LE PIU' BELLE DELLA TELEVISIONE - UN FORUM OVE POSTARNE IMMAGINI E COMMENTI DEDICATO ALLE PIU' BELLE DELLA TV

alan scusami non vorrei sembrarti indisponente ma a volte inserisci dei video che sono dei veri e propri rebus

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    tyzyanas
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    00 01/09/2008 20:06
    mi riferisco a quello nuovo che ora sto vedendo.d'accordo quello è Fabrizio DEAndrè,chi non lo riconoscerebbe!ma si può sapere in che diavolo di lingua sta cantando?di sicuro non è italiano!non mi sembra neanche inglese,tedesco,francese,spagnolo,arabo,russo,cinese.mica è una lingua che si era inventato lui?insomma che lingua è?perch+è mi sembra una bella canzone che non ho mai sentito e vorrei capirne il significato se possibile.
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    00 01/09/2008 21:21
    Re:
    tyzyanas, 01/09/2008 20.06:

    mi riferisco a quello nuovo che ora sto vedendo.d'accordo quello è Fabrizio DEAndrè,chi non lo riconoscerebbe!ma si può sapere in che diavolo di lingua sta cantando?di sicuro non è italiano!non mi sembra neanche inglese,tedesco,francese,spagnolo,arabo,russo,cinese.mica è una lingua che si era inventato lui?insomma che lingua è?perch+è mi sembra una bella canzone che non ho mai sentito e vorrei capirne il significato se possibile.




    non fartene un problema:
    è dialetto genovese antico, presumo del XVI/XVIII Secolo dopo Cristo, ma potrei anche sbagliarmi sulla datazione.
    di sicuro incomprensibile già agli stessi genovesi attuali del XXI secolo.

    questo è il testo originale:


    CREUZA DE MÄ (titolo della canzone)

    Umbre de muri muri de mainé
    dunde ne vegnì duve l'è ch'ané
    da 'n scitu duve a l'ûn-a a se mustra nûa
    e a neutte a n'à puntou u cutellu ä gua
    e a muntä l'àse gh'é restou Diu
    u Diàu l'é in çë e u s'è gh'è faetu u nìu
    ne sciurtìmmu da u mä pe sciugà e osse da u Dria
    e a funtan-a di cumbi 'nta cä de pria
    E 'nt'a cä de pria chi ghe saià
    int'à cä du Dria che u nu l'è mainà
    gente de Lûgan facce da mandillä
    qui che du luassu preferiscian l'ä
    figge de famiggia udù de bun
    che ti peu ammiàle senza u gundun
    E a 'ste panse veue cose che daià
    cose da beive, cose da mangiä
    frittûa de pigneu giancu de Purtufin
    çervelle de bae 'nt'u meximu vin
    lasagne da fiddià ai quattru tucchi
    paciûgu in aegruduse de lévre de cuppi (2)
    E 'nt'a barca du vin ghe naveghiemu 'nsc'i scheuggi
    emigranti du rìe cu'i cioi 'nt'i euggi
    finché u matin crescià da puéilu rechéugge
    frè di ganeuffeni e dè figge
    bacan d'a corda marsa d'aegua e de sä
    che a ne liga e a ne porta 'nte 'na creuza de mä


    E questa dovrebbe essere la traduzione in italiano:


    N.B
    Creuza: qui impropriamente tradotto: mulattiera. In realtà la creuza è nel genovesato una strada suburbana che scorre fra due muri che solitamente determinano i confini di proprietà.

    MULATTIERA DI MARE
    Ombre di facce facce di marinai
    da dove venite dov'è che andate
    da un posto dove la luna si mostra nuda
    e la notte ci ha puntato il coltello alla gola
    e a montare l'asino c'è rimasto Dio
    il Diavolo è in cielo e ci si è fatto il nido
    usciamo dal mare per asciugare le ossa dell'Andrea
    alla fontana dei colombi nella casa di pietra
    E nella casa di pietra chi ci sarà
    nella casa dell'Andrea che non è marinaio
    gente di Lugano facce da tagliaborse
    quelli che della spigola preferiscono l'ala
    ragazze di famiglia, odore di buono
    che puoi guardarle senza preservativo
    E a queste pance vuote cosa gli darà
    cose da bere, cose da mangiare
    frittura di pesciolini, bianco di Portofino
    cervelli di agnello nello stesso vino
    lasagne da tagliare ai quattro sughi
    posticcio in agrodolce di lepre di tegole
    E nella barca del vino ci navigheremo sugli scogli
    emigranti della risata con i chiodi negli occhi
    finché il mattino crescerà da poterlo raccogliere
    fratello dei garofani e delle ragazze
    padrone della corda marcia d'acqua e di sale
    che ci lega e ci porta in una mulattiera di mare






    alanx
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    alanparsonx
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    00 01/09/2008 21:26
    http://www.ondarock.it/pietremiliari/deandre_creuza.htm



    La poesia in musica di Fabrizio De André ha affascinato almeno tre generazioni di ascoltatori, influenzato in modo decisivo gran parte degli artisti italiani dalla metà degli anni Sessanta a oggi, senza mai perdere fascino e attualità. "Creuza De Mä", pubblicato nel 1984, è uno dei dischi più importanti del decennio, e il suo impatto e la sua grandezza non sono ancora stati recepiti appieno dalla scena musicale italiana e internazionale.

    "Creuza De Mä", cantato interamente in dialetto genovese, nasce da un progetto di collaborazione artistica con Mauro Pagani, compositore, arrangiatore, polistrumentista, che De André aveva già avuto modo di conoscere nelle file della Pfm.

    De André inizia a pensare a "Creuza De Mä" dopo un'attività più che ventennale di altissimo livello, e dopo aver già ampiamente allargato il campo delle proprie fonti molto al di là dell'usuale per un cantautore italiano: dai Vangeli Apocrifi per "La Buona Novella", e dalla "Antologia di Spoon River" di Edgar Lee Master per "Non al Denaro non all'amore né al cielo", era passato ai sapori ermetici del "Volume 8" in collaborazione con Francesco De Gregori, e alle tinte mediterranee de "L'indiano", ispirato all'esperienza del rapimento. "Creuza De Mä" è dunque il punto di arrivo di un percorso artistico di grandissimo spessore, un fine distillato di trent'anni di riflessione, umorismo, poesia e ricerca compositiva. Si tratta un'opera dalla ricchezza sonora e dialettica sconvolgente, di fatto una pietra angolare dell'allora nascente world music, con quattro anni di anticipo su "Passion" di Peter Gabriel e due anni in anticipo su "Graceland" di Paul Simon. Il sound del disco infatti si allontana decisamente sia dalla semplicità cantautoriale dei primi lavori, pesantemente influenzati da Leonard Cohen e George Brassens nell'adozione della forma della "ballata" per chitarra e voce, sia dalla ricercatezza tecnica figlia del prog-rock che aveva caratterizzato i dischi della metà dei '70. "Creuza De Mä" si avvale dell'uso di una miriade di strumenti della tradizione popolare mediterranea, nordafricana, balcanica e mediorientale. Già in fase di composizione, l'uso di questi strumenti "etnici" condiziona in modo decisivo la stesura del materiale.

    La decisione di scrivere i testi nella lingua madre di De André, il genovese, viene molto tardi nella gestazione del disco, poco prima delle incisioni definitive. Fino a quel momento il progetto prevedeva testi scritti in una lingua inventata o, come disse De André, un "arabo maccheronico". Questo dettaglio, oltre che dare un'idea della voglia di invenzione e di sperimentazione che accompagnò la gestazione dell'album, ci fornisce un'importante indizio per identificare la simbologia che si cela dietro la scelta di una lingua "altra" rispetto a quella del potenziale pubblico. La scelta risponde innanzitutto a considerazioni di linguistica pura: il genovese è una lingua più adatta dell'italiano alla poesia in musica, perché molto ricca di parole tronche. Inoltre, l'italiano è una lingua "aulica" per nascita, nella quale lo stile "basso" è sempre votato al grottesco e al farsesco; al contrario il dialetto conserva la propria caratterizzazione popolare senza diventare automaticamente comico, il che lo rende la lingua più adatta per parlare della vita del "popolo minuto" tanto cara a De André. Si aggiunga l'ulteriore considerazione che il genovese è una lingua ricchissima di fonemi e parole arabe, il che si adattava benissimo all'atmosfera musicale del disco. Il genovese di "Creuza De Mä" è molto più del particolare dialetto di una particolare zona d'Italia: si tratta piuttosto, a livello simbolico, di una lingua popolare universale, e in particolare della lingua del viaggio e della povertà, di quel linguaggio dell'emarginazione e della rivolta che De André ricercava fin dagli inizi della sua carriera. In questa luce, non è privo di senso udire in "Sidun" una madre palestinese cantare in genovese — quasi si sporgesse da un molo del porto — rivolgendosi al figlio, schiacciato da un carroarmato israeliano.

    Allo stesso modo la Genova di "Creuza De Mä" si carica di molteplici valenze simboliche, e pur mantenendo la propria peculiarità geografica e culturale (con gustosissimi spunti tratti dalla storia del costume dell'antica Republica di Genova), diventa un fulcro semantico ricchissimo: Genova è ogni luogo, ogni casa e ogni meta: un vero e proprio "ombelico del mondo". Le storie particolari che vi si svolgono assumono valenza universale: le prostitute di "A Dumenega" passeggiano per le vie di ogni città, e dietro ogni angolo di ogni paese c'è una "pittima".

    La title track si apre sui rumori del caotico mercato di Genova, presto affiancati da un assolo di gaida, sorta di cornamusa in uso fra i pastori della Tracia. Appena il canto si dispiega sulla semplice melodia, ogni residuo dubbio dell'ascoltatore riguardo alle scelte linguistiche di De André è fugato. Nel "suo" genovese, la voce di De André diventa ancor più ricca, più espressiva di quanto non lo sia mai stata, e gli ostacoli che il dialetto pone a un'immediata comprensione sono in realtà fonte di infinite suggestioni sonore. Chi non conosce la lingua di "Creuza De Ma" è, paradossalmente, in una posizione migliore per cogliere a fondo la ricchezza dell'opera rispetto a chi possa comprendere "al volo" il significato delle parole. Il distacco fra significato e significante fa sì che l'attenzione di chi ascolta si focalizzi in primis sul suono, permettendo un ascolto non condizionato dai meccanismi psicologici di aspettativa nei confronti della narrazione. Chi di noi, ascoltando musica cantautoriale italiana, non si è mai trovato, al termine di un brano, nella condizione straniante di aver prestato scarsa attenzione alla musica per concentrarsi sulla "storia" narrata dalla canzone? Può sembrare un approccio eccessivamente formalista, ma le scelte linguistiche di De André in "Creuza De Mä" rispecchiano chiaramente l'intenzione di porre l'aspetto fonetico della lingua cantata, la sua fusione sonora con l'accompagnamento, sullo stesso piano della narrazione delle vicende. Un piccolo passo in questo direzione l'aveva compiuto Bob Dylan abbandonando la scrittura polemica e "impegnata" e concentrandosi sul suo personale ed ermetico simbolismo, come in "Visions of Johanna" e "Sad Eyed Lady Of The Lowlands" realizzando così un intreccio più profondo di musica e parole. D'altro canto, una volta apprezzato il disco esclusivamente nei suoi aspetti "sonori" è estremamente interessante mettere mano alle traduzioni italiane dei testi, per scoprire che anche sul versante della narrazione De André raggiunge qui notevolissime vette di ispirazione, snocciolando uno dopo l'altro alcuni fra i suoi massimi capolavori poetici.

    "Creuza De Mä" parla del ritorno a casa dei marinai dopo la pesca, ed è carica della rassegnazione di chi è costretto — come i marinai, come Ulisse — a un viaggio senza fine, un viaggio-condanna in cui le soste sono fonte di frustrazione e occasioni per ubriacarsi ("E nella barca del vino ci navigheremo sugli scogli/ emigranti della risata con i chiodi negli occhi/ finché il mattino crescerà da poterlo raccogliere/ fratello dei garofani e delle ragazze/ padrone della corda marcia d'acqua e di sale che ci lega e ci porta in una mulattiera di mare"). Il brano sa evocare odori e profumi della cucina ligure ("frittura di pesciolini/ bianco di Portofino/ cervelle di agnello nello stesso vino/ lasagne da tagliare ai quattro sughi/ pasticcio in agrodolce di lepre di tegole") o anche suscitare lampi di un'Oriente lontano e misterioso ("Ombre di facce, facce di marinai/ da dove venite dov'è che andate?/ da un posto dove la luna si mostra nuda/ e la notte ci ha puntato il coltello alla gola/ e a montare l'asino c'è rimasto Dio/ il Diavolo è in cielo e ci si è fatto il nido").

    "Jamin-a" è forse la più bella ode a una prostituta che sia mai stata scritta: un ideale proseguimento delle storie narrate in "Via Del Campo" e "Bocca Di Rosa", ma qui il racconto perde ogni valenza polemica o iconografica. Grazie all'adozione del genovese, De André non teme censure, e affronta il brano con esplicita, cruda, irriverente, irresistibile sensualità: il corpo di Jamin-a è protagonista, con la sua "lengua nfeugà" — lingua infuocata — e il "nodo delle sue gambe", incatena l'ascoltatore in un vortice di suggestione erotica e sonora. La struttura armonica del brano è affidata all'oud e al bouzouki, strumenti a corda di tradizione araba e greca.

    Di "Sidun" si è già detto: il canto funebre della madre palestinese è al tempo stesso uno dei vertici dell'espressione poetica di De André e uno dei massimi risultati musicali della carriera del cantautore genovese. "Sinan Capudan Pascià" è la storia (vera) di un marinaio genovese che venne catturato dai turchi e divento pascià per aver salvato la nave del sultano dal naufragio. Il ritornello, adattamento di un canto di marinai diffuso in area tirrenica, è un piccolo nonsense con ambizioni da metafisica simbolista ("in mezzo al mare c'è un pesce palla, che quando vede le belle viene a galla; in fondo al mare c'è un pesce tondo che quando vede le brutte se ne va sul fondo") e più in là lo stesso refrain diventa un'apologia del "farsi da soli" in chiave di bassa e surreale comicità ("La sfortuna è un cazzo, che gira intorno al culo più vicino… un avvoltoio che vola intorno al culo dell'imbecille"). C'è spazio anche per una sparata del novello pascià sull'universalità dell'ossessione per il denaro ("E digli a chi mi chiama rinnegato, che a tutte le ricchezze, all'argento e all'oro, Sinàn ha concesso di luccicare al sole, bestemmiando Maometto al posto del Signore").

    Le due tracce successive riportano la narrazione e l'atmosfera nell'antica Genova, e danno piena voce a figure di emarginati. La "pittima" ovvero l'esattore di debiti privati per conto terzi, lamenta la sua condizione precaria e pericolosa, rivendicando con orgoglio la "rispettabilità" del suo mestiere meschino. In "A Dumenega" le prostitute genovesi, relegate nel ghetto per tutta la settimana, in libera uscita la domenica, passeggiano per la città come gran dame, schernite dalla folla ipocrita degli abituali frequentatori dei bordelli cittadini. È bene anche ricordare che anticamente i proventi dei bordelli erano incamerati dal comune di Genova, che con essi ricopriva quasi interamente le spese di manutenzione del porto.

    L'ultima traccia, "Da me riva", è una "ode del distacco", il pensiero malinconico del marinaio che riparte, ancora una volta, e saluta la propria compagna, rimasta a riva, ormai solo un profilo lontano, controluce.

    alanx