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Maradona: La Favola

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    00 10/08/2008 16:03
    La favola di Maradona
    La sua storia a puntate - 1


    Ce la vogliamo raccontare la favola del pibe per sentirlo più vicino, per stargli più vicino, per ripercorrere i ricordi e dare voce al cuore?
    Hola, Diego! Sette anni insieme, tra via Scipione Capece a Posillipo e lo stadio San Paolo a Fuorigrotta. Sette anni napoletani. In nessun’altra città hai vissuto tanto, nessun’altra città ti ha voluto tanto bene.
    Certo, il Boca è stato il tuo grande amore, il primo amore che non si scorda mai, quella maglia blu con la fascia gialla sul petto, ma ci hai giocato solo due anni tra i tifosi che, alla Bombonera, intonavano: “Y todo el pueblo cantò / Maradò, Maradò, Maradò”.
    E Barcellona? Più dolori che gioie. Due anni in Catalogna, e quell’assassino di Andoni Goicoechea ti spezza una gamba, e i catalani ti chiamano “sudaca”, l’epiteto dispregiativo per tutti i sudamericani.
    Poi, Napoli. Il regno fatato, le vittorie storiche, la gioia e i canti. “Oje vita d’’a vita mia”. E quel primo striscione, lungo venti metri, al tuo arrivo: “Nel cielo di Napoli ci sono tante stelle, Maradona è la più splendente”.
    Raccontiamoci la tua favola, Diego, per stare ancora insieme. Dall’inizio? Dall’inizio.
    I primi giorni del Pelusa. Ti chiamano così per l’esagerata peluria in testa, l’annuncio dei riccioli da scugnizzo. Gli annunci sono tanti quando viene al mondo il primo figlio maschio di mamma Tota e di papà Chitoro. 30 ottobre 1960, una domenica. E in quale altro giorno potevi nascere se non nel giorno di festa dei tuoi gol e delle tue piroette?
    Nel vecchio Policlinico di Buenos Aires, un vagito forte e chiaro. “Ehi, mondo, sono qua”. Alle sette e cinque minuti del mattino. Bene, ora andiamo a casa. Andiamo a Villa Fiorito, alla periferia sud della città, dove ci sono strade in terra battuta e, forse, una casa senza gas e senza luce, e ci sono tante sorelle. Figuriamoci la festa per il primo “nigno”. Nonna Salvadora fuma la pipa.
    Papà Chitoro si è appena trasferito a Villa Fiorito da Esquina, nella provincia di Corrientes, dove aveva una barca e pescava i dorados. Quando crescerai ti racconterà di quei giorni sul mare e ci tornerete insieme. In casa bazzica zio Cirillo che ha fatto il portiere di calcio. Come abbia fatto, non si sa. Lo chiamano “il tappo”. Comunque, ha giocato in porta nell’Estrella Roja di Villa Fiorito. Questo è certo. Ha una passione per l’Independiente perché il quartiere di Avellaneda è vicino e lui ci va a vedere le partite. Ma anche papà Chitoro ha giocato al calcio, ala destra ad Esquina.
    Stai dritto e tiri calci alla prima palla. Te la regala tuo cugino Alberto Zàrate, detto Beto. A palla giocano tutti i bambini del quartiere. Tu ancora non ti sveli perché ti piace andare a vedere passare i treni e rubare zucche nell’orto del vicino. Monello, non c’è che dire.
    Sulle strade in terra battuta di Villa Fiorito, in quelle vie Azamor e Mario Bravo, fai i primi dribbling. Hola, Dieguito. Tutti i ragazzini del quartiere sognano di diventare un giorno come Hector Yazalde che abita vicino Villa Fiorito ed è un asso dell’Independiente. A scuola ti piace la matematica e tutti dicono che, da grande, farai il ragioniere. Poi ti basterà un solo numero, il numero 10, per essere il più grande.
    C’è una grande povertà a Villa Fiorito, ma anche una grande allegria. Giocando a palla, fai una smorfia curiosa: tieni la lingua fuori dai denti come se volessi assaporare il gioco e la vita.
    Papà Chitoro ti porta a vedere il Boca. E’ storia nota. Prendevate il tram e andavate alla Bombonera, due posti nella curva nord. Due giocatori fanno impazzire la folla e tu li guardi incantati. Uno è Angel Clement Rojas. Ha una finta malandrina nei fianchi e va in gol come un ballerino. L’altro è Pianetti. Lo chiamano “Pocho” e, dentro le scarpette, ha una carica di dinamite. Ti innamori dei due campioni e del Boca.
    Nessuno ci crederebbe, ma il tuo vero idolo abita a Villa Fiorito. E’ un ragazzo come te, si chiama Goyito Carrizo. Nessuno, nel quartiere, è più bravo di Goyito col pallone. Questo lo dicono tutti. Ma Goyito dice che il più bravo sei tu. Lo dice a tutti: “Il più bravo del quartiere è il Pelusa”.
    Goyito va a fare un provino tra le “cebollitas” dell’Argentinos Juniors. Ce lo porta un impiegato di banca quarantenne, don Francisco Corneo, che dopo la banca gira per le periferie di Buenos Aires a fiutare il talento nascosto dei ragazzini che giocano al pallone per le strade. Goyito piace, può giocare con le “cebollitas” e lui ripete anche ai dirigenti dell’Argentinos: “C’è un ragazzino più bravo di me a Villa Fiorito. E’ il più bravo di tutti. E’il Pelusa”.






    LE PAROLE CHE DICO NON SI AMANO SE DEVI AMARE DEVI AMARE ME!

    "forse è inutile parlare, contro i muri non servono le parole meglio le picozze!!!"




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    00 16/08/2008 18:28
    Era il 1992, febbraio. Tu eri al mare in Patagonia, lontano, lontano, a pescare quei piccoli pescecani che sono i “tiburon”. In una saletta Rai di viale Mazzini a Roma, io assistevo al montaggio del documentario voluto da Gianni Minoli per “Mixer”, realizzato da Enrico Deaglio con la telecamera di Roberto Pistarino. Il documentario aveva questo titolo: “Maradona, le gambe che hanno sconvolto il mondo”. Mi disse Minoli: “E’ un atto dovuto a un talento unico, patrimonio non solo dei tifosi, arte pura del football, giocoliere, incantatore, messaggero di gioia sui sentieri felici del gol e negli stadi della fantasia”.
    E’ stato in quella occasione che, nella suggestione di una pellicola incerta, ti ho visto bambino, tu e un pallone naturalmente. In bianco e nero. A Villa Fiorito. I tempi che andavi a scuola al Remedios de Escalada de san Martìn. Ti ho visto palleggiare nel cortile di terra battuta di casa tua. Una casa di mattoni dopo che eri stato in una casa approssimativa di lamiera e legno. Ti ho visto col tuo amico Negro che fabbricava e faceva volare aquiloni. Ti ho visto palleggiare con l’arancia della leggenda.
    Magrolino e con le gambe buone, così eri. Mamma Tota non ti faceva mancare la bistecca. Era solo per te. Perché eri il primo maschio. Ana, Kity, Lili, Mary e Caly, le sorelle, avevano un cibo più leggero. Poi vennero i fratelli Raul detto Lalo e Hugo, “il turco”. Ma sempre la prima bistecca era per te. Erano i tempi che papà Chitoro aveva smesso di fare il barcaiolo a Esquina, abbandonando le chiatte da trasporto di don Lupo Galarza, e lavorava dodici ore al giorno, dalle quattro del mattino al pomeriggio, al mulino Tritumol, una industria chimica che triturava ossa.
    Ho letto nel tuo libro: “A me è venuta la pelle dura per quello che ho vissuto a Villa Fiorito”. Povero, ma tosto. E le infinite partite sul campaccio di terra di Las Siete Canchitas con i tuoi amici Goyo Carrizo e Montanita a consumare scarpe e a inzupparti di sudore. Per Goyo non c’era nessuno bravo come te a giocare a pallone, anche se spesso era solo un pallone rotto.
    Bene. Goyo ha detto ai dirigenti dell’Argentinos Juniors che tu sei un fenomeno. A nove anni. E quelli gli hanno detto: “Porta il fenomeno con te”. Quelli sono don Francisco Gregorio Cornejo, impiegato al Banco Hipotecario Nacional di Buenos Aires e talent-scout di strada, e il suo aiutante José Emilio Trotta che è per tutti don Yayo. Sono i responsabili delle “cebollitas” dell’Argentinos Juniors, una banda di ragazzi del ’60, la tua età. Mamma Tota dice che puoi andare e papà Chitoro che deve dire? Non dice nulla e questo vuol dire che ci vai.
    Fai il viaggio più lungo della tua vita prima che gli aerei ti porteranno dal nuovo mondo al vecchio e viceversa. Ci vogliono due autobus per arrivare a Las Malvinas, il campo d’allenamento dell’Argentinos. Ci vai in un giorno di pioggia e incontri gli altri ragazzini che sono arrivati sul camioncino di don Yayo. Hanno tutti un soprannome. Osvaldo Dalla Buona è Veneno, Oscar Trotta lo chiamano Pando, Daniel Ojeda è il Chino, Claudio Rodrigez è il Mono, la scimmia, e Delgado lo chiamano La Polvere. Sei il più basso di loro. Di una cosa si accorgono tutti: di piede, sei mancino. Dice Cornejo: “Vedo che il destro ti serve solo per camminare, ma a questo porremo rimedio”. Poi dirà a un amico: “Il nano è veramente un fenomeno. L’ho capito dopo dieci minuti vedendolo giocare. Si muove con una grazia e un’autorità fuori dal comune per uno della sua età”.
    Ti prendono nelle “cebollitas”, la squadra dei più piccoli fra le formazioni giovanili dell’Argentinos. Giochi e il talento ti preme dentro e vuole uscire fuori. Una la combini subito, a dieci anni. Alla domenica fai il raccattapalle per la prima squadra e sei allo stadio per Argentinos-Boca. Un pallone come quelli della prima squadra non l’hai mai avuto tra i piedi. Nell’intervallo della partita te ne impossessi sotto gli occhi di don Yayo. E cominci uno dei tuoi palleggi infiniti, sinistro, testa, spalla, l’esterno della coscia, ginocchio. Il pallone non tocca mai terra. Attiri l’attenzione. Ti seguono dagli spalti.
    Le squadre ritornano in campo, ma la gente ha occhi solo per te. Grida: “Olè, olè”. Stai palleggiando da un quarto d’ora e la partita deve riprendere. La folla urla: “Rimani, rimani”. E’ un bel problema. “Ancora, ancora” urla la gente dello stadio. Non può durare.
    Fai un colpo di tacco e col sinistro già magico indirizzi il pallone a don Yayo che lo prende e ti sorride. Alla prossima puntata, pibe.







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