagnia molto valida per bere. Allo stato attuale dei fatti, le cose che le premono davvero sembrano tutt'altre. Ad esempio, l'impulso di sbuffare dalle narici proprio un attimo prima di spingere avanti una mano per cercare di limitare i movimenti involontari della sua testa, aprirla a contatto con la sua fronte - fredda - ed imporre a quel gesto una forza contraria ai suoi. Nonostante tutto, per quanto disponga, a volte, di più energie di un uomo, adesso sa dimostrarsi quasi... delicata? Quasi. Si impone di tenere la bocca chiusa e di respirare dalle narici per tutto il tempo, mentre i conati si susseguono. Ogni tanto torna a puntare la strada. E' più forte di lei. E' una scema tremenda e disgustosa, sì, che probabilmente avrebbe fatto storcere la bocca a chiunque. Quando lui smette di vomitare, lei piega ancora una volta la testa avanti, tornando a fissarlo, così, ancora chino, impegnato nell'atto di ricercare altra aria. La mano si sottrae a quella presa, liberandogli lentamente la fronte e tornando nei pressi della scarsella dalla quale estrae, trafugando un po', un pezzo di stoffa, bianco e immacolato. Una striscia di lenzuolo tagliato grossolanamente, che trattiene nel pugno chiuso quando cerca di chiudere un braccio ed incastrarlo sotto il suo, quello con il quale si arpiona alla propria vita, raggiungergli la spalla, passando sotto l'incavo dell'ascella, e spingere indietro per far in modo che si rimetta dritto, almeno in parte, sostenuto anche dal trave che dovrebbe impedirgli di barcollare all'indietro. Sono azioni che non sembrano costarle troppa fatica [Potenza +3] e che compie sulla scia dei primi commenti. ''Vecchio scellerato...'' tira il braccio, piegando indietro il gomito ''non hai più l'età per fare certe cose'' il tono, paradossalmente, non è quello che userebbe per rimproverare qualcuno. Sembra più... ironico? In un certo senso. Forse ora dovrebbe riuscire a guardarlo bene in faccia. ''Tieni'' gli allunga il pezzo di stoffa, perché a meno che non si trovi in punto di morte, aiutarlo a ripulirsi la bocca nuocerebbe gravemente al suo orgoglio di uomo. Nemmeno Goffredo ne è esente. Anzi, soprattutto lui. Gli parla a bassa voce. Ma si fa sentire. Gli parla, ma non troppo. Le sembra terribilmente stordito. Continua a tenergli il braccio, visto che non le sembra nella condizione ideale per reggersi sulle gambe da solo. E lo guarda, da sotto il cappuccio, da vicino, con due occhi che sembrano dire: sei proprio un caso disperato. Quasi quanto me.

GHEOF -Bancarella- Non guarda niente. Soltanto il disastro bello spiattellato in terra. Il naso punge ancora. L'odore disgustoso della carne secca -non ne mangerà MAI più, questa è una promessa, quanto è vero Dio!- aleggia nelle narici. La gola brucia. Lo stomaco però adesso è libero. Libero da tutto il vino bevuto. (?!?!) No, non è che di vino che ne sia poi più di tanto ma sinceramente non è il momento migliore per stare a verificare la percentuale di vino e quella più sostanziosa di saliva e bile giallastra. La mano di lei sulla fronte. Ve lo immaginate l'orgoglio di un uomo italiano? Immenso. E sentire le mani di qualcuno sulla fronte, le mani sottili -SONO SOTTILI!- di qualcuno che gli regge il capo neppure fosse un bimbetto che non sa dove mettere la testa, come se non riuscisse a capire se piegare la testa da un lato, oppure troppo in basso rischiando di rigettare tutta quella robaccia addosso. Eh no. E poi, quanto era che non vomitava? Anni. Sicuramente anni. Decenni, può essere? Forse meno a dirla tutta. Quando aveva trent'anni si doveva vederlo. Sempre con la bibbia in mano, senza bisogno di lenti, con lo sguardo furbesco che si faceva tentare dalla scia profumata di qualche giovane che cercava il perdono. Magari a gettarsi in abiti da civile in quelle bettole -Serafin le conosci, dai! Lo sai di che tipo di bettole parliamo!- nei sobborghi romani ridendo. Perchè lui era il buon samaritano Goffredo che cercava informazioni riguardo i movimenti ereticali magari seduto su una panca pizzicando il bordo della scollatura generosa di qualche meretrice facendosi troppo giù a pizzicare giocosamente un capezzolo. Si sa poi come vanno a finire quelle cosacce lì. Ma davvero, Goffredo era moltissimo che non faceva un ruzzolone del genere ma soprattutto, ancor di più, che qualcuno gli stesse vicino a controllare se l'ha cacciata tutta. L'anima. Ma la mano gli lascia la testa che sente pesante e svuotata. Ma perlomeno, Sant'iddio, le fitte paiono essersi placate. Chiude la bocca umettandola. Intanto continua a sostenersi con una mano sul trave e l'altra sul fianco di Serafin. Ma quel fianco viene un po' meno. Lo fa perchè lei che sta facendo? Ah, Signore. Adesso sente il suo braccio sotto l'ascella per poi issarlo. Sgrana gli occhi alzando il capo a guardare quel cappuccio, ma soprattutto sotto quel cappuccio. Lo fa con un'espressione scocciata.] Molla...! [Ah dannazione. La voce che ne seguita, che si svela, la riconosce IMMEDIATAMENTE. O meglio. Un attimo. Arriva lontana ma il suo cervello suvvia, non è spento a tal punto. E poi sotto quel cappuccio si intravedono i tratti di quella donna. Si intravedono sì da quella posizione, dove la sua schiena è leggermente piegata in avanti. Vecchio scellerato, lo chiama. Lo chiama a tal guisa. Beh certo che ridursi in quelle condizioni per del dannato vino. Com'è possibile che sia accaduto. Oh diamine basta. Non serve adesso chiederselo ancora. Non è più solo e non può autoflagellarsi il cervello con ulteriori domande. Lei lo sostiene e lo fa senza sforzo. E' lui che cerca di non pesare il proprio peso su di lei. Un italianotto con folti capelli scuri che, da sotto la frangia appiccicata alla fronte la guarda con occhi socchiusi, perchè è vero. E' sfinito. Che cosa è successo in quella casa? Quella dei veleni? Ma cosa gli interessa adesso. Cosa GLIENE importa. Adesso è un relitto che si fa reggere da una donna più giovane di lui di una ventina d'anni. Sì che è lei. Se ne frega e gli porge un fazzoletto bianco. Ma lo sapete che gli uomini d'Italia sono orgogliosi nel midollo. Ed infatti abbandona il trave andando a cercare dentro la tasca dei propri pantaloni il suo fazzoletto di stoffa privato, piegato in quattro. Ha una colorazione panna. Non ha una macchia. Ed è con quello che si pulisce la bocca. ''Alla tua età bla bla bla''. Bla bla bla. Bla bla bla. Bla. E' troppo frastornato per risponderle ora a modo, come si deve, come avrebbe fatto. Adesso non lo fa. Ma certo che si fa sostenere. Certo. Infatti il braccio che è sostenuto da lei va a posarsi attorno alla sua spalla per mettersi definitivamente eretto. Guarda dritto avanti a sè. Si mette in piedi e batte le palpebre velocemente, una volta sola. Non la guarda, non dice niente. Soltanto sta cercando di trovare il proprio equilibrio. Ma Satana lo sa, mentre si lecca la lingua biforcuta guardando la scenetta che Goffredo non è nel pieno delle sue forze e sbatte gli zoccoli caprini in terra gongolandosi. Umetta la bocca lui. Deglutisce. Socchiude un occhio. Piacere!!! Il piacere. Ma che ci fa qui. E doveva proprio beccarsela lì di fronte? Doveva proprio a quest'ora della notte, a mercato chiuso? Doveva essere dove diamine voleva, ma invece è qui, che lo sostiene. Ha la forza di volontà /volontà +2/ di arricciare la bocca e scuotere il capo due volte.] Credo che non siano affari tuoi. [Lo dice con una voce che è sfibrata. Lo fa andando a guardarla con la coda dell'occhio. Si socchiudono un attimo. Fa un passo in avanti.] Fammi il favore. Andiamocene via di qui. [Ah, ma guarda. Adesso è lui che sceglie la strada da prendere. Quella che ha intenzione di voler seguire. Serafin è il suo bastone. Serafin. Infila il fazzoletto dentro la tasca. Dentro la scarsella alla fine ha qualcosa per entrambi.] Una... [Oh. Ha la forza di parlare. Fa un passo in avanti. Cerca di farlo come se volesse costringerla a seguirlo.] ... di queste mattine verrà messer Holgar. Vuole scusarsi... [Ah. Goffredo ride. Lo fa con un cenno della voce basso. Piano! Ma quella faccia da sbruffone chi gliela leva. Gli occhi si chiudono. Ondeggia il capo da una parte all'altra, un momento. Stringe gli occhi. L'angolo della bocca issato verso l'alto. Ma è bianco come un cencio in viso. Forse dovrebbe mangiare. Azzardati a dargli ancora carne essiccata e vedi.]... per l'atteggiamento indecoroso in bettola. Quanto è buono. [Non le vuole far sapere dove è andato nè con chi è stato. Stringe la mano attorno alla sua spalla. Per mantenersi in equilibrio. Anche. Non solo. Ma. Anche. Serafin Esmord, sei nei guai.]

SERAFIN [Piazza Mercato] Il marcio contenuto nelle viscere di Goffredo imbratta anche Barrington, adesso. Hai vomitato? L'hai rigettata tutta, l'anima che aveva intenzione di uscire allo scoperto? Bravo. Ora respira. Ora cerca di rimetterti dritto e dimostrami di aver conservato almeno il briciolo di lucidità necessario a riconoscermi. Eccolo, eccolo lì. Gli fa sgranare gli occhi di colpo mentre la cerca da sotto il cappuccio, quando lei gli tira indietro il braccio, per invitarlo ad issarsi senza chiedergli il permesso. E' scocciato? Ma non mi dire. L'ultima cosa che vorrebbe, probabilmente, è proprio questa: farsi vedere così, ridotto così, piegato ai margini del mercato, con l'aria stravolta di uno che sembra essere finito casualmente su questa strada senza neppure rendersi conto del perché o del come. Sono cose che capitano ai giovani, di solito, - quelli perdutamente innamorati, soprattutto - o ai vecchi talmente disperati da cadere in un tunnel che in sé non pare contemplare alcuna via d'uscita. Non dovrebbero capitare a quelli che, invece, se ne vanno in giro vestiti così, così. Sembra appena uscito da uno di quegli ambienti distinti che non la riguardano affatto. Di quelli che la fanno sempre sentire un'estranea rispetto al resto del mondo. Di quelli che calca con la risolutezza di un piccolo demonio, che quando le capita di trovarsi lì, la gente altolocata tende a piegare sempre la testa per guardarla di traverso, in un misto di disgusto e desideri da reprimere oltre il livello della vita. Per conciarsi a quella maniera, deve essersi trattato di un incontro importante. Ma poi a te che importa. Tu hai già la tua vita problematica a cui dar conto, ragazzina. Mica puoi permetterti di pensare anche a lui! A quello che fa o non fa. A ciò che combina. Al motivo per cui, in piena notte, si ritrova ad oscillare in mezzo alla strada come una barca alla deriva e tu, senza chiederti il perché, finisci per sostenerlo, evitando di farlo cadere a terra. Mollami. Ringhia lui. Cuciti la bocca e metti da parte l'orgoglio per una volta buona, testardo di un italiano! Non lo dice. Ma ha due occhi di brace che parlano anche da soli. Non accennano ad allontanarsi da quelli scuri che lui socchiude, infastidito. Scalcia quanto ti pare. Sono la miglior cosa che potesse capitarti in questo preciso momento. Non parla, non attraverso la bocca, ma è come se intavolassero una conversazione privata semplicemente guardandosi. Ora, ad esempio, sono arrivati al punto in cui cominciano ad insultarsi pesantemente. Certo, magari l'avrebbero anche fatto, se lui ne avesse avuto la forza. Mollami. Ma la mano resta lì. L'espressione ferma dell'Ombra non cambia, non si lascia intaccare da quell'occhiata truce. Sbuffa solo d'ironia, dalle narici, nel momento in cui vede riemergere dalla sua tasca un altro fazzoletto. Chiude le palpebre, per una piccolissima frazione di secondi, e quando le riapre le iridi si trovano tutte appoggiate agli angoli degli occhi, verso destra, mirando distrattamente un punto del mercato. Mentre lo fa, scuote impercettibilmente la testa, riportando il pezzo di stoffa al suo posto, sul fondo della scarsella piena, che guarda un attimo, piegando avanti la testa, sulla scia di un versetto eloquente e basso, prodotto a bocca chiusa ''Mh-mh'' Certo, bla bla bla. Hai finito? Tiene il volto inclinato ma gli occhi li alza comunque, dal basso, per inquadrarlo nuovamente. Le ciglia oscillano, prima di risollevarsi, particolarmente pigre. Gli occhi sembrano sorridere, di quel sorriso che gli nega con la bocca. - Non credo che siano affari tuoi - torna con lo sguardo sulla scarsella che intanto richiude, prima di risollevare la testa ''E chi ha chiesto niente...'' commenta, inarcando leggermente un sopracciglio. Non te l'ho chiesto, ma se anche una piccola parte di me avrebbe voluto capirci qualcosa... beh l'ho appena soffocata. Ah, italiani! Lui fa un passo avanti. Poi detta legge. Oh, è tornato quasi in sé! Alla fine si muove, arpionato alla propria spalla, per costringerla a seguire quella stessa direzione. Fa fatica ad adattarsi ai suoi movimenti. Mica per niente. Più che altro risponde all'impulso di rallentare non appena Goffredo torna a parlare di quello che, ultimamente, sembra essere diventato il suo argomento preferito: Holgar. Stavolta socchiude le labbra, piacevolmente irritata, gettando fuori tutta l'aria che per un istante buono ha deciso di trattenere. Lo fa tenendo il mento un po inclinato verso l'alto, come se volesse piegare indietro la testa, ma di poco. Chiude gli occhi e poi serra di nuovo le labbra, arricciandole in una piega nutrita. ''Oddio'' sembra esserci una d di troppo in quell'esclamazione. E' una consonante che marca tantissimo con la voce, mentre gli si rivolge parlando in italiano. ''Hai il coraggio di parlare di questa cosa anche adesso...'' intravede, con la coda dell'occhio, il sorriso indecoroso che gli sporca l'angolo della bocca. Bastardo. Sei proprio un gran bastardo, Goffredo D'Altavilla. ''Arriverà il giorno in cui la smetterai di sfotterlo davanti a me?'' Riprende a camminare al suo stesso ritmo, cercando di circondargli una parte della schiena con un braccio, poco sopra i lombi, arricciando la mano contro la stoffa che incontra per non perdere la presa. ''Dovrei lasciarti qui a marcire'' sussurra, tornando a puntare la strada. Certo, ha molto senso, considerando che lo stai sorreggendo, mentre vi muovete assieme. E' quello che una con un po' di sale nella zucca farebbe, Serafin! ''Muoviti...'' borbotta, scuotendo piano la testa, con il fare sbrigativo di una che sì, si è già reso conto di essere nei guai da un bel pezzo.




D'Altavilla Goffredo






"Cosa. Sto. Leggendo."








Gheof



"Ma che cazzo te guardi? Che stai a rosicà che io so parlà co le donne e tu no? I giovani d'oggi so' tutti froci!"












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