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Le frasi di Cabrini su Maradona sono state stritolate. A differenza di altre cose assurde scritte solo per mettere insieme due trend (Laura Pausini, stiamo ancora cercando di capire se ti abbiamo hackerato il profilo Twitter) quelle dell'ex juventino credo possano indurre una riflessione, per quanto stravolte dalla sintesi necessaria dei titoli di giornale e dall'integralismo della reazione napoletana giustificato dal lutto. Ricordo che quando vidi per la prima volta il documentario di Asif Kapadia su Maradona, diverso ma non meno bello del film di Kusturica, fui assalito da una sensazione che, pur essendo napoletano, mai avevo percepito in relazione al fenomeno Maradona in questa città: l'asfissia. In certi momenti mi era mancata l'aria, mi ero sentito come bloccato da un attacco di claustrofobia. Maradona a Napoli non era libero. E non si tratta della comprensibile impossibilità a poter camminare in strada senza che la gente ti fermi per gli autografi, come dice Totti nel suo di documentario, ma dell'essere prigionieri della propria fama. Giornalisti e fotografi appostati fuori casa si infilavano nel suo garage prima che si chiudesse. Quando ordinava droga al telefono doveva salutare il figlio della spacciatrice prima di attaccare per parlare della partita del giorno prima. La venerazione di questa città per Maradona ha raggiunto picchi che hanno reso lecita la rottura della barriera che divide lo spazio privato dal resto del mondo. Se qualcuno avesse potuto, sarebbe entrato in bagno mentre Maradona era sulla tazza ad espletare i suoi bisogni, tanto imperdibile era l'occasione di toccarlo e parlarci. Tutto questo era "giustificato" da amore viscerale nei suoi confronti. A Napoli quest'uomo è stato un messia, Gesù, una divinità nel vero senso della parola. E non credo una cosa del genere abbia termini di paragone nella storia. Mi permetto quasi di pensare che sia stato qualcosa di superiore all'adorazione per Diego in Argentina, se non altro perché a Napoli si è trattato di una contemporanea concentrazione geografica e temporale: pochi anni e una singola città nello specifico, peraltro nemmeno una metropoli immensa.
Ora, al di là delle considerazioni che si potrebbero fare rispetto al comportamento dell'essere umano davanti a qualcuno che pare andare oltre il suo essere in carne ed ossa, dovremmo provare a leggere le parole di Cabrini in questa chiave, cioè nel peso che questo fardello può avere sulle spalle di un uomo che, lo dice proprio nel documentario sopra citato, aveva esplicitamente chiesto al presidente del Napoli Ferlaino di essere ceduto perché non poteva reggere più quel contesto. Non perché non lo amasse, non perché non gli piacesse essere al centro di un'attenzione spasmodica, ma semplicemente per non morire di fama. E Ferlaino lo dice: "Io non volli venderlo, sono stato il carceriere di Maradona a Napoli". Un freno prima del tonfo poteva esserci? Forse sì, ma tocca mettersi anche nei panni di un presidente per il quale cedere uno come Maradona non era proprio una cosa semplice, proprio in virtù del sentire comune. Ecco cosa forse intendeva Cabrini, e le sue parole di scuse mi sembrano andare proprio in questa direzione, con tutta l'inconsistenza che l'immagine ipotetica di Maradona con la maglia della Juventus possa avere. Più che esaltare il presunto ruolo protettivo di una società di calcio diversa nei suoi confronti, si potrebbe dire che in un contesto come quello di Torino, Maradona non sarebbe stato l'opera d'arte che è stato e quindi, probabilmente, non ci sarebbe stato nemmeno il bisogno di tutelarlo da qualcosa o da qualcuno. Men che meno da se stesso