Significato degli psicofarmaci nel rapporto terapeutico.

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sonardj
00lunedì 28 aprile 2008 21:32
Significato degli psicofarmaci
nel rapporto terapeutico.

Francesco Bonsante * Oliviero Rossi **

Pubblicato in " Informazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria", n° 6, settembre-ottobre 1990 pag. 16-21



Gli psicofarmaci rappresentano la risposta più efficace ad un disagio, o ad un comportamento sintomatico, che nel rapporto medico-paziente non si vuole interpretare o comprendere nel suo più vero significato.
In questo senso il farmaco funge da sostituto o surrogato del rapporto diretto medico-paziente: può servire come mezzo di distanziamento per sfuggire un rapporto troppo diretto (per l'uno o per l'altro) oppure per evitare la presa di coscienza (e la mentalizzazione) della valenza psichica del malessere, spostando quest'ultimo sul terreno culturalmente più accettabile e rassicurante della malattia organica, dove il paziente ha un ruolo meno attivo e responsabilizzato.
Lo psicofarmaco diventa spesso il nutrimento consolatorio che il medico, come figura genitoriale buona, concede al paziente.
In molti casi è questa l'unica motivazione del rapporto, che s'interrompe appena essa non viene più soddisfatta: è facile in questo tipo di relazione per il paziente sostituire un medico dopo l'altro. Il rapporto mediato dal farmaco, una volta consolidato, diventa l'esempio di un rapporto in cui all'espressione diretta viene sostituita una tortuosa manipolazione. Il farmaco diviene una presenza continua del medico nella vita quotidiana del paziente, è l'argomento che permette e giustifica il gioco di rassicurazione e di contatto umano che il paziente desidera e non chiede apertamente, riproponendo così il copione di vita e di comunicazione abituale.
Il medico non è sempre l'unico referente nel rapporto farmaco-mediato. Spesso nella famiglia del paziente il farmaco acquista valenze relazionali negli equilibri familiari.
E' importante sapere da chi è gestita la terapia farmacologica, se dal medico, o autogestita dal paziente (ufficialmente o praticamente) oppure se è qualcuno dei familiari che stabilisce i farmaci o i dosaggi da somministrare. Le modalità di assunzione o di somministrazione possono dare informazioni utili sulle dinamiche che si creano attorno al sintomo nell'ambito familiare.
A nostro parere non è comunque accettabile che il paziente o i familiari gestiscano in proprio l'assunzione di farmaci, come invece sembra tendere un modello culturale diffuso, che incoraggia la farmacofilia (e la tossicofilia) senza considerazione per il significato del malessere e dei disturbi che ne sono espressione. Tanto meno conviene che accetti una tale situazione uno psicoterapeuta poco esperto su farmaci e su effetti collaterali derivati dal loro abuso e soprattutto dal loro uso improprio (p. es. possibile effetto depressogeno di ansiolitici; effetto ansiogeno di antidepressivi), spesso scambiati e confusi con stati psicogeni o sintomi somatici. Inoltre il paziente in psicoterapia dovrebbe essere informato realisticamente delle possibilità di assuefazione, quando ci sono, presenti per diversi farmaci, anche se usati correttamente, cosa che non sempre accade.
Autogestire la prescrizione dello psicofarmaco evidenzia di solito il desiderio di un sollievo temporaneo, antitetico ad una reale soluzione di un conflitto e delle cause di un disagio, e spesso quindi anche dell'ascolto dei propri bisogni.
Questi aspetti sono accentuati ulteriormente nel caso in cui il paziente inizia l'assunzione di psicofarmaci mentre è già in terapia.
Questa soluzione palliativa può essere favorita dall'atteggiamento del medico di base, a volte purtroppo superficiale, nel rinnovare senza ulteriori approfondimenti la ricetta prescritta tempo prima da uno specialista. Anche qui siamo di nuovo nel problema di un costume sociale che sembra invitare al consumismo farmaceutico.
Quando lo psicologo accetta in terapia un paziente che utilizza psicofarmaci, è conveniente perciò che chieda che la responsabilità della prescrizione farmacologica venga presa da uno specialista, con il qual poter avere uno scambio informativo diretto, riportando il farmaco nell'ambito di una somministrazione controllata e controllabile. E' importante lo scambio di informazioni, dato che in fasi diverse della terapia possono essere decise soluzioni completamente diverse. Per fare un solo esempio: lo psicoterapeuta può decidere di utilizzare l'effetto di una terapia con antidepressivi per iniziare, o riprendere, un discorso psicoterapeutico, aiutando il paziente ad uscire dalla propria abulia e inaccessibilità, ma una crisi depressiva nel pieno corso di una terapia è possibile che sia affrontata in maniera del tutto opposta. A nostro parere è corretto che lo psicoterapeuta, quando lo ritenga, chieda di sospendere una terapia ansiolitica e/o antidepressiva, ponendo così le basi per la definizione di un setting terapeutico nel quale afferma - o esclude - la propria competenza riguardo ai farmaci e riporti pienamente la responsabilità degli aspetti psichici, mentali ed emozionali, nell'ambito del rapporto psicoterapeutico. Nel caso dei tranquillanti maggiori (antipsicotici) il discorso è più difficile e complicato e sarà ripreso più avanti. Negli altri casi invece lo psicoterapeuta può anche porre come discriminante per il proseguimento della terapia l'eliminazione dei farmaci. Nella nostra esperienza comunque abbiamo constatato che risulta favorevole costruire - quando è possibile - un'alleanza con il paziente e con i suoi familiari finalizzata a questo scopo. Al contrario se il paziente sospende il farmaco in una situazione di sfida con i familiari sul sintomo o la malattia o sulla capacità di decidere, impegnarsi ecc., è poco probabile che esca dalla trappola di ruoli, immagini e funzioni interpersonali predeterminati.
Nel caso che il paziente sia in cura o sotto osservazione di più figure terapeutiche (includendovi assistenti sociali ed infermieri) è importante che la comunicazione e le richieste espresse da un operatore all'altro siano dirette, senza triangolazioni sul paziente: in questo modo la comunicazione risulterà più efficace e nello stesso tempo, soprattutto, sarà un modello di comunicazione sana. Del modello di comunicazione diretta è parte integrante la responsabilizzazione di chi esprime una richiesta: ad es. se lo psicoterapeuta ha l'esigenza di eliminare l'assunzione di farmaci è giusto che sia lui ad esprimerla al medico che si occupa del trattamento farmacologico; viceversa se l'esigenza nasce dal paziente è utile che lo psicoterapeuta non si sostituisca al paziente nel compito di definirsi di fronte al medico.

Come e quando sospendere i farmaci

Nella nostra visione della psicoterapia il requisito fondamentale - che autorizza l'inizio di un discorso terapeutico - è la richiesta o la disponibilità del paziente verso un aiuto. Senza questo primo requisito ogni discorso terapeutico è mistificante.
Specialmente nelle richieste di terapia in cui il paziente non è direttamente il committente, ma dove chi chiede un intervento sono per esempio i genitori (come accade spesso nei casi in cui il paziente vive nella famiglia di origine) questo aspetto va tenuto ben presente e non sottovalutato. Normalmente questa è la prima e più frequente difficoltà nell'approccio ai pazienti psicotici. Raramente, infatti, il paziente psicotico chiede aiuto per sé, più spesso si presenta invece sotto l'aspetto di una vittima, più o meno volontaria, sottoposta ad un ineluttabile sacrificio e/o impegnata in un'incongrua e sconclusionata ribellione in famiglia. In realtà i pazienti psicotici sono invischiati in maniera più complessa e contraddittoria con i propri familiari fra i quali manca in generale la capacità di reale individuazione. E la seconda - ancora più rilevante - difficoltà della terapia degli psicotici è proprio il rapporto con la sua famiglia, che è appunto un rapporto psicotico. La famiglia di questo tipo difficilmente è disponibile alla collaborazione, ma ancora più difficilmente la rifiuta in modo chiaro, cercando piuttosto di gestire in modo manipolativo il rapporto con il terapeuta e di evitare di definirsi apertamente.
La presenza massiccia dell'ambivalenza rappresenta la sfida costante in cui si confronta lo psicoterapeuta che vuole trattare i disturbi psicotici.
E' possibile affermare che difficilmente una terapia con pazienti psicotici potrà evitare il naufragio senza un coinvolgimento della famiglia, con tutta la sua ambivalenza. Ed anche in questo caso come terapeuti saremo pronti a cogliere, utilizzare e rinforzare i segnali di disponibilità dei familiari, consci del fatto che il terapeuta - come il medico - è responsabile del suo operato in quanto può solo creare le condizioni più favorevoli per la guarigione, ma alla guarigione stessa provvede il paziente<170>. (Beck, 1981).
In questo caso l'intera famiglia va considerata come paziente.
Nel caso del problema dei farmaci, ad esempio, proporre un'alleanza con i genitori di un paziente psicotico sulla sospensione dei neurolettici, e quindi sulla gestione della sintomatologia non più sopita, implica la disponibilità dei genitori ad allearsi tra loro, il che implica la disponibilità a divenire una coppia vera, con un confronto sui dati reali, e non una coppia fittizia e confluente. E questo rappresenterebbe un passo decisivo verso la salute di tutto il sistema.
La collaborazione terapeutica con la famiglia psicotica è tanto fondamentale quanto difficile, perché costringe i familiari ad una definizione di sé, ad un confronto, ad una scelta.
Anche se in termini diversi il discorso è analogo nel sottolineare l'importanza del rapporto paziente/terapeuta come momento di relazione - prima di tutti gli altri contenuti - proporzionalmente alla gravità dei disturbi. Possiamo fare - seguendo Kernberg - una distinzione diagnostica basandoci sulla funzionalità del sé, inteso però piuttosto come la funzione psichica con cui l'individuo si rapporta con quello che percepisce come ambiente esterno. Possiamo immaginare la persona come individuata rispetto alla realtà esterna per mezzo della sua area di confine sia fisica sia psichica. Il confine è, in effetti, sia il luogo della delimitazione e quindi della separazione, sia il luogo del contatto e quindi della possibilità di rapporto. Il sé nevrotico, nonostante tutte le difficoltà di rapporto con la realtà, è comunque in grado di riconoscerla, nei suoi dati oggettivi, distinti da quelli soggettivi, e quindi ha un senso adeguato dei propri confini, per quanto rigidi o forse sclerotizzati su un modello di adattamento ormai passato.
Potremmo dire che il nevrotico acquista un adeguato senso dei propri confini, accettandosi come cosciente del proprio malessere.
A differenza del sé nevrotico, il sé psicotico e borderline non ha a disposizione delle strutture difensive efficienti capaci di mantenere chiara la distinzione tra i dati di realtà e quelli della fantasia, e questo si riflette in una non-definizione di sé. In questo caso o il rapporto paziente/terapeuta è forte oppure l'impatto con le cariche ansiose/depressive induce alla fuga del paziente dalla terapia. Questo come reazione ad una realtà resa minacciosa dalla paura di non riuscire a contenere le emozioni con cui viene o teme di venire a contatto. E' utile riconoscere dietro le strategie difensive di tipo psicotico questa fondamentale paura (angoscia psicotica).Va distinta dall'ansia nevrotica in quanto quest'ultima coinvolge parzialmente il sé abbastanza strutturato da tollerarne l'impatto senza sentirsene invaso e devastato. E' per questo che risulta utile e possibile nella terapia lavorare direttamente su quest'ansia mentre si manifesta, in quanto il paziente ha la capacità di sopportarla e di attraversarla, scoprendo così ciò che essa nasconde.
Possiamo dire allora che l'atteggiamento del terapeuta nei confronti degli psicofarmaci terrà conto:
- del tipo di disturbo trattato e del tipo di farmaco (ansiolitico, antidepressivo, neurolettico);
- della funzione del sé intesa essenzialmente come capacità di definirsi e quindi di contatto con se stesso: questa valutazione è la base per la costruzione di un rapporto terapeutico;
- del tipo di contesto (terapeutico, istituzionale, familiare, ecc.) in cui lo psicoterapeuta si trova a muoversi, su cui può contare come sostegno, o che al contrario condizionano negativamente il suo operato.
E' necessario precisare che secondo noi il rapporto terapeutico è essenzialmente un rapporto umano, e spesso è il terreno saldo su cui il paziente può rischiare di sperimentarlo, e quindi solo conservando queste caratteristiche è possibile svolgere la terapia. Possiamo dire che il processo di maturazione, attraverso cui si arriva alla pienezza della propria umanità, passa attraverso la presenza, la responsabilità e la consapevolezza. Per presenza intendiamo il riconoscere di esistere nella propria situazione attuale.
Con responsabilità intendiamo l'accettazione dei propri modi di essere, con se stessi e con gli altri, come scelte esistenziali delle strategie di conduzione della vita che, pur tenendo conto del dato di realtà, riconoscono la possibilità di scelta che questo dato realisticamente consente.
La consapevolezza integra in un'organizzazione più ampia la presenza e la responsabilità; accettando il contatto con la propria esistenza senza fuggire l'esperienza che essa porta, si acquista la libertà di orientarsi dentro di sé e nel mondo.
Il terapeuta che esige dal paziente la sospensione di psicofarmaci deve sapere e deve far presente al paziente la possibilità di un aggravamento del disagio o della sintomatologia. Occorre che questo discorso venga fatto apertamente con il paziente ed implica un rapporto ed una comunicazione in cui terapeuta e paziente siano presenti e responsabili, cioè disponibili al contatto. Il paziente altrimenti può vivere negativamente questa presa di posizione del terapeuta, come anche la sensazione di essere, diventare ed apparire più vulnerabile, più scoperto, senza un sostegno cui appoggiarsi. Con pazienti che assumono ansiolitici o antidepressivi generalmente è possibile creare un'alleanza terapeutica su questo punto, molto più difficile con pazienti trattati con neurolettici. Non solo perché la gravità dei sintomi significa indirettamente poco spazio per un sé presente e responsabile, ma anche perché la soppressione dei sintomi psicotici con i tranquillanti maggiori, come uno scudo atimico, a lungo andare porta eventualmente allo sviluppo di un falso sé non responsabile, non presente, non consapevole (un personaggio che è quasi una caricatura del bravo cittadino disciplinato) ma con cui non è praticamente possibile un contatto reale. Viceversa la parte psicotica più nascosta e negata spesso è dura, intransigente, poco disposta a compromessi, a costo dell'autodistruttività, tanto quanto è fragile, sensitiva, impaurita, bisognosa di proteggersi dalla luce e dalle insidie di un rapporto di confidenza. Infine nel pensare di sospendere i neurolettici va tenuto ovviamente presente il quadro sintomatologico, considerando però il fatto che una prolungata somministrazione di farmaci può averlo camuffato profondamente.
Vogliamo evidenziare alcune situazioni particolari:
- ci sembra consigliabile non sospendere i neurolettici quando il paziente presenti una depressione successiva all'assunzione dei neurolettici stessi. Nei casi di disturbi psicotici la depressione è quasi sempre inquadrabile - per nostra esperienza - come conseguenza dell'eliminazione dei sintomi psicotici (schizofrenici, maniacali, ossessivi) attraverso e nei quali il paziente fugge e si rifugia. L'ipotesi è che tanto i sintomi psicotici quanto quelli nevrotici gravi, in questi casi, servono da difesa dal contatto con la propria depressione. E' con questa depressione, da questa zona di impasse dove i vecchi modi di rapporto con la realtà hanno perso valore, che è possibile portare avanti il discorso psicoterapeutico accompagnando il paziente nel processo di crescita, partendo da una posizione di contatto con la realtà. Piuttosto, allora, per un orientamento terapeutico, è importante distinguere se il paziente è in rapporto con la propria depressione - soffrendo per la mancanza di sentimenti - oppure se essendo depresso rimane irraggiungibile nella propria apatia;
- una seconda situazione di depressione in cui non sospenderemmo i neurolettici è quando si sospetta il fondato rischio di suicidio, come in casi di depressione psicotica e particolarmente in quella che segue la fase maniacale. In questo caso prima di qualunque intervento sui farmaci è necessario affrontare apertamente l'argomento del suicidio nella terapia, (anche contro il desiderio del paziente), dichiarando la propria posizione al riguardo, facendo in modo che anche il paziente si definisca. Esprimendo le sue idee il paziente riesce meglio a contenerle, in quanto sono diventate oggetto di discussione e valutazione, non più fantasie soggettive e incontrollabili. Una volta comunicate le fantasie il paziente vede ridursi quasi sempre la loro valenza minacciosa per se stesso e ricattatoria verso gli altri;
- una terza situazione delicata è quando, scomparse le manifestazioni deliranti, ci troviamo di fronte ad una personalità paranoide. In questo caso è forse possibile, attraverso l'uso dei neurolettici, pur non modificando sostanzialmente le idee paranoiche e l'atteggiamento di fondo del paziente, rendergli meno angoscioso il rapporto col mondo. E' come se i neurolettici rendessero possibile, pur senza disperderli, mettere in un angolo dell'esistenza i deliri paranoidi.
In alcuni casi i neurolettici permettono di affrontare in terapia il contenuto di queste idee paranoiche, riconsiderandole come difficoltà interpersonali.
Nel caso in cui i neurolettici, anche in dosaggi adeguati non riescano a dissipare il delirio del paziente, consentono comunque di ridurre in maniera significativa la quota d'angoscia per cui l'ideazione rimane disturbata ma la situazione del paziente con se stesso e con gli altri è più tollerabile. Possiamo considerare questi deliri ineliminabili come elementi fondamentali dell'esistenza del paziente a cui egli si aggrappa come ultima protezione da una realtà vissuta come disperante e irrimediabilmente immutabile. Spesso così il suicidio degli schizofrenici coincide con un momento di estrema lucidità. E' importante in queste situazioni che il terapeuta sappia che prima di qualunque altro intervento è indispensabile instaurare un rapporto autentico con il paziente. Solo da questo è possibile cominciare a rinforzare positivamente e valorizzare i suoi messaggi di comunicazione sana ai fini di una relazione reciproca: solo dopo che questa fase sia stata consolidata ha senso entrare in merito ai contenuti di pensiero.

Terapia di mantenimento

La terapia di mantenimento con neurolettici, largamente impiegata, non risulta secondo la letteratura internazionale, avere di per sé una capacità di prevenzione significativa delle recidive o delle riacutizzazioni psicotiche, dopo il primo anno di terapia continuativa. Al contrario le riacutizzazioni nel corso di una terapia farmacologica mostrano una significativa correlazione con situazioni socio-ambientali critiche e sfavorevoli. E' probabile quindi che la terapia di mantenimento abbia anche dei fondamentali effetti suggestivi in senso tranquillizzante, oltre che sul paziente anche sulle persone e sugli operatori con i quali è in relazione, determinando un ambiente maggiormente disteso.
Per quanto riguarda i rischi di assuefazione da neurolettici ci sono contrasti tra i dati della letteratura ricavata dai pazienti in condizione di ricovero e l'esperienza degli ultimi anni, dopo la deistituzionalizzazione dei servizi psichiatrici, almeno in America ed in Italia.
Solo da pochissimo questa esperienza comincia ad avere una documentazione sui casi clinici seguiti, fuori dall'Istituzione, sotto la pressione di ambienti che richiedono loro delle prestazioni socialmente adeguate. In questi ultimi casi è possibile riscontrare una sorta di assuefazione al farmaco (che in teoria non dovrebbe verificarsi) in quanto l'assenza di altri generi di supporto per il paziente - psicologico, affettivo, al limite anche istituzionale dove l'applicazione della riforma viene interpretata nel senso più deteriore - porta gli operatori che lo seguono ad aumentare progressivamente il dosaggio, ad ogni ciclica crisi di angoscia, anche solo per mantenere semplicemente livelli accettabili di stabilità emotiva incrinati dalla scontro con una realtà poco tenera. E questi dati non rischiano di essere invalidati dal sospetto della cosiddetta non-compliance da parte del paziente, perché sono analoghi nelle situazioni in cui è diffusa l'utilizzazione di neurolettici depot (a deposito nel tessuto adiposo con rilascio lento) i quali sono somministrati regolarmente dall'operatore. E' chiaro che questo discorso riguarda solo pazienti con gravi carenze nelle abilità sociali, che necessitano principalmente di una terapia riabilitativa (ammesso che ci sia la volontà di favorire la loro reintegrazione) più che di una psicoterapia.
Comunque i neurolettici depot proprio per il loro tipo di somministrazione mostrano delle interessanti conseguenze all'interno delle dinamiche familiari:
1) questo tipo di terapia sottrae la gestione al paziente e/o ai familiari eliminando tutte le possibilità di giochi e ricatti reciproci basati sui farmaci;
2) la sintomatologia così contenuta rende difficile la fuga nel sintomo di fronte a situazioni critiche da parte del paziente e l'induzione del sintomo da parte dei familiari; le dinamiche di provocazione, controllo ed induzione sono rese più esplicite, enfatizzate e spesso ridondanti dalla difficoltà di scatenare il sintomo del paziente sotto terapia neurolettica.

Il paziente in psicoterapia che inizia a prendere psicofarmaci

La psicoterapia, come la vita reale, può mettere il paziente davanti a situazioni frustranti di fronte alle quali risponde con il ricorso agli psicofarmaci. Sia come fuga/anestesia in cui egli si deresponsabilizza nei confronti dell'ansia, sia come rivincita/ricatto verso lo psicoterapeuta, con cui il paziente riprende in mano il controllo della terapia in modo colpevolizzante e disconfermante nei riguardi del lavoro terapeutico.
E' necessario che lo psicoterapeuta prenda posizione rispondendo a questo messaggio del paziente e non lo ignori. Qualunque sia la risposta è importante che sia portata all'interno della psicoterapia, in modo che il paziente divenga consapevole delle componenti e delle implicazioni conseguenti a questa sua scelta. Non sempre, comunque, la risposta migliore è quella simmetrica, anzi può essere vero il contrario: può essere utile smontare il significato provocatorio proposto dal paziente accettando che prenda dei farmaci che gli allievino il disagio, includendo però questo comportamento all'interno della problematica della sintomatologia. Inquadrando l'assunzione dei farmaci come un comportamento problematico viene così capovolta la prospettiva: la scelta di cui il paziente non può assumersi la responsabilità in quanto obbligata dalla situazione viene così ridefinita come una libera scelta essa stessa una parte del problema ed un modo per mantenerlo.
A volte è utile considerare, in ambito terapeutico, la modalità di rapporto del paziente con il farmaco come riproposizione delle modalità di rapporto con la figura di sostegno. Seguire questa intuizione, se non si dimentica il suo carattere di ipotesi euristica, può aprire nuovi interessanti sentieri nel rapporto terapeutico. Sotto questa nuova ipotesi è possibile considerare, per es., l'ambivalenza a volte manifestata dal paziente nel rapporto con il farmaco, come specchio dell'ambivalenza verso ogni figura di sostegno compresa quella genitoriale e terapeutica. La persona fragile che non può fare a meno del sostegno, è legata ad esso ma finisce per odiarlo come simbolo che testimonia la propria dipendenza ed insufficienza. Questo può spiegare il caso di pazienti che chiedono ed effettivamente vogliono psicofarmaci e successivamente presentano fenomeni di intolleranza, fisica o psicologica, particolarmente verso farmaci per via orale.

* Psichiatra, psicoterapeuta
** Psicologo, psicoterapeuta



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