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Carne secca. (ok) approvazione RIPOSO)

Ultimo Aggiornamento: 05/04/2015 01:09
31/03/2015 21:49
 
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Serafin, Gheof.
RIASSUNTO: Avete presente quando si prende una sbronza epocale, di quelle che neanche riesci a reggerti in piedi, non riesci a capire quale è il cielo e quale la terra, quando ti viene da ridere ma se ridi poi ti salgono i conati di vomito? Beh, le sbronze amplificano lo stato vitale di ognuno di noi. Lo alterano al massimo. E potete immaginare Goffredo che è convinto d’essere ubriaco con addosso il sentore d’aver provato un piacere così forte da rischiare la follia. Bene. Lui, dopo il morso di Melisande la succhiasangue, ha voluto mettersi in piedi a cercare di trovare la strada di casa da solo. Elegantissimo, bianco come un cencio, barcolla nei pressi della piazza del mercato a notte fonda. Bancarelle chiuse, lo stomaco stritolato in una morsa. Un altro passo ed il vomito è assicurato. Quindi si ferma, blocca il suo stentoreo vagare cercando aria. Ma più si respira più si ha la sensazione di venire meno. Ma quel piacere. Ma quella forza. Ma perdere il controllo per del vino. Ma dannazione. Ma diamine. Ma bestemmie non dette però pensate con vigore. Da un vicolo una figura ammantata si inerpica in quelle viuzze solitarie. Mantello scurissimo, passo agile e la solita fauna Barringtoniana. Gli ubriaconi della notte fonda. Pochi, solo uno, riversato contro una bancarella. Ma lei, Serafin, riconosce in quella casacca elegante, dietro quella testata di capelli sale e pepe un uomo che molto probabilmente non avrebbe mai creduto di potersi materializzare nella figura di Goffredo. Sempre così controllato. Sempre così fermo. Ma può Goffredo ridursi così? E per quale motivo? Chiederglielo? Ma che. Ma che cosa. Senza pensarci, la ranger estrae dalla sua borsa un pezzo di carne essiccata. Che SCHIFO. Salata. Forte. Odore di sangue raggrumato, indurito dal sole. Di spezie appiccicate tra le trame filacciose del pezzo di carne. Vi viene nausea? A me sì. Figuriamoci ad uno che ha voglia di vomitare. Che ha tutta la bile della debolezza che trabocca dall’esofago. Uno sguardo in tralice verso quella figura. Ma che fa. M’ammazza? Mi deruba? Poco male. La vita vuole così. Dio vuol… esplode in terra bile, insozza il pavimento. Debolezza intensa. Non si regge in piedi lui. Non ce la fa più. E Serafin lo comprende. Si appresta a sostenere l’uomo per il fianco, cercando di non farlo cadere sul suo stesso vomito. Tremendo. Puzza. Odoraccio. Alla sua età non dovrebbe ridursi così. Glielo ricorda Serafin da sotto il cappuccio e lui riconosce immediatamente la voce di lei. L’orgoglio di un uomo, abbiamo presente? Bene. L’orgoglio di un uomo di 43 anni, vicino ai 44, un uomo Italiano, che cerca di farcela da solo. Di gestirsi da solo. Che vuoi. Non sono affari tuoi. Che vuoi. Intanto ti ricordo una cosa. Holgar verrà a ritirare il materiale. Vieni. Distogliamo l’attenzione da me. Pensa a quello che devi fare, quello che ti dico io, non ad altro. Ed allora, già che ci sei Serafin, accompagna questo derelitto della vita al palazzo del Governatore. Fatti i fatti tuoi. Ma lei non ha detto niente. “Ma lei non ha detto niente”! E si ritrovano a passeggiare tra le vie di Barrington con quest’uomo che sapete che fa? La conosce talmente bene, talmente bene che ne imita addirittura le espressioni. La prende in giro! Ma eccoli qui, arrivati al palazzo del governatore. Mura invalicabili, mura gigantesche, le mura di una fortezza, di una prigione. La stessa dove, volutamente, Serafin lascia le chiavi a Goffredo, lasciando a lui la decisione se liberarla o meno. E vieni. E vieni Serafin. E vieni da me. Vieni dentro il Palazzo del Goverantore. Non c’è bisogno di dirlo neanche. Lei lo sa da sé quello che deve fare. E ci va, dentro quell’atrio, tra le poltrone, dove Goffredo si accomoda pesantemente e stanco, privato di tutte le sue forze. Ma non la lascia andare, macchè. Le indica semplicemente di andare da lui, di avvicinarglisi e lei? Lei lo istiga fino alla fine fino a che non si accoccola su di lui, sopra le sue gambe, come una piccola bambina indifesa tra le braccia del padre. Ed il padre putativo, il padre geloso, il padre maniaco la abbraccia a sé, le carezza il viso ed intona a bassa voce una ninna nanna italiana che si spegne nello stesso momento in cui lui si addormenterà, svenendo letteralmente lasciando a lei la decisione su cosa fare. E resterà fino a che lui non le aprirà la porta. Resterà. Serafin RESTA.

COMMENTO: Non posso commentare. Non c’è niente da dire. Io ho perso le parole. Tutto nato dal nulla. Che cosa, che cosa si sta creando tra questi due.
Solo una cosa, prima che mi dimentico, preda di un’estasi totale:
Richiedo l’approvazione della role come riposo a seguito di questa, Mheregiah, Paradiso e Castigo. in cui Gheof viene salassato dalla vampira Melisande.


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GHEOF -Piazza Mercato- Ha voluto alzarsi dalla poltrona una volta risvegliatosi. Ma si può? Si può arrivare a conciarsi in queste condizioni? Bere così tanto da non capire più niente? Da non RICORDARE più nulla se non l'eco lontano delle risate della donna dei veleni? Ha aperto gli occhi allargandoli in maniera esagerata. Con una stanchezza addosso impressionante. No. E' vero. Non è proprio la cosa migliore decidere alla fine di incamminarsi nel pieno della notte, non a Barrington e NON in quelle condizioni. Ma lui ha voluto alzarsi ed andare. Dopotutto doveva SOLTANTO prendere il suo veleno e tornare a palazzo per rimettere in ordine ogni cosa. Un obbligo impellente. Ritirarsi, andare nella sua stanza, mettere al sicuro la fiala di vetro che ora è nascosta all'interno della scarsella dentro un panno pulito e BASTA. Ma si sono dilungati. Il vino era buono, è vero. Era troppo buono. E quanto se ne è versato? Lui ricorda bene il bicchiere e mezzo, il mezzo versato proprio da sè stesso e... poi? Poi seduto lì. Ma i ricordi non tornano a galla. Non ce la fanno. E questa non è cosa buona per Goffredo che della sua DANNATA memoria conosce ogni stilla. Ma questa notte è mancata. Persa. Svanita. Ricorda le parole. I sorrisi. Il vino. l'odore del vino. E poi? Non basta. Non basta perchè quello che sente ancora fremere addosso alla pelle è una sensazione che se la tiene appiccicata sul corpo. Su tutto il corpo. Non riesce a camminare bene. Ha preso i braccioli della poltrona ed ha voluto forzatamente andare. Non ha chiesto scuse. Ha guardato soltanto Melisande negli occhi scuotendo il capo. Andarsene via da lì. E ritrovare la via di casa. Ma in quelle condizioni, Goffredo, non è semplice, vero? Cosa sente? Che cosa prova? Nausea. Una fortissima nausea. Infatti, signori e signore, ha perso la via di casa. Sta muovendo letteralmente i passi verso... dove? E' che la strada andava dritta. Ma poi ha barcollato. Lo ha fatto sostenendosi ad un muro. Controllo sul corpo NULLO. Si è fermato durante la strada. Lo ha fatto cercando aria, cercando il contatto con la realtà. Perchè non lo sente più. Mano sulla bocca. La frega. Lo fa con forza ma lo stomaco è strizzato dal corpo che abbisogna di sostentamento. Il suo corpo reclama il suo sangue. Goffredo è bianchissimo in viso. Pallido. Ma eccola. Eccola una fortissima fitta alla tempia. Mal di testa. Sensi ottenebrati. E' vero. Non sente quasi le gambe che vanno avanti da sole. Ha paura, lo sapete? Questi sono qui momenti in cui non si dovrebbe vedere Goffredo. Non lo si deve vedere così. Privo di ogni suo controllo. Controllo del corpo. Della parola. La vista. Ci vede sbiadito. Ed infatti è lì adesso. Come ci sia arrivato in questa piazza neppure lo sa. Non ne ha idea. Inspira dal naso e butta giù l'aria. Lo fa ma eccolo, lo stomaco! Eccolo lì che si stringe. Si schiarisce la voce ma sale, in quell'atto incauto, uno spruzzo d'acido proveniente da chissà quale delle sue budella attorcigliate. La bile che gli strozza lo stomaco risale lungo l'esofago e va a depositarsi in fondo alla gola. E deglutisce. Impreca. Lo fa a voce bassissima ma impreca violentemente. Deglutisce l'acido. Nausea prepotente. Forte. I capelli Goffredo li aveva messi in ordine, tirati indietro. Ma adesso sono scompigliati. Piacere. Piacere estremo, piacere forte. Mal di testa. Dalla bocca la mano risale in cima agli occhi. Li copre ed esce un lamento dalla bocca. E' un lamento brevissimo. Un lamento che se la prende con l'impotenza del suo corpo e della sua mente. La sua scarsella a tracolla. Una casacca nera, avvitata, i bottoni lucidati a puntino, ricami di filo nero appena in rilievo dove il colletto l'ha sbottonato a lasciare aria, per darsi la parvenza di poter respirare un po' di più. Il mantello posato sulle spalle. E' praticamente con una mano appeso contro il trave di una bancarella del mercato. Una mano si sostiene là. Non c'è nessuno a quest'ora della notte. Nessuno. Goffredo è troppo, troppo debole per andare avanti per proseguire. E lo stomaco si attorciglia. Sempre di più. Sempre di più. Di più. Piacere. Risa di Melisande. Droga. Veleni. Castigo. Paradiso. Dio che lo punisce? Dio, lo sta punendo perchè molto probabilmente sta tirando un po' troppo la corda per la sua età? Serra la bocca. Spinge il viso in avanti. Raccoglie la saliva dentro la bocca e sputa in terra. E' un filo di saliva denso che rimane appeso alla bocca che adesso resta molle verso il basso. Goffredo vuole vomitare. Inspira forte perchè la sua mente si rifiuta di farlo. Ma il corpo di Goffredo ha bisogno di liberarsi dal peso che gli pesa sullo sterno e più giù, dentro lo stomaco. Le ciocche di capelli davanti alla fronte. Gli occhi guardano in terra. Si socchiudono. Si maledice. Ah che cosa ha provato. Ah, che cosa è successo. A, non capisce più niente.]

SERAFIN [Piazza Mercato] Le vie disarticolate di Barrington ricordano dei vasi sanguigni irrorati di anidride carbonica. Si ingarbugliano tra un bivio e l'altro, strozzando il poco ossigeno che circola da queste parti. Alla fine, proprio come delle vene, tendono a concentrarsi tutte verso il fulcro della città, l'organo vitale che, ad un'ora precisa del giorno, sembra quasi spegnersi, adattarsi ai ritmi rallentati - così dovrebbe essere per tutti, perlomeno - della notte, come un cuore a riposo. Tum - tum. Il vociare sconnesso degli ultimi drappelli che si sono allontanati in vista del tramonto. Tum. Le grida dei mercanti in lontananza. Tum. Il cibo che ha sottratto a quel balordo di un fruttivendolo, al prezzo di... cosa? Un sorriso generoso e una smorfia sbarazzina, di quelle che fai fatica a dimenticare, o a fingere di non vedere, anche impegnandoti a sufficienza. 'Quello quanto viene?' Un dito puntato sulla merce e l'altra mano pronta ad agguantare il tozzo di pane che ora riposa indisturbato sul fondo della scarsella. La sente sbattere ripetutamente contro un fianco. E' piena, sicuramente più di quanto non lo fosse nel momento in cui ha deciso di spingersi fin qui per procurarsi da mangiare - perché piuttosto che fare l'elemosina al sanitarium ha preferito rimettersi all'arte che ha affinato con gli anni, quella che da ragazzina faceva la differenza fra la vita e la morte. Fra il sacrificio del digiuno e uno stomaco contento, ché con poca forza nei muscoli non si riesce nemmeno a camminare decentemente. - Avrebbe potuto chiedere ospitalità a Yvonne - o al brutto giro di gente che non le avrebbe di sicuro negato un pasto caldo, in cambio di 'qualcosa' -. Avrebbe potuto, più semplicemente, sborsare i soldi necessari a rifocillarsi se il bisogno di nuocere in qualche modo a questa città non l'avesse animata, nel fondo. E' davvero questo, poi, il motivo per il quale stanotte ha deciso di sottrarre al proprio guardaroba i panni che un tempo le erano tanto cari? Quelli della ladruncola? O forse è solo l'idea di doversi mettere nei guai a tutti i costi? Lo smacco personale da rivolgere al mondo, in assenza di un tetto stabile che sì, avrebbe potuto riguadagnarsi facilmente con qualche smanceria, se non preferisse l'incostanza di questa vita a tutto ciò che le mura protettive del sanitarium avrebbero potuto offrirle, senza pretendere da lei chissà cosa. Forse le mancava questo: il fatto di potersi conquistare a fatica l'aria che respira. Grazie Serafin, per questo cibo. Si passa un pollice sulla bocca. Preme contro il labbro inferiore, umido, carezzandolo col polpastrello da un lato all'altro, fino a storcere un attimo la linea più nutrita. Finisce di masticare solo quando riporta la mano sotto l'ombra del mantello grigio scuro che la copre da cima a fondo, dalla sommità del cappuccio tirato sulla testa, ai bordi inferiori, logorati dal tempo, che le sfiorano a tratti irregolari i polpacci. Le falde si aprono verso l'esterno come ali, sfregando l'aria che la sferza in viso e le mette in disordine le poche ciocche sfuggite al controllo della treccia. Le armi sono nascoste, come al suo solito. E' una figurina innocua, in fin dei conti. Una ragazzina finita accidentalmente nel posto sbagliato all'ora sbagliata, per quanto non vi sia la fretta di chi spera di rincasare presto nei passi della ranger. E' tutto estremamente... lento. Cammina come se fosse svogliata, con la flemma di una che ha stabilito di ritardare di qualche ora la partenza. Direzione? Avalon. Vuole godersi quella che potrebbe essere la sua ultima notte a Barrington per qualche tempo. Non sembra neppure guardarsi intorno, però. Ha lo sguardo dritto, fisso sulla strada. Lo sguardo fermo di chi non sembra contemplare nessun'altra direzione al di là di quella appena intrapresa. Cammina lungo i margini degli ultimi edifici, sfuggendo ai coni di luce rigettati dalle poche fiaccole appese agli angoli della strada. La città sembra deserta, stanotte. Il mercato lo è sempre, a quest'ora. Dovrebbe esserlo. E' proprio così che le cose dovrebbero andare. La cellula che irradia il fibroma, dentro il cuore spento di Barrinton, dovrebbe defluire assieme al sangue in tutt'altro verso. Cambiare rotta. Sarebbe andato così se non fosse per il fatto che sembra esserci uno di quegli ubriaconi scellerati, lì, di quelli che si fiondano da una bettola all'altra per viziarsi d'alcool finché l'impulso di vomitare anche l'anima non li riduce nello stato in cui si trova questo. Questo particolare individuo che la fa sospirare leggermente, fremere le ciglia e chiudere gli occhi un secondo solo. Non altera la lunghezza del proprio passo neppure di una virgola. Li conosce gli ubriaconi. Ci ha avuto a che fare diverse volte. Quando non sono colti da un istinto violento e animale, sono perfino di 'buona' compagnia. Un sorriso autentico te lo strappano di sicuro, specie nel momento in cui si mettono a cantare a squarciagola in mezzo alla strada, svegliando quelle donnone acide di mezza età che si affacciano dalle finestre dimenticando di togliersi la cuffietta dalla testa e l'aria da bestie incarognite sui volti stropicciati di sonno. Questo pare ridotto piuttosto male, comunque. E' talmente cotto da non riuscire a reggersi in piedi. Lo vede barcollare e appendersi con una mano alle travi della prima bancarella disponibile, ciondolare come se le gambe fossero sul punto di cedere e poi chinare la testa. Si aspetta già di sentire il primo conato di vomito, perfino da quella distanza. Sconvolta? Per nulla. Nauseata? Men che meno. Queste scene erano all'ordine del giorno, un tempo. Lo vede mentre lui le da le spalle. Sembra agghindato troppo bene, per essere un semplice poveraccio. Maledetta apparenza. Da quel punto non vede nient'altro che una chioma scura e i contorni di una strana sensazione farsi vivi nel momento stesso in cui l'Ombra finisce quasi per raggiungere la bancarella presa di mira dall'uomo. Se prima aveva lo sguardo annoiato e rassegnato di chi non riesce più a stupirsi di nulla, adesso lo cambia con uno più diffidente e incuriosito, che le fa assottigliare leggermente gli occhi e rallentare di poco il passo. Non avrebbe fatto altro che passargli su un fianco e poi oltre, indisturbata e silenziosa come una lince, se non avesse spinto gli occhi lungo quel profilo. Lui non si sarebbe nemmeno accorto di non essere più solo. E' talmente silenziosa da non sembrare del tutto umana. Gli vede il profilo destro, mentre tiene la testa girata in quella direzione. Si muove con cautela, restando fuori dal suo raggio d'azione, malfidata come pochi altri. E' nel mezzo secondo che impiega per riconoscerlo che lo sguardo di Serafin cambia ancora: da scettico diventa consapevole, conosce un guizzo irrisorio, indefinibile, che le fa sbattere le ciglia un paio di volte come per metterlo a fuoco e poi muta, di nuovo. Sospira dalle narici. Affonda una mano nella scarsella. Le basta mezzo passo per finirgli vicino, su un fianco. Quando afferra la fetta di carne essiccata che aveva conservato per il giorno seguente ci mette poco a fargliela finire sotto l'altezza delle narici. Il tempo di trasmettere al cervello quel forte, speziato, odore e la sfila di lì, velocemente, con fare pratico. Si guarda intorno. Un attimo solo. Quanto ci metterà ad insozzare il selciato? Uno? Due minuti? Forse anche meno. Non dice una parola.

GHEOF -Bancarella- Non vede più nulla in questo preciso istante. Soltanto il filo di saliva che cade in terra seguito poi da un improvviso rapimento del labbro inferiore. Lo raccoglie, cerca di succhiarlo trattenendolo tra i denti. Tra poco le forze ritorneranno, non è vero? Gli occhi si socchiudono. Stringe il trave di legno con la mano issando il volto lentamente. Pianissimo, pianissimo. Gli occhi sono chiusi e distesi come se stesse ascoltando chissà quale melodia piacevole, ma c’è tutt’altro dietro le palpebre. Un deglutire nuovo e labbra che ora s’umettano piano. Molto molto piano. Alza un angolo della bocca in quella che è una smorfia. Ma come ha fatto ad arrivare a conciarsi in questo modo? Perchè? ma come dannazione è possibile, come. Arriccia il naso un attimo raschiandosi ancora una volta la gola. Scuote il capo impercettibilmente. Lo fa perchè sta cercando l’equilibrio. Apre gli occhi. La luce sbiadita della notte da fastidio. Li apre con le iridi che cercano un punto fisso di fronte a sè. No, in queste condizioni non poteva farsi vedere da quella donna, nossignore. Da solo. Da solo può pure mugolare. Lo trova il punto dove fermarsi con gli occhi? Fa fatica, una faticaccia enorme. Gli passano per la testa tutte le parolacce di questo mondo e di altri. Prenderebbe a calci qualcosa se ne avesse la forza, lo vorrebbe veramente. Dovrebbe esserci un letto adesso e coperte calde a proteggerlo, tenerlo a bada, lontano da tutto. Da tutti. Quattro mura e nessuna dannata casacca avvitata. Ma non capisce molto adesso. E’ tutto confuso. I rumori della notte, assenti, sembrano quasi assordanti. Ok, calma. Un attimo di calma. Nessun passo. Niente. Non sente niente. Sente tutto. Ma non si accorge di nessuna presenza incappucciata. Potrebbero, per come è messo in questo momento, derubarlo, picchiarlo perchè è un uomo maturo con una casacca troppo rifinita per essere un semplice barbone o manovale qualsiasi. La punta della lingua va a puntellarsi a carezzare il palato inferiore. Bocca chiusa, mento che si pronuncia in avanti.] Eh. [Lo dice senza un reale motivo. Inspira dalla bocca e ferma gli occhi. Lo fanno un movimento che potrebbe apparire come se l’iride cadesse lateralmente andando a poggiarsi a crollare sull’angolo dell’occhio. La pupilla, al centro, si sofferma sulla figura che adesso gli sta al fianco. Una figura incappucciata. Grigia. Sì. Ha il volto pallido, estremamente. Un brivido. Un brivido ed un’altra fitta alla testa. Gli angoli della bocca sono tirati verso il basso, in una chiarissima smorfia di disgusto. Guarda. Osserva lei. Lui. Quella cosa lì vicino. Corruga la fronte. Rabbia. Rabbia. Sono occhi rabbiosi. Và via. Và via, merda. Le mascelle si tendono. I suoi occhi sono spenti. Solo in fondo è illuminata una luce, quella di un piacere consumato in una maniera indicibile. Ma è arrabbiato. Una cosa gli è vicina, troppo vicina ed un in momento così delicato è inopportuno. La mano si serra con fermezza attorno al trave della bancarella. Fissa nel fondo di quel cappuccio. I tratti di qualcuno. Qualcosa. Cosa. Chi sei, cosa sei, levati dalle PALLE. Sbuffa aria dalla bocca che schiude. Non molla lo sguardo da là. Non riuscirebbe a fare altrimenti. Ma qualcosa arriva, inaspettato. Un odore pungente. Vivo. Sale. Salato. Amarostico. Sangue raggrumato, indurito. Carne. Carne di qualche bestia ammazzata, privata dei peli, SALATA, spezie. Cosa ci mettono lì dentro? Spezie. Lo stomaco si stringe. In un impulso improvviso. La forza adesso le palpebre la trovano per allargarsi. Le iridi saettano fino al centro degli occhi. Guarda ancora il cappuccio. Gli angoli della bocca si tirano verso il basso, di più. Lo stomaco bolle. Ribolle. Sangue. Sangue. Il cuore batte forte. Tum tum. Tum tum, Tum tum tum. Il corpo ha bisogno del sangue perduto. Pompa veloce. La testa. Una fitta. Carne essiccata . Inspira dalle narici. Il cervello ha bisogno di aria. Anche il cuore perchè pompa troppo velocemente. Ossigeno. Spezie. Ossigeno. Sale. Ossigeno, carne. Trattiene l'aria. Arriva. Arriva arriva. Arriva la bile. Sale. Sale frenetica a sbattere contro l'esofago. Arriva Goffredo. Arriva. Non ha mangiato niente. Non ha mangiato nulla. Ricorda d'aver bevuto tanti, tantissimi bicchieri di vino. Fiumi. Così tanto da stordirlo. Così tanto da fargli dimenticare quello che è stato detto. Ha dato i soldi, ha il veleno. Lo ha messo al riparo. S'è accomodato. Ha parlato. Ha BEVUTO. Ha provato qualcosa di estremo. Estremo. Con la voglia di averne di più. Con più forza. Con più intensità. Ed è esploso. Ed era così bello, così invadente che ci sarebbe morto là in mezzo. Ci sarebbe morto pur di provarlo ancora. Non capisce. Niente. La mano libera, con una spinta del braccio che si muove d in direzione di quel qualcosa, si dirige ad afferrare la prima cosa che gli capita d'afferrare. Un braccio? Un gomito? Una spalla? Un fianco? Una vita? Lo fa con forza. La forza di chi ha bisogno di sostenersi a qualcosa perchè ARRIVA. E' lì! Con i polpastrelli forse dovrebbe arrivare a sfiorarle il fianco. Sfiorare? AH AH AH. E' una presa che potrebbe essere troppo forte per somigliare solo lontanamente ad uno sfiorare. Perchè se trovassero il tessuto del mantello dovrebbe arrivare a strizzarlo, forse prendendo anche della pelle. Fianco. Qualsiasi cosa essa sia. Si spinge in avanti con il busto e vomita. Vino. Rosso. Rosso. Ma quello che è più evidente è robaccia verdastra, gialla. Non è così tanto vino. DAVVERO. E' tutta roba che proviene direttamente dalle viscere di quest'uomo. Schifo. E' un gustaccio tremendo. Indescrivibile. Vomita. Non è solo un conato. Sono due. Tre. Di quelli che non ti danno il permesso di respirare. E ti ritrovi, magari a ad ingoiarne una goccia. E quindi ancora. Ambo le mani stringono i sostegni che hanno trovato. Un trave di legno da una parte e Serafin dall'altra. Chiunque esso sia. Il mantello si piega in avanti. Si sporca le scarpe. Gli occhi stretti. Bocca aperta. Viso che s'arrossa. Aria. Ne cerca. La trova. Lo fa per raschiare la gola dal catarro che s'è portato dietro. E' una scena tremenda e disgustosa. Ridursi in quel modo. Ha vomitato, alla fine. Ce l'ha fatta. E' debole, molto. Inspira dal naso. Non dice niente. Non ha la forza di fare niente. Lo stomaco è svuotato totalmente. Chiunque sia, questa persona incappucciata, chiunque sia, adesso può fare veramente quel che vuole di lui. Può anche ucciderlo. Non farebbe niente per proteggersi. Le gambe non hanno forza. Dio, abbi pietà di lui. Almeno tu.]

SERAFIN [Piazza Mercato] E' arrabbiato? Accidenti se lo è. Qualcosa le dice che, se avesse avuto più forza di quella che le sue braccia dimostrano in questo preciso momento, probabilmente a quest'ora avrebbe già tentato di spingerla via, cacciarla senza il minimo riguardo, con il fare brusco, di uomo cocciuto, orgoglioso fino al midollo. Restare da solo. Solo nel momento peggiore. Solo nello schifo. Solo nel disgusto. Solo. Perché nessuno dovrebbe vederlo in quello stato. Goffredo d'Altavilla, Custode Rerum del clan mediterraneo, ridotto alla stregua del primo fra gli ubriaconi di questa città, a ciondolare tra le bancarelle del mercato come un pazzo, più bianco di un lenzuolo appena steso, con i capelli in disordine e le vesti da nobiluomo ad opporsi al ritmo dei suoi stessi scompigli interiori. Lo guarda là, là dove piega il viso per cercare di capire chi è che si nasconde esattamente sotto l'ombra del cappuccio logoro che le copre la testa, oscurandole buona parte dei lineamenti. Lei invece lo vede benissimo. Vede i suoi occhi neri, anche quando quelli vanno a riempirsi della rabbia indecorosa che le riserva, sperando di farla desistere. Continua a fissarlo da lassù, senza mutare, neppure di una virgola, l'espressione quasi illeggibile che in questo momento la caratterizza, che le fa tenere le labbra serrate in una piega anonima e gli occhi azzurri concentrati sul suo volto pallido, fermi, come se non fosse minimamente sconvolta all'idea di ritrovarselo lì, a sbandare in mezzo alla strada come un disperato. Come. Se. Nella scala delle sue priorità attuali, semplicemente, l'intento di farlo 'liberare' occupa il primo posto. E' una di quelle cose per le quali non serve nemmeno star lì a pensarci troppo. Lo fai e basta. Perché è quello che senti. Senti. Sentire. Lo senti l'odore aromatizzato della carne secca? Dovrebbe disturbarti e farti salire la bile fino alla bocca dello stomaco e poi oltre nel giro di pochi secondi. Suo padre, perlomeno, ne impiegava all'incirca trenta. Diceva di avere sempre un maledettissimo cerchio alla testa, che si prolungava per ore e ore. Quello, più il senso di nausea perenne che gli faceva corrucciare la bocca e imprecare in tutti i modi umanamente conosciuti, e non, senza rifletterci troppo. Tendeva ad offenderla frequentemente e poi finiva sempre per pentirsene. Il patto era semplice, fra i due: tu bevi un bicchiere di meno al giorno e io evito di dire tutto alla mamma. Che poi non avrebbe tradito il suo 'piccolo segreto' in ogni caso, beh, quella era tutt'altra storia. - Quanti, oggi? - Uno - Sì, come no... - Due - Vecchio! - Tre. - Avevi promesso... - Ne avevo bisogno - Vieni, ti metto a letto -. Eccolo lì, l'impulso di vomitare. Lo sente arrivare come se la riguardasse personalmente. Sente le sue stesse viscere contorcersi per un istante buono, sull'esordio del primo conato. Ecco perché va a caccia d'altra aria. Guarda la strada anche senza vederla, muovendo gli occhi, inspirando dalle narici. Tiene le labbra strette. Chiude gli occhi un attimo, mentre si rifornisce d'ossigeno. Ha la fortuna di avere uno stomaco temprato. Se così non fosse non sarebbe mai sopravvissuta in guerra, non senza rigettare i pasti ad ogni metro tracimato tra corpi dilaniati e pozze di sangue zampillanti, ferite aperte come squarci di una veste malandata. Non le fa impressione, l'atto in sé. Forse la colpa è data dal fatto che lo vede pallido come un cencio. Reagisce alla sua maniera, Serafina. Il sostegno temporaneo che finisce per guadagnarsi contro il proprio fianco la induce a spezzare l'uniformità che la posizione dei piedi le garantiva fino a un istante prima. Deve spostarne uno lateralmente e poi indietro, pur di mantenere l'equilibrio necessario a tenerli entrambi dritti. Sente il mantello tirarsi, assieme alla stoffa della blusa azzurro cenere che la copre fin sotto il collo, aderita al busto di donna come una guaina. I respiri che prende in questo momento sembrano più rumorosi del solito. E' proprio quando la terra comincia ad accogliere il frutto di quel rigetto che gli occhi tornano a depositarsi sulla testa china di Goffredo, piegato nell'impulso di liberarsi. Dilata un secondo le narici. Quanto diamine hai bevuto, disgraziato d'un italiano? Certo. Mica può immaginarselo, lei, che le cose sono andate diversamente. Le pare solo assurdo il fatto che abbia perso il controllo a tal punto. LUI. O ha avuto una ragione, o una compagnia molto valida per bere. Allo stato attuale dei fatti, le cose che le premono davvero sembrano tutt'altre. Ad esempio, l'impulso di sbuffare dalle narici proprio un attimo prima di spingere avanti una mano per cercare di limitare i movimenti involontari della sua testa, aprirla a contatto con la sua fronte - fredda - ed imporre a quel gesto una forza contraria ai suoi. Nonostante tutto, per quanto disponga, a volte, di più energie di un uomo, adesso sa dimostrarsi quasi... delicata? Quasi. Si impone di tenere la bocca chiusa e di respirare dalle narici per tutto il tempo, mentre i conati si susseguono. Ogni tanto torna a puntare la strada. E' più forte di lei. E' una scema tremenda e disgustosa, sì, che probabilmente avrebbe fatto storcere la bocca a chiunque. Quando lui smette di vomitare, lei piega ancora una volta la testa avanti, tornando a fissarlo, così, ancora chino, impegnato nell'atto di ricercare altra aria. La mano si sottrae a quella presa, liberandogli lentamente la fronte e tornando nei pressi della scarsella dalla quale estrae, trafugando un po', un pezzo di stoffa, bianco e immacolato. Una striscia di lenzuolo tagliato grossolanamente, che trattiene nel pugno chiuso quando cerca di chiudere un braccio ed incastrarlo sotto il suo, quello con il quale si arpiona alla propria vita, raggiungergli la spalla, passando sotto l'incavo dell'ascella, e spingere indietro per far in modo che si rimetta dritto, almeno in parte, sostenuto anche dal trave che dovrebbe impedirgli di barcollare all'indietro. Sono azioni che non sembrano costarle troppa fatica [Potenza +3] e che compie sulla scia dei primi commenti. ''Vecchio scellerato...'' tira il braccio, piegando indietro il gomito ''non hai più l'età per fare certe cose'' il tono, paradossalmente, non è quello che userebbe per rimproverare qualcuno. Sembra più... ironico? In un certo senso. Forse ora dovrebbe riuscire a guardarlo bene in faccia. ''Tieni'' gli allunga il pezzo di stoffa, perché a meno che non si trovi in punto di morte, aiutarlo a ripulirsi la bocca nuocerebbe gravemente al suo orgoglio di uomo. Nemmeno Goffredo ne è esente. Anzi, soprattutto lui. Gli parla a bassa voce. Ma si fa sentire. Gli parla, ma non troppo. Le sembra terribilmente stordito. Continua a tenergli il braccio, visto che non le sembra nella condizione ideale per reggersi sulle gambe da solo. E lo guarda, da sotto il cappuccio, da vicino, con due occhi che sembrano dire: sei proprio un caso disperato. Quasi quanto me.

GHEOF -Bancarella- Non guarda niente. Soltanto il disastro bello spiattellato in terra. Il naso punge ancora. L'odore disgustoso della carne secca -non ne mangerà MAI più, questa è una promessa, quanto è vero Dio!- aleggia nelle narici. La gola brucia. Lo stomaco però adesso è libero. Libero da tutto il vino bevuto. (?!?!) No, non è che di vino che ne sia poi più di tanto ma sinceramente non è il momento migliore per stare a verificare la percentuale di vino e quella più sostanziosa di saliva e bile giallastra. La mano di lei sulla fronte. Ve lo immaginate l'orgoglio di un uomo italiano? Immenso. E sentire le mani di qualcuno sulla fronte, le mani sottili -SONO SOTTILI!- di qualcuno che gli regge il capo neppure fosse un bimbetto che non sa dove mettere la testa, come se non riuscisse a capire se piegare la testa da un lato, oppure troppo in basso rischiando di rigettare tutta quella robaccia addosso. Eh no. E poi, quanto era che non vomitava? Anni. Sicuramente anni. Decenni, può essere? Forse meno a dirla tutta. Quando aveva trent'anni si doveva vederlo. Sempre con la bibbia in mano, senza bisogno di lenti, con lo sguardo furbesco che si faceva tentare dalla scia profumata di qualche giovane che cercava il perdono. Magari a gettarsi in abiti da civile in quelle bettole -Serafin le conosci, dai! Lo sai di che tipo di bettole parliamo!- nei sobborghi romani ridendo. Perchè lui era il buon samaritano Goffredo che cercava informazioni riguardo i movimenti ereticali magari seduto su una panca pizzicando il bordo della scollatura generosa di qualche meretrice facendosi troppo giù a pizzicare giocosamente un capezzolo. Si sa poi come vanno a finire quelle cosacce lì. Ma davvero, Goffredo era moltissimo che non faceva un ruzzolone del genere ma soprattutto, ancor di più, che qualcuno gli stesse vicino a controllare se l'ha cacciata tutta. L'anima. Ma la mano gli lascia la testa che sente pesante e svuotata. Ma perlomeno, Sant'iddio, le fitte paiono essersi placate. Chiude la bocca umettandola. Intanto continua a sostenersi con una mano sul trave e l'altra sul fianco di Serafin. Ma quel fianco viene un po' meno. Lo fa perchè lei che sta facendo? Ah, Signore. Adesso sente il suo braccio sotto l'ascella per poi issarlo. Sgrana gli occhi alzando il capo a guardare quel cappuccio, ma soprattutto sotto quel cappuccio. Lo fa con un'espressione scocciata.] Molla...! [Ah dannazione. La voce che ne seguita, che si svela, la riconosce IMMEDIATAMENTE. O meglio. Un attimo. Arriva lontana ma il suo cervello suvvia, non è spento a tal punto. E poi sotto quel cappuccio si intravedono i tratti di quella donna. Si intravedono sì da quella posizione, dove la sua schiena è leggermente piegata in avanti. Vecchio scellerato, lo chiama. Lo chiama a tal guisa. Beh certo che ridursi in quelle condizioni per del dannato vino. Com'è possibile che sia accaduto. Oh diamine basta. Non serve adesso chiederselo ancora. Non è più solo e non può autoflagellarsi il cervello con ulteriori domande. Lei lo sostiene e lo fa senza sforzo. E' lui che cerca di non pesare il proprio peso su di lei. Un italianotto con folti capelli scuri che, da sotto la frangia appiccicata alla fronte la guarda con occhi socchiusi, perchè è vero. E' sfinito. Che cosa è successo in quella casa? Quella dei veleni? Ma cosa gli interessa adesso. Cosa GLIENE importa. Adesso è un relitto che si fa reggere da una donna più giovane di lui di una ventina d'anni. Sì che è lei. Se ne frega e gli porge un fazzoletto bianco. Ma lo sapete che gli uomini d'Italia sono orgogliosi nel midollo. Ed infatti abbandona il trave andando a cercare dentro la tasca dei propri pantaloni il suo fazzoletto di stoffa privato, piegato in quattro. Ha una colorazione panna. Non ha una macchia. Ed è con quello che si pulisce la bocca. ''Alla tua età bla bla bla''. Bla bla bla. Bla bla bla. Bla. E' troppo frastornato per risponderle ora a modo, come si deve, come avrebbe fatto. Adesso non lo fa. Ma certo che si fa sostenere. Certo. Infatti il braccio che è sostenuto da lei va a posarsi attorno alla sua spalla per mettersi definitivamente eretto. Guarda dritto avanti a sè. Si mette in piedi e batte le palpebre velocemente, una volta sola. Non la guarda, non dice niente. Soltanto sta cercando di trovare il proprio equilibrio. Ma Satana lo sa, mentre si lecca la lingua biforcuta guardando la scenetta che Goffredo non è nel pieno delle sue forze e sbatte gli zoccoli caprini in terra gongolandosi. Umetta la bocca lui. Deglutisce. Socchiude un occhio. Piacere!!! Il piacere. Ma che ci fa qui. E doveva proprio beccarsela lì di fronte? Doveva proprio a quest'ora della notte, a mercato chiuso? Doveva essere dove diamine voleva, ma invece è qui, che lo sostiene. Ha la forza di volontà /volontà +2/ di arricciare la bocca e scuotere il capo due volte.] Credo che non siano affari tuoi. [Lo dice con una voce che è sfibrata. Lo fa andando a guardarla con la coda dell'occhio. Si socchiudono un attimo. Fa un passo in avanti.] Fammi il favore. Andiamocene via di qui. [Ah, ma guarda. Adesso è lui che sceglie la strada da prendere. Quella che ha intenzione di voler seguire. Serafin è il suo bastone. Serafin. Infila il fazzoletto dentro la tasca. Dentro la scarsella alla fine ha qualcosa per entrambi.] Una... [Oh. Ha la forza di parlare. Fa un passo in avanti. Cerca di farlo come se volesse costringerla a seguirlo.] ... di queste mattine verrà messer Holgar. Vuole scusarsi... [Ah. Goffredo ride. Lo fa con un cenno della voce basso. Piano! Ma quella faccia da sbruffone chi gliela leva. Gli occhi si chiudono. Ondeggia il capo da una parte all'altra, un momento. Stringe gli occhi. L'angolo della bocca issato verso l'alto. Ma è bianco come un cencio in viso. Forse dovrebbe mangiare. Azzardati a dargli ancora carne essiccata e vedi.]... per l'atteggiamento indecoroso in bettola. Quanto è buono. [Non le vuole far sapere dove è andato nè con chi è stato. Stringe la mano attorno alla sua spalla. Per mantenersi in equilibrio. Anche. Non solo. Ma. Anche. Serafin Esmord, sei nei guai.]

SERAFIN [Piazza Mercato] Il marcio contenuto nelle viscere di Goffredo imbratta anche Barrington, adesso. Hai vomitato? L'hai rigettata tutta, l'anima che aveva intenzione di uscire allo scoperto? Bravo. Ora respira. Ora cerca di rimetterti dritto e dimostrami di aver conservato almeno il briciolo di lucidità necessario a riconoscermi. Eccolo, eccolo lì. Gli fa sgranare gli occhi di colpo mentre la cerca da sotto il cappuccio, quando lei gli tira indietro il braccio, per invitarlo ad issarsi senza chiedergli il permesso. E' scocciato? Ma non mi dire. L'ultima cosa che vorrebbe, probabilmente, è proprio questa: farsi vedere così, ridotto così, piegato ai margini del mercato, con l'aria stravolta di uno che sembra essere finito casualmente su questa strada senza neppure rendersi conto del perché o del come. Sono cose che capitano ai giovani, di solito, - quelli perdutamente innamorati, soprattutto - o ai vecchi talmente disperati da cadere in un tunnel che in sé non pare contemplare alcuna via d'uscita. Non dovrebbero capitare a quelli che, invece, se ne vanno in giro vestiti così, così. Sembra appena uscito da uno di quegli ambienti distinti che non la riguardano affatto. Di quelli che la fanno sempre sentire un'estranea rispetto al resto del mondo. Di quelli che calca con la risolutezza di un piccolo demonio, che quando le capita di trovarsi lì, la gente altolocata tende a piegare sempre la testa per guardarla di traverso, in un misto di disgusto e desideri da reprimere oltre il livello della vita. Per conciarsi a quella maniera, deve essersi trattato di un incontro importante. Ma poi a te che importa. Tu hai già la tua vita problematica a cui dar conto, ragazzina. Mica puoi permetterti di pensare anche a lui! A quello che fa o non fa. A ciò che combina. Al motivo per cui, in piena notte, si ritrova ad oscillare in mezzo alla strada come una barca alla deriva e tu, senza chiederti il perché, finisci per sostenerlo, evitando di farlo cadere a terra. Mollami. Ringhia lui. Cuciti la bocca e metti da parte l'orgoglio per una volta buona, testardo di un italiano! Non lo dice. Ma ha due occhi di brace che parlano anche da soli. Non accennano ad allontanarsi da quelli scuri che lui socchiude, infastidito. Scalcia quanto ti pare. Sono la miglior cosa che potesse capitarti in questo preciso momento. Non parla, non attraverso la bocca, ma è come se intavolassero una conversazione privata semplicemente guardandosi. Ora, ad esempio, sono arrivati al punto in cui cominciano ad insultarsi pesantemente. Certo, magari l'avrebbero anche fatto, se lui ne avesse avuto la forza. Mollami. Ma la mano resta lì. L'espressione ferma dell'Ombra non cambia, non si lascia intaccare da quell'occhiata truce. Sbuffa solo d'ironia, dalle narici, nel momento in cui vede riemergere dalla sua tasca un altro fazzoletto. Chiude le palpebre, per una piccolissima frazione di secondi, e quando le riapre le iridi si trovano tutte appoggiate agli angoli degli occhi, verso destra, mirando distrattamente un punto del mercato. Mentre lo fa, scuote impercettibilmente la testa, riportando il pezzo di stoffa al suo posto, sul fondo della scarsella piena, che guarda un attimo, piegando avanti la testa, sulla scia di un versetto eloquente e basso, prodotto a bocca chiusa ''Mh-mh'' Certo, bla bla bla. Hai finito? Tiene il volto inclinato ma gli occhi li alza comunque, dal basso, per inquadrarlo nuovamente. Le ciglia oscillano, prima di risollevarsi, particolarmente pigre. Gli occhi sembrano sorridere, di quel sorriso che gli nega con la bocca. - Non credo che siano affari tuoi - torna con lo sguardo sulla scarsella che intanto richiude, prima di risollevare la testa ''E chi ha chiesto niente...'' commenta, inarcando leggermente un sopracciglio. Non te l'ho chiesto, ma se anche una piccola parte di me avrebbe voluto capirci qualcosa... beh l'ho appena soffocata. Ah, italiani! Lui fa un passo avanti. Poi detta legge. Oh, è tornato quasi in sé! Alla fine si muove, arpionato alla propria spalla, per costringerla a seguire quella stessa direzione. Fa fatica ad adattarsi ai suoi movimenti. Mica per niente. Più che altro risponde all'impulso di rallentare non appena Goffredo torna a parlare di quello che, ultimamente, sembra essere diventato il suo argomento preferito: Holgar. Stavolta socchiude le labbra, piacevolmente irritata, gettando fuori tutta l'aria che per un istante buono ha deciso di trattenere. Lo fa tenendo il mento un po inclinato verso l'alto, come se volesse piegare indietro la testa, ma di poco. Chiude gli occhi e poi serra di nuovo le labbra, arricciandole in una piega nutrita. ''Oddio'' sembra esserci una d di troppo in quell'esclamazione. E' una consonante che marca tantissimo con la voce, mentre gli si rivolge parlando in italiano. ''Hai il coraggio di parlare di questa cosa anche adesso...'' intravede, con la coda dell'occhio, il sorriso indecoroso che gli sporca l'angolo della bocca. Bastardo. Sei proprio un gran bastardo, Goffredo D'Altavilla. ''Arriverà il giorno in cui la smetterai di sfotterlo davanti a me?'' Riprende a camminare al suo stesso ritmo, cercando di circondargli una parte della schiena con un braccio, poco sopra i lombi, arricciando la mano contro la stoffa che incontra per non perdere la presa. ''Dovrei lasciarti qui a marcire'' sussurra, tornando a puntare la strada. Certo, ha molto senso, considerando che lo stai sorreggendo, mentre vi muovete assieme. E' quello che una con un po' di sale nella zucca farebbe, Serafin! ''Muoviti...'' borbotta, scuotendo piano la testa, con il fare sbrigativo di una che sì, si è già reso conto di essere nei guai da un bel pezzo.




D'Altavilla Goffredo






"Cosa. Sto. Leggendo."








Gheof



"Ma che cazzo te guardi? Che stai a rosicà che io so parlà co le donne e tu no? I giovani d'oggi so' tutti froci!"












31/03/2015 21:50
 
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GHEOF -Bancarelle- Ed eccoli che passeggiano, ondeggiano è il caso di dirlo, in quel mercato fantasma. Chiuso. Lui non la guarda ancora ma è come se la sentisse. Perchè non è stupito? Perchè non sente il cuore battere all’impazzata come accade quando si prova un forte sentimento?! Perchè? Perchè lui ha la certezza. La certezza che non lo lascerà come un cane, nelle condizioni in cui si trova. Serafin è il suo bastone. ''È nell'ordine della natura che le mogli servano i loro mariti ed i figli i loro genitori.” Così diceva Sant’Agostino, padre della chiesa. Ma guarda un po’ che bella considerazione. Aggiusta il braccio attorno alle spalle e la porta a sè. Od almeno era quello, parola, il suo intento. Il risultato disastroso è quello di arrivare con la guancia ispida contro la sua spalla dove gli occhi si sostengono per miracolo. Cammina. Goffredo sì. Potrebbe sembrare veramente ubriaco. Non puzza esageratamente di alcool. Più che altro è l’odore del suo vomito, diamine. Dovrebbe puzzare inverecondamente di quella roba alcolica per essere ridotto in quello stato.] OdDio. [Le fa eco senza voce poco dopo di lei. Lo fa solo con l’aria che esce dalla bocca ed i denti che nel pronunciare quella consonante si stringono in maniera esagerata, falsa. Fa pure l'ironico. Fa sfarfallare le ciglia come una donna. Come lei. Lo sai, Serafin, che lui ha studiato ogni tuo movimento, dal semplice modo in cui corrughi la fronte dove si creano quella piccola rughetta nello spazio che intercorre tra le sopracciglia? Come ti tocchi il labbro inferiore quando t'appresti ad arricciarlo con quello superiore? Muoviti...? Si muove lui. Lo sta facendo nella maniera più veloce che lui ha il permesso di fare. Una lumaca. Non è più giovane, è vero. Cammina come può. Ah. La testa non ha ancora la forza di alzarsi. E sì. Resta con gli occhi socchiusi come una signorinella mentre la bocca si schiude ad imitare una ''O'' per un momento abbastanza lungo. Ah. Sbatte le palpebre come è solito fare. La mano libera va a cercare i capelli a tirarli indietro. Nel farlo si ferma. E FERMA anche lei. Lo fa con il passo che si blocca e la mano che stringe contro la sua spalla. Eccolo. Si issa con il viso e cerca di stare diritto. In piedi. Guarda fisso avanti a sè. Il suo profilo. Il naso l'ha preso tutto da quella buona donna di sua mamma. Ma ha gli occhi del padre. Sua mamma glielo diceva sempre quando andavano a far rifornimento al monastero. Goffredo gliele passava le verdure baciando la madre sulla guancia. Padre Goffredo, lo dovevano chiamare, il nuovo monaco di Subiaco. E sua madre, figlia di una madre, e di una nonna e di una bisnonna e di una trisavola di contadine. Bastarda lei che lo ha abbandonato là dentro, bastarda lei che non moriva sacrificando il suo figliolo curioso d'ogni cosa ammazzandogli la sanità mentale per averla dovuta tenere così a bada lungamente, sentendo il peso del peccato inondante. Ma non ha perso mai quella sorta di ironia strafottente che utilizza quando meglio gli conviene. Piega gli angoli della bocca verso il basso allargando le sopracciglia e gli occhi. La guarda come dire; ancora lo proteggi, l'idiota? Piega il capo di lato. Ma si sostiene ancora a lei, con la mano, con il braccio. A fare tanto il furbo, nella tempia gli si fionda la spina di qualche corona di Cristo che questa volta gliel'ha mandata pesante, il Suo signore.] Perchè vuoi che marcisca. Io... [La mano si sofferma sulla spalla di lei. Con più insistenza. Riprendiamo a camminare, giovane bambina. riprendiamo a farlo. Intanto mi frego il naso, un attimo. Tiro su. Bleah. Il vomito. Deglutisco. E chissà dove se ne è andato tutto in ghingheri questa notte. Chissà in quale bordello è stato, vero Serafin? Chissà dove se ne è andato e perchè è in questo stato tremendo. Chissà perchè, curiosa di una donna curiosa che fai tutta quella attenta a come muovi i piedi perchè forse non vuoi proprio gettarti completamente nel burrone. Umetta la bocca.] Ti voglio vedere con lui, semplice. E quella è l'occasione adatta. Non sei curiosa anche te? No...? [Allarga gli occhi guardando avanti a sè. Lo fa scuotendo il capo da una parte all'altra. Goffredo ubriaco, perchè la sensazione è quella, quella di fortissimo sbandamento gli riesce proprio bene. Infatti poggia pesantemente il capo nuovamente, sopra la sua spalla. Di nuovo. Sempre se gli fosse concesso. Ma ha la netta sensazione che lei glielo permetterà. Lo fa andando a piegare appena all'indietro il viso dove gli occhi cercano quelli di lei. Sorride Goffredo. Le sorride sfarfallando nuovamente gli occhi.] ''Non mi interessa Goffredo.'' [Risponde prima che lei possa farlo. Lo fa con una vocina che tenta di imitarla. Ha studiato il suo tono di voce. I respiri che lei prende. Come risponderebbe. Cosa farebbe. E guardalo. Con la punta della lingua si sfiora il palato facendolo... schioccare! Gliel'ha visto fare! /empatia+1/ L'ha così studiata che neppure lo potete immaginare, nossignore. Chiude gli occhi.] Sono molto stanco. [Lo dice con le palpebre chiuse, sigillate. Lo dice Inspirando dal naso una volta decisamente eloquente.] Facciamo così, Serafina. Facciamo che andiamo fino al palazzo del governatore. Lo sai che non riesco a stare in piedi, proprio per nulla? Lo sai? [Struscia il viso contro la sua spalla. Lo fa dove la bocca frega una volta. Non ha voglia di sentire risposte adesso, a dir la verità. Si vede da come cambia discorso. Si vede da come letteralmente si appoggia su di lei. Sta diventando serio, lentamente. Lo senti che silenzio che c'è a quest'ora della notte? Ascoltiamolo un po', và. Camminiamo ed ascoltiamo il silenzio. Vorresti ballare Serafin, nel silenzio della notte con un ubriaco reduce da un piacer sì forte, che, come vedi, ancor non l'abbandona. Un brivido lungo la schiena. Un brivido reale. Non capisce. Non vuole collegare le sinapsi. Serafin, stai al suo gioco. Stacci, per il bene di tutti.]



SERAFIN [Piazza > Esterno Palazzo] Tra i due è lui quello ubriaco. Quello che oscilla da un lato all'altro della strada. Quello che intreccia i piedi. Quello lento. Quello col passo scoordinato. Quello che muove la testa da un lato come se avesse cominciato a pesargli chissà quanto. Eppure a stargli dietro pare anche lei quella ubriaca. Ondeggiano assieme ed evitano di sbilanciarsi solo perché, anziché la classica damina di corte dalle braccia esili e dalle mani pallide e delicate, in sorte, stanotte, gli è capitata una donna che pare più avvezza agli sforzi fisici di un uomo. Non che lui le faciliti il compito, ciondolando come un corpo esanime in balia della corrente. Continua a sostenerlo anche quando l'impulso di abbandonarlo di punto in bianco si fa sentire. Decide di canalizzarlo tutto sulla bocca, che arriccia fortemente, premendo le labbra tra di loro e serrando i denti sull'insorgere di quell'eco. E' in vena di scherzare, stasera. Sembra quasi che l'alcool abbia permesso a quella sorta di barriera difensiva e composta che lo caratterizza di incrinarsi. E' come se si concedesse una tregua da sé stesso. Alcool. Non emana un odore fortissimo, è vero, ma quello del vomito, nauseabondo, bisogna dirlo, pare coprire ogni altra scia. Ecco perché il dubbio che possa trattarsi d'altro al momento non la sfiora minimamente. Tutto fa sembrare questo: Goffredo affronta i postumi di una sbornia così devastante da avergli prosciugato anche il colore dalla faccia. Niente di più. Niente di meno. Lo vede mentre le fa il verso e sfarfalla le ciglia al pari di una donna. Oh sì che lo vede. Con la coda dell'occhio, ma lo vede. Con la testa appena appena inclinata da un lato, ma lo vede. Lo vede, vantando perfino qualche centimetro in più nel momento in cui l'italiano s'abbandona contro una delle sue spalle, incapace di tenere la testa dritta. Si diverte? Così pare. E visto che le piacerebbe poter condividere quella sensazione con lui, si impegna nel tentativo di riuscirci. La mano attaccata alla sua schiena, difatti, comincia a rianimarsi lentamente. Quelle dita affusolate assomigliano quasi ai viticci di una pianta rampicante che, come per magia, si ridesta, scivolando lungo il muro al quale ha scelto di aggrapparsi. Anziché puntare verso l'alto, scende, con il fare naturale e involontario di chi cambia posizione per migliorare e rafforzare la presa. La fibra della casacca scura che lo riveste è talmente pregiata da scivolarle sotto le dita come pece liquida. Si concede una breve deviazione lungo il principio del suo fondoschiena, più per vizio che per mera necessità, ma è sul fianco che si concentrano le mire dell'Ombra. Due dita da chiudere e una parte di pelle da strizzare leggermente, anche se coperta dai vestiti. E' uno dei suoi punti deboli. E in fondo, se l'è meritato. Ci va piano, tant'è che sorride in silenzio, allungando pigramente l'angolo destro della bocca e stringendo piano gli occhi, che intanto guardano avanti, specie ora che riprendono a camminare. Non è mai stata così lenta in tutta la sua vita, ma quello di adattarsi al suo passo un po' maldestro non sembra costituire un grosso problema per lei. Non vuoi gettarti completamente nel burrone, Serafin? No. Dev'essere più il fatto che, di tanto in tanto, tendi a convincerti che non sia così, a tirare su quel muso di bestiolina per annusare l'odore che emana la libertà fuori dal girone costrittivo e magnetico nel quale, invece, vorrebbe tenerti Goffredo. E' una veste stretta. Soffocante. Ci si sta male dentro. Di quel male che agli occhi di uno spirito tanto irrequieto pare fin troppo piacevole. E' quello il guaio. L'impressione della libertà i sensi faticano perfino a recepirla, qui in mezzo. Non la trovano, oppure si rifiutano di scovarla? Madre dei controsensi, volge il capo nella sua direzione, al suono di quella semplice spiegazione. Voglio vederti con lui. Stringe le sopracciglia e schiude la bocca, già pronta a rispondergli per le rime. Prende un respiro generoso, mentre lo guarda di sbieco ''Non...'' Le parole tendono ad accavallarsi, coperte dalle sue che in un certo senso la anticipano. Fa schioccare perfino la lingua sul palato come le capita tutte le volte in cui si dimostra scocciata. Il fatto che riesca ad imitarla così bene dovrebbe inquietarla, se non avesse compreso di avere a che fare con una personalità del tutto... fuori dagli schemi. ''... non era quello che stavo per dire'' ribatte, seccata, leccando il buio con quegli occhi da lince. Le pupille si dilatano leggermente, fino ad inghiottire buona parte delle iridi azzurro cielo nel momento in cui focalizza tutta l'attenzione sulla strada. Camminano al centro. E' una posizione che tende sempre ad evitare, soprattutto da queste parti. Li rende esposti. Un obiettivo da raggiungere facilmente. Se volessero attaccarli non faticherebbero a riuscirci. Non può fare a meno di ragionare così. Succede a tutti quelli che hanno trascorso quasi tutta la vita gettando uno sguardo avanti e due indietro, per guardarsi le spalle. Più si avvicinano al palazzo, più i sensi dell'Ombra riprendono a tendersi, paradossalmente. Quella è la dimora del Governatore. Governatore. Governo. Barrington. Variniel. Leccapiedi. Omicidi. Guardie. Ferro. Lame. Caos. Nel momento in cui inspira con forza, anziché recepire l'odore della foresta come le sarebbe piaciuto, ritrova sempre la stessa solfa. Non si è nemmeno accorta di aver scostato, con la mano libera, una parte del mantello, per far scivolare impercettibilmente la mano lungo l'impugnatura del pugnale infoderato e assicurato alla stringa di cuoio legata, in diagonale, sulla coscia corrispondente, a metà strada fra la vita e il ginocchio. Dice di essere molto stanco. Di non riuscire a reggersi in piedi. Oh, se ne rende conto, visto che le pare diventare più pesante ad ogni passo che consumano. Chissà per quale motivo ha scelto, tra tanti posti, di alloggiare proprio qui. Più che un palazzo, assomiglia ad una fortezza. Prigione. Una prigione fortificata. Mura. Mura altissime. Mura grigie. Mura da rincorrere con gli occhi, da scalare fino alla cima del torrione più alto. Mura da piegare la testa indietro per cercare di indovinare il numero dei piani che le riempiono. Mura. Mura chiuse. Finestre strette. Corridoi lunghi. Tappeti rossi. Odore di chiuso. Fiaccole. Aria da centellinare. Non rallenta, né muta l'andatura dei propri passi, neppure per un secondo. Sembra il ritratto dell'imperturbabilità. Lo senti il silenzio che c'è a quest'ora? Sì. E fa più rumore di quanto uno non si aspetterebbe. Da come Goffredo tende ad adagiarsi su di lei, ora, ha quasi l'impressione di sentirselo scivolare via di dosso e perdere la presa. Muove le ciglia un paio di volte e la necessità di tirare su la spalla per rafforzare la stretta e continuare a sostenerlo è l'unica cosa che le permette di ritornare esattamente dove si trovava una manciata di istanti prima: sul pianeta terra. ''Te l'ho detto che non hai più l'età'' commenta a bassa voce, scuotendo piano la testa. ''Siamo quasi arrivati'' Lo sono davvero. Mancano solo pochi metri.



GHEOF -Esterno- Ma ascoltala la signorina dalla lingua lunga. Sentila. Si mette addirittura a provocare un solletico all’altezza del fianco. Proprio lì. Li sente quei polpastrelli che se non ci fossero molto probabilmente sarebbe accasciato da qualche parte. Il destino vuole che Goffredo sia stato raccattato da mezzo la strada sempre dal gentil sesso dopo essere stato morso da una di quelle bestie dai denti aguzzi. Era Ghadia prima ed ora Serafin. E se quella creaturina bassa faticava, infastidita, a sentire la sua mano che cercava il fianco più per sostenersi che per altro, adesso ha alla sua destra una ragazza che lo sostiene con prontezza. Lo prova, fastidio? Fastidio di quest’uomo che scherza di lei e lui, lui e lei? Il lui in questione non è certo sè stesso. Ma adesso la via lastricata pare lentamente farsi più diritta. Perlomeno per i suoi occhi. Sta trovando il suo equilibrio ma ahimè, è la forza che viene meno. Quella manca. Quant’è che è in giro? Quanto ci ha messo ad arrivare alla piazza del mercato, da solo? Diversi minuti. 30? 40? Un’ora addirittura? Adesso certamente ha lei che lo sorregge. Ma lui è un uomo. Che sta cercando nel possibile di non pesarsi troppo su di lei. Ma non è che ci riesca, in verità, poi più di tanto. No, perchè la guancia resta incollata sopra la spalla di Serafin. Adesso lei è la bussola. Ma come è romantico il pensiero. La bussola del mio percorso AMORE! Peccato che il contesto sia letteralmente fuori da ogni tipo di romanticheria. Ma ora c’è silenzio, finalmente. Il silenzio di cui abbisogna per concentrarsi sul proprio respiro e su quello di lei. Lei che guardinga studia intorno quello che le si presenta. Gli occhi li tiene chiusi. Passi, su passi, su passi. Ombra più scura. Non ha più l'età. Lei glielo ha detto. Ma lui non pare avere reazione a quelle parole. Il suo cervello, è talmente pieno di cose che tende ad eliminare il superfluo. Ripetizione. Quelle parole scivolano nel dimenticatoio sfarfallando libere attraverso il suo corpo cadendo in terra e sì. Insomma. Le calpesta. Quelle che vengono poco dopo hanno una valenza differente. Stanno arrivando. Si schiarisce la gola. Accidenti se brucia. Accidenti, che schifo la bile che corrode. Deglutisce e gli angoli della bocca si tirano verso il basso, come anche il mento, che si dirige verso il collo. La pelle non è quella tesa di un giovane. Lo vedi Serafin, come lì, sotto il mento, la sua pelle si piega appena perchè non è più il giovane di un tempo? Strizza gli occhi che si accartocciano su loro stessi per poi riaprirli nuovamente. E' vero. Casa dolce casa. Home Sweet Home. Non c'è bisogno di zerbini per pulirsi le scarpe. Ce ne sono così tanti da queste parti. Di zerbini e donnacce che pur di scalare la salita al potere si piegano a novanta davanti al Governatore. Governo ladro! Lui che ci fa, lì dentro. Che cosa vuoi che ci faccia uno come lui. E' il suo luogo, dannazione. E' il posto perfetto per uno come lui che si pone come quello che si controlla, quello che ha modi attenti ed anche, fastidiosamente, politicamente corretti. Ma non solo. Lui è quello con le idee geniali. Quello dove, le voci corrono, fa strage di donne. Ma quali stragi. Come si fa a fare strage di donne. Non sono null'altro che un piacevole passatempo in questa vita di passaggio. Ma Serafin? Si sta pericolosamente mettendo di fronte alla sua strada. E lui che cosa fa se non si levano di mezzo? O le scosta malamente odiandole e denigrandole oppure ci si appiccica. Lo fa con le mani sudicie dell'ossessività. Ma è così innocuo, lo vedi Serafin? Lo vedi che potresti calpestarlo con un tacco dei tuoi bei stivali e fargli uscire sangue dalla bocca per quante parole dice e per come le dice? Potresti fare quello che vuoi Serafin. Puoi fare quello che vuoi. Credilo! La mano attorno alla spalla di Serafin si tende di più. Ed è sulle gambe che punta, perchè vuole stare diritto di fronte alla sua casa. Ah. Il capo tende a stare abbassato ma eccolo. Adesso con un movimento abbastanza brusco cerca di portarsi diritto. Lo fa con la bocca che si serra e la mano che stringe là, su di lei. Ha un fremito. Si ferma, deve fermarsi. Non può proseguire per un momento. Le mura di cinta che proteggono il palazzo adesso stanno ai loro lati. Benvenuta Serafina. Benvenuta a casa. La mano libera va a tirare i capelli all'indietro. Batte le palpebre. Va a guardarla un attimo con la coda dell'occhio. Ha gli occhi allucinati e stanchi.] Quella mattina ci vedremo proprio qui di fronte. [Annuisce. La mano dalla spalla passa pesantemente alla ricerca del suo collo. Non è una movimento ruvido. No, davvero. Sono dita di italiano che sfiorano il profilo della sua gola, dove il pollice fa una carezza di più. Annuisce. Ed ecco che ora gli occhi navigano verso l'interno del palazzo. Il cortile diciamo che non ha arzigogoli particolari. Ricorda le chiese austere del suo periodo. Non troppa roba. Semplice. Lo vedi come è, fuori. Mura invalicabili. Spesse. Ed il portone d'ingresso parrebbe invalicabile. Fa qualche passo in avanti, portandosi dietro Serafin. Vuole che lo accompagni fino a lì. Fino a che con la mano libera cerca all'interno della scarsella. Un momento. Piano. Delicatezza. Lì dentro c'è qualcosa che vale molti denari ma non solo. Corruga la fronte. Porta la scarsella di fronte al busto, aprendola. E se Serafin scorgesse lì dentro troverebbe un ordine impressionante. All'interno, la sua borsa, pare essere stata gestita in maniera da avere piccoli scomparti fatti di pelle più rigida. Il posto per il taccuino e pennino, quello per la boccetta d'inchiostro, la pipa, ed una fiala di vetro coperta con un panno di pelle. Ah, le chiavi. Anche le chiavi. Guarda cercando di mettere a fuoco ogni cosa. Socchiude gli occhi come un vecchio. Umetta la bocca. Afferra le chiavi. Lentamente la lascia dalla sua presenza. La libera. Fa un passo in avanti. Chiude la scarsella. Composto. Vigile. Lucido. Non cade. Ha ancora possesso delle sue gambe. Alza le spalle ruotandole all'indietro. Si sgranchisce. Si gira lentamente con il viso verso di lei. La guarda seriamente. La guarda in volto. Sai che cosa? Glielo direbbe di andare con lui. Per...? Per cosa? Non ha le forze lui. Non ha le forze di fare nulla. Solo buttarsi a letto e svenire letteralmente. La osserva. Non ha più ritrovato il Goffredo giocoso da che ha deciso di smettere. E' consapevole e tremendamente coerente. E' incoerente dentro. Ma per questo bisogna scavare più in fondo. Bisogna scavare dentro. Poggia pesantemente la mano contro il portone ed infila la chiave nella toppa, senza guardarla più. Lo fa con forza, dandole le spalle. Inspira ed espira. Forte.]



SERAFIN [Esterno] Se lei non l'avesse trovato, stanotte, se lei, più semplicemente, non fosse lì, lui... lui sì, probabilmente si accascerebbe da qualche parte. Ci metterebbe il doppio del tempo a raggiungere questo luogo. Forse non l'avrebbe fatto in ogni caso, incapace di reggere altri passi compiuti con la sola forza delle sue gambe. Lei avrebbe seguito esattamente i piani già tracciati durante il giorno. Avrebbe vagato come un'Ombra incorporea tra i vicoli addormentati della città per un'altra ora, forse anche più, prima di dirigersi meccanicamente sulla lingua di terra battuta rigettata oltre la cinta muraria che circonda Barrington. Una via stretta da percorrere anche ad occhi chiusi, e il cammino prestabilito di chi ha sotto il proprio controllo ogni cosa. Faccio questo. Poi faccio quest'altro. Mi dedico a questa cosa. Incontro questa persona. Impugno questa arma. Uccido questa anima. Raggiungo questo luogo. E evito quest'altro. Tengo alla larga quello. Chiudo in un cassetto quell'altro. Impacchetto questa vita. Scappo con questa testa. Corro con queste gambe, così tanto da farle tremare alla fine di ogni giornata. Sudo con questa pelle. Mordo questa bella bocca rossa. Sfarfallo queste ciglia lunghe. Sfoggio questo sorriso artefatto. Parlo con questa sicurezza. Mi nutro di questa quiete. Sopravvivo tra le righe di questa favola. Poi capita anche di doversi confrontare con gli imprevisti. Capita di ritrovarsi un italiano che barcolla in mezzo alla strada e tutto va inevitabilmente a puttane. Imprevisti. Piani che cambiano. Matrimoni che saltano. Complicità che si annodano e si sintonizzano sulla stessa frequenza senza una ragione apparente. Parole schiette che volano da una bocca all'altra tra le mura di una cucina stretta. E uno stomaco da contorcere nel momento in cui cinque dita si chiudono attorno ad una gola da stringere nell'intento di toglierle l'aria. Terreno che viene a mancare. E la certezza di non fare nulla di certo. Come si sta qui dentro, Serafin? Diversamente da come si sta nel resto del mondo. E' un bene? E' un male? E' tutte e due le cose. E nessuna. Lei sostiene lui. E chi sostiene te mentre per un attimo perdi l'equilibrio che Goffredo pare ritrovare? Mentale, si intende. Perché la forza non le manca. Ne ha da vendere. Ne ha lì dove a lui viene a mancare. Lei è la bussola? Ironico, considerando il fatto che non ha mai avuto una direzione precisa da seguire in tutta la sua vita. Monastero? Bibbia? Bettole? Capezzoli da strizzare? Dio? Cosce da stringere? Chiesa? Parole da scrivere maniacalmente in latino? Progetti da spenderci soldi, tempo, testa? Strada. Vicoli. Strada. Piccoli furti. Grandi furti. Strada. Boschi. Uomini. Lupi. Pugnali. Gole. Tagli. Bugie. Morti. Sorrisi. Alcool. Tavoli. Musica. Amici. Nemici. Strada. Tutto si riconduce sempre a questo. Alla strada. Che adesso si chiude. Si strozza. E diventa stretta, stretta. Stretta. Perché lì le si presenta un portone importante e le mura altissime di un edificio che lo è altrettanto. Strada aperta alle spalle. Ingresso chiuso davanti agli occhi. Strada. La strada di Goffredo. La strada di Serafina. La strada che non è più solo di Goffredo o solo di Serafina. Perché in quel caso sarebbe facile divincolarsi. Ci sarebbe spazio a sufficienza per seguire due percorsi differenti. Qui è come ritrovarsi dentro un tunnel angusto da dividersi in due. Dev'essere per questo che ogni tanto le viene a mancare l'aria. E più si muovono dentro quella strada, più il tunnel si restringe. Più si appiccicano. Lui è esausto. Letteralmente. E' una fortuna. Forse in questo modo eviteranno di scontrarsi come tendono a fare sempre. - Quella mattina ci vedremo proprio qui di fronte - ''Chi ti dà la certezza che ci sarò?'' Avevamo detto forse. D'altronde non ha confermato un bel niente. Ha solo assorbito quelli che sembrano essere gli intenti di Goffredo. Vederla al fianco di Holgar. Perché poi? Per quale ragione? E' una di quelle domande delle quali forse si conosce già la risposta ma si preferisce fingere di non averne. Spegnere il cervello e mettere a tacere i pensieri che altrimenti ci viaggerebbero dentro, ad un ritmo scomposto. Sente le sue dita scivolarle lungo il profilo del collo. Il pollice che preme, delicato, sulla pelle color ambra. Socchiude gli occhi un momento. Come una gatta. Una gatta che si impunta e graffia, all'occorrenza. Una gatta che vaga per la strada. Che non ha padroni. Che va a procurarsi il cibo da sola. Che tende il corpo e arriccia la coda nel momento in cui qualcuno le rivolge le attenzioni ma alla fine scappa sempre. Da tutto. Da tutti. Una gatta che, però, anche con gli artigli sguainati, si lascia sfiorare da queste dita senza rischiare di mozzargliele. E' un mistero. Il fatto che lui ci riesca - a far cosa? a tenersela stretta? a non farla volare via? - resta un mistero. Lo sarebbe, per tutti quelli che con il tempo hanno imparato a conoscerla. Inspira. Fissa a lungo il portone. I rumori che lui provoca, rovistando tra le tasche interne della scarsella, la invogliano a curiosare con gli occhi da quelle parti. Tra non molto, lo sa, vedrà riemergere delle chiavi, dal fondo. Poi però focalizza l'attenzione da tutt'altra parte. Sul profilo di lui che sbatte gli occhi ripetutamente quando deve concentrarsi su qualcosa. Si fissa un attimo sulla punta del suo naso. Lo studia, di sbieco, tenendo la testa un po' inclinata. La raddrizza solo quando viene privata del suo peso. Libera. Leggera. Il primo istinto è quello di far roteare la spalla, in un movimento circolare e lento, utile a sciogliere i muscoli. Si rimette apposto anche il mantello, tirandolo da un lato in modo che torni a rivestirla come dovrebbe. Lui fa un passo avanti. Gli guarda le gambe. Non cedono. Lo risale, raggiungendo la sua nuca nello stesso istante in cui si volta per guardarla. Incrocia il suo sguardo. Eccoli là, i suoi occhi. Gli occhi neri come l'inchiostro tatuato sulle sue mani calde. La guarda seriamente. Lo fa anche lei. In silenzio. E che vorrebbe dirle? E che dovrebbe rispondergli? E che cosa si stanno dicendo, in questo preciso momento, anche tenendo la bocca chiusa? Ah, quanto chiacchierano con gli occhi, questi due. E' serio. Un attimo prima sembrava in vena di giocare, di farle il verso, di imitarla, e adesso ha cambiato completamente registro. Adesso qualcosa - probabilmente lo stesso 'qualcosa' che tende a fregarli sempre - si ripresenta, tagliando i viveri all'ironia, alla leggerezza, ai sorrisi. Lo so che tu non mi stai aprendo solo il portone del palazzo del Governatore ma anche la porta del tuo mondo, che pensi. Guarda che lo so. Così come lo sai anche tu. Il rumore della chiave girata nella toppa. A dire il vero non fa rumore, non troppo almeno, ma lei sembra avvertirlo comunque. Clank. Clang. Giri di chiave. Un respiro smorzato. Non si guardano più. Lui guarda avanti. Lei pure. Rimane a mezzo passo dalla sua schiena, in attesa. C'è ancora la strada ad attenderti dietro. E di fronte? Un tunnel stretto. Strettissimo. Lo aprirà? Se sì, non faticherà a seguirlo all'interno. Con quale coraggio? Nessuno. E' solo istinto. E qualcosa di indefinito che tende a muoversi nelle viscere.



GHEOF -Ingresso- La porta si apre. La luce del palazzo del Governatore non è di quelle oscure come ci si aspetterebbe da un luogo così rigoroso all'esterno. E' fastoso. C'è molta ricchezza là dentro. Sicuramente lascito del passato dato che in realtà il governo non naviga proprio nell'oro. A quello involontariamente ci sta pensando Goffredo. Tiene la mano sulla maniglia. Le pareti sono cosparse di arazzi. Le decorazioni sono esageratamente pompose. Goffredo gestirebbe tutto diversamente. Ci sono poltrone e grandi ed ampissi tappeti in terra. Certo, non è luce a giorno. Ma ci sono diverse torce appese alle pareti per permettere a chi vive lì dentro di non avere angoli dove potrebbe nascondersi chissà cosa. Chissà chi. Resta sul ciglio della porta guardando la sua casa. E' sua da diversi mesi. Ma lui a tutto questo preferisce la sua stanza. La sua stanza. La vedrà Serafin? Ci arriverà fin dentro la sua stanza? La testa gira vero Goffredo? Gira molto. Sta passando? Deve dormire. Deve farlo. Serafin è alle sue spalle. E lui vuole che lei s'addentri così in profondità nella sua ''libertà''? Lui, glielo ha dato il permesso di entrare? Lui, la può lasciare fuori dalla porta, grazie ed arrivederci? Apre definitivamente la porta. Si regge al bordo aprendola del tutto. La accompagna. Ci resta lì a darle ancora le spalle. Inspira ed espira. Profondamente. La fronte si corruga. Le donne che lo vogliono legare. Le donne che gli vogliono dare un freno. Le madri dei suoi figli che l'hanno amato. Che l'hanno odiato. Che lui ha lasciato senza pietà. Ha fatto così anche con la piccola, è più piccola di te, Serafin, Aingeal. L'ha fatta entrare nel suo profondo buio e lei ci vedeva la luce. Voleva ad ogni costo. E dire che c'era vicina, sapete? Dire che lui, dopo l'amplesso le ha carezzato parecchio i capelli provando... che cosa. Una profonda tenerezza. Scaccia! Scacciala. Vai via, che vuoi. Le porte a lei le ha chiuse come se le avesse dato uno schiaffo in pieno volto. Senza farlo. E non crediate che non ce ne sono stati, di schiaffi reali. Di schiaffi veri. Di spinte che l'hanno vista in terra, più volte. Di lacrime che sono corse su quelle guance di donna estremamente pura. Donna?? Bambina. Bambina, vergine, estremamente luminosa, estremamente forte, estremamente cocciuta nel credere poi che cosa. Di averlo per lei e magari farci una famiglia? Non è il modo giusto. Ti amo. Dimmelo. Io ti amo ti amo. Ti amo. Ti amo. Ti amo. Ti amo. Ti amo. Dimmelo. Dimmelo. Cosa ti costa dirmelo. Sorrisi. Scuotere del capo. Parole ben assestate a farla TACERE. Ed all'inizio si infuriava. Lo faceva, rabbiosa, con le lacrime agli occhi. E lui incredulo guardava. Poi è arrivato il silenzio. Il silenzio perchè sennò erano lacrime di nuovo. E intanto c'era quella che lo guardava con due occhi che come fai a fare finta di niente, a non sorriderle? Amore? Sentimenti? Donne? Amplessi? E' inevitabile, il paragone. INEVITABILE. Perchè lui s'è fissato su Aingeal in maniera da metterla a posto, come voleva. Quando la responsabilità era più opprimente allora dai, basta. Levati. Sparisci dalla mia vita sennò piangi di nuovo e io mi sono ampiamente rotto le scatole. Avevo la tua sorellina ed altre. Lasciami perdere, VIA. Fuori dalla mia vita. E questa qui? Questa qui che entra dentro il palazzo, che lo ha accompagnato fino al palazzo, che gli ha tenuto la fronte mentre vomitava i fiumi di vino (?!?!??!?!?!) bevuti. Chi lo ha odiato così tanto da pedinarlo pure negli incubi. Ma guarda questa qui. Guardala. Si sta avvicinando e lo fa senza chiedere. La guarda. Vediamo che cosa vuole fare. Ma adesso che accade? Sente la pesantezza della nottata. La sente tutta. Si sfiora la fronte abbassando il capo. Frega la fronte. Alza una mano. E' come se dicesse -a chi- di aspettare. Aspetta. Aspetta aspetta. Sei entrata? Sei entrata. Sì, è lì. La guarda. Chiude la porta pesantemente. A chiavi. Lo fa abbastanza in fretta. Più che altro ci lascia cadere tutto il peso del proprio corpo. Trattiene l'aria. Vuoi del vino? Vuoi del liquore? Ti ringrazio Serafin, non dovevi. Non dovevi veramente, ero in condizione pietose e tu, semplicemente, dovevi tirare dritto. Tanto chi sei. Chi siamo. Un uomo ed una donna che si fanno del gran sesso. Ti prendo, ti prendo tutta, ti prendo fin nel fondo dell'anima, perchè la sento così vicina da volertela strappare ma poi. Poi. NON LE DICE NIENTE. Niente di tutto questo. Semplicemente, va in direzione di una delle poltrone di questa sala comune. Sono poltrone morbide, comode. Lui ha bisogno, veramente, te lo giuro Serafin. Ho bisogno di sedermi. Sedermi e morire nella poltrona. DA SOLO. La mano libera va ad afferrare un bottoncino della casacca. Sono bottoni lucidi. Libera il collo. Arriva di fronte alla poltrona. Ci si siede. Siede...? E' il caso di dire che ci cade affondando la schiena nello schienale e tenendo gli occhi socchiusi. Non si toglie neppure il mantello, niente di tutto questo. Non riesce. I muscoli si sciolgono, cadono quasi sopra quella poltrona. Reclina il capo di lato. Con una smorfia slaccia anche il secondo bottone. ad occhi chiusi, sempre. Serafin. Goffredo ha chiuso il portone a chiavi. Te ne sei resa conto, vero? Oppure vedi che lui adesso non ti rivolge parola? La sente la sua presenza. La sente. Inspira ed espira. Ma poi, parola. Gli occhi li apre, su di lei. La mano va a toccare il bracciolo della sedia. Batte là sopra. Lo fa guardandola. Scuote appena il capo. Poi annuisce.] Vieni qui. [Glielo dice piano. Glielo dice con un filo di voce. E' stanco. La guarda. Anche tuo papà, forse, ti avrebbe guardata in quella maniera, lo sai? Perchè per un momento non c'è malizia, adesso. C'è soltanto una cosa. Possessione. Senso estremo di... possessione. L'altra mano va a slacciare l'altro bottone. Il petto è libero di alzarsi ed abbassarsi. Tre bottoni. La casacca che indossa rimane comunque con i bordi alzati, rigidi. Si intravedono i grani del rosario di Maria. Batte le palpebre. Serafin. Lo vedi che Goffredo è molto, molto più grande di te?



SERAFIN [Ingresso] Entra. Entra e attraversa l'uscio senza chiedere il permesso, esattamente come ha fatto Goffredo nel momento in cui l'ha presa. Una. Due. Quante altre volte? Si è intrufolato tra le mura della cucina con il solo intento di reclamarla, di farle capire che no, non dovrebbe esserci spazio per i giganti buoni dalla pelle innevata nella mente dell'Ombra. Entra. La sequenza dei passi che la rianimano, oltre la cruna del portone che lui ha appena aperto, è spaventosamente silenziosa. Un attimo prima di muoversi, tuttavia, lascia cadere lo sguardo lungo il pavimento, piegando la testa avanti di pochi centimetri, con il fare cadenzato di chi appare - appare - vagamente distratto. Gli occhi corrono e attraversano il perimetro dell'ingresso come se non lo vedesse realmente, con l'aria curiosa di una ragazzina sprovveduta a sporcarle il viso giovane, il naso piccolo e preciso, le labbra di ciliegia, piene, le guance d'ambra, gli zigomi definiti e gli occhi chiari incoronati da un ventaglio di ciglia lunghe, che tiene a mezza altezza, come se fosse indecisa e non sapesse se sollevarle o chiuderle del tutto. Individua gli angoli più in penombra dell'atrio - pochi, visto il numero delle fiaccole appese alle pareti - attraverso quel sipario socchiuso, con le iridi che danzano da un lato all'altro, senza lasciarsi accompagnare o agevolare dalla testa. Cosa sta facendo, esattamente? Ad occhi ignari, assolutamente nulla, soprattutto se si considera il fatto che il tempo intercorso fra quella breve sosta e il primo vero passo consumato verso il centro dello spazio che guadagna si riduce ad un istante solo, che non supera la soglia del minuto. Inspira prepotentemente. L'odore inesplorato del lusso le finisce proprio sotto le narici. E' tutto così... esageratamente fuori dai propri schemi. Troppo ostentato. Troppo sontuoso. Troppo ricercato. Suggestivo. Sfarzoso. Perfetto. Troppo tutto. Si muove con la cautela di una bestiolina finita accidentalmente nella tana di qualcun altro. Non ritrova nemmeno uno scorcio che le ricordi, neppure vagamente, il mondo dal quale, invece, proviene lei. Non c'è nulla che le risulti familiare, qui dentro. Se non fosse per la scia riprodotta dai passi instabili e trascinati dell'italiano, probabilmente avrebbe lasciato questo palazzo l'istante dopo averlo raggiunto. Ti sei vista? Tu non c'entri niente con questo posto. Sei l'equivalente di una nota stonata. Lo strumento disarmonico finito per puro caso al centro di un'orchestra omogenea. Il contrasto fra i colori accesi di una tela che fatica ad adeguarsi a quella macchia indistinta. La parola grezza tra le righe di una composizione così raffinata da provocare le vertigini agli occhi di tutte quelle donne affascinate dallo sfarzo, dal profumo dei soldi e dal sentore del potere che si respira fin qui. Per arrivare in cima, basterebbe passare per quella porta, offrire quel qualcosa che sia capace di risvegliare l'interesse di chi conta davvero e poi guadagnarsi un posto di privilegio tra le cariche più alte della città. Sarebbe semplice pensarlo, a vederla lì, mentre solleva il mento e rincorre gli arazzi che adocchia, lasciandosi scivolare il cappuccio sulle spalle. Muove la testa da un lato, solo un momento, quando il rumore eloquente delle chiavi rigirate nella toppa le fa capire di essere appena stata chiusa dentro. E' come se volesse guardare oltre la propria spalla anche senza girarsi affatto. E' all'udito, invece, che si appella, nel rendersi conto di trovarsi in gabbia. La gabbia personale di Goffredo. E' sufficientemente spaziosa da riuscire a contenerli entrambi? Non si dimena, come ci si aspetterebbe, né freme dalla paura. Non percuote l'aria con le ali, né comincia a beccare tra le fessure della gabbia alla ricerca immediata di una via d'uscita. Sembra quasi che quello spazio debba adattarsi a lei, e non il contrario. Scivola lentamente al centro dell'atrio, con la pura ed insolente confidenza di una gatta che sa ritagliarsi il suo spazio anche tra mura tanto domestiche come queste. Rende suoi i centimetri dei quali si appropria, impossessandosene, come un piccolo magnete. Non ha bisogno di seguire la direzione dei passi di Goffredo per capire in quale punto ha deciso di sprofondare esattamente. Produce davvero poco rumore e questo le permette di concentrarsi più su quelli che, invece, provengono da lui, che intanto si siede, affondando nel velluto di una poltrona. Ci mette del tempo per ritornare là sopra, per riconquistare l'ombra del suo profilo con gli occhi allungati, svegli e perfettamente aperti, al contrario dei suoi. Quando si concede il capriccio di osservarlo ancora, intercetta anche la smorfia che gli contrae il volto nel momento in cui cerca di sbottonarsi la casacca. E' stanco. E... pallido, come se qualcosa gli avesse prosciugato tutte le energie. Lo fissa tenendo la testa leggermente inclinata da un lato. La tiene così anche quando gli occhi di lui tornano ad aprirsi, per riservarle quello sguardo che sì, Serafin conosce e riconosce perfettamente. La mano che sfiora il bracciolo della poltrona. Un invito. Chiaro. Sonoro. Le parla e la guarda a quella maniera, esclusiva e totalizzante, anche adesso che è ridotto in quello stato. Si prende un respiro di troppo, intanto, sgonfiando il petto costretto nella casacca azzurro cenere che le inguaina il torace fin sotto il collo, strozzandole i seni. Raddrizza la testa. Riprende a guardarsi nei dintorni per un attimo sull'argine del primo passo che consuma in direzione delle poltrone. Mentre cammina alza una mano, cercando di slacciarsi il mantello. Fa seguire a quella anche l'altra, abbandonando la stoffa grigia fra i guanciali della poltrona che poi ospita, l'istante successivo, anche la scarsella legata al fianco. Si muove lentamente, accordata al ritmo dei suoi respiri che raccoglie, oltre il bavero aperto della casacca, là dove intravede il rosario di Maria. Dal modo in cui si sposta, prendendo posto sul bracciolo, con le mani aderite alle proprie cosce, verso l'interno delle gambe chiuse, sembra stanca a sua volta. Sono gli occhi a tradire, prima di tutto, l'insorgere di quell'ipotesi. Non li farebbe scivolare a quel modo, dalle ginocchia di lui fino al volto, che risale lentamente, se lo fosse per davvero. E' seduta. Ha la testa e il busto rivolti dal suo lato. Lo guarda a lungo, così, senza parlare, con le labbra cucite, chiuse in una stretta morbida. Le tiene così anche quando allunga una mano per cercare di privarlo anche del quarto bottone. Fa calare gli occhi lì, sulle dita che poi s'arrestano, prima di risalire i margini del bavero, che sorregge tra indice e medio, sfregando contro la stoffa, fino al bordo superiore. Col dito interno dovrebbe sfiorargli a malapena il petto, fino allo sterno. Poi torna indietro. Gli occhi viaggiano di nuovo, lenti, illusoriamente pigri, per ritornare lì, sul punto di partenza. ''Dovresti riposare Goffredo'' il tono? E' sottile. Come quello di una nenia indistinta. Sei molto, molto più grande di me. Lo vedo. E mi sfugge l'ombra di un sorriso vago, sull'angolo delle labbra. Ma tu lo vedi che la consuetudine non fa per quelli come me? Come te? Come noi. Malattia.



GHEOF -Sala Comune- Resta con gli occhi aperti a mezz’asta. Si avvicina, da brava. Gli si avvicina la sua amazzone, la sua guerriera, la sua selvaggia. La sua bambina, gli si avvicina, proprio come dettole, dopo averlo trascinato nel luogo del potere governativo di Barrington. Ma che ne sa, lui, che a lei piace passeggiare nei boschi, che lei è figlia della terra e del muschio, che caccia lepri, cerbiatti, che è viva probabilmente solamente quando è a contatto con l’aria aperta, dove il vento le da ossigeno e la rigenera. Lui, che ne sa di questa selvaggia? Quanto basta. Quanto gli basta per il momento. La sa. Sa che è una che non bada alle conseguenze, oh no. Lei fa. Agisce. Si butta. Si fa spogliare, ride e gode. Un uragano che spazza se si cerca di, incerti, avvicinarsi. Esistono cacciatori di uragani, lo sapete? Bisogna essere esperti osservatori. Attenti. Attentissimi! Perchè se ci si lascia travolgere è la fine! Sono dolori, no davvero! Sono piedi che calpestano in testa e non ti da mica tempo di rispondere, l’uragano! -Aiut..!- NO. -Ti Am…!!!!- NO. -Sei la mia Vit..!!!- NO. -Ti aspet… !!! - NO. No. No e no. Gli uragani non danno retta a chi ci si trova in mezzo. No, no no. Mai, Mai infilarcisi senza averne le capacità. L’uragano ti prosciuga e dannazione se non lascia soltanto che l’ombra della povera vittima. Se dovessi, maldestramente, aprire la bocca e provare a respirarlo tutto, l’uragano sai che fa? Ti entra dentro, ti scombussola tutto e poi lascia la carcassa alla ricerca di nuove abitazioni da scoperchiare una volta per tutte. Inspira ed espira Goffredo. Lo fa piano, lo fa seguendola con gli occhi. Non si agita lui. Non arrossisce. Non si intimidisce. E' troppo vecchio per farlo. E' troppo attento per sentire il tumulto degli ansiti. Troppo esperto per lasciarsi sopraffare dai sentimenti. E li tiene tutti in una scatolina, tutti dentro, in fondo, in un luogo a prova di catastrofe. Se esce sono dolori. Dolori di chi azzanna con la forza della disperazione. Lui l'uragano l'ha seguito da lontano. Checchè se ne dica, lo ha fatto in una manciata di ore. Giusto il tempo di valutare il mulinello dalla distanza consapevole di chi sta sulle sue. Lo ha fatto lui, durante la loro breve conoscenza. L'uragano dopo un po' tende ad avere momenti di calma. Momenti di cedimento. Momenti in cui si affievolisce e diventa una brezza così fievole da solleticare. E' lì che si acchiappa. E' lì che si agisce. Quando l'uragano è sotto controllo. Le persone come lui sanno che ci mette poco a mettersi nuovamente in movimento. Basta niente. Basta poca accortezza. Basta un sole troppo caldo, aridità che poi si bagna di lacrime e riparte. VIA!! Scappa! Riparte che è una meraviglia! Ma guardala invece come si accomoda sul bracciolo. Brava. Occhi stanchi, viso pallido. Mantiene lo sguardo sul suo viso, senza azzardare ad altro. Spossato, stanco nel fisico ma vigile. La poltrona lo sostiene. Più di li non può andare. Vieni qui. E' venuta. Solo, con lo sguardo, adesso, segue la mano di lei che si muove, impavida, a slacciare l'altro bottone della casacca. Ave o maria, madre di misericordia, vita, dolcezza, Speranza Nostra. Salve. Salve Oh Regina. Sul dito della selvaggia, che gli sfiora lo sterno, qualche grano del rosario che porta al petto si smuove. Lui inspira ed espira piano, profondamente. Non risponde alle sue parole. Le guarda il dito. Dovrebbe riposare, Goffredo? Dovrebbe farlo? La nausea è sparita. Lo stomaco svuotato. La testa pulsa piano, un'intermittenza composta. Umetta la bocca. Alza il viso, andando a guardarla. Padre e figlia? Il padre misericordioso che guarda premuroso la figliola che lo ha aiutato, lei, bastone della sua vecchiaia? Mh. No. No davvero. La guarda diritta negli occhi, lasciandole tenere il bavero. La mano destra si alza a volerle prendere il polso, il proprietario delle dita sul bavero. E' una presa non costrittiva. No. E' il pollice che si posa sopra lo strato sottile di pelle brunita dal sole, lì, all'attaccatura della mano. Occhi che si socchiudono. Inspira, espira. Carezze lente. E' molto serio. Deglutisce il residuo di saliva che cerca di portare sollievo alla gola irritata da prima. Si schiarisce la gola. Si aggiusta sulla poltrona. L'altra mano s'allunga a posarsi sulla coscia di lei. Quella destra. Dal basso verso l'alto. Un unico, ma pieno movimento, che serve a fargli sentire, sotto il tessuto che la veste, la carne bollente della sua giovinezza. Lascia quel polso. Lo fa dove le dita cercano il braccio a risalire sulla spalla, un momento. Ciocche disordinate sul viso di questa donna certa. Sicura. Fiera. Forte. Stai brava. Stai brava, donna sicura di te stessa. Fai la brava con l'uomo più grande di te. Fai la brava con papà. E fattela accarezzare come si deve, questa faccetta qui. Fattela accarezzare, da brava, e fatti posare il pollice su questa bocca piena che ti ritrovi. Oh, da brava. Gli occhi si socchiudono. la nuca spinge contro lo schienale. Hai una bella bocca, piena e morbida. Uragano, segui l'uomo che ti da la caccia ma non te lo fa pesare? Lo segui davvero così? Ma che brava bambina. Corruga la fronte.] Shh... [Piano. Sht. Piano, che le parole non servono a niente. Stai zitta e vieni. La mano sulla coscia risale a cercarle il fianco. Le dita si serrano lì. La mano, sul viso, se ci fosse atterrata, prova a tirare un buffetto tra guancia e labbra, con tre dita. Uno schiaffetto. Un mezzo sorriso. Ma che ne sai, se devo riposare o meno. Ma chi sei. Con indice e medio che cerca di spingerle il viso lateralmente. Fatti vedere tutta la faccia. Eccoti qua, tutta spogliata al mio fianco. Spogliata e nuda. Nuda, non ti nascondi neanche se ti mettono addosso un'armatura. Sei una bambina nuda ai miei occhi, da che hai deciso di avvicinarti al tavolo quella notte. Nuda. Ti vedo. Ti sento. Quella stessa mano, quella sul viso vuole portarsi dietro il collo. Sono tanti gesti, ma adatti a piccoli spostamenti ed hanno, in quel muoversi una determinata armonia. La nota stonata sei tu Serafin? Quella nell'accordo minore. Prima, terza e quinta. Se si aggiungeva, in chiesa, l'intervallo di quarta eccedente, si diceva si richiamasse Satana in terra. Anche cosiddetto Diabulo in Musica. Sei quella nota, e per farla suonare in quella maniera, hai bisogno della base. Prima, terza e quinta. Suoni bene, qui dentro. Scuote il capo lentamente. No. Non è stanco. Sì, è sfinito. E' sfinito. Trattiene l'aria in petto. Serafin, quante te ne faccio. Quante te ne faccio. Suona così, per me. Suona vicino a me. Bella, quarta eccedente. Disarmonia in questa finta compostezza che è la mia vita. Quanto è poetico Goffredo, nella sua testa.]





SERAFIN [Sala Comune] Uragano. Uragano Serafin. Stadio? Estremamente avanzato. Intensità del raggio? Superiore alla norma. Causa? Perturbazione atmosferica. Picchi inaspettati nella scala dei gradi. Temperatura variabile e ossigeno che viene meno nel momento stesso in cui l'uragano decide di costringersi e chiudersi dentro l'eccezionalità di quattro mura raffinate. L'occhio del ciclone conosce una sferzata brusca e immediata, che lo fa muovere in maniera discendente, adattarsi a quel principio di calma relativa che pare tenerlo a bada per più di qualche secondo. A dispetto di quanto si possa credere, non è lei, origine stessa dell'uragano, a dettare leggi specifiche, a regolare il ritmo del vortice. La bufera s'abbatte su tutto ciò che prende di mira quando ne ha voglia, nei modi e nei tempi che si rifiuta di stabilire. Laddove altri avrebbero scelto di riguardarsi, lei irrompe, senza fare nulla per impedirlo. Le risulterebbe difficile anche se cercasse di impegnarsi. Ci ha provato diverse volte, ma sembra proprio che questo tipo di catastrofe in particolare sia impossibile da gestire nella presunzione di fingersi prudenti. Agisce a quella maniera che tende a differenziarla da molti altri esseri umani. Si butta e lo fa d'istinto, così come d'istinto distrugge ciò che si convince di non poter recuperare. E' così che funziona di solito. L'uragano passa e risucchia tutto quello che riesce ad accaparrarsi, senza lasciarsi indietro niente, in quel gorgo inarrestabile d'energie che lo fanno vorticare finché non rimane più nulla da travolgere. Nel momento stesso in cui, per un istante solo, apre gli occhi e rallenta... quando realizza ciò che ha provocato, quando la spirale cala d'intensità perché tenuta a digiuno dalla mutevole altalena dei gradi, allora l'uragano scivola oltre. Il più delle volte, si lascia alle spalle un panorama così desolato da far spavento. Due occhi chiarissimi, pieni d'amore, e il volto rassegnato di chi ha voluto vedere a tutti i costi in quell'uragano una brezza miracolosa anziché il principio di un cataclisma assurdo e imprevedibile. A cercare di gestirla si corrono sempre dei rischi. Se la bestia avverte la morsa del laccio attorno al collo e la corda tirare nella direzione inversa, si rischia di farle digrignare i denti nel tentativo di tranciarla, così, di netto. A lasciarla completamente alla mercé dei suoi stessi impulsi, tuttavia, si corrono dei rischi peggiori. Non si fa neppure in tempo ad avvicinarla per davvero che già quella tende a scappare, azzannando, talvolta, la mano protesa che magari sperava di prenderla e tenersela tutta per sé. Buona, fedele, mansueta quanto un animaletto domestico. Intercetta quel suo movimento ancora prima di seguirne materialmente la direzione, immaginando la pressione leggera ricercata da quelle cinque dita tatuate d'inchiostro l'istante che precede il tocco. Finisce per ritrovarsi con il polso ingabbiato in una morsa alla quale potrebbe sottrarsi facilmente, se lo volesse, soprattutto ora che le forze di Goffredo vengono a mancare e liberarsene sarebbe semplice quanto divincolarsi dalla presa di un bambino. Ma quello non è un contatto forzato. E' il tocco esperto di chi, fra tutti, può vantare la curiosa abilità di saperla prendere. Con un paio di mani decise chiunque ne sarebbe in grado. Il guaio sta altrove. Più precisamente, nella testa. E negli occhi chiari che poi assottiglia, calando le ciglia per seguire l'ascesa delle stesse dita che alla fine le inseguono il braccio. Le proprie, nel frattempo, non smettono di suonare sotto l'ombra del bavero. L'indice segue prontamente il medio. Sfila al fianco dell'ostacolo rappresentato da quella stoffa rigida, finendo per raggiungere del tutto lo sterno, ora che il palmo si apre completamente e le dita scorrono come affluenti disparati sulla sua pelle, nemici della gravità. Sembra quasi che il rosario assuma vita propria visto come si rianima, sollevato dalle falangi che, senza staccarsi un momento, percorrono il suo torace un centimetro alla volta. E' quanto di più simile possa esserci ad un'impronta disegnata e impressa nella terra. I grani del rosario si ridestano, mentre la mano va a piegarsi su un fianco e l'indice, sollevato, segue il contorno esterno che il rosario traccia nei pressi del collo. Una carezza. Una carezza leggera. Ma persistente. Di quelle che dovrebbero conciliare il sonno. Se mirassero altrove. Di quelle che, dannazione... due occhi del genere, che risalgono gradualmente sui suoi non appena avverte l'altra mano percorrerle la gamba, rappresentano nient'altro che questo: due schiaffi, uno al volto della morale, l'altro a quello arrossato della decenza. - Dovresti riposare. - Sì, dovrebbe. E' letteralmente sfinito. Non così tanto da evitare di zittirla, comunque. Sh. Il labbro inferiore si dischiude, sotto il peso di quel pollice. E' la stessa bocca con la quale poi, cerca di mordergli le dita che l'hanno appena colpita. Non reagisce violentemente. Ai denti, che per un attimo provano a chiudersi là, contro l'unghia del medio, sostituisce la lingua. Assaggia il polpastrello. Poi lecca i residui del suo sapore sulle proprie labbra. E intanto continua a guardarlo. Sei stanco, Goffredo. Dovresti chiudere gli occhi e dormire. Io, da nota stonata quale sono, non posso accordarmi ai ritmi cadenzati di una semplice ninna nanna. Eppure vado piano. Pianissimo. La corda del tempo sembra tirarsi fino allo stremo. Tendersi e tirarsi, così, all'infinito, con quella cadenza sofferta e altalenante che difficilmente apparterrebbe alla sfera dell'ordinario. Il viso viene scostato, posizionato da un lato. Fatti guardare. Si fa guardare, a bocca socchiusa. Il fiato le scivola, caldo, nella fessura sottile lasciata dalla bocca. Il viso si scosta poco dopo, inclinandosi maggiormente da quel lato, piegandosi per sottrarsi alle sue dita e per cercare di guardarlo da lì, mentre le dita continuano a scorrere sulla sua pelle, arricciate contro il bordo interno del bavero che ripercorre dall'alto verso il basso, con quattro dita, mentre il pollice resta fuori. Danza. E' una danza. L'ennesima. Mano dietro al collo. Collo scoperto dalla treccia disordinata che le pende su una spalla. La nota sembra apparire e sparire tra le righe del pentagramma senza seguire un percorso definito. Respira. Il petto si sveglia. Si gonfia generosamente, costretto sotto la casacca, e poi scende di nuovo. China il volto. Lo fa così piano da rendere quel movimento quasi impercettibile. Ha le labbra alla stessa altezza dei suoi occhi. Fermati. Girati. Vattene. Piccolo uragano, esci e devasta l'intera città, se ne hai voglia. Ma vattene di qui. Si avvicina, piegando la testa. Schiude le labbra come se volesse azzannare chissà cosa. Gli guarda la bocca. Poi trattiene il respiro. E' col fiato mozzato che si lascia cogliere da un sorriso invadente. Fuggevole. Un attimo prima c'è e l'attimo dopo scompare, leccato via dalla lingua, interrotto dai denti. Lui scuote il capo. Lei alza gli occhi, di nuovo. Li stringe, nel prendere di mira i suoi. Sei stanco? Sei sfinito? Chissà quanto hai bevuto. Dove. In presenza di chi. Dormi. Dormi. Io intanto muovo le gambe come se fossi composta d'aria, tiro indietro la testa, mi muovo. Mi allontano. Faccio per alzarmi, sollevando il mento in un cenno che sembra voler dire: no cosa? E sorrido. In silenzio. E ti guardo. E faccio finire il peso esiguo del mio corpo sulle tue gambe. Mi siedo su di te, sfinito, scivolando dal bracciolo alle cosce. Il rosario. Lo sguardo cade sul collo. Un momento solo. A te ricorriamo, noi esuli figli di Eva. E' nella discesa che il volto si è accostato al suo, tanto che le labbra, alla fine, dovrebbero trovarsi quasi a ridosso della sua guancia. Inspira. Disarmonica. Le ragazze per bene non dovrebbero sedersi sulle gambe di un uomo che ha il doppio dei loro anni. Stiamo commettendo uno sbaglio, Dio? Dio. Continua a sfiorargli il torace, di nascosto. Dio. Apre le labbra per tenerle così, sull'angolo della sua bocca. Non chiude gli occhi. Li assottiglia semplicemente. Dio. Satana. Paradiso. Inferno. Vita. Morte. Lei vive. Non potrebbe essere diversamente. Dio, abbi pietà di noi. Amen.



GHEOF -Sala Comune- Mani calde. Mani che carezzano, che toccano, che marchiano, che si impossessano. C’è un’intimità in quel momento, che nessuna catastrofe sarebbe in grado di disfarla. C’è un bel silenzio. C’è una stanchezza esorbitante che pesa sugli occhi. Goffredo ha appena subito un salasso, privato del suo sangue per nutrire una bestia. Le gambe sono molli. Sulle persone più grandi, la sensazione di ubriachezza è deleteria. Si fatica a riprendersi. Si fatica a rialzarsi. La testa pulsa. Il suo corpo reclama riposo. Riposo assoluto. Il cuore ha scalpitato alla ricerca di quel piacere, rischiando la morte. Perchè lui, davvero, ci sarebbe morto dentro quella sensazione. Se ricordasse come si spingeva su Melisande a chiedere ancora… se solo ricordasse. Solo sa d’aver avuto un rapporto sessuale, mistico, godereccio con qualcosa che mai ha provato. La stessa sensazione d’amore cieco e vero, -fintissimo!!!- e breve nei confronti di Ghadia. Quelle cose cui non sai trovare risposta. Non ce n’è. Non ce ne sono. Sa solo che la mano di Serafin gli apre la casacca e si intrufola lì, sulla pelle, sullo sterno. Gli occhi si chiudono. Vibrano. Lo vedi, Serafin, che quello che hai di fronte è un uomo sfinito dalla lussuria? Comincia gradualmente a riprendere colore rispetto a prima. Ma una cosa, quella è dura da spegnere, la mente. La mente che fa forza ad una situazione che, sinceramente, ci fosse stato qualcun altro al posto della donna che gli offre carezze, lui sì che sarebbe svenuto in preda del nulla. Morire come la Morte gli stava chiedendo, nell’estremo atto dell’amplesso vampirico. La guarda così. La lascia mordere. Glielo fa fare, restando con un sorriso a mezz’asta. Sì. Sì, lo vedi Serafin, che lui è privo di forze? Ti piace, questa cosa? Non è l’uomo nerboruto capace di fermare azioni, bloccarle. No. Ma nel pieno delle sue forze, Goffredo ha il potere di prenderti per le gambe, alzarti su un tavolo e spaccarti. Spaccarti dentro. Sconvolgerti in fondo. Adesso è un verme che si fa mordere, che si fa carezzare, con i capelli scombinati che sostano sulla fronte. Petto che si alza, petto che si abbassa. Serafin che morde, Serafin che lecca, Serafin che assaggia la sua pelle. E lui che la guarda con la stessa espressione lasciva. Lui è un lascivo. Stravaccato nella sua poltrona, che si fa carezzare dentro la casacca di tutto punto, che si fa toccare il rosario, che si fa fare. Ma che la tiene d’occhio. Fai. Fai bimba mia. Fai che ci pensa papà a dirti che fare. Le dita, quelle sul viso di lei, sulla bocca, scivolano a rapire un momento il mento. Un gesto affettuosissimo. E’ carino. E’ dolce. E’ tanto dolce Goffredo. Lo vedi come corruga la fronte ed il sorriso diventa, un momento compassionevole ed estremamente intenerito? (lo è!!!!!!!!)Lo comprende Serafin, come la guarda? Ma cosa ti faccio, cosa ti faccio, selvaggia. Cosa ti faccio a te che mi stai così vicina. Sei qui, non sei da un’ altra parte. Ti piace come ti guardo? Ti piace come non posso nulla con questo corpo indebolito? La vocina del demone femminino che soffia dentro le orecchie. Demone femminino. Penetra nelle orecchie e obnubila i sensi e la capacità di reazione. Te ne stai lì, con quella bocca schiusa, Serafin. La chiudi? La vuoi chiudere? E gli occhi che vanno sui seni? Lo fanno alla ricerca degli apici che spingono contro la blusa di quell’azzurro che chi te l’ha dato, l’azzurro? Ti vestirei di rosso, di nero, di bianco. Ma dai, continua a carezzare il bavero. Su e giù. Mi mantieni sveglio. Lo sai che mi tieni sveglio e godi nel vedere che sono allo stremo delle forze. E che quei seni sono fatti per essere morsi. Riempirsi la bocca e succhiarli. Pulsa la testa. Lei la testa la china. Pulsa forte. Pensa pensa pensa pensa. Pensa. Pensa pensa pensa. Le palpebre vibrano. Ubriaco?! No no. La mano sul suo fianco si stringe un momento di più. Che cosa sta accadendo nella mente di Goffredo? Abbandono. Cercala tra le donne. E falle quello che si merita. Tette da succhiare. C’è il latte, lì dentro? Ingravidala. Ingravidala, riempila. Fai figli, abbandona. Prega Dio, tua condanna. Sputale dentro il tuo seme. Fai gocciolare dai capezzoli il latte materno. Quello che sta accadendo dentro il cervello spossato ha dell’incredibile ed incontrollabile. Non dice niente di sè. Non racconta niente di sè. Parla tanto ma non parla mai di sè. Non lo fa. E’ stato un monaco. Sì, sì sì. Sì sì sì. Studia. Studia ed è vecchio ormai. E parliamo di religione. E parliamo di storia. Di politica attuale. Leggiamo di questa terra di quelle altre. Chi è Goffredo d’Altavilla? Non lo dirà mai, a nessuno. Lo vediamo insieme Serafin? Lo vuoi vedere con me? C’è una fiala nella borsetta che ha del miracoloso. E se la prenderanno, se la berranno, accadrà l’incredibile. Ma scivola. Sfugge. Va. Scappa. Lascia, abbandona. Va via. Prende il volo. Corvo dagli occhi chiari. Sbatti via le ali? Ho chiuso a chiavi la gabbia. Allarga gli occhi, un momento. Lo fa perchè no, non puoi andartene così, adesso. Stanco impotente. Non la può inseguire. Era il maschietto di casa Goffredo, in una casa di tutte donne ed un padre troppo impegnato a lavorare per tutti. Ma non va via Serafina. No che non va via. Calma. Calma, non se ne va. Eccola che si siede sopra le gambe. Bambina mia. La testa pulsa meno. Gli occhi si chiudono del tutto. Restano così anche quando le labbra di lei sono così vicine alla guancia. La senti, Serafin, la piega della guancia che si tende appena verso l’alto? Ma sì, ma sì. Vieni qui, che io non ti ho intrappolata. Vieni qui, siedi sulle mie gambe. A te ci penso io. Qui, qui, brava. Per un momento ho sentito il potere mio cedere. Ma sì. Sì. Sei qui. Poggiati su di me. Sono grande ormai. Un braccio vuole avvolgerle la vita e l’altra mano si posa sulla sua guancia. Serafin. Lo senti adesso, il calore di un padre? La mano le riempie il viso, il palmo s’adagia sul volto. Gli occhi restano socchiusi. Brava che non mi istighi più. A cosa dobbiamo giocare, contro cosa dobbiamo combattere. Contro che cosa. Contro quale forza? Tiene le labbra chiuse. Eppure quelle di lei sono così vicine. Sente il suo odore. Il suo profumo. Le carezza la metà del viso. Se la culla tutta la sua selvaggia. Stà qui, stà buona. Stai qui. Qui da me, che sento la morte così vicina. Stai qui. Accarezzami il petto. Accarezzami, stammi vicina. Stammi vicina che con il braccio che t'avvolge la vita ti spinge più a me. La gamba destra si alza appena facendo forza sul piede che poggia in terra. Uno due tre, quattro, cinque piccoli saltelli. Bambina. Ti contagia la mia ubriachezza? Ti contagia la mia malattia? E' tardi. C'è così buio alla fine, lì fuori. Così freddo. Non siamo mica più in Italia. Ma ci sono io a ricordartelo da dove vieni. Ci sono io a ricordartelo. A ricordatelo che dal viso scivolo con la mano e ti sfioro pesantemente il collo e scivolo sulla gola e poi più giù. Lo sai? Lo senti? Sto cercando di prenderti un seno. Ma non con la forza. Lo faccio talmente piano che neppure te ne accorgi forse. Lo prende a mano viva, piena ma con indosso la debolezza di chi sta cadendo nell'asfissia di chi sta cedendo. Lo massaggia, con le dita lo regge come se tenesse un trofeo di proprietà. La vuole vicina, la vuole a sè. Sarà libera d'andare dove vuole. Poi. Dormiamo Serafin. Inspira dal naso. Quella che esce ora dalle labbra è una nenia. Una nenia che fa solo con la emme. Una ninna nanna. A Roma si canta sempre quella, prima di far addormentare i bambini. Sempre quella. La conosce così bene. E' quello che m'è rimasto di te. Madre. Vacca. Puttana. Puttana. E neanche il funerale t'ho concesso, puttana. Morta di stenti, strega, figlia di Satana. Vieni qui Serafin. Vieni qui, che dormiamo. Stammi vicino. Vieni sempre più vicina. Vieni da quest'uomo che non trova tregua da che è nato. Vieni qui che ti voglio mettere sul piedistallo e poi ti voglio vedere sanguinare. Non m'abbandoni tu. Non te lo permetto. E' stanco. Veramente molto, molto stanco. La carezza va scemando. Finisce. Termina. Resta con la mano là sopra. Goffredo è stanco, adesso. Papà è stanco per giocare. Per farti il sesso. Non ce la faccio più. Addio. Muoio.]








D'Altavilla Goffredo






"Cosa. Sto. Leggendo."








Gheof



"Ma che cazzo te guardi? Che stai a rosicà che io so parlà co le donne e tu no? I giovani d'oggi so' tutti froci!"












31/03/2015 21:51
 
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SERAFIN [Sala Comune] Silenzio. C’è un silenzio assoluto qui dentro. Ci sono dita che sfregano stoffe che celano pelle che richiama… Mani. Mani piccole. Mani calde. Mani giovani e affusolate. Mani che, eppure, non sembrano lisce e levigate come quelle di una donna qualsiasi. Di quelle mani che vestono la seta. Le mani di chi sfiora il velluto o sfoglia attentamente le pagine di un libro. Le mani fresche e pulite di chi sorregge calici di cristallo e non affoga le dita in un catino d’acqua sporca. Le mani che sorreggono ventagli, che ci si copre il sorriso in un eccesso di pudore e imbarazzo. Le mani illibate di chi indugia nel momento in cui deve intrufolarsi nella vita di qualcun altro, prendere tutto quello che desidera e impadronirsene. Le mani di chi non marchia col fuoco del possesso la pelle olivastra di un uomo che affonda la schiena nei guanciali di una poltrona, respirando rumorosamente come un vecchio ubriaco in procinto di addormentarsi. Le mani di Serafin, quelle, ah. Quelle sì, sono diverse. Si vestono di terra. Sfiorano le cortecce rugose degli alberi con una premura che, a vederla, neppure ci si aspetterebbe di ricevere da parte sua. Sfogliano il legno delle frecce per soppesarne la consistenza e sorreggono il flettente di un arco come se da quello dipendesse la sua stessa vita. Anziché coprire, snudano il sorriso, gravitando nell’orbita dell’uomo sul quale è seduta, come una bambina sulle ginocchia del padre. E’ quello che potrebbero sembrare a vederli da fuori, così: c’è il padre stanco, che s’è voluto concedere più di un vizio prima di rientrare a casa, adagiato allo schienale di una poltrona, e poi c’è la ragazzina che si adagia a lui, con i fianchi stretti nelle sue grandi mani e gli occhi chiari che indugiano, curiosi, sul profilo del vecchio. E’ ciò che potrebbero apparire, se non ci fosse tutto quello che evitano di dirsi, là sotto. Nessuna bambina guarderebbe mai il padre nel modo in cui Serafin osserva Gheof. Serafin che inclina la testa. Serafin che gli assaggia la guancia che poi si solleva, in preda ad un sorriso esausto. Serafin che si lascia avvolgere la vita e sostenere il volto piegato come se le sue dita, per più di un minuto, potessero cullarla. Shh. Shh. Calmati Serafin. Stai buona selvaggia. Rinfodera gli artigli, bestia. Soffia piano, piccolo uragano vivente. Socchiudi gli occhi un momento ed annusa l’aria in silenzio, senza dire una parola. Lo vedi, che non avverti il bisogno impellente di scappare? Lo senti, che per un po’, per qualche ora, potresti perfino evitare di correre? Sarebbe una novità anche per te, vero bambina? E lo vedi che lui se ne è stato chiaramente in giro fino a quest’ora a consumare il piacere con chissà chi? E lo senti che non importa, ché le sue dita molli si artigliano attorno a te nella fugace convinzione di doverti trattenere? Che crede di vederti volare via da un momento all’altro, di perdere la presa e poi, quando invece succede il contrario, ti avvicina al suo petto per sentirti più vicina, più vera, più sua. Che tu non sei un sogno da custodire ma una realtà da vivere anche col rischio di farti sanguinare. Lo vedi, che è tuo? Il tuo uomo che non ti leva le mani di dosso. Che tu, è vero, ci affoghi nella sua malattia. Che gli fai vomitare anche l’anima, lo accompagni fino a casa e poi gli accarezzi il petto, ripetutamente, ma non come se cercassi a tutti i costi di tenerlo sveglio. Lo stai semplicemente marchiando, a modo tuo. Lo fai ancora. Sei stato fuori. Sei stato via. E non intendi dirmi niente. Ed io non intendo chiederti proprio un bel niente. Sono la tua bambina? Sono la tua bambina. Sei il mio uomo? Lo sei. Anche io sono stata fuori. Anche io sono stata via. E starò via. Di nuovo. Succederà spesso. Succederà che finiremo per dividerci ancora. Ma poi… poi capiteranno anche momenti come questi. Quelli in cui non dobbiamo tener conto a nessuno. Lo senti, Goffredo? Il mondo resta fuori e noi ce ne stiamo seduti qui, come se non ci riguardasse affatto. E non devo darti nessuna spiegazione, come tu non devi darne a me. Ci siamo solo io e te, e una ninna nanna che, accidenti, la ricordo anche io! Mia madre evitava di cantarla perché sapeva che niente avrebbe potuto allietare le mie notti di ragazzina irrequieta. Perché mi rifiutavo di sentirla. Di ricevere le attenzioni che cercava di riservarmi ma alcune volte chiudevo gli occhi per fingere di dormire e stare lì ad ascoltare la sua voce roca e impastata di sonno. Non era intonata quanto papà, ma mi piaceva lo stesso. Si lascia sfuggire un sorriso, uno sbuffo lieve e divertito che ha origine dalle narici, quando lo sente intonare quella melodia. Resta lì col seno stretto nel palmo della sua mano. Resta lì, che quella mano, non appena sente la presa ammorbidirsi contro il petto, la afferra, catturandone le dita una alla volta. Non le stacca da sé. Ne solleva uno, sfrega il polpastrello contro il suo, lo accarezza e poi ne solleva un altro, piegando la testa per guardare quello che sta facendo, mentre la nenia si spegne, soffoca come una fiamma in mancanza d’ossigeno. Sh. Gioca con le sue dita. Come un gatto. Piega le gambe. Non occupa molto spazio e fa presto ad adattarsi là dentro. E’ lì, con la testa china e le labbra che le pendono verso il basso. Sono schiuse. Le muove quasi impercettibilmente prima di cominciare a cantare. Canta la sua stessa nenia. Lo fa aggiungendovi le parole, a voce bassa. La voce bassa di chi canta sapendo che l’altro, intanto, si è addormentato. Smette di guardalo per un po’. Continua a cantare, riprendendo la ninna nanna là dove lui l’ha interrotta. Poi tace. Poi si lecca le labbra. Sh. Sh. La testa è ancora china. La solleva dopo un po’. Piano. Ha i capelli in disordine. La treccia tutta abbandonata su una spalla e qualche ciuffo sporadico che le sfugge, ai lati. Lo guarda. Lo contempla in silenzio, mentre lui dorme. Non riesce ad avere la fronte distesa neppure in quel momento. Sembra un uomo tormentato. Le sue mani la stringono ancora. Vuole assicurarsi che resti lì anche se lui non ha le forze per restare sveglio. Le scappa un altro dei suoi sorrisi silenziosi, che le solleva un angolo della bocca lentamente. Che stupidi. Nonostante lo sforzo che compiamo nel tentativo di rincorrerci, ogni volta non possiamo fare a meno di restare incollati. Collante. Calamita. Perdo fiato. Soffoco. Non respiro. Mi levi l’aria. Eppure sono viva. Forse più di quanto non lo sia stata negli ultimi dieci anni. Che mi hai fatto? Che mi fai? Che ci stiamo facendo? Che ci faremo? Sh. Dormi Goffredo. Dormi. Mentre io alzo una mano e con le dita, leggermente, scosto qualche ciocca scura dalla tua fronte contratta. Fai delle smorfie strane, mentre dormi. Arricci la bocca e di tanto in tanto muovi la punta del naso. Sei malato. Dovrei starti lontano. Lo sai vero? Lo sai. Muori, muori papà. C’è la tua bambina, qui, a vivere anche per te. Tu non saprai mai che, ad un certo punto, s’era illusa di potersi alzare per davvero. S’è fatta sedurre dall’idea di andarsene, di rubarti le chiavi dalle tasche e di uscire per lasciarti qui, a dormire sulla poltrona. Ha perfino tirato su il busto, raddrizzando la schiena, per provarci. Ha allontanato lo sguardo da te, spingendolo altrove, al centro della sala, alla ricerca di chissà cosa. Poi ha esitato. Poi si è appellata all’istinto e a quel legame malsano che avete costruito assieme e che Serafin fatica ancora a comprendere del tutto. Si è voltata di nuovo. Ti ha guardato di nuovo, esplorando il tuo volto con gli occhi. Attentamente. Ha liberato un respiro lunghissimo e ha piegato la testa, per appoggiare una tempia alla tua spalla. Non saprai mai che, nel momento in cui la tua mano è scivolata via dal seno, lei ha cominciato a muovere leggermente le dita sul dorso, percorrendo con un indice, senza sfiorare davvero la pelle, il tragitto ricercato dalle vene. Non saprai neppure che non è riuscita a dormire neppure un minuto, perché quando ti alzerai, probabilmente, lei sarà già in piedi, magari con gli occhi incollati ad una delle finestre della sala, in attesa di veder spuntare l’alba. “Buonanotte Goffredo” sussurra, espirando piano. Buonanotte. Ti ricorda qualcosa? Sembra come quella volta in cui ci siamo lasciati, alla bettola. La mia voce è la stessa, le parole anche. Ma c’è qualcosa di diverso, nel fondo. Che scava. Scava. E scava. E mette radici. Cos’è? Non voglio pensarci. Tregua. Forse per un attimo chiudo gli occhi anche io. Un attimo. Uno solo. Buonanotte.



D'Altavilla Goffredo






"Cosa. Sto. Leggendo."








Gheof



"Ma che cazzo te guardi? Che stai a rosicà che io so parlà co le donne e tu no? I giovani d'oggi so' tutti froci!"












05/04/2015 01:09
 
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