Un racconto di basettun

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basettun
00lunedì 25 gennaio 2010 00:10
Un bacio

Era di un verde metallico trasparente ma non era l’acqua nuda del nostro mare alle sei di una mattina estiva, era il tunnel d’aria malsana che gli elettroni impazziti purificavano percorrendola velocemente a senso alternato fra i suoi ed i miei occhi, unendoli.
A volte sentivo il dolore del suo sguardo intenso che spingeva sulle ante serrate del mio rifugio, non tanto segreto e nemmeno inespugnabile, quasi una tendina posta pudicamente a celare l’intimità, che mi ostinavo a rattoppare con le assi sbrindellate dei più recenti naufragi, illuso che mi proteggesse e al contempo cosciente dei futuri cedimenti.
Vivevo... come una quercia, diceva, senza intuire che mi sentivo più un arbusto spinoso e astioso col mondo, mostrando il volto gelido e aspro dell’armatura, disincantato ma sognatore di nascosto al buio, di notte, nei boschi o nei labirinti urbani.
Tutta la forza che lei vedeva in me era soltanto un disegno a carboncino che avevo tratteggiato a qualche centimetro dalla mia immagine e me ne servivo per occultarmi. E stranamente funzionava quella forma primitiva di mimetismo, sembravo davvero un tronco saldamente aggrappato alla terra e mi confondevo insieme agli altri, che apparivano anch’essi coriacei ma forse, chi lo sa? erano altrettanto insicuri e impauriti.
La paura mi aveva perseguitato fin da piccolo, era cresciuta con me, l’avevo allevata e nutrita col povero istinto vitale che mi soffiava dentro e la sentivo come uno scirocco lieve e appiccicoso che mi fa sudare anche stando fermo, mentre fuori infuriava la bora, fuori di me, del mio corpo impaurito, e trascinava con impeto aggressivo tutta la vita che avrei dovuto, se solo ne avessi avuto il coraggio, cavalcare con vigore.
Ciò che m’incuriosiva, di lei, era la capacità d’istigare un tale sentimento che non rammentavo più. Mi ero rintanato nell’antro vegetale dei miei stessi rami e non ne uscivo nemmeno con lo sguardo, perciò mi sorprese il suo interesse e cominciai a guardarla senza farmene accorgere. Ma lei era come una lamiera lucida che mi rifletteva deformato, osservandola mi vedevo ondulato e grottesco, quasi ridicolo come un clown che si mostra solo nel suo trucco esagerato. M’incuriosiva e mi faceva rabbia quando mimava sarcastica il mio aspetto serioso, e subito dopo si strofinava affettuosa come se avesse capito tutto, tutto di me e delle mie strategie di sopravvivenza.
Probabilmente non era vero, non poteva comprendere così facilmente ciò che per me stesso era un rebus irrisolvibile, il me per me e il me per gli altri erano in relazione, matematica forse, ma complici di una formula talmente complessa da apparire offensiva verso la mia intelligenza. Per non sentirmi frustrato ed incapace avevo rinchiuso l’incognito di me in un file inaccessibile, relegandolo in una zona grigia della memoria scardinata dai meccanismi della coscienza. Si poteva anche essere felici e più o meno sereni così, invece arrivò lei.
Cosa avesse d’interessante non mi era chiaro, a parte il suo aspetto fisico gradevole ma non poi così eclatante da infiammare i sensi. Era il suo sguardo che mi affascinava, sembrava una lama virtuale che le si sprigionava a comando dagli occhi insinuandosi nei miei, talmente in profondità e così repentinamente da passare indenne il filtro protettivo che ci separava. A un tratto mi ritrovavo le sue pupille conficcate al centro della fabbrica dei pensieri e non riuscivo più a rimuoverle.
Amore, mi rammentavano i ricordi sempre più lontani, ma non ne sentivo il profumo giovane archiviato insieme a tutti gli anni trascorsi, quel chiaro odore di pulito e di adolescente che a volte, in passato, avevo riconosciuto in ragazze minute, sempre simili alla prima “lei” della mia vita. Qualcosa cambiava in me, nei miei recettori che invecchiavano o si adeguavano allo standard corrente per non apparire obsoleti.
Amore sarebbe stato, forse, in futuro, la sua mano grinzosa sul deserto della mia pelle?
No, amore era finito per me. Seppellito con la tonicità dei muscoli e la banalità dei desideri, sotto quintali di ore non vissute che come spugne mi avevano assorbito e mi contenevano tutto ognuna ed ognuna di tutto un po’ meno, via via per tutti i mille strati successivi, tanto da ritrovarmi arido e privo di me sul fondo del baratro, col ricordo più a portata di mano che non rievocava più nulla di ciò ch’ero stato, e il più lontano talmente imprendibile da apparire estraneo.
Lo avevo perso per sempre quell’odore, o non lo riconoscevo più perché, forse, l’amore non serviva a quel punto della mia vita.
Eros, l’impulso sessuale responsabile delle attività umane ad ogni età, l’alibi comune che muove il mondo e ti fa credere che valga la pena di vivere, anche povero e schiacciato dall’ingiustizia o vecchio e malato senza speranza. Sempre più sporco e complicato, più fantastico che reale durante i brevi amplessi con vagine raccattate sul marciapiede, o nelle commemorazioni solitarie notturne, quasi un rito che si ripete, infantile e vetusto.
Anch’esso aveva seguito la sua strada, a volte schivando la mia moralità palese per allearsi con l’occulto osceno e rotolarsi nella lussuria, ma lontano dagli estimatori e i critici attenti che mi avrebbero censurato. Avevo inventato un altro me asessuato che si relazionava con seni e vulve apparentemente immune da istinti, un me cortese e al tempo stesso falso che non esibiva desideri morbosi, al quale si potevano mostrare le nudità come a un ginecologo, ma che rubava i fotogrammi e li cedeva all’altro me in agguato imbastendo un losco traffico.
Avevo organizzato una collezione infinita di ricordi pornografici, che sopperivano all’aridità sensuale delle mie amanti e rendevano i nostri incontri virtualmente sublimi. Ma dovevo stare attento a non farmi scoprire e fingere di appagarmi velocemente con la loro sufficienza fisica, perché per tutte era estremamente offensivo voler aggiungere una fantasia eccitante alle conclusioni scontate, e sembrava che nel prolungamento del coito intuissero la mia insoddisfazione.
Come tutto diventò difficile non lo so. Mi scoprii adulto senza essermi reso conto della strada che avevo percorso e una profonda tristezza mi colse.
Quel nuovo sentimento, che sarebbe diventato il filo conduttore delle mie età successive, m’incuriosì e presi a studiarne le origini senza però concludere a nulla, perché nel frattempo mi ero perso di vista lungo il percorso e la malinconia rimase irrisolta ed archiviata anch’essa tra le incognite. Il mondo e la mia stessa esistenza mi apparvero inutili e a un tratto estremamente complicati, forse perché i miei sensi non erano più adeguati a coglierne la semplicità primaria, quella che i giovani hanno ben presente e che la vana lunghezza della vita contribuisce a disperdere.
La mia vita non fu mai pienamente felice, non di quella felicità che avrei immaginato e che mi aveva plagiato, sotto forma di propaganda, durante l’infanzia. Crescendo avevo intuito le bugie dei genitori e degli altri maestri che mi avevano allevato, ne avevo fatto un bagaglio che trascinavo sempre e rendeva faticose le fantasie ludiche.
E più tardi ne rimasero inquinati anche i sogni d’amore, perché le menzogne sfuggivano dalla valigia e macchiavano i corpi delle mie ragazze.
Ne persi tante, impaurite dai miei dubbi, dai sospetti, dalla certezza patologica che l’amore fosse un pretesto per altri ignobili fini. Non sapevo quali, ma di certo l’amore era troppo bello per poter essere fine a se stesso. Mi aspettavo da un momento all’altro la rivelazione di un obiettivo perverso, di un tradimento spudorato, e per non restarne ferito prevenivo la sorpresa coi miei tradimenti, con le mie menzogne.
Sono stato un amante spietato e infedele con tutte. Un giorno la mia ultima fidanzata mi scoprì abbracciato ad un’altra e invece di gridare mi diede una stoccata decisiva colpendomi dritto al cuore. Mi disse guardati allo specchio, sei già vecchio e una che ti amerà come t’ho amato io non la troverai più.
Era vero, non l’avrei mai più trovata, avevo già cinquant’anni e mi preparai a vivere da solo.
Quella notte sognai il paradiso, era un giardino di alberi fioriti nel quale volavo come una rondine e provai un senso di gioia come se non avessi mai conosciuto il male, era lì che volevo andare, ne ero certo, ma non sapevo come e mi svegliai. Presi i miei vestiti e cercai una prostituta, e da quella notte non amai più. Guardai solo il mio corpo che moriva nello specchio.
Quando la meraviglia della natura smise di sorprendermi, cercai la filosofia per trovare risposte che non esistono e m’imbattei nella disperazione. La conoscenza, che avevo perseguito per decenni e creduto una panacea per pochi eletti, si rivelò il male più insidioso e mi ritrovai tra i reprobi senza speranza di redenzione.
Chi ero, dunque, io? Cosa ci facevo in quel paradiso terrestre che man mano che crescevo si trasformava in inferno? O ero io il demonio che lo travisava? O l’angelo immemore delle direttive?
Nemmeno Dio mi salvò. Quando morì ero già troppo cinico per piangerlo, anziché ordinargli di risorgere voltai le spalle al sepolcro e me ne andai sicuro di farcela anche da solo.

Di lei avevo capito poco, nonostante le indagini discrete che avevo condotto. Sapevo ch’era stata sposata e che aveva una figlia di vent’anni, niente di più, nulla del suo ex marito né dei suoi recenti legami sentimentali. Era una donna riservata e quasi misteriosa che non rivelava nulla di sé che non fosse indispensabile ed io non osavo farle domande, perché temevo che il suo passato mi avrebbe fatto paura, innescando una reazione a catena che me l’avrebbe fatta piacere di meno. Preferivo non conoscerla ed apprezzarla per ciò che appariva durante le ore che passavamo insieme in ufficio, lavorando sulle stesse stupide pratiche.
Rita era la mia assistente e conosceva bene il suo mestiere. Per prima cosa aveva imparato a conoscere me, le manifestazioni del mio carattere, il mio modo di esprimere la serenità o la rabbia, perciò la mattina sapeva scegliere un modo adeguato per salutarmi dopo avermi squadrato per due minuti. Questo suo modo strategico di darmi il buongiorno mi metteva quasi sempre di buon umore e il lavoro, di conseguenza, mi sembrava meno arido e noioso.
Era importante che il lavoro non apparisse cattivo, e che la nostra convivenza per fini professionali non disturbasse nessuno dei due, perciò facevamo del nostro meglio per piacerci reciprocamente, sia nel comportamento che nelle banali scelte dell’abbigliamento, del profumo, del suo trucco. Io, che indossavo sempre uno squallido vestito grigio, avevo imparato a vestire solo jeans e maglietta e lei aveva ripreso l’uso della gonna, dismesso dopo i quarant’anni.
Tra Rita e me non c’era niente di più che una complicità cameratesca, esaltata dalla ristrettezza dell’ambiente di lavoro e dal tempo eccessivo che trascorrevamo insieme, almeno dieci ore al giorno. Tutto il resto delle nostre giornate era un segreto che ognuno celava all’altro, come se fosse qualcosa di cui vergognarsi o per non rischiare di coinvolgerlo in meccanismi di amicizia che potevano avere conclusioni nefaste. Entrambi eravamo certi che le nostre vite passate e le abitudini casalinghe costituissero un pericolo da sorvegliare, ma forse lo facevamo più di quanto fosse necessario. Tuttavia era meglio non rischiare dato che il nostro accordo era quasi perfetto, più che tra due coniugi.
Quel giorno era più attraente del solito ed io ero combattuto tra il desiderio di dirglielo e il timore di offenderla, perciò la guardai più intensamente senza decidere cosa fare. Rita incontrò il mio sguardo e non lo riconobbe, lo sfuggì dapprima e poi lo cercò chiedendomi cosa pensassi. Fu la prima volta che mi trovai in difficoltà con una donna.
In passato avevo approfittato dell’incrocio di sguardi per lanciare messaggi muti che spesso venivano colti al volo, in ciò ero aiutato molto dalla spiccata espressività dei miei occhi e dal modo cortese ma intraprendente del mio carattere. I passaggi successivi prevedevano apprezzamenti garbati del corpo di quella lei che in quel momento mi assecondava, e al garbo, con sequenza incalzante, sostituivo poi una richiesta indecente pur senza usare vocaboli osceni. Questa era la mia tecnica di arrembaggio che funzionava sempre.
Così riuscivo a saltare diverse puntate della sceneggiata del corteggiamento ed arrivare alla conclusione che, se non mi ero sbagliato, auspicava anche lei. Pensavo che le donne soffrissero terribilmente a causa dell’indecisione dell’aspirante partner e che l’unico limite, di una proposta sessuale diretta, fosse l’oscenità del linguaggio.
Avevo sperimentato che “vorrei scoparti sul tavolo” era offensivo se pronunciato prima di un’intesa lussuriosa, mentre “ho sognato di fare l’amore con te” innescava in “lei” una curiosità innocente che la spingeva a chiederti i particolari del sogno.
“Sulla scrivania” rispondevo e poi lodavo, come se li avessi visti davvero, alcuni particolari del suo corpo che “lei”, a ragione, non stimava degni di attenzione. Ciò bastava per esaltarla, anche se sapeva che la mia era solo una tecnica di seduzione, e mostrava di apprezzare le bugie che sopivano le sue angosce estetiche.
Con Rita fu impossibile attuare strategie, eravamo già fraternamente intimi ed ogni riferimento men che onesto al nostro aspetto fisico sarebbe apparso fuori luogo. Qualche volta, oggetto dei nostri dialoghi erano stati i malanni che ci affliggevano e, se pur la consideravo una cosa orribile, quella reciproca conoscenza della precarietà fisica emanava una sorta di sensualità che non avevo mai provato prima. Non so se per lei fosse lo stesso, ma ricordo che un giorno mi aveva confessato che la mia artrosi le faceva tenerezza, e lo disse massaggiandomi le spalle mentre io, probabilmente sotto ipnosi, capivo che aveva le mani d’oro e un tocco talmente delicato da far venire i brividi.
Tutto era sembrato strano fin dall’inizio. Ci conoscevamo da quattro anni e solo quel giorno mi venne voglia di baciarla, il perché non lo seppi mai né lei riuscì a spiegarmelo nei tanti anni che siamo stati insieme.
Ero ossessionato dalla paura di un amore senile, o come diavolo possa chiamarsi una relazione sentimentale a cinquant’anni, e preferivo immaginare l’entusiasmo di parata delle puttane che si contendevano una parte del mio stipendio. Non avrei saputo barattare quei corpi giovani comprati, col regalo della sua dedizione.
Almeno lo pensavo, sbagliandomi come seppi dopo, e cercavo di sfuggire il più possibile l’intesa che si andava rivelando.
La mia casa era gelida come un igloo ed anche le fiamme nel camino sembravano solo dipinte. La donna delle pulizie la rendeva asettica e brillante come il ghiaccio, mentre l’avrei preferita polverosa e unta di odori come una capanna.
Sentivo che la solitudine stava per sopraffarmi, cinquantatré anni non sono uno scherzo per un uomo che ha trascorso il suo tempo cercandosi, analizzando le ragioni delle difficoltà esistenziali che l’hanno afflitto. Finché il corpo era stato agile e impregnato della volontà di vivere, mi ero tuffato in cento attività sportive, in mille interessi che avevano distratto il pensiero ed esaltato il vigore.
La virilità, effimera ma incontenibile, aveva alleviato il dolore delle incognite e mi aveva traghettato indenne sulla spiaggia-deserto della vecchiaia. Mentre ero lì a guardarmi intorno, arrivava lei in sembianze di donna ma era ormai solo una fune a cui aggrapparsi.
Non le ho chiesto mai, per non ferirla, se l’altro capo della corda fossi io, se anche lei cercasse un appiglio per non precipitare, se trovarci insieme alla vigilia dell’ultima età l’abbia fatta stare meglio. Forse mi avrebbe mentito, per non ferirmi a sua volta.
Tuttavia accolsi il pensiero di lei con malavoglia e ne feci un compagno delle sere, una di quelle amicizie che servono solo per non annoiarsi, per accompagnare un bicchiere di vino o ridere insieme senza sembrare matti.
L’immagine di Rita sprofondava nella poltrona e scivolava in cucina furtiva come un gatto, ne avevo fatto una diapositiva animata sovrapposta agli oggetti, e lei assumeva le forme di ognuno rimandandomi fisionomie familiari, più tranquille di una convivenza reale.
Partorirne il pensiero divenne un’abitudine indolore e quasi incosciente che scaturiva alla fine delle mie giornate, me la ritrovavo vicina a condividere i preparativi della cena, a gustare la spossatezza della prima sera e la noia della tivù, ma le impedivo di varcare la soglia del letto, per timore di farla incontrare con le mie infinite amanti di una sera, ammucchiate sotto la coperta.
Negli anni successivi che abbiamo trascorso insieme, la diapositiva è diventata una pellicola di celluloide sembrandomi più un film che una parte reale della mia vita, e ogni mattina svegliandomi sul set, provando timore e rispetto per il regista sconosciuto, decidevo di non deluderlo e recitavo un’altra scena. Speravo solo che l’idea che avevo di lei non venisse smentita dalle sue manifestazioni esteriori, e se Rita fosse stata abile a farmi trovare sempre ciò che cercavo, la nostra sarebbe stata una grande intesa.
Così la nostra storia è andata avanti un giorno dopo l’altro per vent’anni senza conoscerci davvero, e senza provare mai una tale curiosità perniciosa.
Il suo merito più grande, probabilmente lo stesso che lei ha attribuito a me, è stato proprio l’aver dato una valenza reale all’idea che mi ero fatto di lei, anche se entrambi abbiamo sempre saputo ch’era solo finzione.
Quel giorno non volevo immaginare l’esattezza delle cose, né giustificare la loro evidente imperfezione, volevo che tutto fosse reale, per viverlo pienamente e non dimenticarlo mai, volevo farmi travolgere dagli eventi e vivere finalmente in una dimensione umana, non vera e non finta, solo reale.
Era un rischio che avrei dovuto correre tanto tempo prima, fin dalla mia infanzia, aggirando le crisi del fallito e le esaltazioni del superuomo, perciò era già tardi e me ne accorsi dopo, quando accolsi il regalo del suo bacio che si annunciò da lontano.
Rita era più attraente di quanto mai lo fosse stata, o ero io pronto per riceverla, e mi facevo condurre dalla sua energia in un viaggio che sapevo senza ritorno, non mi opponevo alla sua seduzione e anzi la trovavo piacevole, scardinavo la mente dai mille problemi quotidiani che sembravano impellenti e restavo affascinato dalla futilità del suo gioco infantile.
Quel suo potere di prelevare una porzione linda del mio intelletto lo esercitò per sempre, ed io mi chiedevo dove mai riuscisse a trovare tanta innocenza in me; me ne mostrò un po’ ogni giorno per tutti gli anni, scovata chissà dove. Quando glielo chiedevo mi rispondeva “sotto la corteccia, scavo sotto la tua corteccia ma senza buttarla via perché è quella che ti protegge, e mi piace anche lei”. Ne faceva il piatto della cena e lo piluccavamo insieme, felici di essere ancora bambini sotto la pesante corazza.
I nostri corpi sono invecchiati insieme per vent’anni ed ancora ricordo il sorriso ingenuo che mi regalava ogni mattina, lo vedevo aprirsi negli angoli della stanza, svolazzare sul nostro letto in cerca di un supporto riconoscibile e trovare il suo viso scolpito, abbrustolito dagli anni, scavato dalla malattia che la consumava. Era un arbusto di pesco fiorito nella forra.
Mi risvegliavo nell’oasi del suo sorriso, consapevole della fortuna che mi era toccata, e poi affrontavo il deserto col vigore che non mi sarei aspettato più a quell’età. E la forza me la dava il ricordo di lei per tutta la giornata, il calore consolante che avrei trovato al ritorno, il suo calore più benefico del caminetto. Avrei barattato tutto per un altro anno con lei, che invece sfuggiva richiamata da una forza più imperiosa.
Quel giorno ero tutto e solo per lei, Rita cercava un fascicolo nello schedario e si era quasi inginocchiata per scrutare nell’ultimo cassetto, io ero dietro di lei con la scusa di guidare la sua ricerca ed ero preda del profumo ch’emanava, forse ubriaco di un vago senso erotico, che percepivo causato dal suo collo ombreggiato dai corti capelli e dai suoi sospiri dolcemente affannati. Provai un desiderio fortissimo di toccarla, di posare la mano sulla sua spalla, ma sarebbe stato un gesto sconveniente perché non c’erano precedenti analoghi nel nostro passato; ed io tutto avrei voluto tranne che provocare il suo disagio.
In quei brevi attimi fui tormentato dal desiderio e dalla coscienza, ma soprattutto dal senso d’inettitudine per non aver saputo compiere atti preliminari che giustificassero un tentativo d’approccio sentimentale o sessuale che fosse.
Pensandoci ora credo che tutto sia stato così difficile con Rita, o forse tutto molto più semplice di quanto mi era successo in passato; anzi è stato diverso, con lei non ho attuato alcuna strategia di seduzione, nemmeno verbale. Eppure mi disse, dopo, che s’era innamorata di me ancor prima che io la desiderassi, che le infondevo calma e sicurezza con quella che lei chiamava, la forza di una quercia. Oh, se avesse saputo quanto era precaria e virtuale quella forza, forse non mi avrebbe amato!
Ma lei non mi ha mai conosciuto davvero, così come io non l’ho mai conosciuta.
Ognuno ha amato la propria idea trasmigrata nel corpo dell’altro, che sembrava il migliore ma era solo il riflesso della nostra idea perfetta e per fortuna mai smentita.
Rita ed io siamo stati due specchi reciproci, miracolosamente speculari e coscienti, forse anche abili nel rimandare all’altro l’immagine di sé, elaborata così da apparire inedita e piacevolmente conforme alle sue aspettative. Il dubbio, semmai, è che l’armonia del nostro rapporto derivasse più dalla saggezza che dalle affinità, perciò dall’esperienza di vita che si può avere solo a cinquant’anni; forse se l’avessi conosciuta vent’anni prima non l’avrei amata.
Eh, che strano senso di rigetto per quest’aria sapiente ed assennata! Nonostante tutto, l’equilibrio e la prudenza mi ripugnano ancora, anche se li ho sposati da tempo.
Nel tentativo di salvarmi mi sono aggrappato a lei, la paura ha ridimensionato la verità riducendola in realtà, ha sradicato la repulsione coltivando la tolleranza, e la convivenza civile ha prevalso sull’istinto di solitudine.
Ero a pochi centimetri da lei quando pensai di amarla e fantasticai il suo bacio. Rita parve sentirmi e si girò. “Tesoro mio!” furono le sue prime parole d’amore.
Gabriella.75
00lunedì 25 gennaio 2010 16:54
Un bacio.
La lettura di questo racconto non può avvenire in modo veloce e superficiale perché si rischia di giudicarlo triste se non addirittura patetico e può indurre il lettore a vedere, in lui e in lei, una certa rassegnazione nei confronti dell’amore, come se non ci fosse altro modo per sostenere il peso della vecchiaia imminente. Tutto è considerato dal punto di vista dell’io cosciente, per cui anche l’unico interlocutore del protagonista, Rita, appare lungo tutto il racconto come una proiezione dei suoi pensieri. Non a caso le sole parole pronunciate dalla donna sono quelle in chiusa, quasi un monosillabo a sottolineare che l’unica voce esistente è quella dell’autore-attore.
Nella sua lucida autoanalisi, continuamente ossessionato dal binomio eros-thanatos, il protagonista scopre ad una certa età il crollo delle sue illusioni di uomo laico, consapevole che non vuole e non può ricostruirsi un conforto trascendente; e si rifugia, con umiltà e coraggio, nella quotidianità dei suoi gesti e dell’affetto per Rita.

Un bacio.

Gabri

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