Cos'è stato insegnato dalla cultura moderna? Che il medico è solo il "fornitore di un servizio" a una "utenza", e che ogni sua scelta è subordinata alle novità della scienza, cui non può opporsi. La cultura postmoderna ha aggiunto a questo che neppure l'evidenza scientifica è il parametro ultimo per le decisioni etiche quanto piuttosto i capricci imposti dalla "dittatura del desiderio", cui ci si dovrebbe assoggettare. È evidente per tutti che da queste posizioni non nasce un mondo nuovo ma si torna a quello vecchio di migliaia d'anni, nel quale i genitori erano i proprietari dei figli, ed esistevano vite di serie A accanto ad altre collocate un gradino più giù. È evidente che questo non genera soddisfazione nei medici, tanto che il British Medical Journal recentemente titolava: «Perché i medici sono infelici?», spiegando che il motivo sta nel divario tra ciò che desideravano diventare quando erano studenti e ciò che invece il "mercato della salute" chiede loro. È in questo quadro che va letto il discorso tenuto ieri dal Papa al pontificio Consiglio per la pastorale della salute, che colpisce per una modernità degli argomenti tale da renderlo di estrema utilità per noi medici e operatori. Benedetto XVI infatti ha ben chiaro lo scenario, ma va oltre. In primo luogo si fa paladino della ricerca e difende la scienza da chi pensa che ci si debba arrendere di fronte alla malattia: basti pensare ai progressi nella rianimazione dei neonati, o nella cura del dolore. «La scienza medica - dice - progredisce in quanto accetta di rimettere sempre in discussione la diagnosi e il metodo di cura nel presupposto che i precedenti dati acquisiti e i presunti limiti possano esser superati». Ma poi Benedetto penetra al fondo per curare questa crisi della modernità e mette in guardia dalle forme regressive che somministrano ritrovati senza sapere dove portino: è quel che accade con i rischi della fecondazione artificiale, le conseguenze psichiatriche del ricorso a cannabis e affini, o l'«esasperata ricerca a tutti i costi del figlio perfetto». Non solo: il Papa apre anche una porta sulla solitudine di chi cura, sulla sua necessità di consolazione, cioè di compagnia e di certezza, che non si limiti all'ascolto di una coscienza fatta a propria immagine. Lo fa chiamando gli operatori «difensori d'ufficio della vita che non disprezzeranno mai un'esistenza umana per quanto menomata» e che troveranno «un'indissolubile legame tra il loro servizio e la virtù della carità». Quanto è consolante ascoltare tutto questo in un'epoca che propone come ideale la fuga dalla responsabilità e il rifugiarsi nei mansionari. Quanto aiuta, anche, in un momento in cui si confonde l'errore con la malasanità, e si parla sempre più di "zone grigie" della vita umana che diventano in realtà "zone franche" rispetto al diritto alla cura e all'amore. I medici e gli infermieri vogliono curare, ma per questo vogliono sentirsi dire che si ha «stima e fiducia» nei loro confronti e del lavoro che svolgono, un lavoro che non è solo di "riparatori di corpi" ma di coautori della «promozione umana, dalla cura del malato alla cura preventiva, con la ricerca del maggior sviluppo umano». La cura, spiega infatti il Papa, non finisce dove non si può guarire, non fallisce se arriva la morte, non è limitata ai farmaci, ma si spinge sino a favorire «un adeguato ambiente familiare e sociale». Ed è proprio ciò che molti medici sentono di dover fare. Nel mondo che dimentica la ragione, sacrificata all'arbitrio, il Papa non si stanca - da uomo ultramoderno qual è - di ricordare a chi cura come l'amore sia la base di una moderna medicina. Che non si ferma alle macchine, ma punta sull'uomo.
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