Associazioni di idee

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monos.84
00martedì 19 luglio 2005 09:07

Il verbo, la parola, il suono diventano immagini: vi capita mai di associare uno stimolo uditivo ad una percezione visiva (o viceversa)?

A me succede con Irata. I versi "Oggi è domenica, domani si muore/oggi mi vesto di seta e candore/oggi è domenica, domani si muore/oggi mi vesto di rosso e d'amore" mi rimandano ad un paio di opere di Edvard Munch, cioé Rosso e bianco e La danza della vita.

La prima d'interpretazione molto semplice: la fanciulla in bianco simboleggia il candore della donna, quand'ella è ancora giovane; più matura, invece, la donna in rosso, a rappresentare la passione, ossia la componente sensuale/materiale dell'amore.



Ma è il secondo dipinto quello che mi rimbalza nel cervello quando ascolto/leggo/penso quei versi. Questa danza, speculum vitae di ognuno, corrisponde alle 3 fasi della vita sessuale
femminile nella concezione munchiana: in principio giovinetta casta e pura che si affaccia al desiderio; poi musa avvolgente e tentatrice; infine, esclusa da quella stessa danza che ora
scruta con dolore. (Munch scrisse in uno dei suoi diari che la donna è al tempo stesso "una santa, una puttana e un'amante infelice devota all'uomo". Uomo che, secondo Munch, è sempre la
vittima della danza della vita).
In quest'opera il bianco (seta e candore), il rosso (vestirsi di rosso e d'amore) ed il nero(domani si muore) rappresentano per me l'associazione ideale con i versi di Irata riportati in precedenza.




Chi ha voglia di continuare la catena? [SM=g27817]
selvadega
00martedì 26 luglio 2005 18:37
mmmh monos
io associazioni di parole ne faccio molte
ma sono tutte cazzate giganti

...non è vero pastro?????[SM=g27824]
monos.84
00giovedì 28 luglio 2005 16:55
Un'altra associazione.

"...allora non rimane niente e te ne vai/consuma spento e lento il mio dolore, consuma me"
E ancora un dipinto di Munch, Separazione:


Il momento dell'addio: la donna che s'allontana, immemore ed insensibile; l'uomo sgomento e addolorato. I capelli della donna (che nel simbolismo dell'artista norvegese assurgono a strumento ammaliante e tentatore) irretiscono ancòra l'uomo, nonostante l'amore sia ormai svanito, e sembrano succhiarne la linfa vitale.
Ai piedi della figura maschile, emblematico, compare il "fiore del dolore", il quale sboccia assieme all'amore ed alla passione.
In definitiva, la fanciulla se ne va quando ormai non è rimasto niente, eccezion fatta per il dolore che lentamente consuma l'uomo.
mant(r)a
00lunedì 1 agosto 2005 02:43
saranno stati i wurstel a farmi diventare il pipi così rosso?
mi raccontava mia mamma che quando a neanche un anno fregai le salsicce a mio nonno mi s'arrossò insieme al sederino. ed allora giù pasta di fissan...

il cibo il pensiero il bruciore diventano pensieri: e giù pasta di fissan.
a me succede, è successo, con la germania
due volte
mant(r)a
00lunedì 1 agosto 2005 02:49
perlomeno il wurstel... il pipi lo tralascio (chissà poi perché)
selvadega
00mercoledì 17 agosto 2005 19:27
patate al forno con rosmarino= zaren
detersivo per piatti ecologico= bb
klondike= WalterA
[SM=g27824]
zaren1
00mercoledì 17 agosto 2005 21:34
[SM=g27817] in effetti sono loro le vere protagoniste....
che c'è da mangiare stasera? patate
e questa sera? patate
e questa? patate
Agrumica
00mercoledì 17 agosto 2005 23:18
Re:

Scritto da: zaren1 17/08/2005 21.34
[SM=g27817] in effetti sono loro le vere protagoniste....
che c'è da mangiare stasera? patate
e questa sera? patate
e questa? patate



mi ricorda tanto il viaggio in irlanda, patate ogni sera....unico cibo commestibile
Giusitta
00martedì 23 agosto 2005 09:54
Re: Re:

Scritto da: Agrumica 17/08/2005 23.18


mi ricorda tanto il viaggio in irlanda, patate ogni sera....unico cibo commestibile



[SM=g27824]
anche per me fu cosi...

CorContritumQuasiCinis
00venerdì 15 giugno 2007 14:35
Con la "giusta" quantità di zucchero ...


Scritto da: monos.84 19/07/2005 9.07

Il verbo, la parola, il suono diventano immagini: vi capita mai di associare uno stimolo uditivo ad una percezione visiva (o viceversa)?







Oggi in particolar modo.

(...)
CorContritumQuasiCinis
00sabato 16 giugno 2007 00:28
mah ...
mant(r)a
00sabato 16 giugno 2007 16:04
ma Guccini esiste davvero?
e dire che aveva un agriturismo che vedo dal terrazzo. ora è della (ex)moglie. che è matta.
ma Guccini esiste?
speriamo di no.
CorContritumQuasiCinis
00sabato 16 giugno 2007 17:29
Guccini, fodamentalmente, non è MAI esistito. [SM=g27828]

E se è esistito s'è fatto fuori da solo con qualche sostanza avvelenata.

[SM=g27815] (qualcuno mi spieghi che vordi' st'emoticone)
alepunk2
00domenica 17 giugno 2007 20:50
esiste esiste
lo shuffle di wmp di un mio amico ce lo ficcava talmente tante volte che abbiamo cancellato l'intera discografia. stava diventando insopportabile, abbiamo dovuto abbatterlo.

a me 800 di de andrè mi fa venire in mente un mio amico
alepunk2
00domenica 17 giugno 2007 20:51
maciste contro tutti mi fa venire in mente la bibbia
WalterA
00lunedì 18 giugno 2007 13:25
Re:

Scritto da: alepunk2 17/06/2007 20.51
maciste contro tutti mi fa venire in mente la bibbia



CHISSà COME MAI [SM=g27828] [SM=g27828] [SM=g27828] [SM=g27822] [SM=g27822] [SM=g27822]
alepunk2
00sabato 23 giugno 2007 12:49
tra montagne lucenti d'ombre sotto cieli taglienti tra scoscesi pendii impreca maledice...

mi immagino un paesaggio tipo mar morto, con mosè con le tavole in mano che vaga comportandosi come un pazzo.
CorContritumQuasiCinis
00lunedì 8 ottobre 2007 09:14
Ma NON "vorrei morire ora ..."



IoAnnarella
00mercoledì 24 ottobre 2007 14:59
Lolita
Così comincia:
"Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta.
Era Lo, semplicemente Lo al mattino, ritta nel suo metro e quarantasette con un calzino solo. Era Lola in pantaloni. Era Dolly a scuola. Era Dolores sulla linea tratteggiata dei documenti. Ma tra le mie braccia era sempre Lolita."

E così finisce
:
(...). Penso agli uri e agli angeli, al segreto dei pigmenti duraturi, ai sonetti profetici, al rifugio dell'arte. E questa è la sola immortalità che tu e io possiamo condividere, mia Lolita."

CorContritumQuasiCinis
00martedì 13 novembre 2007 13:52
"Sul palco c’è il falso che si prende per vero ..." e "la luna in sciopero selvaggio"


Sul palco c’è il silenzio ch’è vestito di nero
Sul palco c’è una troia con i suoi occhi astratti
Sul palco c’è il vento che m’invade il pensiero
Sul palco c’è la paura che si muove a scatti
Sul palco c’è la voce che mi viene dalle onde
Ed il palco è il tuo ventre dove muoio ogni sera
Sul palco c’è il tuo stile che si muove e confonde
Sul palco c’è l’amore fatto alla mia maniera.

Sul palco c’è il tuo slip che si accende al mio fuoco
Sul palco c’è il mio stipendio già speso il ventotto.
Sul palco ci son vele che si gonfian per gioco
Sul palco le canzoni hanno il fiato ben corto
Sul palco c’è il pavé che ricopre la spiaggia
Sul palco c’è il falso che si prende per vero
Sul palco c’è la luna in sciopero selvaggio
Sul palco c’è un tipo che si trucca davvero

Sul palco c’è Bene che ti recita il male
Sopra il palco Molière fa il malato e poi muore
Sul palco c’è Karl Marx che spiega il capitale
A Wall Street, alla borsa, a chi ha l’oro nel cuore
Sul palco c’è Sole che d’estate s’impicca
Sul palco l’autunno ci conquista ogni sera
Sul palco c’è l’inverno che ci gela e in ripicca
Sul palco c’è il Chiapas che aspetta la primavera.

Sul palco c’è la speranza che trascina la vita
Sul palco c’è la tristezza che ti urta sui denti
Sul palco c’è un toro che non ha via d’uscita
Alla corrida folle dell’incrocio dei venti
Sul palco c’è il mio cuore che mi batte compagno
La mia donna che dietro le quinte sorride
Sul palco il successo lo si merita pugni
Sul palco c’è Michael Jackson che mi guarda e poi ride.

Sul palco c’è la mia gioia rivestita di note
Sul palco c’è il mio lavoro quello vero, il migliore
Sul palco c’è Milano, senza pula, pulita
Sul palco c’è il mio gatto che strilla il suo calore
Sul palco c’è l’ombra che nasconde quel viso
Sul palco c’è un amico che m’inietta del vetro
Sul palco c’è l’applauso e tutto batte diviso

Giù dal palco la gente ...
e quello è il vero teatro.



Sur la scène di Léo Ferré

IoAnnarella
00martedì 13 novembre 2007 15:38
Cesare Pavese
L'associazione di idee era con Gente che non capisce (troppo lunga da ricopiare ora) ma poi ho trovato questa che mi riporta ad altro:

Tu sei come una terra
che nessuno ha mai detto.
Tu non attendi nulla
se non la parola
che sgorgherà dal fondo
come un frutto tra i rami.
C'è un vento che ti giunge.
Cose secche e rimorte
t'ingombrano e vanno nel vento.
Membra e parole antiche.
Tu tremi nell'estate.
lemiemanisudite2.
00martedì 13 novembre 2007 15:52
Re: Cesare Pavese
IoAnnarella, 13/11/2007 15.38:

L'associazione di idee era con Gente che non capisce (troppo lunga da ricopiare ora) ma poi ho trovato questa che mi riporta ad altro:

Tu sei come una terra
che nessuno ha mai detto.
Tu non attendi nulla
se non la parola
che sgorgherà dal fondo
come un frutto tra i rami.
C'è un vento che ti giunge.
Cose secche e rimorte
t'ingombrano e vanno nel vento.
Membra e parole antiche.
Tu tremi nell'estate.



Se la memoria non m'inganna è la prima poesia da me postata in "La poesia" [SM=g27823]


IoAnnarella
00martedì 13 novembre 2007 16:19
Re: Re: Cesare Pavese
lemiemanisudite2., 13/11/2007 15.52:



Se la memoria non m'inganna è la prima poesia da me postata in "La poesia" [SM=g27823]




Accidenti al mio disordine (anche mentale).
Da ieri ho in mente i teoremi di Morgenstern e Von Neumann, elaborati successivamente da Nash, sulla Teoria dei giochi.

Insomma, il succo è che il mondo non è affatto individualista perché è assolutamente dimostrato che possono raggiungersi equilibri diversi a seconda delle mosse dei giocatori. Se ciascun giocatore gioca esclusivamente per sé stesso e per il proprio benessere non c'è alcun equilibrio. Questo si assesta su posizioni via via più elevate a mano a mano che cresce il numero dei giocatori che tiene di vista gli interessi della quadra.

Il dilemma del prigioniero: a due prigionieri che non possono comunicare tra loro, si propongono le seguenti possibilità:
a) Confessare:
b) Non confessare.

a) La prima alternativa comporta:

1) una pena di di 5 anni solo se entrambi i prigionieri confessano. 2) Altrimenti, per l'unico confesso, la pena è di 10 anni.

b) La seconda alternativa comporta:

3) che se l'altro confessa, la pena di sia l'ergastolo.
4) Se, invece, anche l'altro non confessa, i due prigionieri sono liberi.

Le soluzioni si possono ordinare così dalla migliore alla peggiore:

4), 1), 2), 3)

Dimostrando banalmente che se uno pensa di salvare se stesso E l'altro, ottiene sempre il risultato migliore



CorContritumQuasiCinis
00martedì 13 novembre 2007 16:37
Re: Re: Re: Cesare Pavese
IoAnnarella, 13/11/2007 16.19:



Il dilemma del prigioniero: a due prigionieri che non possono comunicare tra loro, si propongono le seguenti possibilità:
a) Confessare:
b) Non confessare.

a) La prima alternativa comporta:

1) una pena di di 5 anni solo se entrambi i prigionieri confessano. 2) Altrimenti, per l'unico confesso, la pena è di 10 anni.

b) La seconda alternativa comporta:

3) che se l'altro confessa, la pena di sia l'ergastolo.
4) Se, invece, anche l'altro non confessa, i due prigionieri sono liberi.

Le soluzioni si possono ordinare così dalla migliore alla peggiore:

4), 1), 2), 3)

Dimostrando banalmente che se uno pensa di salvare se stesso E l'altro, ottiene sempre il risultato migliore






Cazzo, NO!
Uno dei miei incubi quando feci l'esame di Economia Politica con l'esimio prof. Massimo Pivetti.

Studiando il pensiero dell'economista John Maynard Keynes si doveva dare una risposta al perché della famosa corsa agli armamenti da parte di Usa e Urss negli anni '50 ... e venne fuori Il Dilemma del Prigioniero.
Usa e Urss sono intesi come i prigionieri e la confessione è l'atomica ...

Cazzo, un delirio quell'esame.

Associazione di idee ...


IoAnnarella
00martedì 13 novembre 2007 19:45
Re: Re: Re: Re: Cesare Pavese
CorContritumQuasiCinis, 13/11/2007 16.37:



Cazzo, NO!
Uno dei miei incubi quando feci l'esame di Economia Politica con l'esimio prof. Massimo Pivetti.

Studiando il pensiero dell'economista John Maynard Keynes si doveva dare una risposta al perché della famosa corsa agli armamenti da parte di Usa e Urss negli anni '50 ... e venne fuori Il Dilemma del Prigioniero.
Usa e Urss sono intesi come i prigionieri e la confessione è l'atomica ...

Cazzo, un delirio quell'esame.

Associazione di idee ...




Un argomento affascinante.
Si, uno degli esempi classici ma se ne possono fare migliaia.

E' un esempio di gioco cooperativo del tipo "non confessare entrambi".

Ma in mezzo vi sono infinite applicazioni socioeconomiche che si contrappongono alle teorie individualistiche applicate nei paesi in via di sviluppo, soprattutto dell'America latina, esportate dall'imperialismo statunitense.

Altra simpatica teoria è quella del second best...ma te la spiego un'altra volta...
IoAnnarella
00mercoledì 21 novembre 2007 13:14
Silent....once in a lifetime

Il testo è semplice ma annichilisce.




Per associazione di idee

CorContritumQuasiCinis
00venerdì 11 gennaio 2008 11:25
"Ho poche idee. Poche, ma fisse..."




Poesie vestite di musica
di Marco Pandin



Ribelle ad ogni ipocrisia, De André ha cercato di mettere in luce il lato oscuro delle cose. Contro i miti e i danni del moralismo.



"...Il primo grande disagio l’uomo lo prova al momento della nascita, quando passa dall’acqua all’aria. Il secondo, quando si rende conto che il suo destino è morire. Alcuni, poi, ne vivono un terzo: il disagio dell’isolamento...".
(Fabrizio De Andrè alla conferenza stampa per la presentazione di "Anime salve", Milano 1997)

Fabrizio era nato a Genova, figlio della borghesia agiata cittadina, ed avrebbe compiuto cinquantanove anni il prossimo 18 febbraio. Allo scoppiare della guerra la sua famiglia si rifugiò nella campagna astigiana, mentre il padre, ricercato dai fascisti, si diede alla macchia.

"...La campagna di Asti aveva mille voci, il vento, gli uccelli, un poema continuo di interiezioni e fruscii. E nessuna di quelle voci era in grado di dire dove fosse lui, che i fascisti braccavano e del quale loro avrebbero avuto voglia e bisogno...".
(Fabrizio De Andrè da "Amico fragile", ed. Sperling & Kupfer, 1991)

Già avanti con gli studi, li interrompe (pecora nera) a pochi esami dalla laurea per seguire quella che fu la passione della sua vita: la musica. Studia il violino e la chitarra, traduce i chansonniers e propone i primi brani di sua composizione.
Il giovane Fabrizio raccontava di cose non comuni in una maniera non comune, nell’Italia yè-yè del boom economico degli anni Sessanta: sapeva rendere in modo del tutto personale la nuova canzone francese (Jacques Brel, Georges Brassens, Leo Ferrè), e con una forte coscienza sociale e politica, accostabile a quella che sarebbe venuta di lì a poco a maturare nei nuovi menestrelli d’oltreoceano e d’importazione.
A diciott’anni il primo disco, e nel 1966 il suo primo album, una raccolta delle canzoni pubblicate sino ad allora.

"...Per anni i suoi dischi sono stati una "finezza da liceali", roba da circuito clandestino. Qualcosa di strano ed affascinante, dove convivevano riferimenti dotti, musica antica, protesta, demistificazione e parole come "puttana"...".
(M. Luzzatto Fegiz, dalle note di copertina de "Il viaggio")

La sua non è mai stata una protesta tiepida. Ribelle ad ogni ipocrisia, nelle sue canzoni Fabrizio De Andrè sin dagli esordi ha sempre cercato di mettere in luce il lato oscuro delle cose, l’altra faccia, il "non detto" ed il "non visto" su cui si soffermava a riflettere.
Ha cantato la suggestione del torbido, dipinto la dignità della vita piccola del reietto, i sentimenti degli ultimi: così dicono i preti, interessati a scoprire l’angelo nel lucifero che sapeva cantare di un dio a misura d’uomo così distante dagli altari e dagli ori… e da loro.
Fuori dai condizionamenti, ha trovato le parole più affilate e assieme disperate per descrivere i miti ed i danni del moralismo borghese, della società che emargina per fame di conformismo, silenzio e sicurezza.
Forte delle parole che nessuno può far finta di non capire, ha saputo rivolgersi, senza mediazioni né compromessi, a un pubblico vasto ed eterogeneo, nonostante l’inevitabile boicottaggio dei potenti.

"Ho poche idee. Poche, ma fisse..."
(Fabrizio De Andrè al pubblico del teatro Brancaccio, Roma 1998)

Le prime canzoni di Fabrizio vennero in grande parte bocciate dai burocrati radiotelevisivi nazionali ed escluse dalla programmazione (gli furono concessi spazi maggiori alla radio vaticana...): esse erano capaci di diffondere temi impegnati senza assomigliare a dei comizi, ed ai censori non risultavano gradite le parole "forti" ed il tono poco formale con cui esse affrontavano temi delicati e scottanti come la morte, la prostituzione, la guerra ed il potere.
Alcune canzoni, come "La guerra di Piero" - un solare inno pacifista ed antimilitarista - potevano essere trasmesse soltanto dopo lettura di un’adeguata introduzione critica stilata dalla direzione generale della Rai.

"Mi arrestarono un giorno per le donne ed il vino: non avevano leggi per punire un blasfemo. Non mi uccise la sorte, ma due guardie bigotte: mi cercarono l’anima a forza di botte... E se furon due guardie a fermarmi la vita, e proprio qui sulla terra la mela proibita. E non dio, ma qualcuno che per noi l’ha inventato, ci costringe a sognare in un giardino incantato...".
(da "Un blasfemo", 1971)

I personaggi descritti nei suoi testi hanno uno spessore umano ed autentico assolutamente rivoluzionario (pensate al bestiario della canzone tricolore, irto di mamme di figli soldati immolati alla patria, di mazurche e ballabili, di rime cuore/amore…), che li metteva - allora come oggi - in grado di scardinare la mentalità borghese legata al concetto di "consumo" della musica: da Piero, soldato che non vuole sparare, al transessuale Princesa, da Geordie ladro per fame al "morto apparente" incapace di rassegnarsi alla sorte protagonista dell’ultimo testo scritto, rimasto privo di melodia.



Essere "uomini e basta"

"...Le ho scritte così, come mi hanno aggredito. Per incontenibile affiorare di memoria. Di solito l’attualità che mi aveva colpito era passata attraverso un processo di metabolizzazione: magari bastavano due giorni, altre volte qualche mese. Una memoria che mi arrivava già distorta, quindi, proprio come la volevo. Altrimenti, mi sarebbe servita per qualche articolo di cronaca. Talvolta il ricordo mi arrivava da molto lontano: dai balli a palchetto nelle campagne astigiane degli anni Cinquanta, dove un paio di labbra impiastricciate di viola, la cucitura di una calza di seta che scompariva nella "terra promessa", il balcone dipinto di verde della casa di mia nonna diventavano i particolari di una memoria diversa e più recente: dalle labbra di "Bocca di Rosa" alla disperata attrazione per la stanza semibuia di "Via del Campo"
(dalla postfazione a "La lingua cantata", a cura di L. Serianni e G. Borgna, ed. Garamond)

La discografia di Fabrizio non è vasta: una quindicina di dischi in quarant’anni d’attività. Un numero breve, ma ricco di capolavori che attraversano la nostra storia contemporanea (e che di essa rispecchiano gli scazzi ed i trionfi, i massacri e le celebrazioni), una ricerca continua che nel suo svolgersi - lento ma deciso - ha assunto sempre più i contorni di una irriducibile difesa dei valori più profondi dell’essere "uomini e basta".
Fabrizio non predicava: indicava la luna. E raccontava del suo profondo credere in un’umanità ricca di valori ma senza leggi né pastoie, ricca di spiritualità ma senza clero né processioni.

"Non posso pensarti figlio di dio, ma figlio dell’uomo, fratello anche mio. Qualcuno tentò di imitarlo: se non ci riuscì fu scusato, anche lui perdonato. Perché non si imita un dio: un dio va temuto e lodato...".
(da "Laudate hominem", 1970)

Ognuna delle opere discografiche di Fabrizio De Andrè rappresenta un punto di passaggio, un valico di montagna in cui il nostro passato recente s’è fermato un momento a riposare, a pensare, a riflettere. Le vecchie canzoni, prima dell’esplosione di successo che gli recò la "Canzone di Marinella" nell’interpretazione di Mina, sono ciascuna un ritratto oppure un paesaggio dipinto con pochi tratti essenziali ma spietati: la "Ballata dell’eroe" anonimo racconta il disastro e la vacuità della morte in guerra (ritornerà su queste strade per raccontare di "Andrea", ucciso sui monti di Trento dalla mitraglia, e di Stan con il cuore coperto di mosche in "Ti ricordi, Joe?"), l’odore forte della vita nei quartieri poveri vicini al mare e lontani dal sole de "La città vecchia" e di "Via del Campo", il suicidio disperato di un condannato a vent’anni di carcere in "La ballata del Michè".
Quelle che sono venute dopo sono tutte poesie vestite di musica: un vestito popolare e vitale, ricco di suoni dimenticati dalle tendenze del mercato.
Vestiti fatti di stracci zingari, cuciti mirabilmente insieme in una fantasia di aromi pungenti: la canfora e la naftalina dei vecchi cappotti conservati nell’armadio, l’aglio e le erbe che accompagnano il pesce mediterraneo, l’odore di bruciato che lasciano nell’aria gli spari del fucile.

"Voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio, coi pianoforti a tracolla, vestiti da Pinocchio, voi che avete cantato per i longobardi e per i centralisti, per l’Amazzonia e per la pecunia nei palastilisti e dai padri maristi, voi avevate voci potenti e lingue allenate a battere il tamburo. Voi avevate voci potenti: adatte per il vaffanculo...".
("La domenica delle salme", 1990)

Fabrizio non ha mai tirato sassi né bombe nascondendo il suo braccio, ma ha saputo offrire costantemente, e con generosità, nella sua intera opera una visione anarchica e semplice dell’esistenza.
Il suo era un sogno in cui ha messo violentemente in discussione gerarchie e potere avvelenandoli del loro stesso veleno: ben consapevole, proprio come Pablo Neruda (quando dall’alto dei suoi scritti si scagliava contro Nixon ed i servizi segreti americani, assassini di Allende e del sogno di Unidad Popular) del suo ruolo di poeta da prima linea, nelle sue canzoni ha fatto nomi e cognomi.
Negli spettacoli dal vivo, la sua "Via della povertà" si sapeva trasformare da bella traduzione di Dylan in un quadro di Bosch pullulante dei sinistri protagonisti della vita politica nazionale. Lo stesso, i nomi sono urlati e ben distinguibili nel "Ballo mascherato" e nella "Domenica delle salme".

Allo stesso tempo, De Andrè ha saputo esprimere una sensibilità poetica del tutto inedita presso altri autori contemporanei nell’affrontare tematiche a largo respiro spirituale: le riletture dei vangeli apocrifi de "La buona novella" (Dario Fo e Franca Rame sono arrivati a risultati altrettanto mirabili, ma per una diversa strada) sono emozionanti quanto le riflessioni Zen sulla transitorietà della vita terrena di "Caro amore", della "Canzone dell’amore perduto", di "Amore che vieni, amore che vai", dei "Passaggi e passaggi di tempo" di "Anime salve"…
E come trattenere l’indignazione per l’infinita disperazione che straccia la tonaca di "Padre O’Brien" ("...Ho chiesto e non mi hanno dato un quinto del tesoro sprecato in una lunga guerra: un quinto mi bastava per togliere il dolore dai lebbrosari della terra...")?
Come non provare rispetto e compassione per il misticismo di "Giovanna d’Arco", per il "Testamento di Tito" (secondo certi benpensanti, d’oggi come d’allora, più che una canzone d’amore questa è una lunga e spaventosa bestemmia... Destino comune, del resto, a quello di altri anarchici impegnati in musica).



Ancora viaggio, lontano

Quando la morte mi chiamerà nessuno al mondo si accorgerà che un uomo è morto senza parlare, senza sapere la verità che un uomo è morto senza pregare fuggendo il peso della pietà.

Cari fratelli dell’altra sponda cantammo in coro già sulla terra amammo tutti l’identica donna, partimmo in mille per la stessa guerra. Questo ricordo non vi consoli: quando si muore si muore soli…

(da "Il testamento", 1969)


Fabrizio se n’è andato, eppure c’è ancora. Il suo insegnamento lo possiamo vedere nell’ispirazione che fa muovere i passi di tanti artisti più giovani. Non ha lasciato testamento, ma una grande eredità. Possiamo ritrovare spesso il suo soffio vitale nel lavoro di Gang, Revolution, Stefano Giaccone, Fratelli di Soledad, trovando il coraggio e la sfrontatezza di fare un pugno di nomi.
E, ne sono certo, la sua mano ha guidato quella di Lalli mentre affrontava la prova del "Famoso impermeabile azzurro" di Leonard Cohen.
Voglio ricordarlo ed immaginarlo ancora così: il suo sorriso sornione e lo sguardo strano, chitarra in mano a succhiare il fumo dalla marlboro tra una strofa e l’altra, i suoi occhi così grandi pieni del mare di Sardegna, di Liguria, di Rimini.
La sua testa viaggiava lontano, nelle orecchie l’eco di cento lingue.
E ancora viaggia Fabrizio, lontano: soprattutto lontano dai comunicati stampa chilometrici di chi ruba in suo nome un altro minuto alla televisione e alla radio, sottraendolo a una sua canzone. Lontano dalla sfilata di berluschifi e melandrone, dai bertinotti e dalle cossutte improvvisamente ed ufficialmente attristate davanti ai microfoni e alle telecamere, processione lugubre in segreta celebrazione del tumore che ha fatto tacere la voce di un poeta anarchico che non ha mai avuto paura di chiamarli col loro vero nome. E di mandarli affanculo, loro, i potenti e i padroni: senza possibilità di scampo.

(Marco Pandin)

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Almirante sembra così facile: ogni volta che sorride ti cattura…
Ricorda proprio Bette Davis con le mani appoggiate alla cintura. Arriva Fra’ John trafelato e gli grida: "Il mio amore sei tu…" ma qualcuno gli dice di andar via e di non riprovarci più.
E l’unico suono che rimane quando l’ambulanza se ne va è Almirante che spazza via il sangue in Via della Povertà.
Covelli travestito da ubriacone ha nascosto i suoi appunti in un baule è passato di qui un’ora fa diretto verso l’ultima Thule…
…ed a vederlo tu non lo diresti mai ma era famoso qualche tempo fa per suonare il violino elettronico alla corte di Sua Maestà.
Ci si prepara per il 15 di giugno e c’è qualcuno che continua ad aver sete.
Paolo VI ha gettato via la tiara si è camuffato in abiti da prete, sta ingozzando a viva forza Berlinguer per punirlo della sua frugalità lo ucciderà parlandogli d’amore dopo averlo avvelenato di pietà e mentre Paolo grida, quattro suore si son spogliate già: Berlinguer sta per essere violentato in Via della Povertà.
E bravo Leone mattacchione: il paese sta affondando nella merda…
Nelle scialuppe i posti letto sono tutti occupati e gli anarchici tutti annegati, e Agnelli e Indro Montanelli fanno a pugni nella torre di comando.
I suonatori di calipso ridono di loro mentre il cielo si sta allontanando e affacciati alle loro finestre nel mare tutti han pescato voti qua e là e nessuno deve più preoccuparsi di Via della Povertà.
A mezzanotte in punto i poliziotti fanno il loro solito lavoro metton le manette intorno ai polsi a quelli che ne sanno più di loro, i prigionieri vengon trascinati su un calvario improvvisato lì vicino e il caporale Adolfo li ha avvisati che passeranno dal solito camino e il vento da solo ride e nessuno riuscirà a ingannare il suo fottuto destino in Via della Povertà...
(da una versione di "Via della Povertà" eseguita dal vivo in concerto)



IoAnnarella
00venerdì 11 gennaio 2008 13:05
ascoltata stamattina su radiorock
CorContritumQuasiCinis
00venerdì 11 gennaio 2008 18:36
Satiro & Dioniso



Un barbuto satiro con coda di cavallo tiene in equilibrio sul suo pene in erezione una coppa di vino.
Psykter (vaso destinato al vino) rosso-attico, ca. 500-490 a.C.



Dioniso raffigurato su un vaso greco, da notare in particolare l'edera che porta intorno al capo (uno dei simboli del dio, la brocca (kàntharos) colma di vino e simbolo dell'ebbrezza, la lunga barba spesso prerogativa del dio.
IoAnnarella
00lunedì 14 gennaio 2008 20:13
Federico Garcia Lorca

Amor delle mie viscere, viva morte,
invano aspetto tue parole scritte
e penso, con il fiore che appassisce,
che se vivo senza di me voglio perderti.

Il vento è immortale. La pietra inerte
non conosce l'ombra né la vita.
Cuore interiore non ha bisogno
del miele gelato che la luna versa.

Ma ti ho sopportato. Tagliai le mie vene,
tigre e colomba sulla mia cintura
in un duello di morsi e di gigli.

Calma, dunque, con parole la mia follia
o lasciami vivere nella mia serena
notte dell'anima ormai per sempre oscura.



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