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Le origini del Cristianesimo

Ultimo Aggiornamento: 15/12/2008 10:53
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15/12/2008 10:38



MARCEL SIMON/ANDRE' BENOIT

GIUDAISMO E CRISTIANESIMO - UNA STORIA ANTICA



GESU' E LA NASCITA DEL CRISTIANESIMO


1. FONTI E CRONOLOGIA

Il cristianesimo trae le sue origini dalla personalità, dall'attività e dalla predicazione di Gesù, designato ben presto dai discepoli come il Cristo, cioè il Messia (greco Christós, ebraico Mashiah, l'Unto). La nostra fonte, quasi unica, su questo momento capitale della storia religiosa dell'umanità, sono i quattro Vangeli detti canonici, perché sono stati incorporati dalla Chiesa nel canone delle Scritture rivelate. Gli studiosi non sono d'accordo né sulle loro rispettive date, né sui legami di dipendenza reciproca, né sul loro valore storico. I primi tre, Matteo, Marco e Luca sono chiamati sinottici perché presentano precise somiglianze, troppo precise per essere fortuite. Quello di Marco, che figura al secondo posto nel Nuovo Testamento, è il più antico e costituisce, unitamente a una raccolta di Lóghia o detti di Gesù, una delle due fonti principali utilizzate dagli altri due Vangeli. Il quarto Vangelo, quello di Giovanni, ha una spiccata originalità, sia nella sostanza e nella presentazione degli avvenimenti sia nell'ispirazione generale e nell'interpretazione della figura del Cristo. Numerosi aramaismi, una conoscenza approfondita dei metodi dell'argomentazione rabbinica, precise affinità di pensiero con i documenti del Mar Morto, escludono la possibilità di fare di questo Vangelo - come si fa talvolta - il prodotto di un cristianesimo già notevolmente ellenizzato, per quanto l'influenza dell'ellenismo sia ugualmente chiara. Non si può giudicare secondario questo Vangelo. Su alcuni punti le sue informazioni sono addirittura più chiare di quelle dei sinottici. Possiamo datare la sua redazione d'intorno al 100. La tradizionale attribuzione all'apostolo Giovanni, "il discepolo prediletto", resta controversa. Nessuno dei sinottici sembra posteriore all'85-90, né anteriore al 70, a parte forse il Vangelo di Marco. Si intravedono comunque nei testi come sono giunti a noi tracce di redazioni più antiche. I Vangeli sono scritti religiosi e non documenti storici in senso stretto. Il loro fine è quello di dimostrare, di edificare, oltre che di raccontare. Elaborati in seno alla Chiesa nascente, essi ne riflettono le preoccupazioni e ne alimentano le esigenze spirituali. E' spesso difficile distinguere ciò che è autentico da ciò che non lo è: elementi leggendari sono uniti a elementi storici; tendenze apologetiche hanno alterato la realtà dei fatti. Ma per quanto l'apporto comunitario e l'influenza dell'ambiente possano essere ritenuti importanti nella loro elaborazione, nulla tuttavia autorizza a uno scetticismo radicale o a pensare - come alcuni critici - che questi scritti, così preziosi per comprendere la mentalità dei primi cristiani, non siano di alcuna utilità per conoscere la personalità e il messaggio del Cristo. Senza dubbio essi debbono essere maneggiati con prudenza: permangono molti punti interrogativi e molte zone d'ombra. Ma è proprio dalla realtà storica che essi sono nati. Tra i Vangeli e gli avvenimenti di cui essi parlano o gli insegnamenti che trasmettono, ci fu una tradizione orale che risale al gruppo dei primi discepoli e che, passando di bocca in bocca, di comunità in comunità, ha potuto deformare alcuni dati, ma certo non inventarli del tutto. La tesi detta mitologica, che rifiuta la storicità di Gesù, non resiste ad un esame critico. Sulla cronologia della vita di Gesù le nostre informazioni sono scarse e presentano, da un Vangelo all'altro, divergenze difficilmente conciliabili. La sua nascita, che segna l'inizio dell'era cristiana, è certamente anteriore a quest'ultima di qualche anno, se seguiamo i primi due sinottici, che la pongono sotto Erode il Grande, morto nel 4 a.C. Luca invece la mette in rapporto a un censimento di tutta la popolazione dell'Impero. Se intendiamo con questo il censimento limitato alla Palestina, di cui parla Flavio Giuseppe, la sua nascita si daterebbe al 6-7 d.C. Analoga incertezza sussiste sulla data della morte. Gesù morì sotto Ponzio Pilato, che fu governatore di Giudea dal 26 al 36 d.C. Cominciò a predicare quando aveva circa trent'anni, dopo che Giovanni lo battezzò. Luca fa cominciare il ministero del Battista nel quindicesimo anno del regno di Tiberio (28-29 d.C.). Secondo Marco, l'attività pubblica di Gesù sarebbe durata soltanto poco più di un anno, secondo Giovanni invece almeno tre anni. E' forse meglio evitare una precisazione ad ogni costo. Sarà sufficiente stabilire che Gesù, nato verso la fine del regno di Erode, è stato crocifisso intorno all'anno 30.


2. LA CARRIERA DI GESU'

L'incontro di Gesù con Giovanni Battista è per noi un punto fermo. Esso è stato il fattore decisivo nell'orientamento dell'attività di Gesù. Giovanni, appassionata figura di profeta e asceta, capo di una setta dissidente dagli ambienti ufficiali, predicava, sulle rive del Giordano, un messaggio di pentimento e un battesimo di purificazione in vista del Regno imminente. Egli non avrebbe rivendicato per se stesso la dignità messianica, ma avrebbe riconosciuto il Messia nella persona di Gesù. Altri testi evangelici lasciano intendere tuttavia che questa convinzione non fu immediata. I suoi discepoli per altro, dopo che egli fu giustiziato per ordine di Erode Antipa, continuarono per qualche tempo a formare una setta distinta, rivale della Chiesa nascente: alcuni studiosi hanno creduto, a torto, di poterne individuare i lontani discendenti nella comunità religiosa dei Mandei, tuttora esistente in bassa Mesopotamia. Qualunque fosse l'opinione di Giovanni Battista su Gesù, è sicuro che quest'ultimo prese coscienza della sua vocazione quando fu battezzato da colui che è stato riconosciuto dalla tradizione ecclesiastica come il Precursore. La predicazione di Gesù si svolse all'inizio nella parte settentrionale della Palestina, la Galilea, di dove egli era originario, e in particolare sulle rive del lago di Tiberiade. Qui egli reclutò i suoi primi discepoli e qui il suo messaggio ebbe maggiore risonanza, soprattutto tra gli strati più bassi della popolazione. I sinottici pongono alla fine della sua attività un unico periodo di predicazione a Gerusalemme. Secondo Giovanni invece egli si sarebbe recato più volte nella città santa. Presentato spesso sotto la forma allegorica delle parabole, accompagnato da guarigioni miracolose e da altri prodigi, il suo messaggio suscitò subito l'adesione entusiastica ma spesso effimera di alcuni, la diffidenza e l'ostilità di altri, in particolare dei due partiti o sette che a Gerusalemme lottavano per il primato: Gesù scandalizzava i Farisei per le libertà che si prendeva nei confronti della Legge; inquietava i Sadducei, nemici di tutto ciò che potesse turbare l'ordine costituito, perché annunciava l'instaurazione del Regno, il che, nella concezione della maggior parte dei giudei, implicava l'idea di uno sconvolgimento politico. Un ingresso trionfale a Gerusalemme e un intervento nel Tempio, dal quale Gesù pretese che fossero esclusi tutti i piccoli commerci che erano sorti in rapporto al culto, riversarono su di lui l'animosità dei capi. Tutt'e due questi episodi sembra fossero interpretati dai testimoni, seguaci o avversari, come affermazioni di una prerogativa messianica. Essi si svolsero, probabilmente uno di seguito all'altro, in prossimità della festa di Pasqua, e preludevano alla Passione. Dopo aver celebrato con i suoi discepoli un ultimo pasto - che nei sinottici appare come un pasto pasquale, mentre in Giovanni precede la data del rito - Gesù, tradito da uno dei suoi discepoli, Giuda, fu arrestato. I Vangeli dicono che egli comparve successivamente davanti al Sinedrio e al cospetto di Pilato. E' impossibile ricostruire con esattezza lo svolgersi degli avvenimenti. Sembra tuttavia sicuro che Gesù fu vittima di una coalizione della classe dirigente giudaica - sacerdozio in particolare - e dell'autorità romana; è anche certo che fu Pilato e non il Sinedrio - che in quel tempo non aveva, a quanto pare, il diritto di infliggere pene capitali - a emanare la sentenza di morte. Gesù fu condannato come agitatore politico e, immediatamente prima di Pasqua, subì la crocifissione, tipico supplizio romano, e non già la lapidazione.


3. IL MESSAGGIO DI GESU': IL REGNO

"Il tempo è compiuto, il Regno di Dio è vicino; pentitevi e credete al Vangelo": è questo, riassunto da Marco (1,15), il messaggio di Gesù. Esso esprime, come quello di Giovanni Battista, quell'attesa escatologica che sembra avere animato, con pochissime eccezioni, tutta la religiosità giudaica dell'epoca. Matteo parla di Regno dei cieli, ma le due espressioni esprimono lo stesso concetto. La seconda, che ha dei paralleli nella letteratura rabbinica, rivela la preoccupazione, tipicamente giudaica, di usare circonlocuzioni nel parlare di Dio. Ambedue equivalgono all'affermazione che la sovranità divina sull'umanità e l'universo si realizzerà in modo strepitoso con l'eliminazione di tutte le potenze avverse, demoniache o umane, e si instaurerà nella sua pienezza. Il problema è determinare in quale momento Gesù collocava questo avvenimento capitale che avrebbe inaugurato i tempi ultimi. Esso è stato ampiamente discusso e risolto in maniere molto diverse, senza per altro che una soluzione si sia imposta sulle altre. Anche in questo caso i testi sono di difficile interpretazione e spesso in reciproco disaccordo; inoltre non si riesce sempre a capire se essi esprimano l'insegnamento stesso di Gesù o le idee professate successivamente dalla Chiesa primitiva, al momento della redazione dei nostri Vangeli. Alcuni testi affermano che il Regno si realizzerà nel futuro - un futuro generalmente sentito come molto vicino (Marco 9,1; 13,30) - e che si instaurerà con la rapidità di un baleno, in un momento che solo Dio conosce (Marco 13,32). Altri invece lasciano intendere che le parole e gli atti di Gesù rappresentino già una sorta di anticipazione del Regno e segnino l'inizio di un processo che culminerà, dopo una serie di cataclismi, nel futuro. Questa idea di una evoluzione progressiva appare in particolare nelle parabole che paragonano il Regno alla semenza che cresce e germina senza che si sappia come (Marco 4,26-29), al grano di senape (Marco 4,30-32), al lievito che fa crescere la pasta (Matteo 13,33). E' possibile che queste diverse concezioni del Regno corrispondano a fasi successive del ministero di Gesù. Forse egli credette all'inizio che il Regno si sarebbe instaurato nella sua pienezza durante la sua vita e per mezzo suo, arrivando poi a pensare che sarebbe trascorso un certo tempo tra la fine del suo ministero e l'avvento del Regno. Ci si deve allora domandare se egli credesse che il suo ruolo si sarebbe limitato al presente o che si sarebbe esteso al futuro messianico. In altri termini, la credenza nella Parusia, o seconda venuta, del Cristo, è nata nella Chiesa primitiva a causa dell'apparente insuccesso, dal punto di vista del messianismo tradizionale, del suo ministero, oppure Gesù stesso fu l'artefice dell'idea di questo sdoppiamento della sua azione? La seconda ipotesi si basa su testi (Marco 8,38 e 14,62) che esprimono con grande probabilità l'autentico pensiero di Gesù e che mettono in luce quella che possiamo chiamare la sua coscienza messianica, intimamente legata alla sua concezione del Regno.


4. GESU' MESSIA

Il fatto che Gesù sia stato riconosciuto dai suoi discepoli come il Messia, è provato ampiamente dalla sola denominazione di Cristo, divenuto come un secondo nome proprio del Maestro. E' significativo che in Marco il termine Messia - accompagnato talvolta dall'espressione "figlio di Dio", che deve essere qui intesa come termine onorifico piuttosto che alla lettera - non sia mai usato da Gesù per indicare se stesso. Sono gli altri che lo chiamano così: Pietro sotto forma affermativa (Marco 8,29), il sommo sacerdote, durante il processo, sotto forma di interrogazione (Marco 14,61). In tutti e due i casi Gesù accetta questa qualifica. Anche se egli, non si attribuì mai il titolo di Messia, non è necessario spiegare questo fatto negandogli ogni coscienza messianica, o fare ricorso, come certi critici, alla teoria di un segreto con il quale egli avrebbe voluto nascondere la sua qualità di Messia. Senza dubbio egli, tenendo conto delle implicazioni politiche di quel termine, voleva evitare ogni equivoco sulle sue intenzioni, e prendere le distanze dalle forme nazionaliste del messianismo. In effetti Gesù ha definito la propria figura con altri tratti che quelli del Messia tradizionale. Egli ha concepito il suo ruolo in conformità con il personaggio biblico del Servo Sofferente (Isaia 40-55), pieno di umiltà, sottomesso totalmente alla volontà divina in una vita di devozione e sacrificio. Nulla autorizza a rifiutare come non autentici i versetti in cui egli parla delle prove che lo attendono. Tutto il suo ministero diventa incomprensibile se ci si rifiuta di ammettere che egli intravide e accettò l'idea dell'eventualità delle sue sofferenze, dell'umiliazione e anche della morte. Recandosi a Gerusalemme, senza forse scartare del tutto la possibilità di un intervento vittorioso di Dio, egli aveva accettato i rischi della sua decisione. Per quanto sia importante la figura del Servo per spiegare quella di Gesù, egli fa ricorso abitualmente ad un'altra figura per definirsi: quella del Figlio dell'Uomo. Abbiamo già notato (pp. 27-8) la sua origine e le sue caratteristiche. Essa è fondamentale nella predicazione di Gesù come i Vangeli ce l'hanno tramandata. Mentre la figura del Servo rappresenta, nella Chiesa nascente, uno dei principali punti d'appoggio della cristologia, il termine di Figlio dell'Uomo designa esplicitamente Gesù una sola volta al di fuori dei Vangeli (Atti 7,56). L'uso che ne fanno i Vangeli è più caratteristico. E' chiaro che si tratta per essi di una autodesignazione di Gesù: "il Figlio dell'Uomo" e "io" si alternano talvolta, come termini intercambiabili, in alcuni passi paralleli dei sinottici. L'espressione si applica tanto alla vita presente e mortificata; e alla Passione di Gesù (Marco 10,45; Matteo 8,20; Luca 22,48), quanto alla sua esaltazione futura (Marco 8,38; Matteo 19,28). Gesù ha evidentemente tratto questo titolo dalla letteratura apocalittica, Daniele e forse Enoch; esso è meno preciso, meno suscettibile di equivoci e più ricco di mistero di quello di "Messia", e anche più ricco di significato teologico, malgrado le apparenze, di quello di "figlio di Dio" nell'accezione giudaica (se non in quella che a esso ha attribuito la speculazione cristiana successiva). Il termine Figlio dell'Uomo infatti, pur essendo in origine un semitismo sinonimo di uomo, designa, nel suo uso specifico, fissato dall'apocalittica giudaica e precisato da Gesù, tutt'altra cosa che la semplice umanità: vi è un solo Figlio dell'Uomo, che si sente legato da un vincolo di filiazione particolare al Padre Celeste. Dal Figlio dell'Uomo evangelico al Figlio di Dio come è stato definito dalla teologia trinitaria, il passaggio era naturale.


5. GESU' E LA LEGGE GIUDAICA

La coscienza messianica di Figlio dell'Uomo conferisce a Gesù un'autorità senza precedenti in Israele. Essa gli ispira un insegnamento che, strettamente legato per certi aspetti a quello dei rabbini, presenta tuttavia una originalità profonda; fu in definitiva questa originalità a provare l'ostilità dei dirigenti giudaici, tanto farisei che sadducei. Anche se tale insegnamento culmina nella buona novella - il Vangelo - del Regno, non si limita tuttavia esclusivamente ad essa, ma precisa nello stesso tempo le condizioni di accesso al Regno, opponendosi così all'insegnamento rabbinico tradizionale o, su alcuni punti, alla Legge stessa. Certo la posizione di Gesù non è caratterizzata da un antinomismo sistematico: "Non crediate che io sia venuto ad abolire la legge o i profeti. Io non sono venuto ad abolire, ma a completare" (Matteo 5,17). In qualsiasi modo si possa intendere questa affermazione - e interpretazioni opposte sono state avanzate - il contesto indica chiaramente che per Gesù la Legge resta la regola di condotta fondamentale. Egli non si astiene però dall'interpretarla in un modo spesso giudicato rivoluzionario e quindi scandaloso dai suoi uditori, o dall'ammorbidirla o rafforzarla a seconda dei casi. Gesù attenua, talvolta in pratica fino ad abrogarle, le osservanze rituali (Marco 2,23-28 e parall.; 3,1-6 e parall.; 7,1-23 e parall.), ma rende più severe le prescrizioni morali, fino a contraddire talvolta la lettera del testo sacro ("Discorso della Montagna", Matteo 5-7). Egli stabilisce così una precisa gerarchia tra i comandamenti. Sulla linea dei profeti, interiorizza e personalizza l'etica giudaica. Al di là delle azioni, scruta e giudica l'intenzione da cui sono nate, e bada più alla purezza del cuore che all'osservanza, del tutto esteriore, di un legalismo formalista. Chi vuole accedere al Regno deve superare in giustizia gli scribi e i Farisei (Matteo 5,20), di cui denuncia con veemenza la casistica. E' d'obbligo quindi farsi suoi discepoli, senza compromessi né riserve, in una pratica senza errori della legge fondamentale d'amore per Dio e per il prossimo: "Siate perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste" (Matteo 5,48). Il suo messaggio si rivolge in primo luogo ai diseredati, ai peccatori. Più di altri essi hanno bisogno delle sue parole che promettono la misericordia infinita e la grazia salvatrice di Dio. Essi sono inoltre più vicini al Regno che i ricchi e i "giusti". È tra essi, tra i contadini delle campagne di Galilea, tra cui la religiosità farisaica era poco penetrata, che questa predicazione nemica di ogni conformismo suscita maggiori risonanze. Ma in presenza di un pubblico sempre esposto alla febbre messianica, fu indispensabile per lui resistere alla tentazione zelota e tracciare con cura una linea di demarcazione tra religione e politica, affermando che anche verso il potere romano instaurato da Dio, esiste un dovere di lealismo (Marco 12,17 e parall.).


6. GESU' E I GENTILI

È necessario domandarsi se la predicazione di Gesù si rivolgesse soltanto ai giudei o anche ai Gentili. Non è facile su questo punto trarre dai Vangeli dati univoci. Per quanto riguarda i sinottici, l'universalismo cristiano è affermato chiaramente soltanto nel finale di Marco (16,15-16), ritenuto apocrifo dalla maggior parte dei critici, e negli ultimi versetti di Matteo (28,19-20), la cui autenticità è ugualmente discussa. Diversi testi indicano invece che Gesù ha deliberatamente limitato la sua azione a Israele, rivolgendosi ai pagani soltanto in casi eccezionali (Marco 7,24-30; Matteo 8,5-13) e ricordando di essere stato inviato soltanto per le pecore smarrite della casa d'Israele (Matteo 15,24). Le sue consegne ai dodici apostoli sono tassative: "Non andate presso i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani. Andate piuttosto dalle pecore perdute della casa d'Israele" (Matteo 10,6). E' anche vero però che queste dichiarazioni sono riferite soltanto da Matteo, e che restringono forse la prospettiva nella quale si collocava Gesù, il quale non provava, di fronte a pagani e Samaritani, né disprezzo né odio; addirittura talvolta egli li proponeva come esempio, a titolo individuale, ai suoi ascoltatori giudei. E' evidente tuttavia che l'elezione di Israele è per lui un fatto incontestabile. Essa ha come conseguenza, in rapporto al Regno, una altrettanto sicura priorità: "prima al giudeo, poi al greco" - così lo stesso Paolo, pur nel suo indubitabile universalismo, vedrà la predicazione evangelica (Romani 1,16). Forse bisognerebbe tener conto, per una valutazione esatta della concezione di Gesù su questo punto, dei diversi momenti secondo i quali - a suo avviso - si sarebbe sviluppato il piano divino. Anche se, nella sua attività terrena, non si è affatto occupato dei pagani, in compenso egli sembra aver loro accordato un posto nell'ultima fase dell'instaurazione del Regno (Marco 13,10; Matteo 8,11). Vedendo in Israele moltiplicarsi gli ostacoli sul suo cammino, egli arrivò forse a pensare che i Gentili si sarebbero uniti, o anche sostituiti ai giudei nel futuro messianico: "Molti verranno dall'Oriente e dall'Occidente e si siederanno a tavola con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, ma i figli del regno saranno gettati nelle tenebre esteriori" (Matteo 8,11-12).


7. GESU' E LA CHIESA

L'instaurazione del Regno implica la fondazione di una società purificata, santificata, di un nuovo Israele. La Chiesa cristiana ha ben presto rivendicato questo titolo. Questa concezione, più volte espressa in san Paolo, era presente nel pensiero di Gesù? Alcuni esegeti, considerando che Gesù fu il profeta escatologico di un avvenimento che ancora non si è verificato, pensano che la Chiesa, nata da un errore, rappresenti un adattamento dei discepoli a circostanze che il maestro non aveva previsto: secondo una formula celebre, Gesù ha annunziato il Regno, ma quel che è venuto è stata la Chiesa. Le cose non sono però così semplici. Se ammettiamo che Gesù pensasse che con la sua predicazione e la sua azione i tempi messianici fossero per lo meno inaugurati, l'opposizione Regno-Chiesa viene a perdere molta forza. Lo stesso termine Chiesa ricorre soltanto due volte nei Vangeli, una volta nel senso di comunità locale (Matteo 18,17), l'altra nell'accezione più ampia, nel famoso versetto relativo a Pietro, fondamento della Chiesa, sul quale il cattolicesimo basa il dogma del primato di Roma (Matteo 16,18). La sua autenticità è stata più volte messa in dubbio. Dopo la scoperta dei manoscritti del Mar Morto, in cui si esprime per bocca del Maestro di Giustizia, con termini simili, un'idea analoga, l'atteggiamento dei critici è però cambiato. In effetti un movimento di riforma del giudaismo non si concepisce - anche nell'attesa del Regno imminente - al di fuori del quadro di un gruppo organizzato. Non vi è inoltre motivo di mettere in dubbio 1'istituzione, da parte di Gesù, del collegio dei Dodici - chiamati apostoli soltanto una volta da Matteo (10,2) e un'altra da Marco (6,30 ) - che rappresenta sia un simbolo delle dodici tribù tradizionali, sia una sorta di ossatura del nuovo Israele. Compagni di Gesù mentr'egli era in vita, i Dodici hanno naturalmente preso il suo posto dopo la sua morte, attendendone il prossimo ritorno, alla testa del piccolo gruppo dei suoi fedeli. Nulla lascia intendere che Gesù abbia battezzato coloro che accettavano il suo messaggio. Negli stessi Vangeli - in particolare, nei già ricordati finali di Matteo e Marco - è il Cristo risuscitato che ordina ai discepoli di battezzare. Il secondo dei riti fondamentali, dei sacramenti, della Chiesa nascente, la Cena o Eucaristia, risale invece sicuramente a un atto del Cristo. Nessuna spiegazione soddisfacente è stata data del fatto che il quarto Vangelo, proprio quello in cui la mistica sacramentaria appare più sviluppata, ometta nel racconto dell'ultima cena l'istituzionee dell'Eucaristia. I sinottici, con qualche piccola diversità nei dettagli, ne parlano in termini così chiari da non lasciare ombra di dubbio sulla realtà del fatto. Se poi san Paolo ne riferisce, in un testo anteriore a tutti i nostri Vangeli (I Corinzi 11,23-27), facendo appello a una rivelazione particolare del Cristo, nulla autorizza a pensare che egli stesso abbia potuto creare un rito che, derivato nella sua struttura dalla liturgia domestica giudaica, sembra che avesse un senso specifico già nella prima comunità di Gerusalemme. Celebrato da Gesù, questo rito esprime, al culmine di una carriera destinata ad essere brutalmente troncata, la convinzione che la sua opera dovrà essere continuata, con l'appoggio della sua presenza invisibile, dal gruppo dei fedeli, fino al banchetto messianico, quando egli berrà di nuovo con loro il frutto della vigna, nel Regno di Dio (Marco 14,25 e parall.): rito escatologico, l'Eucaristia è nello stesso tempo un rito ecclesiastico; si può dire che, in un certo senso, essa fondi la Chiesa.


8. LA COMUNITA' PRIMITIVA

Il ministero di Gesù non è però che l'episodio preliminare della storia della religione cristiana. Questa religione inizia con quella che talvolta si chiama la fede di Pasqua, la fede nella risurrezione del Messia crocifisso. Confermata agli occhi dei primi discepoli dalle apparizioni del Risorto (I Corinzi 15,4-8), la risurrezione era inoltre attestata, secondo i Vangeli, dal fatto che la tomba fu trovata vuota il mattino del giorno di Pasqua. Qualsiasi cosa pensi della realtà oggettiva di questi fatti, lo storico moderno deve constatare che accadde qualcosa che condizionò tutta la successiva evoluzione del cristianesimo. Scoraggiati, disperati per la morte del maestro, i discepoli ritrovano una fiducia incrollabile e predicano il gioioso messaggio della sua resurrezione e del suo prossimo ritorno. A poco a poco essi si persuadono - riferendo a Gesù, come certamente egli stesso aveva fatto, un certo numero di passi biblici, e in particolare quelli relativi al Servo Sofferente - che la sua passione e morte, così sconcertanti per un giudeo abituato alle prospettive messianiche tradizionali, erano conformi al disegno divino e rappresentavano l'indispensabile preludio alla sua elevazione "alla destra di Dio" e al suo ritorno in gloria. Intorno al piccolo gruppo le adesioni si moltiplicano: la tradizione cristiana ha fissato alla Pentecoste, che avrebbe visto la conversione di ben tremila giudei tra quelli giunti da ogni paese a Gerusalemme per la festa, il giorno della nascita della Chiesa. I primi cristiani non hanno intenzione di separarsi dal giudaismo, di cui osservano con scrupolo le prescrizioni. Essi si limitano a dare un nome al Messia anonimo atteso dalla speranza giudaica, e a sviluppare lo schema tradizionale dell'opera messianica. La Chiesa nascente non è altro, in questo stadio iniziale, che una tra le tante sette giudaiche: i suoi riti e le sue particolari credenze non sono sufficienti a collocarla al di fuori della religione ancestrale. Sorvegliata dall'autorità religiosa, in particolare dal sacerdozio sadduceo, infastidita e talvolta anche molestata, essa conduce tuttavia un'esistenza relativamente tranquilla, e non subisce nessuna vera e propria persecuzione.


9. STEFANO E GLI ELLENISTI

La prima grave crisi nei rapporti tra il gruppo cristiano e l'autorità giudaica si verifica con l'entrata in scena di quelli che gli Atti degli Apostoli - la nostra fonte essenziale per questo periodo - chiamano "Ellenisti". Si tratta di un piccolo nucleo di giudei della Diaspora, la cui lingua abituale era il greco, stabilitisi a Gerusalemme e giunti ad abbracciare il cristianesimo in circostanze che non ci sono note. Sembra comunque che già prima di aderire al messaggio di Gesù essi avessero professato - riguardo alle istituzioni rituali del giudaismo - delle concezioni molto lontane dalle norme ufficiali e anche da quelle della Chiesa nascente. I discorsi che gli Atti attribuiscono al capo di questo gruppo, santo Stefano, rivelano abbastanza fedelmente la posizione degli Ellenisti. Essa si caratterizza per una condanna radicale del Tempio di Gerusalemme, considerato come un luogo d'idolatria, contrario all'autentica Legge di Mosè. A quanto pare, Stefano e il suo gruppo attribuivano a Gesù la missione di spiritualizzare il culto con l'eliminazione di questo falso santuario, riportando così il giudaismo alla sua primitiva purezza. Un simile messaggio, proclamato nella stessa città santa, non poteva non provocare una violenta reazione nella casta sacerdotale e nell'opinione giudaica. Stefano - primo martire cristiano - morì lapidato, e una persecuzione si abbatté sulla comunità di Gerusalemme. Dalle indicazioni, alquanto imbarazzate, degli Atti, appare tuttavia che questa persecuzione non colpì affatto la Chiesa nel suo complesso, ma soltanto il gruppo degli Ellenisti. In causa non era dunque ancora la fede in Gesù Messia, ma quella concezione molto particolare di un giudaismo riformato com'era inteso da Stefano e dai suoi seguaci. Questi ultimi, brutalmente privati del loro capo, si dispersero in Palestina e nelle regioni vicine. In questo momento nacque la missione cristiana. Gli Ellenisti, staccando il cristianesimo dal culto di Gerusalemme, avevano creato le condizioni di un allargamento universalistico. Gli Atti (11,19) precisano tuttavia che essi annunciavano la parola soltanto ai giudei, a parte qualcuno che si rivolgeva anche ai pagani. Il messaggio della purificazione radicale del giudaismo riguardava infatti principalmente i giudei. Diffuso tra i pagani esso non rappresentava ancora che un invito a convertirsi a un giudaismo che Gesù aveva rinnovato. Tuttavia era stato compiuto un passo verso l'emancipazione. Quest'ultima si realizzerà con san Paolo.


(continua...)
[Modificato da Nikki72 15/12/2008 10:39]
15/12/2008 10:42



SAN PAOLO E L'UNIVERSALISMO CRISTIANO


1. LE FONTI

Tra tutti i personaggi della storia cristiana primitiva, san Paolo è il meglio conosciuto. Su di lui e la sua opera ci informano gli Atti degli Apostoli, che gli dedicano quindici capitoli su ventotto, e le sue stesse epistole. Gli Atti sono della stessa mano del terzo Vangelo, quello di Luca, e si presentano come una storia dell'epoca apostolica, che corrisponde alla prima generazione cristiana; furono redatti forse d'intorno al 90. L'opera utilizza, a parte la tradizione orale, alcune fonti contemporanee agli avvenimenti. Essa va letta tuttavia con occhio critico. L'autore, che non è un testimone oculare, ci dà un'immagine spesso idealizzata della cristianità primitiva, in cui le opposizioni si stemperano fino a dissolversi. Il confronto con le epistole di san Paolo pone in luce alcune contraddizioni che non è facile risolvere. I critici non sono d'accordo sull'autenticità delle quattordici lettere attribuite a Paolo e inserite nel Nuovo Testamento. L'Epistola agli Ebrei, che si presenta anonima, e che la tradizione ecclesiastica attribuisce a Paolo con molta esitazione, non è certamente sua. La grande maggioranza degli esegeti pensa altrettanto delle tre epistole dette pastorali (I e II a Timoteo, e quella a Tito), che sono nella linea di san Paolo, deutero-paoline, ma non di sua mano. Alcuni negano autenticità anche all'Epistola agli Efesini. Pochi rifiutano quella dell'Epistola ai Colossesi e della Seconda ai Tessalonicesi. Un largo consenso attribuisce invece all'Apostolo la Prima ai Tessalonicesi, e quasi nessuno contesta la paternità delle quattro epistole maggiori: ai Romani, I e II ai Corinzi, ai Galati, e del breve scritto a Filemone. Ma anche le epistole giunteci a torto sotto il suo nome, presentano, in diversa misura, il segno della sua personalità. Esse, utilizzate con una certa prudenza, possono gettare un po' di luce su quello che comunemente si chiama il paolinismo. Sono tutte scritti di circostanza, indirizzati a una comunità particolare e destinati a risolvere i problemi particolari del momento, prima di divenire patrimonio comune della cristianità. Anche se Paolo è il padre della teologia cristiana, non vi è certo nei suoi scritti un'esposizione dottrinale completa, articolata sistematicamente. Egli non è né un Aristotele, né un san Tommaso d'Aquino. Di tutti i libri del Nuovo Testamento, soltanto le epistole paoline autentiche appartengono sicuramente al periodo apostolico: sono i più antichi scritti del cristianesimo. Cronologicamente si collocano tra il 50 circa (I ai Tessalonicesi) e il 60-62 (epistole dette della cattività: agli Efesini (?), ai Filippesi, ai Colossesi, a Filemone). In rapporto a questi testi, le epistole canoniche attribuite ad altri personaggi della prima generazione cristiana, Giacomo, Pietro, Giovanni, Giuda - la cui autenticità è contestata - non rappresentano in ogni caso che delle fonti secondarie. Nella loro preziosità per lo storico, le epistole paoline pongono tuttavia più problemi di quanti ne risolvano: sono testimonianze spontanee e di prima mano, ma anche passionali e parziali. Dovendo scegliere tra gli Atti e le Epistole, lo storico sarà propenso a preferire queste ultime, ricordandosi però che la verità non è necessariamente sempre dalla stessa parte: a volte può non trovarsi né dall'una né dall'altra parte. In mancanza di certezza, dovrà accontentarsi di probabilità. Lo storico dovrà inoltre premunirsi contro un possibile errore di prospettiva, dovuto al carattere estremamente unilaterale della nostra documentazione. Lo spazio che gli Atti dedicano a Paolo e quello che occupa nel Nuovo Testamento il corpus paolino autorizzano a pensare che l'Apostolo abbia svolto effettivamente un ruolo capitale nella genesi e nella diffusione del cristianesimo. Ma se i suoi emuli avessero lasciato degli scritti tali da porsi in antitesi alle sue lettere, gli avvenimenti sarebbero stati interpretati con una prospettiva diversa. Si può certo pensare che intorno a Paolo non vi fosse alcuna personalità dalla statura paragonabile alla sua, ma sarebbe rischioso ammettere che egli sia stato l'unico artefice della prima espansione cristiana, e che abbia modellato a sua immagine la Chiesa nel suo complesso. I conflitti di cui le sue epistole ci trasmettono l'eco, e l'evoluzione stessa della cristianità primitiva nel periodo seguente, provano che nulla di ciò accadde. Vi furono, nella Chiesa primitiva, altre interpretazioni del cristianesimo oltre a quella data da san Paolo.


2. LA CARRIERA DI PAOLO

Paolo nacque, probabilmente agli inizi del I secolo, a Tarso in Cilicia, dunque nella Diaspora di lingua greca. Suo padre era cittadino romano. Egli stesso aggiunge al suo nome ebraico, Saul, il cognome romano con il quale noi lo designiamo. Ancor giovane, venne a studiare a Gerusalemme: "ai piedi di Gamaliele" - uno dei più illustri dottori dell'epoca - precisano gli Atti. Si ritrova nel suo pensiero l'impronta sia delle categorie greche che di metodi e concetti rabbinici. Prima della conversione era un giudeo fiero del suo popolo e un fariseo esemplare (Filippesi 3, 5) nemico accanito della Chiesa nascente (Galati 1, 13-14). Gli Atti gli attribuiscono un ruolo importante nella persecuzione successiva al martirio di Stefano. Egli svolgeva una missione anticristiana, forse ufficiale, al di fuori della Palestina, quando il Cristo gli apparve, sulla strada per Damasco. Questa visione fece del persecutore un discepolo, del fariseo scrupoloso l'Apostolo dei Gentili (forse d'intorno al 36). Gli Atti ci riferiscono i particolari dei suoi tre viaggi missionari. Il primo lo conduce, con Barnaba, da Antiochia a Cipro, poi attraverso l'Asia Minore, dove i due predicatori fondano Chiese in diverse città importanti. Nel corso del secondo viaggio, successivo a una visita a Gerusalemme (cfr. p. 66), Paolo visita le sue comunità asiatiche, attraversa la Frigia e la Galazia e si imbarca per la Macedonia. Fonda Chiese a Filippi e Tessalonica, raggiunge la Grecia vera e propria, subisce uno smacco ad Atene ma ottiene un notevole successo a Corinto. La popolazione di questa città era composita, e quindi più aperta alle influenze orientali che non la vecchia città dell'Attica. A Corinto si ferma per diciotto mesi; questo periodo coincide in parte con il proconsolato di Gallione, ricordato negli Atti e datato da una iscrizione di Delfi (51-52). Dopo una breve visita ad Efeso e a Gerusalemme, Paolo riparte da Antiochia per il suo terzo viaggio, che lo conduce in Asia Minore, in Grecia e in Macedonia. Da qui raggiunge di nuovo la costa asiatica, poi Tiro e Gerusalemme. In questa città viene arrestato, in circostanze poco chiare, su iniziativa dei giudei, e consegnato al procuratore Felice che, imbarazzato dalla faccenda, tira le cose in lungo. Due anni dopo un nuovo governatore, Festo, deferisce Paolo, su sua richiesta, al tribunale dell'imperatore. Una traversata molto movimentata lo conduce via Sidone, Creta e Malta, fino a Pozzuoli. Accolto poi dai cristiani della capitale, trascorre due anni a Roma in libertà vigilata. Il racconto degli Atti si arresta qui bruscamente, lasciandoci all'oscuro sulla fine dell'Apostolo. Egli morì martire a Roma - ignoriamo il capo d'accusa - verso il 62-64, probabilmente prima della persecuzione di Nerone. Questo apostolato, condotto per più di vent'anni attraverso difficoltà, prove e pericoli di ogni sorta (II Corinzi 11,23-28), con una energia e una passione di cui le epistole ci trasmettono l'eco, era per Paolo il frutto della volontà divina: Dio stesso lo aveva predestinato, fin dal seno materno, a convertire i Gentili. Durante la sua attività egli si scontrò non soltanto con l'animosità dei giudei e di una parte dei pagani, ma anche con la diffidenza e talvolta con l'ostilità aperta di alcuni cristiani scandalizzati da certi tratti del suo Vangelo, che egli proclamava di aver ricevuto dallo Spirito, dalla rivelazione diretta e personale del Cristo (I Corinzi 2,6-16; Galati; 1,11-12).


3. LA DOTTRINA DI PAOLO

All'origine della teologia di Paolo c'è un'esperienza mistica. Ma c'è anche, in misura prevalente, una lunga e dolorosa riflessione sull'impossibilità, per gli uomini, di salvarsi con i mezzi propri. I pagani, insensibili alla voce della coscienza e alla rivelazione naturale che si esprime per mezzo della creazione, si sono gettati nell'idolatria, fonte di ogni perversione morale (Romani 1,20-32). L'umanità e l'intero creato sono così asserviti agli elementi del Kosmos (Galati 4,3), potenze demoniache più o meno identificate agli astri. Solo fra tutti i popoli, Israele si è sottratto all'empietà, perché ha ricevuto in deposito la rivelazione scritta, la Legge. Tuttavia anche i giudei sono peccatori, a causa della caduta di Adamo, antenato comune di tutta la razza umana, e anche perché la Legge stessa "è sopraggiunta perché fosse abbondante l'offesa" e conosciuto il peccato (Romani 5,20 e 7,7). In definitiva essa è fonte di dannazione più che di salvezza (Galati 3,10). Paolo, il cui pensiero tradisce su questo punto qualche esitazione, persiste tuttavia nell'affermarne l'origine divina (Romani 8,7; ma cfr. Galati 3,19-20). La Legge testimonia l'influenza universale de1 male, e ne deriva, piuttosto che esserne il rimedio: "essere sotto la Legge" equivale praticamente a "essere asservito agli elementi del Kosmos" (Galati 4,3 sgg.). Sia pagano o giudeo l'uomo è ugualmente inerme e privo di meriti propri. La salvezza può venirgli soltanto da un dono gratuito della misericordia divina, che lo libera dal peccato, dalla morte che ne è la conseguenza, dalla "maledizione della Legge" e, insieme a tutto il creato, dalla tirannia delle potenze demoniache. Questa redenzione cosmica si è ormai attuata, con la venuta del Cristo. Il Cristo, essere celeste, Figlio di Dio, fatto uomo nella persona di Gesù, ha caricato su di sé, vittima innocente per l'espiazione, i peccati della razza umana. Il suo sacrificio, manifestazione della giustizia e dell'amore divino, ha riconciliato l'umanità e l'universo con Dio. Crocifisso dalle potenze malefiche, egli, per mezzo della croce, ha trionfato su di esse e sulla stessa morte: egli è risorto, per riprendere presso il Padre un posto ancora più elevato che prima dell'incarnazione. Così il dramma del Calvario, tanto sconvolgente per i primi discepoli, risponde per san Paolo a una necessità assoluta: è una svolta nella storia del mondo, la realizzazione del disegno provvidenziale. Di tutta l'attività del Cristo, Paolo evidenzia soltanto quest'ultimo episodio, che diventa il nucleo stesso della sua predicazione (I Corinzi 1,23). La redenzione si compirà però pienamente soltanto alla fine dei tempi, alla Parusia, quando gli eletti entreranno, con la resurrezione, in quel "corpo spirituale" che è già quello del Cristo glorificato (I Corinzi 15). Ma i fedeli, salvati dalla grazia divina e dalla fede, prendono parte già da ora alla vita eterna, nella misura in cui vivono "nel Cristo", in comunione mistica con lui, attraverso l'unione alla Chiesa, che è il suo corpo (Colossesi 1,18-24). Questo riscatto compiuto dal Cristo ha messo fine al regno, del tutto provvisorio, della Legge. La fede che, con i Patriarchi, preesisteva alla Legge, è, anche per i giudei, l'unica via di salvezza (Romani 10,4; Galati 3,24). La redenzione libera l'uomo da tutti i legami che gli impediscono di vivere con Dio, e la Legge è uno di questi legami. Il cristiano morto per la Legge è anche morto al peccato. Ma il peccato stesso resta vivo, come una potenza quasi personificata: l'esistenza del cristiano è una perenne lotta dello "spirito", principio di ogni bene, contro la "carne", principio di ogni male. Là dove lo spirito trionfa la condotta dei fedeli sarà naturalmente conforme alla legge morale, espressione della volontà divina, di cui Paolo ricorda in tutte le sue lettere gli imperativi essenziali. Quanto alle osservanze rituali, esse sono condannate nettamente. Dal momento che rifiuta di comprendere e accettare il Cristo, Israele è momentaneamente abbandonato da Dio. L'eredità è passata al nuovo Israele, unione universale dei credenti, appartenenti per il momento soprattutto alla Gentilità, in attesa che i giudei vi si uniscano, alla fine dei tempi. La Bibbia, che trasmette le promesse divine, mantiene, interpretata alla luce del Cristo, tutto il suo valore di testimonianza. Ma più che il patrimonio di un solo popolo, essa è la carta dell'universalismo cristiano, per il quale non c'è "né greco, né giudeo, né circonciso, né incirconciso, né barbaro, né scita, né schiavo, né libero, ma soltanto il Cristo che è tutto in tutti" (Colossesi 3,11).


4. IL PROBLEMA DELLE OSSERVANZE

I gerosolimitani non erano certo ostili per principio alla missione tra i pagani: lo stesso giudaismo, come abbiamo visto, la praticava. Non sembra tuttavia che all'inizio fossero verso di essa molto propensi. L'iniziativa di Paolo, che predicava tra i Gentili un cristianesimo del tutto privo di osservanze rituali, poneva loro un grave problema. Paolo ci dice che, giunto a Gerusalemme tre anni dopo la sua conversione, per un breve soggiorno durante il quale non vide che Pietro e Giacomo, vi ritornò quattordici anni dopo. Malgrado gli intrighi dei "falsi fratelli", egli rifiutò qualsiasi, anche minima, concessione giudaizzante. In effetti i "notabili", Giacomo, Pietro e Giovanni, non gliene imposero alcuna e riconobbero solennemente il suo apostolato tra i pagani, riservando per sé la missione in Israele (Galati 2,7-10). Ma la questione risorse ben presto, in occasione di una visita di Pietro ad Antiochia. Per non paralizzare la vita di una comunità mista e per rendere possibile, in particolare, la celebrazione dell'eucaristia, generalmente associata a un pasto fraterno, i giudei convertiti trovavano naturale, sull'esempio di Paolo, sottrarsi alle leggi alimentari. Anche Pietro all'inizio del suo soggiorno fece lo stesso. Ma dopo l'arrivo di alcuni emissari di Giacomo, egli si ravvide e si tenne in disparte, "per paura dei circoncisi", trascinando con sé gli altri cristiani israeliti, Barnaba compreso. Paolo reagì con vigore: "Io mi opposi a lui apertamente, perché aveva sbagliato" (Galati 2,11 sgg.). Gli Atti ci danno una versione notevolmente diversa dell'accaduto. Alcuni cristiani anonimi, giunti dalla Giudea ad Antiochia e, a quanto pare, senza mandato ufficiale, pretendevano di obbligare i pagani convertiti a farsi circoncidere, cioè a diventare giudei nello stesso tempo che cristiani. Paolo, Barnaba e altri si recarono allora a Gerusalemme per riferire l'accaduto ai Dodici. Malgrado l'opposizione degli intransigenti, che volevano imporre ai Gentili l'osservanza integrale della Legge, Pietro difese, senza la minima riserva, il punto di vista di Paolo, vantandosi di averlo personalmente messo in pratica, e si richiamò al titolo di Apostolo dei Gentili che Paolo non aveva mai cessato di rivendicare (Atti 15). Giacomo propose però una soluzione di compromesso, che fu adottata dall'assemblea e consolidata in quello che si chiama comunemente il decreto apostolico (Atti 15,28-29): ai pagani convertiti bisogna imporre soltanto un minimo di osservanze rituali: "astenersi dalle carni immolate agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalla fornicazione"; quest'ultimo termine designava con ogni probabilità non la lussuria, ma i matrimoni tra gradi di parentela proibiti dalla Legge giudaica. Se, come sembra, il testo degli Atti e quello di Paolo si riferiscono allo stesso episodio, vi sono tra i due delle contraddizioni insanabili. Gli Atti, chiaramente, minimizzano il dissidio e attribuiscono ai protagonisti un'identità di vedute che viene smentita dall'Epistola ai Galati. E' evidente che Paolo, il quale - a suo stesso dire - non aveva subito alcuna imposizione da parte dei gerosolimitani, non avrebbe potuto accettare per i suoi convertiti non giudei anche quel minimo di osservanze rituali codificato dal decreto, senza rinnegare contemporaneamente se stesso. È probabile dunque che si tratti di una decisione presa in sua assenza, in rapporto all'incidente di Antiochia; non è possibile però fissare con esattezza l'ordine di successione dei due fatti: il decreto può essere la causa del voltafaccia di Pietro, come la conseguenza dell'incidente; in questo caso suo scopo sarebbe stato quello, di evitarne il ripetersi. Paolo in ogni caso, ne fu informato ufficialmente da Giacomo - a quanto risulta dagli Atti stessi (21,25) -, soltanto alla fine della sua carriera. Lungi dal rappresentare il trionfo delle sue idee, il decreto, affermando la perennità e la portata universale di una parte, sia pur modesta, dell'osservanza giudaica, ne rappresenta il disconoscimento.


5. PAOLINISMO E GIUDEO-CRISTIANESIMO

I divieti del decreto riproducono, in forma esplicita, la parte propriamente rituale dei comandamenti detti noachici, cioè rivelati a Noè, che i rabbini imponevano ai "timorati di Dio" (vedi p. 36). E' certo che nell'intenzione dei gerosolimitani il decreto equivaleva all'assimilazione dei pagani convertiti ai mezzi-proseliti. Si faceva così del cristianesimo una sorta di giudaismo mitigato. Definendo un minimo di prescrizioni esigibili da tutti, esso per lo meno precisava nello stesso tempo un massimo che nessuno poteva obbligare i cristiani di origine pagana a superare. Da questo punto di vista, il decreto stesso proclamava, a suo modo, l'autonomia del cristianesimo. Sembra tuttavia che alcuni dei Dodici non si siano limitati a ciò. Rimasti legati, come la maggior parte dei fedeli di provenienza giudaica, all'osservanza integrale, essi cercarono d'imporla anche ai neofiti di altra provenienza. Una missione propriamente giudeo-cristiana si sviluppò a poco a poco non soltanto nelle regioni che Paolo non aveva evangelizzato, e delle quali gli Atti non parlano, ma anche nelle zone a lui riservate, e sulle sue stesse tracce. Paolo, in effetti, denuncia con vigore l'azione di questi missionari che, procedendo sulla sua scia, modificano il suo insegnamento e predicano un altro Vangelo e un altro Gesù (Galati 1,6-7; II Corinzi 11,4). Il discorso di I Corinzi, 9 sugli idolotiti (carni immolate agli idoli) rappresenta una malcelata polemica contro il decreto. E nelle Chiese di Galazia si pretende dai pagani convertiti l'accettazione non solo delle prescrizioni alimentari fondamentali, ma della totalità della Legge e in particolare della circoncisione (Galati 4,10; 5,2 sgg.). Paolo non denuncia per nome gli iniziatori di questo movimento. Ma è significativo che vi fosse a Corinto un partito di Cefa, cioè di Pietro (I Corinzi 1,12). E le lettere di raccomandazione che alcuni dei rappresentanti di questo partito esibivano per autenticare il loro apostolato (II Corinzi 3,1) dovevano necessariamente provenire da un'autorità incontestata, da qualcuno dei Dodici, forse Pietro, o - con maggiore probabilità - Giacomo, fratello del Signore, tutti e due designati come le "colonne" (Galati 2,9), ai quali si riferisce probabilmente anche l'ironica definizione di "super-apostoli" (II Corinzi 11,5; 12,11). Non siamo sufficientemente informati sull'atteggiamento di Pietro dopo l'incidente di Antiochia (le due epistole comprese nel Nuovo Testamento sotto il suo nome sono di dubbia autenticità). Forse, dopo le esitazioni iniziali, egli si allineò sulla tendenza moderata espressa nel decreto apostolico. Ignoriamo ugualmente che cosa avvenne di lui dopo il suo periodo gerosolimitano. Una tradizione antica, che sembra abbastanza sicura, lo fa morire a Roma, vittima della persecuzione neroniana del 64. Ma gli scavi recentemente compiuti sotto la basilica di San Pietro, non hanno fornito la conferma clamorosa che alcuni si attendevano. Quanto a Giacomo, vero e proprio capo della comunità palestinese dopo la partenza di Pietro e morto martire a Gerusalemme nel 62 per motivi del tutto oscuri, la tradizione lo presenta come un legalista intransigente. I giudeo-cristiani si sono, con qualche ragione, richiamati al suo patronato. Definiamo giudeo-cristiano quel ramo della Chiesa antica che, reclutato essenzialmente, ma non unicamente, in Israele, pretendeva di unire la fede in Gesù Messia a un'osservanza rigorosa della Legge giudaica. Storicamente i suoi seguaci sono i discendenti della prima comunità di Gerusalemme, emigrata in parte nella città transgiordana di Pella in seguito agli avvenimenti del 66-70, dopo il martirio del suo capo. Direttamente colpiti dalle catastrofi palestinesi, essi furono ben presto ridotti al rango di una setta eretica: la Chiesa si evolveva e diveniva sempre più Chiesa dei Gentili. Fino all'inizio del V secolo essi condurranno, sotto il nome di Ebioniti o Nazarei, un'esistenza oscura. Finiranno poi per scomparire, assorbiti in parte dalla grande Chiesa, in parte dalla Sinagoga. Essi si distinguevano dagli altri cristiani non soltanto per il loro ritualismo, ma anche per alcuni aspetti dottrinali; era per esempio tipica di alcuni di essi una cristologia molto arcaica, che non riconosceva la divinità del Cristo. Il prestigio di Paolo nella Chiesa antica fu considerevole. Ne è prova l'inserimento delle sue epistole nel canone scritturistico: da qui deriva il ruolo fondamentale svolto dal suo pensiero nei successivi sviluppi della teologia cristiana. La sua influenza sulle prime generazioni era stata senza dubbio più modesta. Essa si esercitò direttamente in un settore geografico molto limitato, essenzialmente Asia Minore e Grecia, e fu, anche durante la sua vita, contrastata con energia e talvolta con efficacia. Considerando l'insieme della cristianità nascente, non sembra infatti che le idee di Paolo si siano imposte incontestabilmente. Se l'autore degli Atti ha registrato il decreto, presentandolo come il prodotto di una decisione unanime dei gerosolimitani e di Paolo, ciò vuol dire che al suo tempo esso era applicato dovunque. Sappiamo infatti da diverse testimonianze che il decreto restò in vigore per molto tempo, anche nelle regioni che non furono toccate falla prima ondata missionaria. La fine del I e l'inizio del II secolo sono caratterizzati da un cristianesimo moralizzante e da un nuovo legalismo, espresso in particolare dai cosiddetti Padri Apostolici. I grandi temi paolini sono assenti nelle loro opere. Si insiste sulla nozione di merito e sulle "opere" e si raccomanda una osservanza molto vicina, nello spirito e nella forma, a quella giudaica. Un identico atteggiamento è presente, nello stesso Nuovo Testamento, nell'epistola attribuita a Giacomo. Tra il cristianesimo di forma paolina, che ha completamente rotto i ponti con il giudaismo, e il giudeo-cristianesimo, che tenta una sintesi delle due religioni, la corrente maggiore della Chiesa, nella linea del decreto apostolico, rappresenta una posizione intermedia. Nel corso del II secolo essa condurrà a quello che talvolta viene chiamato proto-cattolicesimo (Fruh-katholizismus).

(continua...)

15/12/2008 10:43



ELEMENTI GIUDAICI ED ELEMENTI GRECI NEL CRISTIANESIMO PRIMITIVO


1. IL PROBLEMA

Nato dal giudaismo, il cristianesimo si è impiantato e sviluppato in ambiente greco-romano. Fenomeno originale, esso ha ugualmente sentito l'influenza dell'ambiente nel quale si è sviluppato. Uno dei problemi maggiori della storia delle origini cristiane è appunto quello di precisare il peso degli elementi giudaici e degli elementi ellenistici nella sua genesi ed evoluzione. La ricerca ha conosciuto e conosce ancora, in questo settore, esitazioni e incertezze. Gli studi sono stati a lungo dominati dagli a priori confessionali e da una certa concezione dell'ortodossia che faceva dell'originalità assoluta il criterio di verità. Non c'era posto, nella storia cristiana, per influenze e apporti esterni. Nella lotta tra verità ed errore il cristianesimo si presentava come completamente diverso da tutto ciò che lo circondava e non paragonabile nemmeno con ciò che poteva somigliargli. Stabilire un paragone che potesse chiarire certe affinità dovute all'influenza dell'ambiente, significava misconoscere l'essenza della rivelazione; lo storico cristiano si sentiva quindi spesso tenuto a "sottrarre il Vangelo ad accostamenti compromettenti" (M.J. Lagrange). Senza contestare l'esistenza e la legittimità dello sforzo di sintesi tentato da alcuni Padri della Chiesa, tra la rivelazione biblica e il pensiero greco, diversi studiosi cattolici hanno cercato almeno di negare qualsiasi influenza della religiosità pagana sugli scritti neo-testamentari. Alcuni protestanti liberali invece, credendo di trovare in un cristianesimo senza dogmi la purezza e la semplicità del messaggio evangelico primitivo, consideravano come una deviazione tutto il sistema dottrinale della Chiesa antica e tutto ciò che, anche nel Nuovo Testamento, sembrava portare il segno della speculazione filosofica greca. Si contrapponeva allora al "Discorso della montagna", con il suo contenuto etico, il credo di Nicea, così carico di metafisica: "Il primo appartiene al mondo dei contadini siriaci, il secondo al mondo dei filosofi greci". I primi tentativi di illuminare il cristianesimo nascente attraverso il suo contesto pagano sono nati sia da questa tendenza, sia dall'iniziativa di studiosi non confessionali, inclini talvolta a vedere nel cristianesimo un semplice sottoprodotto della religiosità ellenistica. Essi, a torto o a ragione, sono sembrati nel primo caso dei nemici del cattolicesimo, nel secondo, dei nemici del cristianesimo in generale. Per arrivare a una visione più serena e nello stesso tempo più realistica, è necessario che la storia si liberi sia dalla tutela della teologia e dell'apologetica sia da quella delle diverse ideologie antireligiose. Si pensi, a questo proposito, al tentativo degli storici marxisti per spiegare il cristianesimo. Per questi studiosi ogni religione è rigorosamente determinata dalle condizioni sociali ed economiche del gruppo nel quale essa si sviluppa. In particolare il cristianesimo sarebbe, all'inizio, l'espressione del proletariato. Il fermento rivoluzionario implicito nel cristianesimo sarebbe stato soffocato dal fatto che esso predicava la rassegnazione e non la lotta violenta, e prometteva ai diseredati la ricompensa della loro miseria presente in un Regno futuro. Il cristianesimo avrebbe dunque avuto anche un aspetto reazionario. Quest'ultima caratteristica si sarebbe andata sempre più accentuando con l'assimilazione di elementi intellettuali modellati sulla cultura delle classi dirigenti e soprattutto con l'alleanza con l'autorità imperiale al tempo di Costantino.


2. CRISTIANESIMO ED ELLENISMO

Gli storici del cristianesimo sono oggi generalmente d'accordo, siano essi credenti o no, nell'affermare da una parte la specificità del fatto religioso che, malgrado interferenze spesso importanti, non si lascia ridurre all'infrastruttura economica, sociale o politica di un ambiente determinato, dall'altra la necessaria autonomia della loro disciplina da ogni costruzione teologica o filosofica. Anche quegli studiosi che sono più legati a posizioni confessionali riconoscono che il cristianesimo, in quanto fenomeno storico, non si è sviluppato in una campana di vetro. La possibilità di influenze provenienti dall'ambiente non possono essere dunque scartate a priori. È necessario anzi cercare di valutarle nella loro giusta misura e di precisare i punti di contatto. Posto di fronte alla cultura greco-romana, il cristianesimo si è sforzato di assimilarne certi valori, adattandoli e ripensandoli. Già gli Apologisti del II secolo e, con maggiore ampiezza e in modo più sistematico, i grandi alessandrini, Clemente e Origene, e poi i Padri della fine del IV secolo, Agostino in Occidente e i Cappadoci in Oriente, Basilio, Gregorio di Nissa, Gregorio il Nazianzo, hanno tentato di realizzare una sintesi tra il cristianesimo e la cultura classica. Le controversie dottrinali del III e del IV secolo e le conseguenti formulazioni dell'ortodossia ecclesiastica fanno largo uso del vocabolario e dei concetti della filosofia greca. È questo un fatto universalmente riconosciuto. Il problema è quello di determinare quando ebbe inizio questo processo.


3. IL PAOLINISMO

Le ricerche al riguardo sono concentrate soprattutto sul pensiero di san Paolo. La scuola comparatista, detta religionsgeschichtliche Schule, che si è sviluppata in Germania all'inizio del secolo (Reitzenstein, Bousset, ecc.), le cui posizioni erano rappresentate in Francia da Loisy e Guignebert, si è applicata a mettere in luce le analogie esistenti tra il paolinismo e alcuni aspetti della religiosità pagana dell'epoca. Secondo questi studiosi tali analogie erano troppo precise per essere fortuite: dovevano quindi essere spiegate con l'influenza dell'ambiente ellenistico sul cristianesimo nascente. I punti di paragone e le possibili fonti di influenza non dovevano essere ricercate nella filosofia greca classica, in quell'epoca ormai in declino, e con la quale i cristiani della prima generazione non avevano avuto, a quanto pare, alcun contatto, se non sotto una forma volgarizzata in cui la morale occupava un posto maggiore della metafisica (diatriba cinico-stoica), quanto nel pensiero specificamente religioso: culti misterici, ermetismo, gnosi pagane.


A) LA CRONOLOGIA

Alla scuola comparatista si rivolge innanzi tutto una obiezione preliminare. La grande diffusione dei culti misterici nell'Impero (II-III secolo) e la redazione degli scritti ermetici così come ci sono giunti, sono posteriori all'entrata in scena del cristianesimo, e la stessa esistenza di sistemi gnostici anteriori alla gnosi cristiana o cristianizzante del II secolo, resta ipotetica. Influenze sul cristianesimo nascente sarebbero dunque così escluse dalla cronologia. Alcuni hanno quindi pensato di individuarle in senso inverso. In realtà l'impronta del cristianesimo sugli scritti ermetici appare certa, ma ciò non esclude che le dottrine ermetiche abbiano delle radici precristiane. I culti misterici inoltre hanno origini ben più antiche del cristianesimo. Essi avevano già cominciato a diffondersi nel bacino del Mediterraneo, in particolare nella parte orientale, quando la missione cristiana era ancora agli inizi. Anche per ciò che riguarda l'Occidente, la prima diffusione del culto di Mitra, per esempio, è immediatamente successiva alle campagne romane contro Mitridate e contro i pirati di Cilicia (verso il 67 a.C.). Si discute ancora se la setta dei Mandei, ancor oggi rappresentata in Mesopotamia, della quale possediamo gli scritti, e alla quale alcuni studiosi hanno attribuito un ruolo importante nelle origini cristiane, sia anteriore al cristianesimo o no. Ma l'esistenza di varie forme di pre- o proto-gnosticismo, contemporanee almeno agli inizi del cristianesimo, è sempre più generalmente ammessa. Quando inoltre si ritrova in san Paolo una concezione di cui né la predicazione di Gesù né gli insegnamenti della Sinagoga presentano l'equivalente o forniscono la possibile fonte, è metodologicamente legittimo cercarne le radici nell'ambiente ellenistico pagano.


B) L'AMBIENTE DI TARSO

La città natale dell'Apostolo, Tarso in Cilicia, in cui egli trascorse almeno una parte della sua giovinezza, era un importante centro religioso e intellettuale. Vi si celebrava in particolare il culto dell'imperatore, venerato come Signore (Kyrios) e Salvatore (Soter), e quello di una divinità agreste, Sandan, assimilata dai greci a Eracle, che aveva alcune caratteristiche tipiche delle divinità misteriche. Certamente Paolo non praticò né l'uno né l'altro di questi culti. Non è però assurdo supporre che egli assistette alle cerimonie pubbliche di questi culti apprendendone la terminologia e i concetti fondamentali. Si deve anche immaginare che per attrarre i pagani al Vangelo - e ciò vale anche per gli altri missionari - egli utilizzasse termini che fossero loro familiari. Si spiegano così certe analogie precise di vocabolario tra il paganesimo dell'epoca e le epistole di Paolo, in cui termini come gnosis, mysterion, sophia, Kyrios, Soter, svolgono un ruolo importante. Ma questa comunanza terminologica tradisce dei punti di contatto più profondi.


C) PAOLO E LA GNOSI

Paolo polemizza talvolta con le eresie di tipo gnostico che hanno contaminato alcuni membri delle sue comunità (I Corinzi 15, sulla negazione della resurrezione e l'affermazione di una sopravvivenza puramente spirituale; Colossesi 2, sul culto giudaizzante degli angeli e degli "elementi" del Cosmo, cioè degli astri). Ma il suo stesso pensiero presenta tratti chiaramente derivati dallo gnosticismo. L'universo, asservito alle potenze demoniache (I Corinzi 2,8), che sono precisamente gli "elementi" (Galati 4,3 e 9), appare come un recinto in cui si affrontano i padroni del momento e Dio, che deve ricondurlo all'ordine iniziale, interrotto da una caduta che coinvolge l'intero creato. Questa prospettiva è dualistica, e si esprime nell'opposizione, estranea al giudaismo tradizionale, di spirito e carne (I Corinzi 2,14 sgg.; 15,44). Il fine del cristiano è quello di sottrarsi al dominio del male, di spogliarsi dell'uomo carnale per essere puramente spirituale (pneumatikos). È necessario a questo scopo che egli acquisisca la conoscenza o gnosi di salvezza, rivelata dal Cristo (II Corinzi 4,6). Ma mentre gli gnostici distinguono in generale il Dio supremo e redentore dal Creatore o Demiurgo, ridotto al rango di Dio subalterno, di potenza malefica, Paolo non pensa nemmeno lontanamente a mettere in dubbio l'identità del Dio supremo, unico, e del Creatore. Il suo Dio è quello della Bibbia. L'influenza del male sul mondo è la conseguenza della caduta dell'uomo, non è implicita nell'atto della creazione né è nata dalla caduta nella materia dell'elemento divino. Il dualismo di Paolo è così soltanto contingente: le sue conseguenze, già virtualmente cancellate dalla morte e resurrezione del Cristo, saranno totalmente eliminate alla fine dei tempi. Non si tratta dunque, in questa prospettiva, di strappare l'uomo a un mondo che per sua stessa natura è cattivo, ma di condurre il mondo stesso, opera di un Creatore buono, alla totale sottomissione a Dio e contemporaneamente alla sua originaria perfezione, per mezzo di una sorta di seconda creazione, che è anche redenzione (I Corinzi 5,17). Il rigore del monoteismo giudaico e l'ottimismo fondamentale della Bibbia assegnano limiti precisi al dualismo di Paolo.


D) LA GNOSI E IL QUARTO VANGELO

Ciò che abbiamo detto di Paolo è valido anche per il quarto Vangelo, in cui il Cristo è presentato con dei tratti che per molti aspetti richiamano lo gnosticismo: basti pensare a quella così caratteristica opposizione tra vita e morte, tra luce e tenebre. Sebbene "il mondo" non abbia riconosciuto "la luce", che è il Cristo Logos, è dalla luce che il mondo è stato creato (Giovanni 1,10). Non si tratta dunque di eliminare un mondo che è per il momento avvolto nelle tenebre e assoggettato alla morte, ma di ricuperarlo totalmente: è per questo che "il Verbo si è fatto carne" (Giovanni 1,14). Mentre nei sistemi gnostici l'incarnazione di un essere celeste e spirituale, attratto dal mondo materiale, segna in generale l'origine della degradazione universale e costituisce propriamente la caduta, nel quarto Vangelo essa è l'origine del riscatto. Così l'opposizione gnostica tra spirito e carne viene superata, perché la carne stessa, ricettacolo e simbolo del male, è come spiritualizzata dall'incarnazione del Verbo.


E) MISTERI PAGANI E MISTERO CRISTIANO

Strumento della liberazione sarà per i cristiani, secondo Paolo, l'unione mistica con il Cristo più che una conoscenza salvifica. Per questo aspetto il pensiero di Paolo è più vicino alle religioni misteriche che a una qualsiasi forma di gnosi. Il fedele, morto e risuscitato con il Cristo nel battesimo, partecipa per mezzo di questa unione sacramentale al destino del Salvatore. Gli effetti del battesimo sono rafforzati dalla partecipazione all'eucaristia. Il fedele, integrato al corpo del Cristo, che è la Chiesa, è virtualmente sottratto alle potenze del male e conquista, se saprà evitare una ricaduta, la certezza della resurrezione e di un'immortalità felice. Così pure divenendo misticamente partecipe, per mezzo di alcuni riti di cui purtroppo ignoriamo i particolari, del destino del suo dio, il fedele di Osiris o di Attis si assicura la salvezza per l'eternità. E' difficile, nel trattare la concezione paolina della salvezza mediante l'assimilazione del fedele al Cristo, non tener conto delle influenze dei culti misterici, più o meno consapevolmente subite da Paolo. Ma anche in questo caso le differenze sono molto chiare. I misteri pagani, con la sola eccezione del mithraismo - che non possiede l'idea di un dio che muore e risuscita, come Attis o Osiris, anche se possiede quella di un dio salvatore - non attribuiscono all'opera di salvezza del loro dio una dimensione cosmica, né un valore propriamente di redenzione: non è per riscattare l'umanità e il mondo che le divinità di queste religioni subiscono la morte. Esse muoiono vittime della fatalità o delle potenze malefiche, e non nel quadro di un piano divino che fa della loro morte la condizione e lo strumento del riscatto universale. La loro morte e la loro resurrezione non fanno altro che ripetere il ciclo immutabile della vegetazione, che muore in autunno per rinascere in primavera. E' a titolo individuale che il fedele è associato al loro destino: l'idea paolina della Chiesa corpo del Cristo non sembra avere equivalenti nel mondo pagano. Infine la figura centrale del mistero cristiano non è, come nei misteri pagani, una figura mitica, la cui esistenza terrena, come l'immaginano i fedeli, si collochi alle lontane origini dell'umanità. E' un personaggio storico, di una storia recentissima, che "ha sofferto sotto Ponzio Pilato".


F) IMPORTANZA E LIMITI DELLE INFLUENZE ELLENISTICHE IN PAOLO

Se l'originalità del cristianesimo di Paolo in rapporto a quello di Gerusalemme e allo stesso messaggio di Gesù, si spiega in larga misura con l'influenza dell'ambiente ellenistico, questa influenza è tuttavia limitata dall'esistenza storica di Gesù, dalla tradizione biblica a cui Paolo è strettamente legato, e anche dal fatto che l'Apostolo, sia prima che dopo la conversione, vedeva nel paganesimo un'opera del demonio e rifiutava ogni compromesso con esso. Si ha talvolta la sensazione che Paolo, segnato dal suo atavismo giudaico, si sforzi più o meno consapevolmente di conciliare ciò che è difficilmente conciliabile. Le esitazioni del suo pensiero riguardo, per esempio, alla vita futura potrebbero spiegarsi bene così. Come ex-fariseo egli professava la resurrezione dei corpi, che un greco difficilmente avrebbe ammesso, alla fine dei tempi. La resurrezione del Cristo, elemento essenziale della sua predicazione, rinforzò in lui questa concezione tradizionale: la resurrezione di Cristo garantisce quella dei fedeli (I Corinzi 15,12 sgg.). Ma egli tende anche talvolta verso l'idea di una immortalità, immediatamente successiva alla morte del corpo, come la concepiva la filosofia spiritualistica greca (II Corinzi 5,8; Filippesi 1,23). È tuttavia difficile per lui immaginare una sopravvivenza del tutto spirituale: da ciò deriva la sua concezione del "corpo spirituale" (I Corinzi 15,44 sgg.) e la sua tacita assimilazione di resurrezione corporea e immortalità, perché negare l'una avrebbe significato per lui negare anche l'altra.


4. CRISTIANESIMO E GIUDAISMO

Nel campo delle origini cristiane non bisogna mai porre in maniera troppo netta il dilemma: giudaico o greco? Non è infatti possibile contrapporre i due termini. Lo stesso giudaismo, malgrado il suo rifiuto di ogni sincretismo, non poté restare completamente chiuso alle influenze esterne. E' proprio in gran parte attraverso il giudaismo ellenizzato della Diaspora che queste influenze raggiunsero san Paolo e, più in generale, il cristianesimo nascente.


A) IL GIUDAISMO ELLENISTICO

Paolo conosceva probabilmente l'ebraico e l'aramaico. Ma fu il greco, anche se ci appare così pieno di semitismi, la sua lingua materna; ed è nella traduzione dei Settanta che egli legge e cita - talvolta a memoria - la Bibbia. Certamente egli non conobbe Filone. Esistono tuttavia tra i due affinità di pensiero dovute al fatto che essi vivevano in ambienti intellettuali simili e attingevano alle stesse fonti. E' difficile credere che Filone presentasse sistematicamente il giudaismo in termini di mistero ellenistico. Si trovano per altro nelle sue opere elementi attinti, secondo ogni apparenza, alle religioni misteriche. Per Paolo come per Filone, la letteratura giudaica sapienziale, canonica o non (Sapienza di Salomone, Proverbi, Ecclesiaste, Siracide), rappresenta uno dei più importanti anelli di congiunzione con il pensiero greco. Il cristianesimo per altro, nel momento in cui cominciò a rivolgersi ai Gentili, si collocò in qualche modo nel solco del giudaismo alessandrino. Attinse a questo il metodo dell'esegesi allegorica, anch'esso di origine pagana, che viene applicato all'Antico Testamento, e che la Lettera di Aristea e, con maggiore ampiezza, Filone avevano già praticato.


B) L'ESEGESI ALLEGORICA

L'allegoria serviva ai giudei alessandrini per rinforzare l'autorità della Legge. Al contrario, per i cristiani essa serviva a dimostrare che la Legge, dopo la venuta del Cristo, non poteva avere altro che un valore simbolico. Se essi, come l'Epistola di Barnaba e i giudei ellenizzati, vedono volentieri nei riti o negli episodi biblici l'espressione di verità metafisiche o morali, vi cercano anche e soprattutto l'annuncio delle realtà cristiane: il sacrificio di Isacco, per esempio, prefigura quello di Cristo. Alla dimensione verticale dell'allegoria giudaica si aggiunge e spesso si sostituisce una dimensione orizzontale e storica; all'allegoria si unisce una tipologia: la Legge rituale è sia "l'immagine e l'ombra delle cose celesti" sia "l'ombra dei beni futuri" (Ebrei 8,5 e 10,1).


C) FILONE E IL NUOVO TESTAMENTO

Il pensiero di Filone presenta affinità troppo precise, con certi scritti del Nuovo Testamento, per essere fortuite: basti pensare al prologo del quarto Vangelo e alla sua dottrina del Logos, o in maniera ancora più evidente, all'Epistola agli Ebrei, che potrebbe essere certo opera di un "filoniano convertito al cristianesimo". Anche il Logos di Giovanni presenta tratti e caratteristiche simili a quello di Filone, con la differenza fondamentale che per Giovanni il Logos si è fatto carne; l'incarnazione del Verbo è infatti impensabile nella teologia di Filone. L'originalità essenziale del cristianesimo di fronte a tutte le sfumature del giudaismo consiste proprio nell'identificazione, nella persona di Gesù, del Logos e del Messia. Resta sempre comunque il fatto che il cristianesimo non avrebbe mai potuto spiegare Gesù come Logos se questa parola e questo concetto non fossero stati divulgati da Filone nel giudaismo alessandrino. Il pensiero di Filone poté influenzare però soltanto un cristianesimo che stava già ellenizzandosi. Le influenze giudeo-alessandrine rappresentano quindi un fenomeno non immediato. Pur avendo contribuito in modo notevole a modellare la teologia della Chiesa nascente, esse non si ritrovano nella genesi del cristianesimo né nelle forme più arcaiche della cristologia. Prima di riconoscere in lui il Logos fatto uomo, i primi cristiani hanno interpretato la figura di Gesù in termini prettamente biblici: Profeta, Messia, Servo Sofferente, Figlio dell'Uomo. È dalla Palestina che sono venuti i primi apporti e le prime influenze.


D) IL GIUDAISMO PALESTINESE

L'opposizione tra il giudaismo della Diaspora e quello palestinese è stata spesso esagerata. Non esiste un solco profondo tra queste due metà del mondo giudaico. Il problema deve essere molto più sfumato di quanto talvolta si è creduto. La tradizione di pensiero alessandrina non è rappresentativa della Diaspora nel suo complesso, nella quale la Terra Santa mantiene un grande prestigio ed esercita una notevole influenza. Studi recenti hanno messo in luce precise affinità tra san Paolo e il giudaismo rabbinico, quello delle scuole palestinesi. Così pure, se quest'ultimo è certamente molto meno ellenizzato di quello d'Alessandria, non è tuttavia completamente chiuso alle suggestioni della cultura greco-romana. Il greco era utilizzato in Palestina anche dai rabbini: l'uso di questa lingua portava spesso, come conseguenza, influenze più profonde. Esse non furono però così importanti come ad Alessandria: è il giudaismo palestinese in definitiva, considerato nei suoi tratti specifici, che ci fornisce il maggior numero di elementi utili a illuminare le origini del cristianesimo. E' necessario dunque inquadrarlo in tutta la sua complessità.


E) SADDUCEI E FARISEI

Sebbene gli Atti (6,7) ricordino la conversione di numerosi sacerdoti, non sembra che la Chiesa nascente debba molto ai Sadducei, avversari principali di Gesù, e il cui spirito e le cui tendenze appaiono diametralmente opposte a quelle dei primi discepoli. Il problema dei Farisei è più delicato. Sempre secondo gli Atti (15,5), la Chiesa primitiva trovò tra i Farisei dei seguaci intransigenti, che pretendevano dai pagani convertiti un'osservanza integrale della Legge, al contrario di quanto predicava san Paolo. Il loro ruolo fu forse considerevole nello sviluppo del giudeo-cristianesimo classico, rappresentato alla prima generazione da Giacomo, fratello del Signore. Fu tuttavia con un giudaismo identificato, dopo il 70, con il fariseismo, che la Chiesa nascente ruppe i ponti, e fu intorno al fariseismo che si organizzò la resistenza giudaica al cristianesimo. L'intervento di san Paolo e l'interpretazione particolare che egli propose del messaggio cristiano, ebbero un'importanza decisiva nell'irrigidimento giudaico. Ma il conflitto era già in germe all'inizio stesso dello sviluppo della Chiesa, e nella predicazione di Gesù. Se tra quest'ultima e l'insegnamento rabbinico si possono notare affinità precise su diversi punti, è anche vero che i Vangeli rivelano dei contrasti di fondo: troviamo in essi molto più che una semplice trasposizione, anticipata nella vita del Maestro, delle polemiche della seconda generazione cristiana con la Sinagoga. Gesù rivendicava un'autorità eccezionale che lo portò a negare l'insegnamento tradizionale degli "antichi" e addirittura a correggere la stessa Legge di Mosè. In effetti, se si considerano le credenze fondamentali e le aspirazioni della Chiesa nascente, è dalla parte degli ambienti apocalittici, che ispirano tra l'altro alcuni Apocrifi e Pseudoepigrafi dell'Antico Testamento, che notiamo le affinità più nette.


F) GESU' E GLI ZELOTI

Alcuni studiosi hanno creduto di poter individuare un legame tra il cristianesimo nascente e il nazionalismo zelota. Gesù e i suoi discepoli avrebbero predicato un messianismo politico ostile a Roma e tendente a instaurare, in una Palestina liberata dagli idolatri, la regalità del Cristo. Proprio per aver partecipato attivamente alla rivolta giudaica la Chiesa di Gerusalemme avrebbe perduto, dopo il 70, ogni influenza sulla giovane cristianità. Questi studiosi sono costretti a respingere la testimonianza di Egesippo, secondo il quale i primi discepoli avrebbero lasciato Gerusalemme per trasferirsi nella città transgiordana di Pella, già all'inizio delle ostilità, separando così la propria responsabilità da quella degli insorti. Essi danno invece stranamente credito ad alcuni passi, estremamente sospetti, di una versione slava di Flavio Giuseppe, che fanno di Gesù un agitatore politico. L'eclissi della Chiesa madre dopo il 70 trova una spiegazione sufficiente nel suo isolamento geografico e nel fatto che essa restò legata al ritualismo giudaico, ripudiato in seguito da Paolo a causa dei fedeli di origine pagana. Se Gesù fu effettivamente giustiziato, come uno zelota, per messianismo politico, ciò avvenne a causa di un'interpretazione errata, voluta o non, del significato del suo messaggio, le cui implicazioni rivoluzionarie nei confronti dell'ordine romano erano di tutt'altra natura dell'appello degli Zeloti alla violenza. Gesù visse per altro in un ambiente profondamente permeato dalle idee degli Zeloti e dovette prendere posizione di fronte a esse, sconfessandole.


5. QUMRAN E IL CRISTIANESIMO

In definitiva è soprattutto in rapporto a tendenze e raggruppamenti marginali che si pone il problema delle influenze subite dal cristianesimo nascente. Questo problema è stato completamente rinnovato dalla scoperta dei manoscritti del Mar Morto. Le appassionate polemiche suscitate da questi testi si sono gradualmente placate e, in un'atmosfera divenuta sempre più serena, le iniziali divergenze si sono progressivamente ridotte. Un accordo quasi unanime esiste oggi sui punti essenziali.


A) STATO DELLA QUESTIONE

I documenti del Mar Morto - sia che si tratti della redazione stessa degli scritti o dei manoscritti che ce li hanno tramandati - non possono essere posteriori alla guerra giudaica, nel corso della quale il monastero di Qumran fu distrutto e definitivamente abbandonato: è questo un tipico esempio di quanto l'archeologia possa aiutare lo storico. La comunità da cui essi provengono è quella degli Esseni. Nessuna delle altre identificazioni proposte è pienamente soddisfacente. Tutte sollevano infatti obiezioni non facilmente eliminabili. In particolare non resiste all'esame la tesi zelota che ha conosciuto una certa eco grazie a studiosi di notevole valore. Essa però, insistendo sul bellicoso spirito di rivincita antiromana che anima alcuni scritti, ha contribuito a sottolineare le contraddizioni esistenti con quel quadro idillico di un essenismo pacifista disegnato da Filone e Giuseppe. Si possono prospettare varie ipotesi: che questi autori abbiano sbagliato oppure che ci abbiano ingannato, o che l'essenismo fosse diviso su questo punto fondamentale, o ancora - il che è certamente più probabile - che esso si sia evoluto, allineandosi, nella sua totalità o in parte, all'inizio della insurrezione del 66, a quel messianismo aggressivo di cui gli Zeloti, animatori della rivolta, erano i rappresentanti tipici. La difficoltà non è dunque irriducibile. Su tutti gli altri punti infatti le convergenze tra i manoscritti del Mar Morto e le altre notizie di autori antichi sugli Esseni, sono talmente precise che non lasciano adito a dubbi. Tutt'al più si potrà vedere nella comunità di Qumran, come fanno alcuni studiosi, una delle varie ramificazioni dell'essenismo o - cosa di gran lunga meno probabile - un ambiente molto vicino all'essenismo. Essendo la cronologia dei documenti e della storia della setta fissata con sufficiente precisione, almeno per quanto riguarda il terminus ante quem (66-70), si pone necessariamente il problema dei rapporti con la Chiesa primitiva. Qumran esiste ancora al momento in cui il cristianesimo entra in scena. L'essenismo è forse in questo momento al suo apogeo. E' dunque legittimo porsi il problema di possibili interferenze. Già Renan, sospettando alcune precise affinità sulla base dei documenti di cui allora si disponeva, poteva affermare: "Il cristianesimo è un essenismo che ha avuto grande successo". Dopo la scoperta dei manoscritti c'è stato almeno uno studioso che nella comunità di Qumran ha visto una comunità cristiana. Una tesi del genere non è sostenibile. Ma essa rappresenta l'interpretazione errata di somiglianze notevoli, su diversi punti, tra quel tipo di giudaismo che ci hanno rivelato i manoscritti del Mar Morto e il cristianesimo primitivo.


B) IL MAESTRO DI GIUSTIZIA E IL CRISTO

Somiglianze esistono, prima di tutto, tra il misterioso Maestro di Giustizia e il Cristo, tanto che i sostenitori della tesi cristiana pensano che si trattasse di un'unica persona. Esse sono evidenti nella coscienza che i due personaggi hanno della loro vocazione, fondata sugli stessi testi della Scrittura, e in particolare sui passi di Isaia relativi al Servo Sofferente; nel parallelismo dei loro drammatici destini, segnati dall'ostilità del sacerdozio ufficiale e suggellati dal martirio (come sembra probabile anche per il Maestro di Giustizia); nella venerazione da cui sono circondati, anche dopo la morte, da parte dei rispettivi discepoli. In alcuni inni (hodayoth) che furono probabilmente scritti da lui stesso, il Maestro ci appare come un capo di Chiesa, esattamente come Gesù. Ma a queste somiglianze si accompagnano differenze altrettanto nette, più volte sottolineate: il Maestro di Qumran proviene dal sacerdozio di Gerusalemme, è un asceta esigente, che impartisce al piccolo gruppo dei suoi eletti, gelosamente ripiegato su se stesso, un insegnamento esoterico; Gesù è il profeta popolare di Galilea, che predica alle folle, ricerca la compagnia dei peccatori e dei reietti per poterli attrarre a sé, interpreta e ammorbidisce i precetti mosaici. Non è possibile identificare le due figure, né presentare Gesù come un semplice calco, senza realtà storica, del Maestro di Giustizia. Su vari punti inoltre la predicazione di Gesù si distacca volutamente e con chiarezza dalla dottrina essenica. Si deve tuttavia notare che molte delle critiche rivolte da Gesù alla setta di Qumran colpiscono nello stesso tempo il giudaismo ufficiale. In senso inverso alcuni dei tratti comuni all'essenismo e alla Chiesa primitiva si ritrovano in altri settori del giudaismo dell'epoca: basti pensare alle credenze escatologiche e all'attesa della fine dei tempi. E' necessario a questo proposito formulare un principio metodologico: non si potrà individuare una diretta influenza dell'essenismo sul cristianesimo nascente se essa non riguarderà elementi originali e specifici, caratteristici unicamente dei due gruppi. Elementi di questo tipo sono per altro così numerosi e precisi da non lasciare adito a dubbi. Sembra che la Chiesa abbia attinto all'essenismo un certo numero di termini e di concetti, di strutture comunitarie e di schemi teologici. Le affinità sono più o meno nette in rapporto ai vari ambienti che compongono la Chiesa e ai vari scritti del cristianesimo primitivo.


C) LA SETTA DI QUMRAN E IL CRISTIANESIMO NASCENTE

Ci si deve domandare in quali condizioni, per quali canali queste influenze hanno potuto esercitarsi. Nulla autorizza a pensare che tutte le personalità di rilievo del cristianesimo primitivo abbiano soggiornato a Qumran o siano state in contatto diretto con il monastero degli Esseni. Ciò è possibile soltanto per alcuni dei protagonisti della più antica storia cristiana. Ma questa stessa ipotesi non spiega nulla perché proprio tutti i settori della Chiesa nascente presentano, in grado diverso, affinità con l'essenismo. Si può pensare al ruolo decisivo di Giovanni Battista, la cui importanza alla base della predicazione di Gesù è così solidamente attestata. Il messaggio di Giovanni, predicato sul Giordano a pochi chilometri a nord di Qumran, non è privo di analogie con quello degli Esseni: la vicinanza geografica potrebbe in questo caso aver favorito precisi contatti. Non è nemmeno escluso che Giovanni Battista, proveniente da ambienti sacerdotali, proprio come la dissidenza essenica, abbia frequentato la comunità di Qumran prima di fondare una setta autonoma. Egli sarebbe in questo modo uno degli anelli che legano essenismo e cristianesimo. Se ammettiamo che durante la vita di Gesù e nell'epoca apostolica si verificarono contatti individuali tra i rappresentanti dei due gruppi, si può ugualmente pensare che transfughi dall'essenismo, soprattutto dopo il 70, siano venuti a rafforzare i ranghi della Chiesa nascente portandovi l'apporto ideologico e spirituale del loro ambiente d'origine. Ma si deve anche tenere largamente conto di quella letteratura paracanonica, intertestamentaria che, accanto a scritti specificamente qumraniti come il Manuale di Disciplina o le hodayoth, era in onore nella setta essenica, e la cui influenza è altrettanto profonda nel cristianesimo primitivo. Le somiglianze tra i due movimenti deriverebbero allora da una fonte comune. Ma dal momento che è estremamente probabile che una parte almeno di questa letteratura degli apocrifi e pseudoepigrafi sia stata elaborata nell'essenismo stesso, è senz'altro giusto vedere in essa un altro dei canali, e uno dei più importanti, attraverso i quali la setta influenzò il cristianesimo nascente. Né va dimenticato, infine, che l'essenismo non si riduce alla sola comunità di Qumran. C'erano filiali in Palestina, e forse anche nelle regioni della periferia; anche queste hanno potuto giocare un ruolo nello stabilire contatti col cristianesimo nascente.


D) LE AFFINITA': RITI E ISTITUZIONI

Nei testi di Qumran si parla spesso di una particolare Alleanza tra Dio e il gruppo; questa Alleanza, anche se non sostituisce quella del Sinai, è pur sempre una novità, legata alla persona e all'opera del Maestro di Giustizia. A buon diritto quest'ultimo può parlare di "mia alleanza" (Inni 5,23); e nel Documento di Damasco la setta viene definita "Nuova Alleanza al paese di Damasco". Nello stesso modo Paolo proclama l'avvento di una nuova alleanza, suggellata dal sangue di Cristo (I Corinzi 11, 25); il termine Nuova Alleanza rende più fedelmente il greco kainè diathéke che il nostro "Nuovo Testamento". Il regime di comunità dei beni in vigore nella più antica cristianità di Gerusalemme (Atti 4,32-37) assomiglia molto a quello di Qumran. E forse non è nemmeno una coincidenza il fatto che gli Esseni e, sulla scorta di Gesù stesso, i primi cristiani, praticassero la guarigione dei malati e l'esorcismo per mezzo dell'imposizione delle mani: un'usanza per la quale non abbiamo paralleli in altri ambienti giudaici dell'epoca. Alcuni studiosi pensano che Gesù abbia celebrato l'ultima Cena in conformità col calendario essenico, differente dal calendario ufficiale di Gerusalemme. Questa ipotesi affascinante - che non è riuscita a imporsi - spiegherebbe la contraddizione tra i sinottici, che vedono in essa un pasto pasquale, e il quarto Vangelo che nega ad essa questo carattere. Così pure è difficile trovare nell'ambito dell'essenismo un antecedente del battesimo cristiano. Quest'ultimo è conferito una sola volta. Le abluzioni rituali degli Esseni si ripetono invece quotidianamente. Esse facevano senza dubbio parte di un rituale di ammissione alla setta, ma non avevano necessariamente per questo un carattere specifico: la prima abluzione si inserirebbe nel rituale essenico come la prima comunione in quello cristiano. Tuttavia, unico da una parte, reiterato dall'altra, il rito battesimale è in tutti e due i casi un rito di pentimento, legato a una "conversione". Tra la Cena cristiana e i pasti sacri degli Esseni le affinità sono a prima vista più nette. Gli elementi, pane e vino, sono identici. Essi sono per altro gli stessi sui quali è pronunciata la benedizione nel culto domestico giudaico. Non è dunque il rito stesso che sottolinea la parentela tra essenismo e cristianesimo, quanto piuttosto il significato particolare che esso assume nell'una e nell'altra parte. A Qumran non si tratta di un semplice pasto comunitario, di una trasposizione del pasto familiare giudaico. Il carattere strettamente cultuale, sacramentale, del rito, è sottolineato dal fatto che il refettorio appare come un recinto sacro, dalla presenza indispensabile di un sacerdote, il celebrante, e dal fatto che vi sono ammessi soltanto gli iniziati, membri della setta. Se si paragona il Manuale di Disciplina (6,3-5) che codifica il pasto essenico, con un passo della Regola annessa (2,11-22), che descrive il banchetto messianico, che unisce gli eletti intorno al grande sacerdote escatologico - designato in alcuni testi come il Messia di Aaron - e al Messia d'Israele, capo politico, risulta evidente che il primo dei due riti è quasi un'anticipazione del secondo, così come l'organizzazione essenica prefigura quella del Regno avvenire. Si pensa allora al significato che, già nei testi del Nuovo Testamento, riveste l'eucaristia: i Vangeli mettono in rapporto l'ultima Cena con quella che Gesù celebrerà con i suoi discepoli dopo l'instaurazione del Regno (Matteo 26,29; Marco 14,25; Luca 22,16-18); Paolo inoltre vede nell'eucaristia sia il ricordo della morte di Gesù che l'annuncio del suo ritorno (I Corinzi 11,26).


E) LE AFFINITA': CREDENZE

E' ora il momento di parlare delle credenze dell'essenismo e della Chiesa nascente. I due gruppi vivono nell'attesa dei tempi ultimi. E' possibile che gli Esseni abbiano atteso, come i cristiani, il ritorno glorioso del loro Maestro, identificato con il grande sacerdote messianico; è possibile ugualmente che il Maestro di Giustizia sia morto di morte violenta, ma le condizioni dei manoscritti e il loro modo di esprimersi, spesso velato, non permettono di raggiungere, su questi punti, una certezza assoluta. Per altro, se non è escluso che gli Esseni abbiano in qualche modo conferito valore sacrificale alla loro cena, nulla però autorizza a credere che essi mettessero il pane e il vino in rapporto con la carne e il sangue del loro maestro. Accanto a somiglianze notevoli, vediamo così l'elemento specifico introdotto dal cristianesimo. Su molti punti l'insegnamento della Chiesa nascente si incontra con quello degli Esseni. Queste convergenze sono più o meno evidenti in rapporto ai testi che si prendono in esame o ai settori cui si guarda. Le epistole di Paolo presentano diversi paralleli, verbali o di pensiero, con i documenti di Qumran. I "vasi di argilla" della II Corinzi 4,7 corrispondono esattamente alle "creature d'argilla" spesso menzionate nelle hodayoth (1,21; 3,24; ecc.). L'Epistola agli Efesini presenta affinità particolarmente precise, nella fraseologia e nell'ideologia, con la letteratura essenica. E non senza sorpresa si è visto, su un frammento di Qumran, Melchisedec, investito degli attributi del Figlio dell'Uomo escatologico, essere l'oggetto di speculazioni che evocano e chiariscono quelle dell'Epistola agli Ebrei, la cui cristologia sacerdotale si inserisce nel solco del messianismo essenico. Ma sono soprattutto gli scritti giovannei, e in particolare il quarto Vangelo, che offrono le più sorprendenti somiglianze con i testi essenici. Essi presentano lo stesso dualismo cosmico, che oppone le potenze del bene e quelle del male, la verità e l'errore, la luce e le tenebre; in Giovanni come nei testi essenici il dono dello Spirito Santo, o Spirito di Verità, è un fatto escatologico.


6. GIUDAICO E GRECO

Di queste somiglianze potrebbero addursi molti esempi. Sembra che nessun settore della Chiesa nascente sia stato completamente immune dalle influenze dell'essenismo; non è tuttavia giusto considerare il cristianesimo come il sottoprodotto dell'essenismo: ciò significherebbe misconoscere l'apporto positivo, originale, determinante, sia da parte di Paolo che, all'inizio, di Gesù stesso. Ma se l'essenismo non risolve tutti i problemi posti dalla storia delle origini cristiane, li illumina però di una luce nuova ed estremamente preziosa. Esso dispensa inoltre dal ricercare nell'ellenismo, per molti punti, elementi di spiegazione che si ritrovano in definitiva nel giudaismo stesso. Si deve tuttavia notare, a questo proposito, che quelle influenze esseniche che hanno così profondamente segnato il cristianesimo nascente, presuppongono esse stesse, in partenza, degli apporti esterni accolti nel giudaismo: basti pensare al dualismo, comune agli scritti di Qumran e al quarto Vangelo, che, estraneo nel suo principio alla tradizione di pensiero giudaica, testimonia chiaramente una influenza del mazdeismo. D'altra parte, anche prendendo in esame soltanto il cristianesimo, sarebbe senz'altro arbitrario porre troppo rigorosamente il problema: giudaico o greco? In effetti gli apporti di queste due culture si fondono. Le scoperte recenti hanno rivelato tutta l'importanza della prima, ridimensionando nello stesso tempo gli apporti della seconda a proporzioni più modeste di quanto aveva creduto la scuola comparatista; questi apporti non vanno però giudicati nulli. Né Giovanni né Paolo, debitori di due culture per altro strettamente legate, si lasciano ridurre completamente all'una o all'altra. La mistica cristocentrica di Paolo, per esempio, non ha alcun parallelo nel giudaismo. Se non si vuol vedere in essa una creazione del tutto originale dell'Apostolo, bisognerà cercare precedenti o analogie nella religione ellenistica. E se l'apporto giudaico, e più precisamente essenico, si manifesta vigorosamente nelle origini palestinesi della Chiesa e nello stadio iniziale - decisivo - dello sviluppo del cristianesimo, esso è però ovviamente molto meno percettibile fuori della Palestina e nella successiva evoluzione della Chiesa antica, per lo meno nel mondo greco-romano (nell'Oriente semitico le condizioni sono infatti notevolmente diverse). Il problema è dunque quello di valutare nella loro giusta misura e reciprocamente, le varie influenze convergenti, sia nel giudaismo prima di Cristo - in Filone, per esempio, o a Qumran -, sia nella Chiesa nascente, che hanno contribuito a dare un volto al cristianesimo antico. Soltanto in questo modo si può sperare, in particolare, di gettare un po' di luce sulla questione, così controversa, del ruolo esatto svolto da Paolo nella genesi e nello sviluppo del cristianesimo, e dei rapporti tra il suo pensiero e il messaggio di Gesù.

15/12/2008 10:48



DAVID DONNINI

CRISTO - UNA VICENDA STORICA DA RISCOPRIRE



IL BACIO DI GIUDA

La tradizione colloca la cosiddetta "ultima cena" nella sera del giovedì santo, allorché Gesù si sarebbe messo a tavola coi suoi discepoli per il banchetto pasquale. In realtà quel giorno non ricorreva la Pasqua ebraica, ma la vigilia o l'antivigilia; non sappiamo se quell'anno la Pasqua capitasse di venerdì o di sabato; le informazioni che ricaviamo dalle narrazioni evangeliche sono discordanti. In ogni caso i convitati si sarebbero riuniti in un'abitazione al limite sud-occidentale della città, molto vicini al palazzo del sommo sacerdote. Più avanti verrà esaminata l'ipotesi che qui anticipiamo - e che è stata formulata inizialmente da Reimarus, e successivamente sviluppata da Eisler e da Brandon - in base alla quale, in quella particolare circostanza, i seguaci di Gesù sarebbero stati impegnati a preparare un atto di forza nei confronti del presidio romano e delle autorità ebraiche, per trascinare in una grande rivolta messianica il popolo convenuto a Gerusalemme in occasione della festività. Con questi presupposti, possiamo facilmente immaginare come la celebre ultima cena debba essere stata un momento carico di tensione e gravido di pericoli incombenti. Giuda, a un certo punto, si sarebbe alzato e se ne sarebbe andato, piantando tutti in asso. Per la seconda volta, dal momento che un gesto simile lo aveva già compiuto qualche giorno prima in occasione della cena di Betania, quando lo stesso Giuda si era allontanato per trattare coi sacerdoti la consegna di Gesù. Tutto fa pensare che ora l'uomo avrebbe raggiunto i sacerdoti del Tempio, come convenuto, per rivelare i piani della sommossa: nella notte i congiurati si sarebbero raccolti sul Monte degli ulivi, fuori dalle mura, sul lato nord-orientale della città. In altre occasioni il Monte degli ulivi fu effettivamente utilizzato come punto strategico per i rivoltosi che volevano attaccare la torre Antonia (la sede del presidio romano, situata su uno dei quattro angoli del Tempio). Lo storico ebreo Giuseppe Flavio, per esempio, ci testimonia di un certo falso profeta egiziano:

"Arrivò infatti nel paese un ciarlatano che, guadagnatosi la fama di profeta, raccolse una turba di circa trentamila individui che si erano lasciati abbindolare da lui, li guidò dal deserto al Monte detto degli ulivi e di lì si preparava a piombare in forze su Gerusalemme, a battere la guarnigione romana e a farsi signore del popolo con l'aiuto dei suoi seguaci in armi. Felice prevenne il suo attacco, affrontandolo con i soldati romani, e tutto il popolo collaborò alla difesa sì che, avvenuto lo scontro, l'egiziano riuscì a scampare con alcuni pochi, la maggior parte dei suoi seguaci furono catturati o uccisi mentre tutti gli altri si dispersero" (La guerra giudaica II, 13).

Dunque questo tentativo fu sventato in partenza e tutto fa supporre che, anche questa volta, la causa sia stata un tradimento: altrimenti, come avrebbe fatto il procuratore Felice a prevenire l'attacco? Ma torniamo a Cristo e ai suoi seguaci; a un certo punto il gruppo si sarebbe trasferito, in piena notte, nell'orto del Gethsemani, che il nome ebraico ci indica come un frantoio situato sul Monte degli ulivi. Si trattava di un semplice ritiro di preghiera? Così vuole la narrazione evangelica, il cui senso lascia trasparire l'idea che Gesù, consapevole del proprio destino, stesse semplicemente aspettando di essere arrestato. Se non che molte cose fanno sorgere almeno il dubbio che la redazione dei nostri Vangeli sia stata caratterizzata proprio dalla necessità di estraniare la figura di Cristo e dei suoi seguaci da ogni legame con la lotta dei partigiani jahvisti. Comunque sia, la tradizione ci racconta che nel profondo silenzio di quella notte primaverile, in cui faceva sicuramente freddo, si udirono improvvisamente strani rumori e si videro delle luci che si avvicinavano. La prima cosa che viene da domandarsi è questa: se le autorità ebraiche avessero voluto arrestare Gesù semplicemente per la sua scarsa ortodossia religiosa, e non per sventare la rivolta messianica, per quale ragione avrebbero dovuto dipendere dalla complicità di un traditore? Chissà quante altre volte il profeta si era trovato in una posizione vulnerabile in cui non c'era alcun bisogno della mobilitazione notturna di un distaccamento di soldati. Assai spesso si spiega il fatto dicendo che Gesù non poteva essere arrestato mentre predicava alla folla, per evitare sommosse; bisognava prenderlo da parte, magari di notte, nella solitudine. E allora perché tutto quel dispiegamento di forze? La tradizione, in generale, non insiste nel precisare questo dettaglio: tutti hanno in mente l'immagine di un'accozzaglia più o meno disordinata di gente convenuta per catturare Gesù, nient'altro. Eppure il quarto Vangelo parla di cohortem, nel testo latino, dandoci una chiara indicazione del fatto che, oltre alle guardie del Tempio, era intervenuta un'intera coorte di soldati romani la quale, in base alle nostre conoscenze, era un corpo composto da seicento uomini! Non ne bastavano una ventina? Contro che cosa era realmente mobilitata tutta questa forza? C'è poi un'altra questione: per quale ragione Giuda avrebbe dovuto indicare il Maestro con un segno convenuto? Non si trattava certo di uno sconosciuto mai visto da quelle parti. Anzi, alcuni giorni prima era entrato in città in mezzo a un tripudio di folla acclamente al figlio di Davide, il re dei giudei; poi aveva partecipato a discussioni con i sacerdoti, in materia di teologia e di giustizia; aveva addirittura inscenato un clamoroso gesto nei confronti dei cambiavalute, nell'area più esterna del Tempio; se queste cose sono vere, possiamo dire che era diventato la personalità del momento, a Gerusalemme, e nessuno avrebbe avuto difficoltà a riconoscerlo. In realtà il ruolo di Giuda, a ben riflettere, non dev'essere stato di indicare il personaggio con un segno convenuto, bensì di avvertire i sacerdoti sul momento in cui la sommossa stava per essere messa in atto, al fine di cogliere i rivoltosi di sorpresa e di stroncare il tentativo. Soltanto così può spiegarsi perché i sacerdoti aspettassero un segno dal traditore e perché fosse intervenuto un vero e proprio esercito.


LO SCONTRO ARMATO

Ciò che raccontano i Vangeli sulla drammatica notte fra il giovedì e il venerdì di Passione lascia trasparire un'evidenza: i seguaci di Cristo hanno effettuato un tentativo di resistenza armata. Lo stesso Marco, il più rigoroso degli evangelisti nell'evitare ogni riferimento alle spade, che invece troviamo negli altri testi, dice in breve:

"Uno dei presenti, estratta la spada, colpì il servo del sommo sacerdote e gli recise l'orecchio".

Il Vangelo secondo Matteo vuole estraniare Gesù da un tale comportamento violento e gli mette in bocca parole di duro rimprovero contro il suo focoso difensore. Il Vangelo secondo Luca non si contenta: addirittura Gesù compì un altro miracolo, riattaccando l'orecchio al povero malcapitato. Tali differenze si presentano fin troppo chiaramente come un crescendo apologetico, motivato da quella che sarebbe stata la preoccupazione primaria degli evangelisti: cancellare, per quanto possibile, i riferimenti che legano il movimento cristiano primitivo con la lotta messianica. Anzi, poiché di tale preoccupazione dei redattori neotestamentari parleremo spesso, sarà bene darle un nome fin dall'inizio: la chiameremo "intento di spoliticizzazione". Nonostante ciò, tutti e quattro i Vangeli ci testimoniano il fatto che i seguaci di Cristo, nella loro riunione sul Monte degli ulivi, avessero delle armi. Eppure, stando all'immagine tradizionale, doveva trattarsi del ritiro pacifico di uomini che avevano appena terminato di partecipare al banchetto pasquale. In realtà lo stesso Luca racconta che, al termine della cena, prima di raccogliersi sulla collina fuori dalle mura della città, Gesù si era raccomandato nei confronti di chi era sprovveduto di armi, perchè se le procurasse. Il quarto Vangelo aggiunge un'importante rivelazione: l'autore del clamoroso gesto di spada è Simon Pietro, mentre Malco, servitore del sommo sacerdote Caifa, ne è la vittima. Ci si presenta dunque un'immagine di Pietro davvero sorprendente: aveva veramente un'arma e non si faceva scrupolo di usarla. In questo passo il semplice pescatore del lago di Tiberiade, divenuto discepolo del rabbi Gesù, appare come un fuorilegge che affronta con la spada sguainata le guardie mandate dai sacerdoti. Ma chi era questo Simone, l'apostolo detto Pietro?

Soffermiamoci, a tale proposito, su un particolare che può offrire degli indizi più significativi sulla personalità di colui che la tradizione vuole primo nella lista dei pontefici della Chiesa. C'è un passo nel Vangelo secondo Matteo in cui Gesù si rivolge a Pietro nei seguenti termini: "Simone, figlio di Giona". Questo, però, è ciò che leggiamo nelle traduzioni moderne, che non rispettano affatto il senso di ciò che era scritto originariamente nei testi antichi. Infatti, se un ginnasiale dovesse tradurre in greco quella breve espressione, scriverebbe sicuramente Simon o uios Iona, mentre il testo greco del Vangelo di Matteo porta l'espressione Simon bar Iona. "Figlio di" è reso con bar, termine aramaico, invece che con uios, termine greco. Perché? Quante volte un personaggio della narrazione è definito "figlio di..."? Molte. E tutte le volte, puntualmente, il testo greco usa il termine uios. Senonché, nei manoscritti antichi del Vangelo di Matteo, non compare nemmeno Simon bar Iona ma Simon Bariona, con una parola intera. A questo punto sarà interessante sapere che in aramaico, la lingua parlata in Palestina al tempo di Cristo, al posto dell'ebraico dotto della Bibbia, il termine barjona significava "combattente, partigiano, latitante...". Non dunque "Simone figlio di Giona", ma "Simone il partigiano". Abbiamo così scoperto un espediente con cui trascrittori e traduttori hanno tentato di nascondere una verità compromettente: il fatto che Simone fosse a sua volta uno zelota, chiamato col soprannome di battaglia "Cefas", che significa "macigno" o "pietra", avvezzo a portare la spada e a usarla. E' un meccanismo di censura che non ci deve meravigliare, coerentemente con l'intento di spoliticizzazione che è stato applicato numerose altre volte; per esempio nel caso dell'altro Simone apostolo, duello che i Vangeli di Marco e Matteo definiscono cananeo. I redattori dei testi evangelici, che li hanno composti in greco, hanno voluto far credere che quel titolo significasse semplicemente "proveniente dalla terra di Canaan" o "della città di Cana"; approfittando del fatto che i destinatari dello scritto, ignari della lingua aramaica, non sapevano che qanana, nell'idioma semitico degli ebrei, significa "zelota", sinonimo dell'altro termine che già abbiamo visto: barjona. II Vangelo secondo Luca risolve definitivamente la questione, perché nel suo elenco degli apostoli inserisce il discepolo Simone soprannominato zelota. Sono queste dimostrazioni evidenti del fatto che alla cerchia degli apostoli di Cristo appartengono zeloti e partigiani. E non ne mancano altri. L'apostolo Taddeo, in alcune antiche versioni del Vangelo, è definito Ioudas zelotes. E' importante notare che il nome con cui conosciamo abitualmente questo personaggio è, in realtà, soltanto un titolo; dal momento che in ebraico Taddeo non è un nome proprio, ma un aggettivo che significa "coraggioso": un altro significativo soprannome partigiano. Gli evangelisti, o i revisori dei testi, hanno cercato di snaturare le identità di queste persone, presentandole con nomi diversi da quelli più compromettenti, utilizzando i soprannomi, che però non venivano tradotti. Un caso praticamente identico è quello di Tommaso; anche questa volta abbiamo solo il soprannome, Thomas, traslitterazione in lettere greche del sostantivo ebraico tòma, che significa "gemello". Infatti il vero nome di questo apostolo, riconosciuto anche dall'interpretazione cattolica, è Giuda: "Giuda detto il gemello", del quale alcuni manoscritti antichi portano la compromettente variante qanana = zelota. I soprannomi partigiani, dei quali spesso si capisce il significato soltanto se li si analizza attraverso la lingua aramaica, sono stati presentati qualche volta come innocui nomi propri; altre volte, invece, come nel caso dei fratelli Giacomo e Giovanni apostoli, sono stati conservati a fianco del nome: boanerghes, cioè "figli del tuono". Ma anche in questo caso è interessante notare un particolare poco conosciuto: i figli del tuono, nelle versioni moderne del Vangelo, sono solo i due che abbiamo nominato, mentre antiche versioni del Vangelo di Marco affermano che anche Pietro, come tutti gli altri apostoli, era definito "figlio del tuono"; un altro elemento a favore dell'interpretazione secondo cui Simone sarebbe stato un combattente jahvista. Queste constatazioni hanno ovviamente un'importanza in sé, ma ci permettono anche di individuare uno specifico piano di censura, inteso a cancellare sistematicamente ogni riferimento all'impegno messianico dei discepoli di Gesù: esse ci offrono, quindi, un utile e inequivocabile indirizzo interpretativo.


L'ARRESTO

Alla luce delle considerazioni qui esposte, cominciano ad assumere determinati significati le spade, il gesto di Simone e anche l'indietreggiare e cadere per terra dei soldati intervenuti per eseguire l'arresto - di cui troviamo testimonianza nel quarto Vangelo. Spesso i redattori evangelici parlano di profezie che devono avverarsi: Gesù, per esempio, dice: "Lasciate che mi arrestino, altrimenti come potrà avverarsi la scrittura?" In effetti, tutto il racconto della Passione è gremito di riferimenti alle profezie, al punto che questa sembra essere stata una preoccupazione costante, quasi un'ossessione degli evangelisti. Emerge in tal modo un altro piano interpretativo dei meccanismi della composizione evangelica, finalizzata a dimostrare come Gesù fosse il destinatario delle profezie bibliche riguardanti l'atteso messia. Ma a questo riguardo, vi sono numerose contraddizioni: perché, da un lato, si è cercato di cancellare ogni riferimento al movimento messianico e, dall'altro, si è voluto rafforzare il legame fra Gesù e le profezie messianiche? La contraddizione riflette molto bene il clima di tensioni politiche, sociali e religiose, in cui si trovavano coloro che scrissero i Vangeli: da un lato essi dovevano "purgare" la figura di Cristo dal suo ruolo rivoluzionario, di combattente dell'indipendenza nei confonti del potere imperiale (non si dimentichi che il Vangelo di Marco è stato scritto a Roma, all'indomani del ritorno di Tito da una terribile guerra che aveva visto la disfatta degli ebrei); dall'altro lato essi dovevano riscattare il fallimento messianico di Cristo (gli ebrei si aspettavano che il vero messia fosse un trionfatore, come Davide, non uno sconfitto). Un messia non-messia dunque; destinatario delle profezie messianiche, ma estraneo alla lotta messianica. I passi che descrivono l'arresto forniscono preziose indicazioni sulle persone intervenute, e sullo scopo dell'operazione medesima. Il quarto Vangelo parla di un distaccamento con il comandante (cohors ergo, et tribunus), confermando il fatto che si trattava di un grosso corpo di soldati romani. E ciò conferma che deve essersi trattato proprio di un arresto voluto ed effettuato dai romani; i quali, naturalmente, non avrebbero certo scomodato in piena notte un'intera coorte per arrestare un pacifico predicatore, la cui unica colpa fosse stata di essere inviso ai sacerdoti del Tempio e di avere bestemmiato Jahvé, facendosi chiamare "figlio di Dio". E' piuttosto verosimile che i romani intervennero con tanta forza solo perché intendevano reprimere un tentativo di rivolta messianica. I tre Vangeli sinottici avevano fatto il possibile per censurare alcune caratteristiche dell'arresto; la loro "folla con spade e bastoni" sembrerebbe composta solo di guardie ebraiche e servi del sommo sacerdote, mentre l'autore del Vangelo di Luca, in un eccesso di ispirazione, fa presenziare all'arresto gli stessi sommi sacerdoti e gli anziani: il Sinedrio al completo. Nonostante il loro tentativo di denaturare l'episodio, gli evangelisti ci hanno lasciato capire che in quel momento sta va per accadere qualcosa di talmente grave che, non appena il traditore ebbe avvertito le autorità, nella notte della preparazione della Pasqua (un tempo dí grande devozione, rispetto e proibizioni), un'intera coorte romana e tutte le guardie del Tempio sarebbero intervenute per catturare Gesù.

(continua...)

[Modificato da Nikki72 15/12/2008 10:49]
15/12/2008 10:50



MORTE ED EVENTI SOPRANNATURALI

Una larga schiera di artisti ha cercato di rappresentare sul grande schermo la storia del figlio di Dio che è venuto a riscattare i peccati degli uomini col proprio sacrificio sulla croce. Innumerevoli volte la scenografia delle tre croci sul monte è stata allestita davanti alle cineprese. Innumerevoli volte attori acconciati da cittadini della Palestina o da legionari di Roma hanno recitato il noto copione del Golgota. Molti registi lo hanno fatto per celebrare il mistero della fede pasquale e offrire ai credenti l'immagine visiva della passione e morte di Cristo, come è narrata dal Vangelo. Spesso con stili e ottiche diametralmente opposte: da un lato, per es., c'è l'opulenta garbatezza delle scenografie di Zeffirelli, con la gradevole suggestione dei colori e degli ambienti curati fino ai minimi dettagli, che rappresentano senza dubbio uno dei livelli più alti nella capacità di soddisfare le aspettative dello spettatore; dall'altro, troviamo invece la ruvida essenzialità delle scenografie di Pasolini, col suo scarno bianco e nero e con gli attori-non-attori, che rappresentano il punto più alto come tentativo di scavare il pathos della tragedia dal silenzio inanimato delle immagini fotografiche. Personalmente ho un debole per la deposizione pasoliniana, per l'intensità poetica che essa raggiunge, anche se il celebre quadro della passione appare trasferito nel paesaggio della campagna meridionale italiana del primo Novecento, piuttosto che in quello della piccola provincia imperiale di Palestina. La pena romana della crocifissione era stata definita dallo stesso Cicerone crudelissimum teterrimumque supplicium. Ai malcapitati toccava una delle peggiori agonie, la quale aggiungeva all'intensità delle sofferenze la pena della durata: un interminabile patimento che poteva prolungarsi anche per quattro o cinque giorni. Spesso, per evitare che qualcuno durante la notte sottraesse i condannati al loro supplizio, veniva praticato il cosiddetto crurifragium o rottura delle gambe, accelerando in tal modo il sopraggiungere della morte. Il Cristo di cui parlano i Vangeli sinottici, processato dal Sinedrio durante la notte, riprocessato dai romani all'alba, visionato da Erode, flagellato e schernito, crocifisso alle nove, in agonia a mezzogiorno, muore alle tre e viene deposto verso le sei del pomeriggio; confermando così il decorso superaccellerato di un procedimento giudiziario che avrebbe richiesto qualche giorno; a meno che non si sia trattato di una esecuzione sommaria, senza processi né altre strutture procedurali. Tito, per esempio, durante l'assedio di Gerusalemme, faceva effettuare almeno cinquecento esecuzioni al giorno. Ma allora c'era la guerra: zeloti e altri combattenti venivano catturati e crocifissi seduta stante. Almeno così dicono le fonti storiche; sarà stato tecnicamente possibile? Nella circostanza della morte di Cristo una serie di prodigi e cataclismi accompagna la solennità del momento: terremoti, rocce che si spezzano, santi che risuscitano e appaiono in Gerusalemme. Ancor più importante di questi eventi, comunque, è ciò che si verifica nel Tempio: il velo che separa la zona proibita dalle parti di accesso pubblico si squarcia nel mezzo dall'alto verso il basso. Come se il Sancta Sanctorum e ciò che in esso vi è conservato cessassero la loro funzione. E' abbastanza chiaro il senso simbolico di questo particolare. Gli evangelisti, paladini di una fede che aveva cominciato a separarsi dalla matrice giudaica che l'aveva generata, rappresentarono così l'idea della cessazione della vecchia alleanza: Israele, il gregge di Dio, non sarebbe stato più la famiglia semitica degli ebrei circoncisi, ma si sarebbe aperto a coloro che, indipendentemente dalla loro origine etnica, avessero creduto al nuovo Euanghelion (da qui la distinzione fra il "Vecchio" e il "Nuovo Testamento"). A ribadire questo concetto ci pensa lo stesso centurione: il soldato, infatti, è la prima persona in assoluto cui va il merito di avere riconosciuto il Salvatore dopo la sua morte. Avviene così che il primo membro acquistato dalla comunità dei credenti sia un carnefice romano, non un ebreo. II quarto Vangelo non conosce questi particolari: il centurione si preoccupa di eseguire il crurifragium sui due ribelli crocifissi insieme al Cristo e, notando che il condannato più importante è già morto, si limita a trafiggergli il petto con la lancia, quasi a voler confermare l'avvenuto decesso. In realtà il particolare è stato inserito nel racconto al semplice scopo di far avverare due profezie. Alcune donne, che facevano parte del seguito, stavano a osservare; sono le tre donne che, presenti alla crocifissione, alla morte, alla deposizione, alla sepoltura e alla scoperta del sepolcro vuoto, sono diventate un'immagine classica nell'iconografia cristiana: le tre Marie della passione. C'è però un "ma" che offusca la bellezza di questa pia immagine: gli evangelisti, infatti, non sono affatto d'accordo sull'identità di quelle tre donne. E' una questione sulla quale raramente viene richiamata l'attenzione, perchè consente di far luce su alcuni dei meccanismi con cui le identità dei personaggi sono state contraffatte; ne discuteremo più ampiamente nel capitolo dedicato allo studio della famiglia di Cristo.


L'INTERVENTO DI GIUSEPPE DI ARIMATEA

E' giunta la sera del venerdì e, secondo la tradizione ebraica, il calar del sole indica già l'inizio del giorno successivo: lo Shabbat, in cui è proibito attendere a molti compiti, specialmente le pratiche funebri. Se poi è vero quanto sostiene il quarto Vangelo, e cioè che quel sabato era un giorno particolarmente solenne - la Pasqua ebraica - una duplice ragione spingeva ad affrettarsi per eseguire la deposizione. Tutti e quattro i Vangeli parlano, a questo punto, di un interessante ed enigmatico personaggio. Contraddicendo l'idea precedentemente espressa, che il verdetto dei sinedriti sarebbe stato unanime, i Vangeli parlano di un autorevole membro del Sinedrio, Giuseppe, del villaggio di Arimatea, il quale era diventato discepolo di Gesù, condivideva la speranza di restaurazione messianica della setta dei Galilei (aspettava il regno di Dio), e si era dissociato dalle decisioni che il Sinedrio aveva preso nei confronti del sedicente messia. Emerge dalle acque del mistero la punta d'iceberg di un vero e proprio complotto in grande stile; uno dei discepoli, quello che compare sempre in veste anonima, era introdotto nell'ambiente del Tempio, al punto che, in quella movimentata notte in cui Cristo fu arrestato, potè far entrare Simone nel cortile della casa del sommo sacerdote; fra le donne del seguito di Cristo, una di quelle che Luca, a differenza degli altri evangelisti, nomina nel terzetto delle Marie della passione, era addirittura Giovanna, la moglie di Chuza, intendente del palazzo di Erode. Che ci faceva una delle più autorevoli donne dell'aristocrazia gerosolimitana in quel gruppo che la tradizione vorrebbe composto di am ha aretz [popolani incolti], seguaci di un predicatore galileo? Adesso scopriamo che anche fra i sinedriti c'erano simpatizzanti, o qualcosa di più. Non solo Giuseppe si mostra favorevole alla setta dei Galilei, ma anche Nicodemo, "un capo dei Giudei", e il sinedrita Gamaliele. Questi indizi ci lasciano intendere che la speranza dell'imminente avvento del Malkut Elohim, il Regno di Dio, non era condivisa soltanto dai monaci in ritiro ascetico fra le rocce di Qumran, o dagli impazienti e bellicosi zeloti. Tutte le componenti della società ebraica erano state toccate da questa convinzione e alcuni offrivano il loro appoggio alla causa. In realtà, l'aspirante Messia che non vide il successo della sua impresa, non apparteneva affatto a un'umile famiglia di artigiani galilei, come vorrebbe quella tradizione che si è occupata di censurare severamente le identità reali dei personaggi, ma a una famiglia altolocata, contenente "dottori" e capi del popolo, che rivendicava una discendenza regale e che fornì a Israele il maggior numero delle guide famose nella lotta messianica: dal vecchio Ezechia della città di Gamala, che Erode stesso aveva fatto uccidere, a quel Menahem che era riuscito veramente a indossare in Gerusalemme, sebbene per poche ore, la veste regale dell'atteso salvatore. Restano comunque numerose ombre sull'episodio di cui è protagonista Giuseppe di Arimatea. Come avrebbe potuto costui prendersi cura del corpo del giustiziato, senza che questo comportasse gravi conseguenze per la propria reputazione? W. Fricke, sostiene che se il Cristo fosse stato veramente condannato dal Sinedrio per blasfemia, Giuseppe non avrebbe mai potuto prendersi cura della salma e concederle una sepoltura onorevole, e il buon senso ci conferma che Fricke non può avere altro che ragione.


DEPOSIZIONE E SEPOLTURA

Siamo giunti all'ultima scena del misterioso dramma della passione: nella luce crepuscolare che segue il tramonto, le tre Marie assistono sconsolate alla penosa operazione di recupero della salma. Il patibulum deve essere rimosso dallo stipes, deposto al suolo col corpo del condannato ancora inchiodato; questo deve essere liberato dal legno e raccolto in un panno funebre. A compiere l'operazione non sono i compagni o i parenti del condannato o, come sarebbe più comune, i soldati che normalmente gettano le salme nelle fosse comuni, ma due autorevoli sinedriti, Giuseppe e Nicodemo. Si noti il fatto straordinario e significativo che essi avrebbero provveduto personalmente a comprare il lenzuolo e la mistura degli oli aromatici (cento libbre!), avrebbero procurato una tomba nuova, che Giuseppe si era fatto scavare in un giardino da quelle parti, forse un elegante loculo nel cimitero degli aristocratici e dei facoltosi, e avrebbero svolto le operazioni di inumazione. Evidentemente quella salma meritava che si spendesse un vero capitale per darle una sepoltura onorevole che, a quanto pare, le spettava secondo un diritto riconosciuto dallo stesso Pilato. E' proprio l'eccezionalità di questo fatto che ci impone di credere, se non altro, che molti, e non solo un gruppuscolo di ex pescatori analfabeti provenienti dal lago di Tiberiade, attribuissero a quell'uomo la dignità messianica. Notiamo un'altra fra le numerose contraddizioni esistenti nelle narrazioni evangeliche: i sinottici sostengono che la salma era stata inserita nel sepolcro senza che fosse stata eseguita l'unzione, rimandata al giorno successivo al sabato, mentre il quarto Vangelo afferma che, prima della sepoltura, la salma era stata accuratamente avvolta "in bende, insieme con oli aromatici, com'era usanza seppellire per i giudei".


(continua...)
15/12/2008 10:51



LA SOCIETA' PALESTINESE AL TEMPO DI CRISTO

Autunno del 63 a. C.: Pompeo marcia su Gerusalemme, entra nel Tempio, penetra anche nel Sancta Sanctorum, l'area sacra consentita solo al sommo sacerdote. Con questa grave profanazione inizia l'epoca della presenza romana in terra di Palestina. Una dominazione che dopo quelle assira, babilonese, persiana e greca, sarà l'ultima; infatti l'opposizione spinta degli ebrei più intransigenti alla sovranità imperiale porterà alla disfatta totale, alla distruzione della nazione e del Tempio (come temeva il sommo sacerdote Caifa), con l'esilio forzato di tutti gli ebrei in terre ostili e straniere. Sarà Tito, il figlio dell'imperatore Vespasiano, a espugnare Gerusalemme e a profanare ancora una volta il Sancta Sanctorum. Questa volta in modo ancora più grave, effettuando un vero e proprio saccheggio. La storia di Cristo si svolge fra queste due parentesi ed è strettamente imparentata con quella del dominio romano, non per semplice contemporaneità, ma per una relazione di natura molto più essenziale. Il Vangelo nomina praticamente tutte le sètte e le componenti della società giudaica, al tempo del dominio romano, tacendone sistematicamente una soltanto: gli esseni. Sono invece nominati i samaritani, la cui rivalità coi giudei risaliva all'antica scissione, avvenuta quasi dieci secoli prima, fra il regno di Giuda con capitale Gerusalemme, e il regno di Israele con capitale Sichem prima e Samaria poi. I samaritani non riconoscevano l'autorità del Tempio di Gerusalemme, bensì quella del Tempio che essi avevano eretto sul monte Garizim. La Samaria, come regione geografica, divideva la Giudea dalla provincia più settentrionale, la Galilea, alquanto diversa nei caratteri etnici e culturali. Intorno alla Galilea, circa 100-150 chilometri a nord di Gerusalemme, sulle rive occidentali del lago di Tiberiade (Kinneret), convergevano influenze molto varie; la regione aveva contatti maggiori e più abituali con le religioni straniere. Sulla riva orientale del lago di Tiberiade si stendeva la Gaulanitide (Golan), sempre abitata in prevalenza da ebrei, fra i quali i più accaniti sostenitori dell'ideale messianico. Il Golan può considerarsi la patria delle idee estreme di stampo esseno-zelotico che hanno infiammato la Palestina di sommosse e rivolte contro il dominio romano; fino alla fatidica guerra finale, avvenuta negli anni dal 66 al 70 d.C. Era di Gamala - una cittadina del Golan situata sopra un ripido bastione di roccia, quasi a picco sul lago - un certo Ezechia, un rabbi di altolocata famiglia, dalle idee molto chiare e decise nei confronti dei romani e del loro più servile sostenitore: Erode. Quest'ultimo, non ancora nominato re e animato da ambizioni di potere, con le sue pattuglie armate andava a caccia dei ribelli che infestavano il nord della Palestina e fu ben lieto di catturare il "capobrigante" Ezechia e di giustiziarlo sommariamente insieme ai seguaci; correva, probabilmente, l'anno 44 a.C. L'episodio è di fondamentale importanza. Tutta la storia dello zelotismo, infatti, sembra aver ricevuto la propria impronta dall'odio profondo tra la famiglia dei discendenti di Ezechia e quella degli Erodiani; possiamo addirittura supporre, senza timore di allontanarci troppo dal vero, che la ragione di fondo della lotta zelotica si configurasse come una questione dinastica: i discendenti di Ezechia si consideravano "figli di Davide" e - che lo fossero o no - rivendicavano un sedicente legittimo diritto al trono di Gerusalemme e al ruolo messianico. Furono questa convinzione e questa ambizione, unitamente all'odio nei confronti della dinastia erodiana, che animarono Giuda, il figlio di Ezechia, e successivamente i figli di Giuda (cioè Simone, Giacomo e Menahem), nella loro lotta ad oltranza per la cacciata dei romani, la ricostruzione del "Regno di Dio", e la conquista del trono di Davide. I figli di Giuda - ai quali azzarderei l'ipotesi di aggiungere anche il cosiddetto Teuda o Taddeo, nominato insieme a Giuda negli Atti degli Apostoli - fecero tutti, immancabilmente, la stessa fine del padre e del nonno: sacrificarono la propria vita a una causa messianica che non poté mai giungere al successo. Il fatto interessante, come abbiamo ampiamente detto nel testo, è che i componenti di tale famiglia, insieme ai seguaci e compagni di lotta, erano definiti nello stesso identico modo dei componenti la setta cristiana: i Galilei, sebbene la loro provenienza non fosse affatto la Galilea. E' per questa, e per una serie di altre convergenze, che ci è sembrato di poter identificare il Cristo giustiziato da Pilato, in un membro della famiglia di Ezechia e di Giuda. La fede di costoro, e di tutti i seguaci rigorosi dell'ideale messianico, può essere chiamata Jahvismo, e consiste nel connubio fra ardore religioso e politico. Gli Jahvisti interpretavano alla lettera lo spirito delle antiche profezie di Isaia e di Michea, ed erano convinti che lo stesso Jahvè preparasse per Israele una liberazione definitiva e per il monoteismo mosaico uno splendido trionfo su tutti i popoli della terra: il "Regno di Jahvè" o, per dirla con parole nostre, il "Regno di Dio". Tutte le altre religioni, in special modo quelle politeistiche che rappresentavano gli dei sotto spoglie antropomorfiche, erano considerate espressioni di barbarie spirituale e i popoli che le seguivano ignoranti e blasfemi. Liberare la Palestina non era questione semplicemente politica, né la lotta zelotica si può paragonare a quella dei patrioti del Risorgimento; la liberazione politica di Israele era il presupposto essenziale per realizzare l'ambizione naturale della fede giudaica: la costruzione di un sistema teocratico fondato sul monoteismo mosaico e sulle sue leggi morali. In Giudea, nella regione ad occidente del Mar Morto, dove il primo messia guerrigliero di Jahvè, Davide, aveva edificato la capitale e aveva espresso il desiderio che fosse costruito il Tempio, erano presenti e forti alcune componenti politiche come i sadducei, i farisei e gli erodiani. I sadducei, il cui nome deriva da Sadoc, costituivano la ricca casta dei sacerdoti del Tempio. Proprietari di ingenti ricchezze, ingigantivano sempre più il proprio potere finanziario grazie al culto nel Tempio e alla pratica dei sacrifici, che vedeva affluire ogni anno milioni di fedeli da ogni parte della Palestina e del bacino mediterraneo. I sadducei erano conservatori in senso politico quanto spirituale. La loro religiosità si concentrava nella liturgia e nell'interpretazione strettamente letterale della sola Torah; non accettavano nessuna speculazione filosofica, non ammettevano l'esistenza di un'anima che sopravvivesse al corpo, interpretavano la fortuna economica come un chiaro segno della preferenza accordata da Jahvè ai suoi fedeli nel culto e nell'osservanza della legge. Di fatto i sadducei colludevano col potere dei dominatori ricavando così la garanzia che i loro privilegi economici e sociali non sarebbero stati toccati; anzi, svolgevano il compito assai gradito ai romani di imbonire il popolo con la continuità delle pratiche cultuali, che contribuiva a dare la parvenza di una sopravvissuta sovranità della cultura e delle tradizioni giudaiche anche in epoca di sottomissione. Se il tempio era il cuore del partito dei sadducei, la sinagoga lo era per il partito dei farisei. Inizialmente costoro avevano rappresentato le componenti che mal tolleravano qualunque tipo di presenza straniera e le condizioni di sottomissione; ma col tempo erano passati a più miti propositi e avevano concentrato la propria attenzione non tanto sull'anelito di liberazione politica e sociale, quanto sulla preoccupazione ossessiva e costante di preservare la conoscenza e l'osservanza della legge. Li possiamo definire dei "formalisti" per eccellenza. La sinagoga, similmente alla chiesa dei cristiani di oggi, era il luogo di ritrovo cultuale in tutti i centri abitati della provincia, in cui non si effettuavano sacrifici, ma si svolgeva la lettura e l'interpretazione delle Sacre scritture da parte dei rabbì, nonché il canto collettivo dei salmi. Il partito farisaico aveva una sua ostilità nei confronti del dominio romano, e nelle frange più radicali denotava anche una decisa insofferenza unita alla speranza o alla convinzione che i tempi del riscatto messianico fossero vicini; ciononostante i farisei non hanno mai avuto l'energia né la motivazione reale per intraprendere una lotta concreta a favore dell'ideale messianico, a riguardo del quale alcuni di loro si dichiaravano astrattamente simpatizzanti. Nei confronti di entrambi i partiti che abbiamo appena nominato il Vangelo che oggi possiamo leggere abbonda di epiteti pesanti e ingiuriosi, per bocca di Giovanni Battista e dello stesso Gesù. Un fatto che, se analizzato storicamente colloca immediatamente il movimento cristiano primitivo accanto alle posizioni degli esseni e degli zeloti. Infatti l'opposizione ideologica e religiosa alla casta sadducea e al partito farisaico era propria della natura stessa del pensiero esseno e di quello zelotico. Se Cristo e il Battista fossero stati estranei ai movimenti messianici e avessero inteso predicare soltanto una spiritualità pacifista e universale che non avesse niente a che vedere con lo Jahvismo politico, non avrebbero avuto sulle labbra le stesse parole e gli stessi toni dell'opposizione esseno-zelotica verso i partiti sadduceo e fariseo; non vi sarebbe stato il silenzio del Vangelo sugli esseni o sugli zeloti, ma sarebbero stati anch'essi nel mirino delle invettive di Gesù, per il fatto di aver dimenticato che il Regno di Dio era da costruire nell'anima e non nella politica. Alcuni autori identificano in Giuda figlio di Ezechia, detto "il Galileo", il fondatore della setta degli zeloti, della quale non è facile chiarire se sia la stessa cosa che altrove si definisce come la setta dei sicari, o se queste rappresentino due cose diverse, contemporanee o in successione. Tutto e il contrario di tutto è stato scritto su questo enigmatico periodo storico. Ma ogni onesto cercatore di verità deve tener presente che una pesante condizione ha influenzato le ricerche ad esso relative: praticamente tutti gli studiosi e gli accademici hanno agito e scritto sotto la sponsorizzazione di istituzioni che, come la Chiesa romana, hanno un proprio particolare interesse negli sviluppi della questione. E' un dato di fatto, a questo proposito, che la preoccupazione primaria della Chiesa, riguardo alle scoperte effettuate a Khirbet Qumran, sia stata sempre e soltanto quella di difendere un presupposto pregiudiziale: per quanto interessante possa essere la setta degli esseni, Gesù Cristo può anche averla conosciuta, ma non può e non deve avere avuto niente a che fare coi monaci del deserto né, tantomeno, è loro debitore di qualcosa. Tornando a Giuda il Galileo dobbiamo dire che egli è il protagonista principale di quella "rivolta del censimento" che, nel 6/7 d.C., sconvolse la Palestina e dette filo da torcere ai romani. La conclusione fu tragica: Giuda stesso morì e più di duemila dei suoi seguaci furono crocifissi; si racconta che scarseggiasse il legno per issare i patiboli. E' in questo momento storico che Luca ha collocato la nascita di Gesù, anche se gli studiosi cattolici hanno fatto ricorso a ogni genere di pretesto per dissociare la nascita di Gesù dalla rivolta del censimento e per anticiparla a una data compatibile con le informazioni del Vangelo secondo Matteo. Tutto il periodo che va dalla rivolta del censimento fino alla disastrosa guerra degli anni 66-70 è caratterizzato dalla costellazione di episodi e di personaggi della lotta jahvistica antiromana e dall'emergere di posizioni sempre più precise, a questo riguardo, in seno alla popolazione palestinese: l'area conservatrice collusa coi romani che aveva il suo fulcro nella casta dei sacerdoti sadducei e nella famiglia erodiana; l'area moderata e disposta al compromesso che aveva il proprio rappresentante tipico nel fariseo medio; l'area rivoluzionaria che aveva i suoi rappresentanti nelle sètte di tipo esseno-zelotico. L'interpretazione cattolica inserisce in questo quadro un elemento che, per quanto meraviglioso possa apparire, è tuttavia assolutamente fantastico: un isolato rabbì (ma come faceva un rabbì ad avere i connotati del Gesù che tutti conosciamo, per esempio il celibato?), appoggiato tuttalpiù da un'altra figura ricca di connotazioni mitologiche, Giovanni detto il Battista, avrebbe raccolto intorno a sé dodici apostoli, numerosi discepoli e innumerevoli simpatizzanti, creando un movimento del tutto estraneo e avulso dalle posizioni che finora abbiamo esaminato; un movimento che non avrebbe avuto assolutamente niente a che vedere né con la reazione filoromana, né con l'opportunismo farisaico, né con l'ascetismo esseno, né con l'ardore zelotico. In verità qualcosa di più reale manca all'elenco delle posizioni classiche che gli uomini potevano avere assunto nel contesto storico di cui sopra: la posizione di coloro che, senza voler colludere coi romani, né schierarsi con l'immobilismo di comodo dei farisei, né aspettare o voler anticipare i giorni della riscossa, percepivano la scarsa probabilità di successo del progetto messianico, o addirittura la sua molto verosimile pericolosità, e avevano maturato la necessità di una grande revisione concettuale dell'ideale stesso. Mi sto riferendo a uomini come il tarsiota Shaul (San Paolo) che, insoddisfatto di essere semplicemente un persecutore degli "scellerati" intransigenti messianisti (= cristiani), aveva prudentemente cominciato a reinterpretare il messianismo e a predicarlo non come promessa di una salvazione privata di Israele in quanto nazione prediletta del Signore, ma come promessa di una salvazione universale del genere umano dal male, dall'egoismo e dalla miseria spirituale che, naturalmente, avevano la loro matrice principale nel paganesimo dei romani, ma anche nell'ipocrisia liturgico-rituale della religiosità ebraica.


SUL MOVIMENTO DEGLI ESSENI

Gli esseni coltivavano una spiritualità e una dottrina che, come erano indiscutibilmente legate alla tradizione mosaica, erano anche chiaramente impregnate di influenze iranico-caldee e indo-buddistiche. Non possiamo dimenticare che la Palestina era stata provincia dell'Impero persiano per quasi due secoli. Gli esseni definivano se stessi "figli della luce", in contrapposizione ai cosiddetti "figli delle tenebre", con una terminologia derivata dall'insegnamento di Zarathustra. Tutta la concezione essena era pervasa dal dualismo cosmico della religione avestica: il cosmo intero è il teatro della lotta tra le forze del bene e quelle del male, fino al giorno della vittoria finale del bene che, nella concezione essena, coincide col giorno in cui Jahvè concederà ai suoi figli prediletti il trionfo su tutti i popoli del mondo. L'escatologia della religione iraniana diventò escatologia ebraica: alla salvezza spirituale si affiancò la salvezza politica di Israele. I due aspetti finirono per diventare una cosa sola. Gli esseni erano, dunque, eredi di un insegnamento esoterico che aveva le sue radici nell'esilio babilonese, erano i depositari di una tipica cultura da iniziati: magia, occultismo, astrologia, sistemi di guarigione; seguivano il calendario solare, diverso da quello lunare in uso presso il Tempio di Gerusalemme; conoscevano le tecniche dell'iniziazione orientale; sapevano come conseguire quello stato di trance profonda che gli yogi indiani chiamano samadhi e che conferisce la conoscenza delle verità spirituali. Noi abbiamo la certezza che gli ebrei del I secolo conoscessero la disciplina degli yogi indiani. Ne troviamo conferma in un passo della Guerra giudaica di Giuseppe Flavio, allorché lo storico riporta il grande discorso pronunciato da Eleazar a Masada, nel 73 d.C.:

"Noi, che riceviamo nelle nostre case un'educazione informata a questi princìpi, dovremmo dare esempio agli altri con l'esser sempre pronti a morire; comunque, se volessimo ricevere una conferma attingendola dagli stranieri, guardiamo agli indiani che seguono i dettami della filosofia. Costoro infatti, ed è gente di prim'ordine, sopportano a malincuore il periodo della vita come un debito da pagare alla natura, e non vedono l'ora di liberare le anime dai corpi... E allora, non proviamo vergogna ed essere inferiori agli indiani nei pensieri di fronte alla morte e di offendere turpemente con la nostra vigliacchieria le patrie leggi, che destano l'invidia di tutto il mondo".

A queste parole si aggiunge ancora una descrizione del rito funebre indiano della cremazione dei defunti. E alcuni vividi particolari fanno pensare che Eleazar sia stato testimone oculare delle usanze indù, durante un suo ipotetico viaggio in Oriente. Naturalmente si tratta di un'ipotesi fantasiosa, ma a noi basta mostrare che il contatto della cultura ebraica con le culture orientali è confermato da un più che esplicito riferimento. Il quartier generale degli esseni era situato sulle rive nord-occidentali del mar Morto, a Kirbeth Qumran, dove oggi migliaia di turisti si recano ad ammirare, nella cornice assolata del deserto palestinese, i resti di quella che era una vasta comunità monastica. Qui, nel non lontano 1947, furono trovate una serie di grotte, contenenti dei manoscritti, databili nel periodo compreso fra il II sec. a.C. e il I sec. d.C, che sono considerati da molti studiosi documenti degli esseni. Sono noti come Manoscritti del mar Morto o i Rotoli di Qumran. Nella striscia pianeggiante che separa le grotte dal mare vivevano poche migliaia di ebrei ritiratisi in questo incredibile ambiente desertico: essi conducevano una vita severa, dediti solamente al lavoro e allo studio. Sulle prime scarpate, a poca distanza dal mare, si possono vedere gli ingressi delle grotte, che non servivano come abitazioni, ma come magazzini, nei quali erano ordinatamente sistemate numerose giare di terracotta contenenti i manoscritti. Infatti gli esseni non dimoravano nelle grotte, ma nella pianura sottostante, dove erano sistemati in tende e capanne. Ciononostante, nella pianura troviamo anche degli edifici in muratura, che non erano abitazioni, ma locali di uso pubblico in cui si trovavano le sale per le assemblee, le sale per i riti religiosi, le mense comunitarie, le sale di studio e di lavoro per gli scribi, che ricopiavano antiche scritture o componevano quelle tipiche degli esseni. Tutte queste costruzioni sono state evidenziate dagli scavi effettuati negli anni '50 e '60, scavi che si stanno ancora svolgendo e che non escludono nuove e interessanti scoperte. C'era dunque un grande insediamento, ospitante da tre a quattromila persone, con edifici, sistemi di raccolta per l'acqua, vasche, accampamenti di tende, grotte artificiali: una vera e propria città monastica. Prima di queste scoperte, gli esseni erano comunque conosciuti poiché di essi troviamo menzione in alcuni scritti antichi: ne parlano Filone Alessandrino, Giuseppe Flavio, Plinio il Vecchio, Ippolito Romano e Solino. Allora la conoscenza degli esseni si può classificare in due momenti: la conoscenza "pre-Qumran", ovverossia la conoscenza che prima del 1947 potevamo avere grazie agli autori ora menzionati; e la conoscenza "post-Qumran", derivante cioè dall'esame degli insediamenti ritrovati sulle rive del Mar Morto. Il confronto dei due momenti porta a considerazioni interessanti, poiché le due immagini che ne scaturiscono non sono del tutto coincidenti; al punto che alcuni autori mettono in dubbio il fatto che gli insediamenti di Qumran si riferiscano a quegli esseni di cui parlano Filone e Giuseppe. Ma che sappiamo di questi due autori? Filone e Giuseppe sono due storici ebrei ellenisti, vissuti dal 13 a.C. al 45 d.C. (Filone) e dal 37 d.C. al primo decennio del II secolo(Giuseppe). "Ellenisti" significa che i due dotti avevano ricevuto, oltre all'educazione ebraica, un'educazione classica, conoscevano il greco e lo usavano correntemente come lingua scritta; non soffrivano, come molti ebrei del loro tempo, di xenofobia, ma erano molto aperti alla cultura del mondo pagano, nei confronti della quale non manifestavano disprezzo ma il desiderio di integrarla con la cultura giudaica. Un nipote di Filone, Tiberio Alessandro, fu addirittura procuratore romano della Giudea. Personalità di questo tipo non potevano ovviamente condividere una concezione messianica che proponesse l'imposizione forzata del monoteismo jahvistico a tutti i popoli del mondo (a parte l'impossibilità materiale di concretizzare un simile progetto). Filone è vissuto ad Alessandria d'Egitto, mentre Giuseppe, che è stato comandante di truppe ebraiche nella guerra del 66-70, dopo la distruzione di Gerusalemme è vissuto a Roma, dove ha composto per il pubblico romano le opere La guerra giudaica e le Antichità giudaiche. Per quanto riguarda gli esseni, sia Filone che Giuseppe li descrivono in maniera parziale e idealizzata. Dai loro scritti non emerge assolutamente la fondamentale attesa messianica degli esseni, i quali sono descritti come se si fossero occupati solo di lavoro, di studio, di ascetismo, di santità; estranei a qualunque interesse per la situazione e per i destini politici della nazione ebraica. Siamo però autorizzati a credere che i due autori, volendo comporre delle apologie della civiltà ebraica, per controbilanciare l'odio che molti pagani nutrivano nei confronti degli ebrei, si siano guardati bene dal descrivere la concezione messianica degli esseni. Esaminando più da vicino alcuni brani dell'opera di Filone (Quod omnis probus sit liber) e de La guerra giudaica di Giuseppe Flavio possiamo affermare innanzitutto che la confraternita degli esseni aveva i caratteri di un circolo iniziatico alla stregua degli ashram indiani o dei monasteri buddisti, dove un lungo tirocinio personale precede l'ammissione degli aspiranti nella confraternita; in secondo luogo essi possono essere definiti pionieri di un esperimento di tipo "comunistico". Infatti più volte, sia Filone che Giuseppe, insistono nel dire che presso gli esseni non esisteva la proprietà privata e che tutte le attività avevano un carattere comunitario. Una confraternita di questo tipo trasmetteva senza dubbio un insegnamento di tipo pubblico, in forma più semplice (exoterico), insieme a un insegnamento riservato a una cerchia ristretta di iniziati, in forma più complessa (esoterico). La base dell'insegnamento esoterico esseno aveva sicuramente radici comuni con quelle della dottrina pitagorica, del mitraismo persiano, del buddismo indiano. Ma resta il fatto che la conoscenza degli esseni che possiamo ricavare dagli scritti di Filone e di Giuseppe (quella che abbiamo definito conoscenza pre-Qumran) è abbastanza superficiale, ma soprattutto non pienamente aderente alla realtà della comunità stessa e dei suoi fini. Ciò si deve, come abbiamo detto, al desiderio che avevano i due autori di offrire ai pagani una visione accettabile della cultura e della civiltà ebraica. In realtà ci sono buone ragioni per immaginare che esistesse una qualche relazione o affinità tra lo zelotismo e l'essenato. Si vedano, al proposito, le osservazioni fatte dallo studioso G. Vitucci sulla descrizione degli esseni data da Giuseppe:

"Nella setta della Nuova Alleanza, la cui esistenza ci è stata da poco rilevata dai manoscritti del Mar Morto, è da riconoscere una comunità di tipo essenico i cui adepti rappresentano un precedente immediato delle comunità zelotiche. A differenza degli Esseni, questi Neozeloti erano animati da spiriti bellicosi ed ebbero parte nella rivolta di Ezechia dei 47 a.C. Le prescrizioni contenute nella "regola" della setta, conservataci anch'essa dai suddetti manoscritti, presentano numerose corrispondenze con l'ampia informazione sugli Esseri che Giuseppe fornisce nei capitoli successivi".

La conoscenza post-Qumran si fonda essenzialmente sulla scoperta del sito archeologico, avvenuta per caso nelle aride scarpate sovrastanti lo Wadi Qumran. Una serie di ingressi a grotte artificiali e all'interno delle grotte, sistemate in bell'ordine, molte giare di terracotta, contenenti dei rotoli di cartapecora, ormai rigidi e che si sarebbero potuti polverizzare al primo tentativo di srotolarli. Erano lì da quasi duemila anni, intonsi e sconosciuti al genere umano. Numerosi studiosi si sono dedicati al lavoro di decifrazione dei manoscritti, che sono risultati composti in ebraico antico, secondo la tipica grafia che va da destra a sinistra, nella quale vengono indicati soltanto i suoni consonantici. Due studiosi - E.L. Sukenik e J.C. Trever - giunsero per primi, indipendentemente, a stabilire la datazione dei manoscritti per il periodo dal II secolo a.C. al I secolo d.C. Molti dei manoscritti sono stati ormai tradotti e pubblicati. Anche gli scavi archeologici, effettuati nella pianura sottostante le grotte, hanno portato a interessanti scoperte. Sono state trovate numerose cisterne per il fabbisogno idrico della comunità, ma il fatto sorprendente è l'architettura di alcune di queste cisterne: non si tratta infatti di semplici serbatoi di raccolta, ma di vere e proprie vasche adibite ad usi particolari. Le vasche dell'insediamento di Qumran erano adibite a riti di purificazione dal duplice uso: sia una pratica igienica (lo stesso Giuseppe Flavio ci parla di una purificazione prima di ogni pasto comunitario), sia una comunione mistica con quello che gli esseni chiamavano "angelo dell'acqua". La stessa cerimonia di iniziazione e di ingresso nella confraternita veniva effettuata mediante un rito di immersione nell'acqua. Un costume esseno che è alle origini del battesimo cristiano. L'analisi di alcuni brani dei manoscritti, in particolare la cosiddetta "Regola della comunità" ci dimostra in maniera evidente la derivazione avestica delle concezioni essene. L'angelo della luce e quello della tenebra, spiriti del bene e del male, sono esattamente quelli che Zarathustra chiamava Ahura Mazda e Angra Mainyu. E, come Zarathustra aveva predetto, anche per gli esseni il bene dovrà trionfare sul male in maniera definitiva. Essi attendevano, infatti, "il giorno stabilito per la visita" in cui tutti i malvagi sarebbero stati sterminati e con loro lo spirito maligno che li dirige. Ma per gli esseri tale escatologia si calava profondamente nella realtà storico-politica della nazione ebraica, considerata depositaria di una funzione redentrice mondiale: il tempo della visita corrisponde alla venuta "dei Messia di Aronne e di Israele". Infatti, come i documenti dimostrano, l'attesa degli esseri si rivolge non a uno, ma a due Messia: uno con una funzione politica, il Messia di Israele, liberatore messianico e futuro re; l'altro, con una funzione religiosa, il Messia di Aronne, maestro spirituale e futuro sommo sacerdote. Ciò che gli esseri definivano "il giorno stabilito per la visita" rappresentava l'appuntamento che la nazione ebraica aveva col proprio destino, quando avrebbe rovesciato i nemici, eliminando la loro supremazia e riconquistando la propria libertà: allora solo Jahvè sarebbe stato sovrano dei suoi figli. Questi concetti si trovano espressi in modo particolare nel cosiddetto "Rotolo della guerra", un altro dei numerosi manoscritti qumraniani, che mette in chiara luce le finalità ultime del movimento esseno:

"E questo è il libro della regola della guerra. L'inizio si avrà allorché i figli della luce porranno mano all'attacco contro il partito dei figli delle tenebre, contro l'esercito di Belial, contro la milizia di Edom, di Moab, dei figli di Ammon, contro gli Amaleciti e il popolo di Filistea, contro le milizie dei Kittim di Assur, ai quali andranno in aiuto coloro che agiscono empiamente verso il patto".

"I figli di Levi, i figli di Giuda e i figli di Beniamin, gli esuli del deserto, combatteranno contro di essi... contro tutte le loro milizie, allorché gli esuli dei figli della luce ritorneranno dal deserto dei popoli per accamparsi nel deserto di Gerusalemme. E dopo la guerra se ne andranno di là, contro tutte le milizie dei Kittim in Egitto".

Molto si è discusso fra gli studiosi sul significato del termine kittim, che oggi viene interpretato da molti con riferimento ai romani. La comunità qumraniana si preparava dunque a sferrare un attacco militare contro le forze degli invasori romani e i figli della luce sarebbero ritornati dal loro esilio volontario sulle rive desertiche del Mar Morto per cingere d'assedio Gerusalemme. Non solo, ma una volta liberata la città santa degli ebrei, la guerra sarebbe continuata, perché anche l'Egitto sarebbe stato coinvolto nel terribile conflitto.

"E nel suo tempo stabilito uscirà con grande collera per combattere i re del settentrione, e la sua ira sarà diretta a distruggere e a spezzare il potere di Belial. Questo sarà il tempo della salvezza per il popolo di Dio e il suo tempo determinato della dominazione per tutti gli uomini del suo partito, e l'annientamento eterno per tutto il partito di Belial. Vi sarà una costernazione grande tra i figli di Jafet, Assur cadrà e nessuno l'aiuterà, scomparirà la dominazione dei Kittim facendo soccombere l'empietà senza lasciare traccia, e non rimarrà alcun rifugio per tutti i figli delle tenebre. Verità e giustizia risplenderanno per tutti i confini del mondo, illuminando senza posa fino a quando saranno finiti tutti i tempi stabiliti per le tenebre. E al tempo stabilito per Dio, la sua eminente maestà risplenderà per tutti i tempi determinati in eterno per la pace e la benedizione, la gloria, la gioia, e giorni lunghi per tutti i figli della luce. Nel giorno in cui i Kittim cadranno vi sarà un combattimento e una strage grande al cospetto del Dio di Israele; giacché questo è il giorno, da lui determinato da molto tempo per la guerra di sterminio dei figli delle tenebre nel quale saranno impegnati in una grande strage" ("Regola della guerra", cit., pp. 4-10). Un altro importante aspetto che vogliamo ricavare dall'esame di alcuni passi dei manoscritti è il costume tipicamente esseno del pasto comunitario:

"In ogni luogo in cui saranno dieci uomini del consiglio della comunità, tra di essi non mancherà un sacerdote: si siederanno davanti a lui, ognuno secondo il proprio grado, e così [nello stesso ordine] sarà domandato il loro consiglio in ogni cosa. E allorché disporranno la tavola per mangiare o il vino dolce per bere, il sacerdote stenderà per primo la sua mano per benedire in principio il pane e il vino dolce...".

"E quando si raduneranno alla mensa comune oppure a bere il vino dolce, allorché la mensa comune sarà pronta e il vino dolce da bere sarà versato, nessuno stenda la sua mano sulla primizia del pane e del vino dolce prima del sacerdote, giacché egli benedirà la primizia del pane e del vino dolce e stenderà per primo la sua mano sul pane. Dopo, il Messia di Israele stenderà le sue mani sul pane e poi benediranno tutti quelli dell'assemblea della comunità, ognuno secondo la sua dignità. In conformità di questo statuto essi si comporteranno in ogni refezione, allorché converseranno insieme almeno dieci uomini ...".

Grande è l'importanza di questi due passi. Innanzitutto perché ci consentono di connettere i qumraniani con gli esseni di cui parla Giuseppe Flavio ne La guerra giudaica (II, pp. 130-1): anche Giuseppe ci informa che i commensali non potevano toccare cibo prima che il sacerdote avesse eseguito una benedizione. Ma ancor più sono importanti perché mostrano l'origine essena del rito eucaristico cristiano. Il primo dei due passi ci dice che tale rito doveva essere eseguito da un sacerdote quando fossero riuniti a mangiare insieme almeno dieci uomini. Il secondo si riferisce invece a un banchetto messianico in cui era presente tutta l'assemblea al completo; in tal caso era il sommo sacerdote, il Messia di Aronne, che aveva la dignità più elevata, ad eseguire per primo la benedizione del pane e del vino; in secondo luogo toccava al Messia di Israele, l'Unto di Jahvè, e quindi a tutti gli altri. Si comprende così il significato di quella che nella narrazione evangelica è l'ultima cena di Gesù coi suoi discepoli: in essa Gesù ricopre esattamente il ruolo del sommo sacerdote nel banchetto messianico: prende il pane, lo benedice ringraziando il Signore, lo spezza e lo distribuisce ai suoi discepoli. Lo stesso nome del rito cristiano, "eucarestia", denuncia la concezione originale: "ringraziamento", "grazie". In realtà la concezione cristiana affianca a questi significati del rito eucaristico anche quello di ripetizione del sacrificio della morte di Cristo sulla croce, nel quale gli accidenti del pane e del vino vengono trasformati in carne e sangue di Cristo. Ma queste sono delle aggiunte teologiche effettuate da Paolo di Tarso. Dunque, il battesimo e la comunione dei cristiani sono delle modifiche di riti originariamente esseni, alterati non solo nelle loro modalità esteriori, ma anche nei loro significati. I Vangeli portano numerose tracce di concezioni e linguaggi esseni, sopravvissuti a quelle operazioni di "censura" che hanno cercato di dissociare il cristianesimo dalla sua matrice originaria. Possiamo affermare ora che le scoperte effettuate sulle rive del Mar Morto hanno permesso di identificare i qumraniani o negli esseni di cui parlano Filone e Giuseppe, o in una comunità di tipo essenico, che condivideva con gli esseni la stragrande maggioranza delle concezioni e dei costumi, e con una spiccata connotazione di tipo zelotico. Non posso averne la certezza definitiva, ma personalmente ritengo che gli esseni e gli zeloti siano la stessa cosa. Penso che da un certo momento in poi ciò sia vero o, comunque, che una parte della comunità essena abbia formato la comunità degli zeloti intorno alla figura di Ezechia, di Giuda il Galileo e dei suoi figli e nipoti. E' proprio da questa famiglia di intransigenti partigiani dell'ideale messianico che possono essere scaturiti i protagonisti principali delle vicende che sono alla base della narrazione evangelica.


ANCORA SULL'IDEOLOGIA ESSENO-ZELOTICA

L'espressione "esseno-zelotico", qui frequentemente usata, è in realtà qualcosa di poco comune nella letteratura storica e religiosa che si occupa delle origini cristiane. Si parla spesso di "esseni" e di "zeloti", dando per scontato che i due nomi indichino movimenti diversi, ma a una caratterizzazione chiara e definitiva di essi e della distanza che li separa siamo ben lungi dall'essere arrivati. Il nome "esseni" ci giunge - come si è già detto - dagli scritti degli ebrei ellenizzati Filone Alessandrino e Giuseppe Flavio, i quali hanno testimoniato dell'esistenza di questo gruppo rappresentandolo sostanzialmente come un ordine monastico dedito all'ascetismo, al lavoro e allo studio dei testi sacri. Dalle opere dei suddetti autori emerge l'immagine di una confraternita di virtuosi dalla quale è stata praticamente omessa ogni analisi che riguardi la genesi del gruppo e i suoi fini ultimi. Gli esseni appaiono come individui interessati al semplice fatto di praticare il mestiere di santi, ma tale rappresentazione parziale non può essere altro che il frutto delle tendenze e delle propensioni di autori che si erano posti a cavallo fra il mondo giudaico e quello ellenico-romano, ed erano interessati a smorzare tutti gli aspetti della cultura ebraica che fossero conflittuali con la cultura pagana. Armati di questa consapevolezza interpretativa possiamo sempre ricavare dagli scritti di Filone e Giuseppe una gran mole d'informazioni preziose, riguardanti la struttura della setta, i rapporti di gerarchia, le usanze, i riti, le concezioni. Abbiamo già visto quale importanza abbiano, ad esempio, le descrizioni dei riti di accesso alla confraternita, da cui apprendiamo che il battesimo per immersione nell'acqua, prima d'essere il gesto che Giovanni aveva praticato sui suoi seguaci e sullo stesso Gesù, era un costume tipico degli esseni. E poi apprendiamo l'uso del pasto comunitario preceduto da un gesto liturgico nel quale il sommo sacerdote, o chi per lui, eseguiva una preghiera di ringraziamento accompagnata dalla distribuzione del pane, scoprendo così che il rito eucaristico della chiesa cattolica non è stato inventato nel corso della famosa ultima cena, ma era una consuetudine essena. Colui che non si muove culturalmente per pregiudizi e dogmi che devono essere comunque salvati riconosce in questi fatti degli innegabili collegamenti fra la tradizione essena e quella cristiana i quali, se non dimostrano che il cristianesimo delle origini fosse una cosa sola con l'essenato, indicano comunque che il cristianesimo si collocava nella stessa area dei movimenti del dissenso di tipo esseno-zelotico. Gli scritti di Filone e di Giuseppe ci offrono anche un'immagine degli esseni che molti hanno associato al cosiddetto "comunismo primitivo": regola sociale degli esseni era la comunanza totale dei beni e l'abolizione del concetto di proprietà, secondo il principio che ciascuno dovesse contribuire col proprio lavoro al benessere collettivo e dovesse ricevere dalla collettività il necessario alla soddisfazione dei propri bisogni strettamente essenziali. Le abitazioni, gli strumenti, il cibo e persino gli stessi vestiti erano considerati un patrimonio collettivo, al quale tutti potevano accedere, ma che nessuno poteva considerare come un possesso personale. Anche gli adepti che non risiedevano nella sede comunitaria, ma nei villaggi, come normali cittadini, consideravano la casa come un'appendice della struttura monastica centrale aperta a tutti i confratelli che ne avessero bisogno. Se tutto ci appare carico di un irresistibile fascino e avvolge gli esseni in un alone di misteriosa meraviglia, ciò suscita tuttavia nel lettore moderno provvisto di spirito analitico e critico alcune perplessità: come poteva esistere e da quali impulsi poteva aver avuto origine un movimento di tale natura e di tali proporzioni? Insomma, quali saranno state le dinamiche culturali, sociali, politiche e storiche, volontariamente ignorate da Filone e da Giuseppe, che avranno dato origine al movimento? Ad un esame critico di tali problemi ci si avvicina quando si prendono in considerazione altre fonti di conoscenza sul movimento esseno, delle quali in parte si è detto: il materiale archeologico e letterario che i ritrovamenti effettuati sulle rive nord-occidentali del mar Morto ci hanno fornito. I Rotoli del Mar Morto dimostrano significative convergenze sostanziali con gli scritti di Filone e di Giuseppe (comprese molte delle cose che abbiamo detto in precedenza sui riti battesimale ed eucaristico, nonché sulla concezione comunitaria ecc.), tali da convincere che la setta degli esseni fosse proprio la comunità monastica che occupava gli insediamenti di Khirbet Qumran. Essi ci arricchiscono, tuttavia, di nuove interessanti conoscenze che rispondono appropriatamente alle perplessità suscitate dalla lettura degli scritti di Filone e di Giuseppe. Gli elementi di dissenso rispetto alla casta sacerdotale che occupava il Tempio di Gerusalemme sono espliciti, l'odio nei confronti del dominio romano è palese, l'escatologia messianica è finalmente chiarita nel ruolo fondamentale che essa ha alla base dell'esistenza stessa della setta e dei suoi scopi, la radicale demitizzazione di un presunto pacifismo di principio della setta è operata chiaramente dalla stesura del cosiddetto "Rotolo della Guerra", nel quale si evidenzia piuttosto fin dove può portare il lungo e paziente contenimento di un fanatico odio di razza e di religione: vale a dire alle note apocalittiche di un annuncio di annientamento e distruzione totale e definitiva dei pagani e degli stessi ebrei tolleranti, ovverosia dei "figli delle tenebre". Eppure molti, specialmente coloro che amano guardare gli esseni solo dall'angolazione della loro spiritualità di tipo esoterico, sono scandalizzati all'idea che essi possano avere avuto qualcosa a che vedere con la lotta concreta per la liberazione politica di Israele, giungendo fino a sostenere che lo scritto qumraniano, noto come "Rotolo della Guerra", vera apoteosi dello spirito bellicoso, sia da interpretare in senso assolutamente simbolico. Se l'amore e la non-violenza erano le regole di vita tra confratelli, i "figli della luce", l'odio e la vendetta erano i sentimenti normali, giusti e doverosi, nei confronti dei nemici. Ciò contribuirebbe a risolvere anche un aspetto volutamente trascurato degli scritti evangelici: la contraddizione fra i contenuti pacifisti e perdonativi che scaturiscono da certi discorsi di Gesù ("porgi l'altra guancia...", "perdona il fratello...") e i contenuti aggressivi e castigativi di altri discorsi ("sono venuto a portare una spada...", "sarete sprofondati agli inferi..."). Sono soltanto l'escatologia esseno-zelotica e il concetto di lotta messianica che possono fornire una spiegazione a questo apparentemente inspiegabile duplice atteggiamento di Gesù Cristo negli scritti evangelici, sistematicamente ignorato dall'interpretazione cattolica o sbrigativamente risolto con giustificazioni semplicistiche e inconsistenti. Le testimonianze storiche e archeologiche offrono elementi per credere che, almeno da un certo punto in poi, esseni e zeloti non siano stati due movimenti antagonistici nel pensiero e nell'azione, ma che fossero affiancati nella lotta concreta contro il dominio romano - come nella drammatica vicenda dell'assedio della rocca di Masada (durata tre anni e conclusasi col suicidio collettivo di tutti i suoi occupanti).

15/12/2008 10:52



JOHN RICHES

LA BIBBIA - UNA BREVE INTRODUZIONE



COME FU SCRITTA LA BIBBIA


Questo è un titolo oltremodo ottimistico per un breve capitolo in una brevissima introduzione. Ma non possiamo comunque fare a meno di dire qualcosa sui processi attraverso cui i libri che troviamo nelle nostre bibbie arrivarono a essere fissati. In che modo assunsero la forma in cui si presentano attualmente? Questo capitolo sarà molto selettivo e prenderà in considerazione solo pochi esempi, che possono valere per tutto il ricco materiale che la Bibbia contiene. Prima di tutto, facciamo qualche osservazione generale, a cominciare dall'arco temporale in cui i testi furono scritti. Per l'Antico Testamento, i brani più remoti si ritiene risalgano all'undicesimo-decimo secolo a.C. (il cantico di Giudici 5), mentre il blocco più recente (il libro di Daniele) proviene dall'epoca dei Maccabei nel secondo secolo a.C. Per il Nuovo Testamento l'arco temporale è molto più breve. Le più antiche delle lettere di Paolo datano al 50 circa d.C.; la maggior parte dei testi rimanenti ricadono sicuramente entro il primo secolo. La data più alta avanzata con seri argomenti per qualcuno dei libri del Nuovo Testamento è intorno alla metà del secondo secolo per la seconda lettera di Pietro, anche se potrebbe benissimo risalire al primo quarto dello stesso secolo. Questo ci fa capire subito che i testi biblici furono prodotti lungo un arco di tempo in cui le condizioni di vita degli scrittori - politiche, culturali, economiche e ambientali - variarono enormemente. Ci sono testi che rispecchiano un'esistenza nomadica, testi che provengono da un contesto di monarchia consolidata e di culto nel Tempio, testi risalenti all'esilio, testi nati in epoca di dura oppressione da parte di governanti stranieri, testi composti in ambiente di corte, testi rilasciati da predicatori carismatici itineranti, testi scritti da persone che si danno arie da sofisticati scrittori ellenistici. E' un arco temporale durante il quale furono scritte le opere di Omero, Platone, Aristotele, Tucidide, Sofocle, Cesare, Cicerone e Catullo. E' un periodo che vede la nascita e la caduta dell'impero assiro (dal dodicesimo al settimo secolo a.C.) e dell'impero persiano (dal sesto al quarto secolo), le campagne di Alessandro Magno (336-326), la nascita di Roma e il suo dominio del Mediterraneo (dal quarto secolo alla fondazione del Principato nel 27 a.C.), la distruzione del Tempio di Gerusalemme (70 d.C.), e l'estensione del governo romano fino a parti della Scozia (84 d.C.).


ORALITA' E SCRITTURA

Una cosa che questi testi, così largamente distribuiti nel tempo, hanno in comune è la loro localizzazione in una cultura che apprezzava molto la scrittura, anche se la sua pratica era ancora in gran parte riservata a specialisti. Il periodo di composizione dei più antichi testi biblici coincide più o meno con quello del passaggio dalla scrittura cuneiforme all'uso di un alfabeto. Nella scrittura cuneiforme, le parole sono rappresentate da segni a forma di cuneo incisi su tavolette di argilla mediante uno strumento di canna o di metallo. Negli alfabeti più antichi, che hanno origine con i fenici, le consonanti sono scritte con inchiostro su papiro o altro acconcio materiale, il quale era insieme più flessibile e più trasportabile. Soprattutto, consentiva di produrre testi molto più lunghi. I testi nel nuovo alfabeto potevano essere scritti su rotoli, per lo più di pelle, che potevano accogliere anche tutti i 66 capitoli di Isaia. Il successivo sviluppo del codice (corrispondente grosso modo al nostro attuale formato di libro) rese ancora più agevole la consultazione e il trasporto. Un codice avrebbe permesso di raccogliere tutti e quattro i vangeli sotto un'unica copertina, dando luogo a un volume di due volte e mezza la lunghezza del libro che avete in mano. Il suo impiego come mezzo per testi letterari, adottato pionieristicamente dai primi cristiani, risale al primo secolo d.C. Divenne di uso corrente a partire dal quarto secolo circa. Lo sviluppo di nuove tecniche per la registrazione del linguaggio fu uno dei tratti tecnologici più notevoli di questo periodo, paragonabile per importanza allo sviluppo della stampa a caratteri mobili del sedicesimo secolo, che rese possibile la rapida diffusione delle idee della Riforma. Durante il periodo biblico, tuttavia, la cultura rimase in grandissima misura di carattere orale. Il che vuol dire che i testi scritti venivano comunicati per lo più attraverso la loro lettura ad alta voce; in altre parole, la più gran parte delle persone aveva accesso ai testi ascoltandoli, non leggendoli. Inoltre, la maggioranza dei testi giunti a noi in forma scritta - legali, profetici, proverbiali, poetici o narrativi che siano - dovevano essersi formati originariamente in forma orale e solo successivamente furono messi per iscritto. Così, per esempio, gli oracoli profetici erano pronunciati dal profeta a voce, venivano memorizzati dai suoi discepoli, e poi più tardi venivano riportati per iscritto. Fra il momento in cui gli oracoli originari furono pronunciati, quello della loro successiva messa per iscritto, quello della loro raccolta con altro materiale simile, e quello della loro pubblicazione finale in forma di libro profetico, possono essere passati anche parecchi secoli, come nel caso del libro di Isaia. Pure quando si tratta di testi prodotti da una singola persona, come nel caso delle epistole paoline, spesso furono dettati a uno scriba, anche se magari alla fine Paolo aggiungeva di suo pugno il proprio saluto: "Vedete con che grossi caratteri vi scrivo, ora, di mia mano" (Galati 6,11). Per tutto il periodo della composizione della Bibbia dunque, oralità e scrittura sono strettamente connessi fra loro. Questo fatto risalta con chiarezza dai diversi gradi di letterarietà che caratterizzano i vari testi: alcuni di essi provengono manifestamente da circoli in cui si coltivava a un buon livello l'arte della composizione di testi scritti, mentre altri rivelano una molto maggiore prossimità alla recitazione orale di racconti e discorsi. Per averne un esempio evidente, basta guardare ai vangeli: quello di Marco, generalmente riconosciuto come il più antico dei quattro, è il meno letterario di tutti, caratterizzato com'è da rozzezza dello stile greco e da una maggiore vicinanza del suo contenuto alla tradizione orale di episodi e detti di Gesù; Luca, al contrario, proclama con tutta chiarezza di scrivere alla maniera di uno storico greco che ha vagliato accuratamente le sue fonti e redige un affidabile racconto letterario (Luca 1,1-4). Il suo è uno stile di notevole livello letterario, riecheggiando il carattere peculiare della traduzione greca delle scritture ebraiche.


IL MONDO LETTERARIO DELLA BIBBIA

Quale fu in concreto il processo di composizione dei testi biblici entro questo contesto generale di scrittura e oralità? Bisogna ricordare prima di tutto che gli autori biblici affrontavano il loro compito di scrittori in maniera molto diversa rispetto a quella, poniamo, di un narratore moderno. Il narratore moderno in larga misura ha il controllo del suo materiale e crea un'opera letteraria grazie alla sua immaginazione ed esperienza, ricamando a proprio piacimento su allusioni e tradizioni letterarie. Gli antichi scrittori di testi religiosi, al contrario, erano molto più vincolati dai depositi del passato, orali o scritti che fossero. Essi erano allo stesso tempo compilatori e compositori di testi. Basta già la lettura di un paio di capitoli del libro della Genesi per cominciare a rendersi conto di quanto diverso sia il mondo letterario in cui entriamo. Nel primo capitolo veniamo a sapere che Dio creò il mondo in sei giorni e si riposò il settimo giorno. Il racconto parte con una descrizione del caos e delle tenebre e si snoda poi attraverso la creazione dei corpi celesti, della terra e dei mari, delle piante e degli animali, fino a raggiungere il punto culminante nella creazione dell'uomo e della donna. "Dio creò l'uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò" (Genesi 1,27). Il brano sottolinea la bontà del creato, la sua dignità in sé e per sé, prima che l'uomo e la donna compaiano infine sulla scena. Ciò non vuol dire che sia negato il forte senso del dominio dell'uomo sul mondo creato che è espresso nel versetto 28, un dominio che comunque ha dei limiti. In Genesi 1 tanto l'uomo quanto gli animali sono rigorosamente vegetariani. (Solo dopo il diluvio, in Genesi 9,3-4, viene consentito agli esseri umani di diventare carnivori.) Il racconto termina con Dio che si ferma dal suo lavoro, contempla tutto quello che ha fatto, "e vide che era molto buono". Fin qui non c'è nulla di particolare che ci faccia capire in quale diverso mondo letterario stiamo entrando. Ma in Genesi 2,4 la vicenda della creazione viene ripresa nuovamente, e in una forma abbastanza differente. In primo luogo, il racconto è qui strutturato in maniera diversa: è infatti assente la scansione della creazione in sei giorni, utilizzata nel capitolo 1. Poi, è molto diversa la successione degli avvenimenti: dopo una breve narrazione della creazione dei cieli e della terra (molto lontana dall'enfasi con cui è presentata la loro creazione nel capitolo 1, dove passano quattro giorni prima che vengano creati tutti gli esseri animati), ci viene fornito il quadro di una terra vuota di qualsiasi vegetazione, "perché il SIGNORE Dio non aveva fatto piovere sulla terra e nessuno lavorava il suolo" (2,5). Dio fa sì che salga l'umido e la terra sia irrigata, e poi, come sua prima azione, crea l'uomo/Adamo (il termine ebraico "Adam" vale insieme per "essere umano" e come nome proprio di persona). Ma, benché il termine sia generico, Adamo è un maschio ed è solo. Il resto del racconto si articola poi intorno all'assistenza e al sostegno che Dio gli assicura. Prima di tutto, Dio crea per l'uomo un giardino, con piante e alberi destinati al suo nutrimento, a parte l'albero della conoscenza del bene e del male. Poi crea gli animali, perché tengano compagnia ad Adamo. Ma anche questi non bastano. Così alla fine Dio fa cadere Adamo nel sonno e dal suo costato crea una donna, e Adamo è contento, almeno per il momento. Il racconto termina con l'uomo e la donna insieme, felicemente ignari della loro nudità. Le differenze fra questi due racconti sono impressionanti. Il secondo, quello di Genesi 2, raffigura Dio in termini apertamente umani, pone l'essere umano al centro del creato, e, con il suo episodio della creazione della donna dalla costola di Adamo, simboleggia vividamente la subordinazione della donna all'uomo. Come uno scultore, Dio modella l'uomo dalla polvere; come una specie di Frankenstein, fa cadere l'uomo nel sonno e prende da lui una costola per trasformarla in una donna. Quanto diverso dal più sobrio e solenne racconto dell'azione di Dio nel capitolo 1: "E Dio disse, "Sia la luce"; e la luce fu" (1,3 ), un motivo che percorre tutto il capitolo. E poi, il capitolo 2 fa ruotare tutto lo scopo della creazione intorno ai bisogni dell'uomo (in senso stretto!). Ogni cosa è fatta in vista dell'uomo, e senza l'uomo nulla sarebbe stato portato all'esistenza; nel capitolo 1 l'essere umano rappresenta certo la gloriosa corona del creato, ma rimane pur sempre una parte dell'intero processo. Infine, il racconto della creazione dell'uomo del capitolo 2 è spudoratamente orientato verso il maschio: la creazione dell'uomo è posta prima di ogni altra cosa, e ogni altra cosa successiva dipende da lui. La creazione della donna arriva solo alla fine, come ultima risorsa, che va rapidamente in malora. Una differenza finale, che purtroppo si perde nelle traduzioni: nel capitolo 1 si fa riferimento a Dio con il termine ebraico elohim, che è in realtà una forma plurale. Nel capitolo 2, lo si chiama invece anche YHWH (da leggersi probabilmente Yahweh, ma non ci sono state tramandate le vocali originali). Da quanto detto, si capisce che abbiamo qui due versioni della medesima storia, le quali impiegano una diversa terminologia per un personaggio che è nientedimeno che Dio stesso, e contengono una notevole misura di incoerenza sull'ordine della creazione, sulla relazione degli uomini e delle donne con essa, e anche sulla questione del rapporto fra l'uomo e la donna. Fenomeni simili si ripetono continuamente in tutti i primi cinque libri della Bibbia. Così, per esempio, ci sono racconti diversi, e in qualche modo contraddittori, del diluvio (si confronti Genesi 7,2-3 con 6,19; 7,8.9.15), della migrazione di Abramo (Genesi 12,1-4a e 12,4b-5), del patto di Dio con Abramo (Genesi 15 e 17), della manna e delle quaglie nel deserto (Esodo 16,2-3.6-35a; Numeri 11,4-34), dei Dieci Comandamenti (Esodo 20,1-17; 34,10-28; Deuteronomio 5,6-18), e delle norme alimentari che vietano di mangiare certi animali (Levitico 11 e Deuteronomio 14). Oltre alle differenze nella narrazione, ci sono altri esempi di differenze nella terminologia. In alcuni luoghi la montagna del patto è Sinai (per esempio Esodo 19,1; 24,16); in altri è Horeb (Deuteronomio 4,10; 5,2). Alcune narrazioni preferiscono certe parole ebraiche - per esempio in riferimento alla morte, alle piaghe, all'assemblea del popolo -, che ricorrono raramente, o non ricorrono mai, in narrazioni parallele. Il che vuol dire che esistono versioni parallele di racconti, e queste versioni parallele possono essere raccolte in gruppi sulla base di un uso largamente coerente di certi termini. A che ci serve mettere in evidenza tutto questo? Gli studiosi concordano sul fatto che le narrazioni sono tratte da quattro diverse fonti scritte, le quali furono messe insieme nel corso del tempo per formare i primi cinque libri della Bibbia come un'opera composita. Le fonti sono chiamate J, la fonte jahwista (dalla traslitterazione tedesca dell'ebraico YHWH); E, la fonte elohista; P, la fonte sacerdotale (dall'iniziale del tedesco Priestercodex); e D, la fonte deuteronomista. Si pensa che in un primo tempo furono cuciti insieme J e E, e poi, in una fase successiva, nel quadro narrativo del combinato J+E, fu inserito P; infine, fu aggiunto D come quinto libro, probabilmente nello stesso periodo in cui veniva incorporato P, con qualche adattamento per conciliarlo con il passaggio di consegne da Mosè a Giosuè di cui parla il Deuteronomio. Il materiale più antico risale all'undicesimo secolo a.C. La compilazione finale va collocata nel quinto secolo, e potrebbe includere revisioni dei testi inclusi nella raccolta, che riflettono generalmente le concezioni di P. Così il Pentateuco (ovvero la Torah, che è il nome con cui è noto agli ebrei) comprende materiale formatosi nell'arco di sei secoli di storia umana, messo insieme per offrire un quadro globale della creazione del mondo e delle imprese di Dio nei confronti dei suoi popoli, e in specie del popolo d'Israele. Non sono solo i libri dell'Antico Testamento ad avere origine in una varietà di tradizioni orali e scritte. La stessa cosa vale anche per i vangeli. I vangeli sono quattro narrazioni della vita, morte e risurrezione di Gesù, con interessanti differenze di prospettiva e di dettaglio, ma allo stesso tempo anche con un notevole accordo. Nel caso dei primi tre - Matteo, Marco e Luca - gli elementi di accordo sono davvero rilevanti. Non soltanto concordano nella successione in cui sono ordinati molti avvenimenti e in molti dettagli degli stessi avvenimenti. Ancora più importante è il fatto che, all'interno di singole sezioni, concordano nella struttura letteraria generale del racconto nonché nella struttura della frase, nella scelta delle parole, e nelle forme grammaticali. Queste concordanze linguistiche sono così impressionanti che quasi costringono a concludere che c'è fra loro una dipendenza letteraria di questo o quel tipo. Il che vuol dire che qualcuno di loro ha copiato qualcun altro. L'opinione più condivisa, anche se nient'affatto indiscussa, è che Marco fu il primo a scrivere, e che Matteo e Luca utilizzarono entrambi Marco e in più un'altra fonte costituita principalmente da detti attribuiti a Gesù e che viene indicata come fonte Q (dall'iniziale del tedesco Quelle = fonte). Questa ricostruzione permette poi allo storico del cristianesimo primitivo di individuare diverse prospettive teologiche associate con i diversi vangeli e anche con la fonte Q. Ma la storia non finisce qui. Che possiamo dire a proposito del primo dei vangeli, Marco? Da dove egli prese il suo materiale? Dietro Marco devono esserci le tradizioni orali, che egli raccolse e dispose in un certo ordine. Similmente, il materiale riconosciuto come proveniente da Q (nella gran parte i detti che Matteo e Luca hanno in comune) potrebbe essere stato esso pure in forma orale e non in forma scritta. Gli studiosi hanno cercato di ricostruire in qualche modo la storia delle tradizioni orali che stanno dietro i vangeli, ma i risultati non sono stati molto incoraggianti. Il periodo di trasmissione è breve: meno di 40 anni intercorrono fra la morte di Gesù e la stesura del vangelo di Marco. Ciò significa che ci fu poco tempo perché le tradizioni orali assumessero una forma fissa, anche se è probabile che esistesse una estesa narrazione orale degli ultimi giorni di Gesù, che veniva usata probabilmente nel culto cristiano e che costituì la base delle varie narrazioni della morte di Gesù (i racconti della Passione) nei vangeli. Ma anche così, è difficile capire quali elementi del vangelo di Marco (o magari dell'ipotetica fonte Q) provengano dalla tradizione e quali dallo stesso Marco. Quello che comunque possiamo dire con una certa sicurezza è che, prima di essere messi per iscritto, le storie e i detti di Gesù circolarono in varie forme orali. I vangeli, come la Bibbia ebraica, hanno le loro radici in una cultura orale. Ma se sotto questo aspetto assomigliano alla Bibbia ebraica, bisogna dire che nel caso dei vangeli ci fu un'impressionante corsa alla scrittura. Quattro importanti esposizioni letterarie della vita, morte e resurrezione di Gesù nell'arco di una quarantina d'anni è un'impresa notevole. E' una chiara indicazione della crescente importanza della produzione libraria a tutti i livelli della società nel mondo mediterraneo del primo secolo. Ed è anche indicativo del desiderio dei primi cristiani di essere parte di quella società, nonostante la loro credenza in una fine imminente e drammatica del mondo quale lo conoscevano. Come si vede, dunque, molti dei libri della Bibbia non sono opera di un singolo autore, scritta nel giro di pochi anni; sono piuttosto compilazioni, che riflettono tradizioni comuni che possono risalire anche a molti secoli addietro. Anche nel caso del Nuovo Testamento, dove indubbiamente c'è una netta preponderanza di opere scritte da un singolo autore, i vangeli sono tuttavia in un senso importante produzioni comuni, in quanto conservano le tradizioni dei primi cristiani. Ma nonostante abbiano profonde radici in una cultura e una tradizione orali, gli scritti della Bibbia sono anche, ovviamente, opere letterarie. In primo luogo, usano forme e convenzioni letterarie. La Bibbia ne contiene una grande varietà. La Bibbia ebraica è divisa tradizionalmente in tre parti: la Torah, i Profeti e gli Scritti. La Torah (o Pentateuco) comprende i primi cinque libri e contiene un miscuglio di testi narrativi e legali. In alcune sezioni domina la parte narrativa (Genesi, Esodo e Numeri); in altre è dominante il materiale legale (Levitico e Deuteronomio). Il Deuteronomio è presentato come il testamento finale di Mosè al popolo, prima della propria morte e dell'ingresso del popolo nella Terra Promessa sotto la guida di Giosuè. La parte dei Profeti contiene libri profetici con oracoli sia narrativi sia profetici, preceduti dalle storie di Giosuè, dei Giudici, di Samuele e Re. Questi libri contengono capolavori di arte narrativa, ma insieme costruiscono un affresco della storia del popolo con una prospettiva decisamente teologica. La parte degli Scritti contiene un miscuglio di salmi, di materiale proverbiale e di libri a carattere più storico. Il Nuovo Testamento aggiunge a questi un certo numero di altri generi letterari: i vangeli, che come genere hanno una notevole somiglianza con le contemporanee biografie o "Vite"; le lettere, che vanno dalla semplice breve comunicazione personale (Filemone) all'elaborato trattato di 16 capitoli della lettera di Paolo ai Romani; gli "atti", un genere che registrava le imprese di personaggi importanti e che avrebbe avuto molto seguito nella letteratura cristiana; e un'apocalisse (o rivelazione), un tipico genere che godette di notevole popolarità nel giudaismo del primo secolo d.C. Gli autori e compilatori della Bibbia, dunque, fecero uso di una varietà di generi letterari in cui inquadrare le loro opere. Molti di essi potrebbero aver avuto origine nella cultura popolare, orale, ma quando furono immessi nella tradizione della scrittura e della compilazione biblica, divennero influenti e determinarono il modo in cui i libri sarebbero stati scritti. Così il genere "vangelo" che, come variante peculiare del contemporaneo genere Vita, può essere ascritto a Marco, fu immediatamente emulato dagli altri evangelisti canonici e da molti altri le cui opere non furono incluse nel canone. La Bibbia proseguì le tradizioni e i generi letterari precedenti e insieme ne creò di nuovi.


ALLUSIONI LETTERARIE NELLA BIBBIA

La consapevolezza di lavorare all'interno di una tradizione letteraria è riflessa nel modo in cui gli scrittori biblici fanno riferimento all'indietro, a precedenti libri della Bibbia. E' naturale che nel raccontare la vita e le gesta di una grande figura della storia del loro popolo gli scrittori facessero dei confronti. Anche se, come dice il Deuteronomio, "non è più sorto in Israele un profeta come Mosè - lui con il quale il Signore parlava faccia a faccia - per tutti i segni e prodigi che il Signore lo aveva mandato a fare..." (Deuteronomio 34,10-11), questo non impedì agli scrittori successivi di tentare almeno di fare confronti. Così, quando Giosuè, al quale Mosè aveva affidato il compito di guidare il popolo nella Terra Promessa, arriva con l'Arca dell'Alleanza al Giordano, le allusioni all'attraversamento del Mar Rosso, sono chiare. In entrambi i casi il popolo si accampa davanti alle acque e poi si muove al mattino. In entrambi i casi si ha una miracolosa divisione delle acque, che si arrestano formando un muro (Esodo 14,21-22), "si fermano come un solo argine" (Giosuè 3,13.16). Ma in tutto questo Giosuè fa come Mosè gli ha detto, e tutti del popolo "lo temettero come avevano temuto Mosè in tutti i giorni della sua vita" (4,14). Analoghi punti di confronto possono essere rilevati fra la storia della vocazione di Gedeone in Giudici 6 e quella della vocazione di Mosè in Esodo 3. II libro dei Giudici fa un chiaro richiamo a Esodo 3,7-10.13. Fra le due storie ci sono somiglianze di linguaggio: "io sarò con te" (Giudici 6,16, cfr. Esodo 3,12); ci sono somiglianze strutturali: l'oppressione di Israele, la chiamata del liberatore, la distruzione delle divinità straniere, una guerra santa. Questi punti di contatto sono ulteriormente sviluppati in successivi racconti che ripropongono gli stessi episodi. E' un processo, questo, che non si limita agli scritti dell'Antico Testamento, ma è andato avanti quando le medesime storie sono state nuovamente raccontate nella letteratura extra-biblica ebraica e greca e nel Nuovo Testamento. I racconti dell'infanzia di Gesù riportati da Matteo contengono citazioni e allusioni più indirette alla storia della nascita di Mosè. Questi rapidi esempi mostrano che siamo in presenza di una tradizione religiosa vivente, dove la tradizione dei testi è in dialogo con se stessa. Quello che è fissato come rivelazione in un libro viene assunto e interpretato in scritti successivi. La portata di questo tipo di intreccio letterario è certamente molto più ampia di quanto possa essere qui illustrato. La figura di Mosè percorre le narrazioni bibliche, fungendo da modello per il modo in cui le storie vengono raccontate, ed è usata come metro su cui sono giudicati i personaggi successivi. Così pure la storia dell'Esodo, con le peregrinazioni nel deserto e la conquista della Terra, ritornerà continuamente per modellare materiali legali, profetici e liturgici. I grandi avvenimenti del passato raccontati nella Sacra Scrittura toccano inevitabilmente il modo in cui il presente viene vissuto e il futuro viene sognato. Il tema dell'ingresso nella Terra dopo le peregrinazioni nel deserto riemergerà nelle profezie di Isaia per incoraggiare i giudei in esilio a sperare nel ritorno, a guardare alla gloriosa restaurazione di Israele, quando tutte le nazioni si accalcheranno per rendere omaggio a Sion, alla gloria restaurata del Tempio e della nazione (vedi Isaia 40,1-11; 60,1-14). Le stesse visioni modellavano le credenze dei giudei al tempo della nascita di Cristo. I membri della setta di Qumran, gli autori dei rotoli del Mar Morto, scelsero di ritirarsi nel deserto per prepararsi all'avvento della restaurazione finale di Israele e del rinnovamento del Tempio. Il vangelo di Marco si apre con Giovanni Battista che proclama "la via del Signore"; egli, naturalmente, si riferiva al battesimo di penitenza da lui somministrato, che era tuttavia destinato a preparare la via per Gesù, colui più potente che sarebbe venuto dopo di lui a battezzare con lo Spirito Santo e il fuoco. E' interessante riflettere sui contesti molto diversi in cui questi testi furono elaborati. Quello di Isaia proviene dal periodo dell'esilio di Israele in Babilonia: ai giudei che sono stati strappati dalle loro case e che conducono una vita da sradicati esso promette il ritorno alla Terra e alla gloria precedente; anzi, la loro gloria sarà maggiore: tutte le nazioni affluiranno a riconoscere la gloria del Signore. I membri della setta di Qumran, viceversa, vivevano in un esilio interno nella Terra, dove vedevano le forze di occupazione romane e anche i sacerdoti del Tempio dominati dallo spirito delle tenebre. Il loro mondo è stato di nuovo rovesciato da forze straniere, che li hanno privati dell'indipendenza e hanno minato le loro tradizioni religiose; in più, essi hanno anche perduto la fiducia nei leader religiosi della nazione. Restano aggrappati alla speranza profetica di un ritorno ai momenti fondanti della storia giudaica; ma non pensano a un ritorno fisico dall'esilio, bensì al rovesciamento delle forze di occupazione e alla restaurazione e al rinnovamento del Tempio e del suo sacerdozio. Nel vangelo di Marco, il senso di queste antiche profezie viene ulteriormente allargato. Scrivendo per una comunità perseguitata di cristiani gentili (cioè provenienti dal paganesimo) a Roma, Marco non è per nulla interessato al rinnovamento o alla restaurazione di Israele e del Tempio di Gerusalemme. Per lui la "via del Signore" porta dal deserto - passando attraverso il ministero di predicazione di Gesù, le sue guarigioni e i suoi esorcismi - a Gerusalemme, dove Gesù sarà crocifisso e il velo del Tempio verrà strappato. Ai discepoli Viene poi detto di ritornare in Galilea, da dove si disperderanno per predicare il vangelo a tutte le nazioni. I problemi affrontati dalla comunità dei gentili di Marco, le crudeli torture e le pubbliche esecuzioni, non sono più proprie di una nazione particolare. E pertanto la loro scelta di conversione non può più essere concepita in termini di restaurazione nazionale. Per Marco, la soluzione di questi problemi sta nel fatto che Gesù ha imprigionato Satana e nella sua chiamata a tutti a stare con lui (3,14) e a predicare la buona novella a tutte le nazioni (13,10).


UNA TRADIZIONE ORALE E LETTERARIA VIVENTE

In questo capitolo ho cercato di dare un'idea del modo in cui i libri biblici furono composti. In particolare ho insistito sul fatto che la loro genesi si colloca in un periodo in cui la letteratura scritta cominciava a nascere ma che era tuttavia ancora sotto molti aspetti una cultura orale. Questo tratto connota la Bibbia come una collezione di testi che hanno profonde radici nelle tradizioni orali di ebrei e cristiani. Si tratta di testi che furono messi per iscritto solo gradualmente e attraverso un processo che a sua volta conobbe varie fasi. I libri quali noi li abbiamo ora possono aver incorporato o possono essere stati basati su altre raccolte di testi e documenti. Le tradizioni orali, una volta messe per iscritto, hanno influenzato la creazione di altre opere letterarie, o l'elaborazione di nuove tradizioni orali che poi sono passate nella forma scritta. Le più antiche opere della Bibbia esercitarono la loro influenza sulla scrittura successiva e allo stesso tempo furono rielaborate e magari anche profondamente trasformate da una successiva riscrittura. La tradizione, sia orale sia scritta, è una tradizione dinamica e talvolta contraddittoria. Certamente non parla con un'unica voce, ma le diverse voci parlano la stessa lingua: trascelgono frasi e motivi, condividono un comune patrimonio di immagini e idee che rilanciano in modi a volte sorprendentemente differenti. E' uno scambio vivace e a vasto raggio, con racconti e ampie storie, dibattiti intorno a leggi e regolamenti, proverbi e detti, lettere e visioni. Questi testi contengono un ricco vocabolario attraverso il quale persone in situazioni diverse e in tempi diversi possono cercare di comprendere le loro esperienze di benessere o di sofferenza e oppressione. Questi testi forniscono una ricca sorgente di sapienza grazie alla quale ciascuno può cercare di orientare la propria esistenza, di rafforzare la nazione e di vivere in armonia col prossimo. Possono anche dare corpo a dei sogni. I grandi eventi del passato, di liberazione dalla schiavitù e di eroica resistenza nel deserto, possono essere ricreati nel futuro. Possono emergere nuovi mondi che rispecchino il passato e le sue glorie in modi assolutamente imprevedibili. Questo processo di riappropriazione e rielaborazione dei testi che si compie all'interno degli scritti biblici prosegue, come vedremo, nella storia successiva della loro ricezione dentro le comunità ebraiche e cristiane.

(continua...)
15/12/2008 10:53



LA BIBBIA NEL MONDO DEI CREDENTI


Una volta inseriti nel canone, i testi cambiano. Diventano testi sacri. I credenti delle comunità che ne riconoscono il nuovo status li considerano come messi a parte, testi speciali che non possono essere trattati alla stregua di qualsiasi altro testo. Le aspettative nei loro confronti sono pertanto piuttosto diverse da quelle che i lettori hanno rispetto ad altri testi. Proprio perché sacri, è impensabile che i testi canonici possano essere in conflitto con il più profondo senso del sacro posseduto dai credenti. Ogni seria dissonanza fra l'esperienza della comunità e il mondo riflesso nel testo sacro esige di essere risolta. O il mondo del testo dev'essere elaborato in maniera tale da risultare conforme all'esperienza della comunità, o è la comunità che deve cambiare per conformarsi a quanto dichiarato nel testo. Si accende, dunque, una potente dialettica. I credenti leggono i testi alla luce della loro esperienza; e, allo stesso tempo, guardano ai testi per dare senso alla loro esperienza e costruirla. E' facile quindi aspettarsi che le diverse comunità di credenti leggano lo stesso testo in maniere molto diverse. Nella loro lettura troveremo un riflesso sia delle loro diverse credenze sia delle loro storie diverse. In questo non c'è grande differenza da quello che accade con i testi classici, non sacri; è l'intensità delle reazioni che è diversa. Se - poniamo - Shakespeare e Goethe arrivano a essere qualificati come classici da una rispettabile società borghese, ci saranno di quelli che vorranno eliminare dai loro scritti certi aspetti considerati scioccanti, o anche solo disdicevoli, da quella società. Le antologie di Goethe ometteranno parti della sua più sboccata poesia d'amore; e ci sarà un qualche Bowdler che appronterà le sue versioni purgate di Shakespeare. Il confronto è istruttivo: i conflitti fra alcune opere letterarie ed estetiche e il gusto e le sensibilità correnti provocano per lo più uno scandalo soltanto temporaneo; raramente creano fratture durature dentro una comunità, anzi a volte portano a mutamenti nella sensibilità della gente. E' largamente ammesso che gli scrittori e gli artisti possono aiutare la gente comune a familiarizzarsi con le altezze e le profondità dell'esperienza che la società benpensante semplicemente ignora o rimuove. Analoghi mutamenti di sensibilità si verificano anche, come vedremo, nelle comunità religiose. A volte tali mutamenti incontrano una resistenza molto maggiore per affermarsi, in quanto le comunità combattono per difendere modi di vedere il mondo che sono consacrati dalle letture tradizionali della scrittura. Prendiamo in esame un testo particolare, che ha avuto profonde risonanze sia nella tradizione giudaica sia in quella cristiana, e vediamo qualcuno dei modi in cui esso ha formato le diversissime esperienze di queste due famiglie di comunità e ne è stato a sua volta formato.


L'AKEDAH

L'Akedah - cioè l'episodio di Isacco che viene legato ('aqad = legare) da Abramo in vista del sacrificio, raccontato da Genesi 22 - tocca un nervo delicato delle sensibilità giudaica e cristiana. E' una storia di strana violenza e tenerezza, di un padre che riceve dal suo Dio l'ordine di sacrificare "il suo unico figlio". Solo all'ultimo momento Abramo e Isacco vengono salvati dall'imminente orrore con l'intervento di un angelo. La vicenda è raccontata con tutto il vigore, la sobrietà e il realismo della narrativa biblica nei suoi momenti migliori. Lasciati i servi ai piedi del monte, Abramo e Isacco iniziano il cammino: "Abramo prese la legna dell'olocausto e la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi proseguirono tutt'e due insieme" (Genesi 22,6). L'ultima proposizione ("proseguirono tutt'e due insieme"), ripetuta due versetti dopo, e il breve dialogo successivo sottolineano il forte legame fra i due; ma l'obbedienza di Abramo a Dio li spinge a salire sul monte del sacrificio. Qui Abramo allunga la mano armata di coltello per uccidere il figlio. Solo in quel momento interviene l'angelo. Ma dalla tragedia sfiorata viene fuori la benedizione divina e la promessa di una nuova nazione che sorgerà dal padre e dal figlio. Il fascio di emozioni ed esperienze racchiuso in questo breve racconto, così incisivo nella sua formulazione, è molto denso, come dimostra la ricchezza delle sue successive letture. Una delle prime interpretazioni dell'episodio è quella che si trova nel libro dei Giubilei, che è costituito in gran parte da una riproposizione della storia d'Israele che viene narrata a Mosè dall'"angelo della presenza". Grazie a questo artificio, l'autore ha la possibilità di integrare la storia con dettagli relativi ai retroscena celesti, che mancano nel racconto biblico. Così, ci viene detto ora perché mai Dio mise alla prova Abramo (Genesi 22,1). Circolavano in cielo dicerie che mettevano in dubbio la fedeltà e l'amore per Dio da parte di Abramo. Questo aveva spinto Satana, qui chiamato col nome di Principe Mastema, a lanciare una sfida a proposito della genuinità dell'amore per Dio da parte di Abramo, sostenendo che questi amava di più il suo figlio Isacco. L'angelo afferma che Dio sapeva bene che l'amore di Abramo era genuino, avendolo messo alla prova già molte volte, ma ciononostante accetta di apprestare una prova finale. Questo tema dell'ultima prova attraverserà tutte le discussioni giudaiche sulla vicenda. Il motivo della prova di Abramo è presente già in Genesi, ma in Giubilei riscontriamo un sottile ma significativo slittamento di accento. In Giubilei la prova non è per Dio un mezzo per scoprire se Abramo lo ama e gli obbedisce; questo, Dio (e il lettore) lo sa fin dall'inizio, e nel momento cruciale Dio interviene proprio sulla base di questa conoscenza. In Genesi, invece, è solo dopo che Abramo ha impugnato il coltello che Dio, per il tramite dell'angelo, dice: "Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio" (Genesi 22,12). In Giubilei lo scopo dell'azione di Dio è di dimostrare a Mastema la fedeltà e l'amore per Dio da parte di Abramo, come si capisce bene dalle parole finali che Dio rivolge ad Abramo: "E io ho reso noto a tutti che tu sei fedele a me in ogni cosa che io ti dico". Questo diventa un messaggio per i giudei, i quali pure hanno dovuto subire di recente un'analoga prova satanica. Lo scopo della prova di Abramo e, per estensione, delle prove che gli stessi giudei si trovavano ad affrontare era di rendere nota la fedeltà di Israele a Dio, così che "tutte le nazioni possano essere benedette per mezzo di lui" (Giubilei 18,16). L'introduzione di Satana sulla scena aggiunge un'ulteriore dimensione alla vicenda, oltre al fatto di essere una prova dell'obbedienza di Abramo messa in atto da Dio. Con la presenza di Satana si vedono all'opera nel mondo potenze oscure che cercano di fuorviare la gente e pretendono che anche i più giusti fra gli uomini siano loro vittime. In una qualche maniera oscura, parte almeno della responsabilità della sofferenza umana ricade su Satana, mentre Dio e i suoi angeli sono lì pronti a sostenere e a proteggere il fedele. Nella vicenda specifica, essi sono presenti a far sì che Isacco non riceva alcun danno (almeno alcun danno fisico). Ma come si accorda questo con le esperienze dei giudei nel corso delle epoche di persecuzione e martirio, che avevano portato molti di loro alla morte? La consapevolezza di questi problemi è evidente nello scrittore giudaico del primo secolo d.C., Filone Alessandrino. La comunità giudaica di Alessandria all'epoca di Filone si stava dando da fare per ottenere che si ponesse fine alla discriminazione e alla persecuzione nei suoi confronti. Nel suo trattato De Abrahamo, Filone risponde prima di tutto a quelli che dicevano che la prova sostenuta da Abramo non era poi di gran peso se messa a paragone con quella di tanti pagani che avevano di propria volontà immolato i propri figli per la conservazione della loro città o dei loro popoli. Ma - afferma Filone - per Abramo, per il quale il sacrificio umano era un abominio, l'immolazione del suo figlio fu una prova ben più terribile, dal momento che per i principi pagani questa era invece quasi secondo natura (De Abrahamo, 177-199). Filone, però, non si ferma qui, ma approfitta della vicenda di Isacco per fare pure una riflessione sulla sofferenza e l'afflizione umana, e lo fa mettendo in evidenza il significato allegorico della storia. Il nome di Isacco significa risata. Abramo sacrifica la risata, o piuttosto "la buona emozione del comprendere, ossia la gioia", in nome del suo senso del dovere nei confronti di Dio. Il che è giusto, perché una vita di pura gioia e felicità è esclusiva di Dio. Ciononostante, Dio vuole permettere ai suoi fedeli di partecipare in qualche misura di una simile gioia, anche se essa sarà mescolata con il dispiacere (De Abrahamo, 200-207). Viene alla mente quella battuta giudaica che dice: Perché i giudei non possono ubriacarsi? Perché quando uno beve dimentica le preoccupazioni. Ma che dire delle grandi sofferenze sopportate in tante occasioni dagli stessi giudei? La terribile persecuzione inflitta loro al tempo di Antioco Epifane (175 a.C.) produsse propri episodi e relativi racconti sulla fedeltà dei giudei a Dio in condizioni di crudelissima tortura. Uno di questi (in 2 Maccabei 7) parla di una madre che assiste di persona al raccapricciante martirio dei suoi sette figli - e li incoraggia - prima di essere lei pure uccisa. In una successiva versione rabbinica dell'episodio, la vicenda viene trasposta dal suo contesto originale al tempo di Antioco Epifane nella situazione del II secolo d.C., quando i giudei furono perseguitati sotto l'imperatore romano Adriano. Il racconto è pieno della pena per tanta sofferenza ma anche di orgoglio per i martiri della fede. "La madre piangeva e diceva [ai suoi figli]: Figli miei, non siate angustiati, poiché per questo foste creati - per santificare nel mondo il Nome del Santissimo, che benedetto egli sia. Andate a dite al Padre Abramo: Non si gonfi il tuo cuore di orgoglio! Tu costruisti un altare, ma io ho costruito sette altari e su quelli ho immolato i miei sette figli. Cosa conta di più? La tua fu una prova; la mia è stata un fatto compiuto" (Yalkut, Deuteronomio 26,938). Una risposta ancora più angosciata alla vicenda di Isacco si trova nei riferimenti medievali, che rispecchiano la situazione delle persecuzioni dei giudei al tempo delle crociate. Le cronache giudaiche del tempo registrano il fatto che in molti casi, quando i crociati attaccavano, i giudei, piuttosto che rischiare di doversi piegare a una conversione forzata sotto tortura, si immolavano l'un l'altro in sacrificio, facendo attenzione a che il coltello non avesse difetti - come richiesto dal rituale del sacrificio, pena l'invalidità del sacrificio stesso - e recitando le appropriate formule sacrificali. La poesia sinagogale del tempo paragona simili sacrifici all'Akedah di Isacco:

O Signore, Onnipotente, che abiti nei cieli!
Un tempo, per una Akedah gli Ariel gridarono davanti a Te,
Ma ora quanti sono massacrati e bruciati!
Perché non hanno elevato un grido per il sangue di bambini?

Prima che il patriarca nella sua fretta potesse sacrificare il suo unico figlio,
Si udì dal cielo: Non stendere la tua mano per distruggere!
Ma quanti figli e figlie di Giuda sono assassinati -
E ancora Egli non si affretta a salvare coloro che sono massacrati o dati alle fiamme.
(R. Eliezer bar Joel ha-Levi, Fragment from a Threnody, in Spiegel, pp. 20-21)

O ancora:

Un tempo potevamo contare sul merito dell'Akedah,
Protetti per la salvezza di età in età -
Ora un'Akedah segue l'altra, non si contano più.
(R. David Meshullam, Selihot, 49, 66b, in Spiegel, p. 21)

Ma la più interessante interpretazione della vicenda dell'Akedah in questo periodo viene dalla penna di Rabbi Ephraim ben Jacob di Bonn, nel cui poema leggiamo che Abramo non soltanto portò in effetti a compimento l'uccisione rituale del figlio, ma anche che, quando Dio immediatamente dopo riportò in vita Isacco, egli tentò di ripetere il sacrificio.

Egli [Abramo] si affrettò, lo [Isacco] puntò sulle ginocchia,
Fece forza sulle due braccia,
Con mano ferma lo immolò secondo il rito,
Compì il sacrificio nella maniera giusta.

Cadde sopra di lui la rugiada di resurrezione, ed egli tornò in vita
[Il padre] lo prese [allora] per ucciderlo di nuovo.
Ne è testimone la scrittura! Il fatto è ben fondato:
E il Signore chiamò Abramo, anche una seconda volta dal cielo.
(Spiegel, pp. 148-149)

E' da notare come il poeta affermi che il suo riferimento al tentativo di Abramo di sacrificare il figlio una seconda volta trova sostegno nella scrittura. Nel racconto del libro della Genesi, è vero, l'angelo chiama Abramo due volte, la prima per fermare il sacrificio, la seconda per comunicare ad Abramo la promessa che egli sarà padre di una grande nazione. Rabbi Ephraim fornisce invece una versione molto diversa delle due chiamate. Abramo evidentemente non ascolta, o ignora, la prima. Nel suo commento profondamente simpatetico a questo poema, Spiegel spiega efficacemente la frase "il fatto è ben fondato": "Se non lo è nella Scrittura, lo è nell'esperienza dei giudei del Medioevo" (p. 138). Le terribili esperienze di persecuzione dei giudei nel Medioevo devono trovare una eco nei loro testi sacri. L'interpretazione cristiana dell'Akedah è filtrata, al contrario, attraverso il fatto centrale della crocifissione di Gesù. Ma è interessante osservare come, nonostante le evidenti somiglianze fra le due vicende, nei racconti evangelici ci sono pochi veri e propri riferimenti letterari alla Akedah. In Gesù che prega Dio nel giardino del Getsemani prima della crocifissione, possiamo avvertire lontani echi delle domande di Isacco al padre e delle successive tradizioni circa la sua volontaria accettazione dei disegni del padre. Naturalmente il contesto è diverso: nel caso di Gesù non c'è un padre umano come mediatore dei disegni di Dio; non c'è intenerimento da parte del Padre celeste; non si tratta di una semplice prova per il padre della vittima. Anzi, è la vittima stessa che deve lottare per accettare liberamente la ferma volontà del Padre celeste (un motivo che in effetti è presente in alcune versioni dell'Akedah). E' troppo vedere qualcuno di questi punti riflesso nel modo in cui i vangeli raccontano la preghiera di Gesù nel Getsemani? Matteo e Luca in qualche modo inciampano nel secco "tutto è possibile a te" di Marco, che era un tradizionale riconoscimento di onnipotenza. Matteo, messo di fronte all'enormità del fatto che Dio uccida il proprio figlio, sembra chiedersi se non ci sia una qualche superiore necessità che controlla l'azione. Luca sembra più interessato alla questione dell'unità o costanza della volontà divina: come può il Figlio di Dio pregare Dio perché cambi i suoi disegni? Giovanni omette completamente l'episodio della preghiera di Gesù nel Getsemani e lo sostituisce con un'analoga scena di angoscia immediatamente prima dell'Ultima Cena (12,27). Ne fa una scena più pubblica, alla quale assistono non soltanto giudei ma anche greci. L'accettazione della sua missione da parte di Gesù glorificherà il nome di Dio, esattamente come aveva fatto in precedenza l'obbedienza di Abramo. Questa accettazione è riecheggiata in quello che Gesù dice a Pietro al momento del suo arresto (18,11); qui non rimane altro che la netta affermazione di Gesù della sua completa accettazione della volontà del Padre: non aveva detto in precedenza "mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato" (Giovanni 4,34)? In tutto ciò, non c'è alcun ondeggiamento nella volontà del Padre. Solo in un punto l'enfasi sulla inflessibilità della volontà del Padre viene precisata, ed è nel vivace ritratto che gli evangelisti fanno degli attori umani che cospirano per portare ad effetto la morte di Gesù. Il racconto di Marco dell'arresto di Gesù è introdotto dalle parole dello stesso Gesù: "Basta, è venuta l'ora: ecco, il Figlio dell'uomo viene consegnato (paradìdotai) nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce (paradisùs) è vicino" (Marco 14,41-42). In effetti c'è qui una certa ambiguità nell'uso del verbo greco paradìdomi, che vuol dire sia semplicemente "consegnare" sia anche "tradire". Si riferisce solo al tradimento di Giuda alla banda spedita dai capi dei sacerdoti, o non suggerisce forse anche il disegno divino dietro gli eventi che ora travolgono Gesù, con la consegna di lui nelle mani dei suoi distruttori? (La stessa parola greca si ritrova in Isaia 53,6: "Il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti"; letteralmente: il Signore lo consegnò ai peccati di noi tutti). Probabilmente l'ambiguità è intenzionale; ma nel quadro successivo è l'azione violenta della plebaglia che compie l'arresto ad essere sottolineata con quattro occorrenze del verbo "prendere" e due riferimenti a "spade e bastoni" della gente accorsa a prenderlo. Gesù viene catturato per essere ucciso secondo i piani dei capi dei sacerdoti e degli scribi, i quali, dopo un affrettato processo, "lo legano" e lo "consegnano" a Pilato. E' allettante vedere qui un'inversione dei temi del racconto di Genesi. In Genesi, Abramo prende Isacco, lo lega e lo immola in obbedienza al comando di Dio. Qui invece sono i peccatori che prendono Gesù, lo legano e lo consegnano al tiranno straniero per l'esecuzione. In entrambi i casi, tuttavia, come la scena del Getsemani rende chiaro, è Dio che vuole questi eventi. Nel caso dell'Akedah, la prova del sacrificio di Isacco rappresenta l'atto finale di un dramma fra Dio e il patriarca in cui la volontà di Abramo viene saggiata ed egli viene preparato a essere il padre di una moltitudine di nazioni, secondo la promessa di Dio (Genesi 17,4); Abramo dev'essere il tipo del monoteismo etico, della radicale obbedienza alla volontà di Dio. Abramo diventa il tipo del giudeo fedele, e anzi, al di là di qualsiasi confine etnico, il tipo di ogni persona giusta. Nell'altro caso, Gesù, che è stato proclamato "figlio prediletto" (Marco 1,11) di Dio, è prescelto come strumento della volontà di Dio nel conflitto con la malvagità umana. Il sacrificio di Gesù non è tanto una dimostrazione di obbedienza (benché sia anche questo) quanto il punto di scontro fra l'agente divino e le forze della distruzione e della morte nel mondo. È il punto di svolta dal mondo di morte alla nuova età della vita, che è anticipata nella resurrezione di Gesù. Le successive ripetute narrazioni cristiane della Passione di Gesù ricalcano questo modello di allusione indiretta e di variazioni. Nel racconto giovanneo della Passione, Gesù "portando la croce, si avviò verso il luogo del Cranio" (19,17). Questo contrasta con il racconto dei vangeli sinottici, secondo il quale i soldati costringono Simone di Cirene a portare la croce fino al Golgota. Nel vangelo di Giovanni, dunque, Gesù, al pari di Isacco, porta con sé sul cammino lo strumento della sua morte. E' intrigante notare come questo elemento venga rispecchiato a sua volta nelle riscritture rabbiniche della vicenda di Isacco, in cui si dice che Isacco porta la legna come uno che porta la sua croce. La successiva esegesi cristiana mise in risalto questo motivo e lo collegò all'esperienza cristiana della sofferenza. La disponibilità cristiana a sopportare la sofferenza è vista come in continuità con la fede di Abramo: "Giustamente anche noi, che possediamo la stessa fede di Abramo e prendiamo su di noi la croce così come Isacco portò la legna, Lo seguiamo" (Ireneo, Contro le eresie, IV 5,4). La devozione successiva ha elaborato questo motivo nelle "stazioni" della Via Crucis che si allineano lungo i muri delle chiese cattoliche e raffigurano Gesù che cade tre volte sotto il peso della croce. Nell'interpretazione cristiana, tuttavia, la storia di Isacco non sempre viene messa direttamente in relazione con la morte di Cristo. Nella sua acquaforte intitolata "Il sacrificio di Isacco", Rembrandt raffigura l'angelo che non solo chiama Abramo ma interviene attivamente a trattenerlo, mettendogli intorno il suo braccio. La storia si trasforma così, nel dipinto, in una rappresentazione della protezione divina, simboleggiata dalla tenera cura dell'angelo custode; siamo ben lontani dai rabbi medievali che leggono la stessa vicenda attraverso le loro esperienze di persecuzione e genocidio. Il filosofo danese Kierkegaard, al contrario, torna a celebrare in Abramo l'uomo di fede. Egli definisce la disponibilità di Abramo a sacrificare il suo figlio come "la sospensione teologica dell'etico". Nella fede religiosa le leggi e le norme etiche normali sono sospese, in quanto uomini e donne abbracciano scopi e obiettivi di livello superiore. Il vero "cavaliere della fede" è uno che si muove al di là del mondo dell'etica ed entra in un mondo che è governato da comandi e promesse di provenienza divina. La grandezza di Abramo sta nel perseverare della sua fiducia e fede in Dio contro tutte le apparenze: non era solo una fede nella vita ultraterrena, in una risoluzione finale delle cose, ma una fede nel qui e ora, la sicurezza che le promesse di Dio si sarebbero realizzate anche di fronte alla manifesta impossibilità che Sara potesse concepire un figlio alla sua età, e poi, dopo la nascita di Isacco, di fronte al comando di Dio di sacrificarlo. Gli scritti di Kierkegaard esprimono una protesta profonda, e personalmente costosa, contro la banalizzazione borghese del cristianesimo. La sospensione da lui affermata degli standard etici "normali" rimane pericolosa e inquietante e mette in evidenza qualcosa della stranezza e della natura provocatoria del racconto originale, con la sua testimonianza a una fede prodigiosa. Se Abramo non avesse avuto fede, dice Kierkegaard, avrebbe potuto sacrificare eroicamente se stesso invece di Isacco. "Sarebbe stato ammirato nel mondo e il suo nome non sarebbe stato dimenticato; ma una cosa è essere ammirati e un'altra essere una stella che guida, che salva chi è angosciato" (Kierkegaard, pp. 42-43).


LA PERENNE VITALITA' DEI TESTI BIBLICI

La storia della ricezione dei testi biblici fornisce un fondo quasi inesauribile di dimostrazioni della vitalità di questi antichi scritti. Essi sono stati letti dalle più diverse comunità di fede in circostanze largamente differenti e hanno generato letture di notevole divergenza come pure di notevole convergenza. Non è facile fornire spiegazioni di questo tipo di fecondità. La ragione va ricercata in parte nella diversità dei contesti in cui simili testi vengono letti; non sorprende che la vicenda di Isacco che viene preparato per essere sacrificato susciti echi diversi in gente che si trova esposta agli attacchi di soldati dediti a scorrerie e in gente che, poniamo, deve affrontare i rigori della vita in un villaggio di montagna della cattolica Austria. C'è anche un'importante differenza nel contesto letterario della storia di Isacco, quale è letta dai giudei e dai cristiani. Per i cristiani, con la forte concentrazione sulla croce di Gesù negli scritti del Nuovo Testamento, è inevitabile che i temi dell'Akedah vengano ricondotti nel quadro della loro lettura della Passione. Isacco diviene il "tipo di colui che doveva venire" (Epistola di Barnaba 7,3) e i vari motivi della storia vengono assunti e usati, a volte per contrasto, nella narrazione e nelle riflessioni sulla Passione. I giudei, invece, hanno più ragione di riflettere sul significato della vicenda raccontata dal libro della Genesi alla luce della storia dei discendenti di Abramo. Ma la diversità del contesto non spiega tutto: c'è nei testi stessi una ricchezza e un'ambiguità che invita a una varietà di interpretazioni. Immagini come quella di Abramo che allunga sul figlio la mano armata, o che depone il figlio sopra la legna, toccano corde profonde dei successivi scrittori o interpreti. La ricchezza di figure, immagini e metafore degli scritti della Bibbia - nella sua narrativa, nella sua poesia e nei suoi testi più discorsivi - è tale da consentire senz'altro letture che corrispondono liberamente all'esperienza dei lettori. In essa sono contenuti storie e testi che comunità largamente diverse fra loro hanno potuto fare propri, proprio grazie alla loro natura evocativa. Né si tratta di testi chiusi, strettamente bloccati. Essi lasciano spazi aperti che chiedono di essere riempiti e contengono ambiguità che chiedono di essere risolte. Alcuni dei testi più fecondi, come vedremo, sono quelli più ambigui. Il carattere canonico dei testi deve dar conto non soltanto della diversità e ricchezza delle letture, ma anche del modo in cui le narrazioni e i discorsi stessi sono stati rielaborati e rimodellati. Nell'esempio così impressionante che abbiamo esposto, abbiamo visto come alcune versioni medievali della Akedah affermino di fatto che il racconto della scrittura parla della morte di Isacco. Più spesso, è una questione di enfasi, di lettura selettiva: gli elementi degli scritti biblici che suscitano echi più forti in una particolare comunità e in un particolare periodo di tempo saranno sottolineati, mentre altri elementi saranno esclusi o trascurati. I risultati di tale lettura selettiva possono essere altrettanto fortemente differenziati quanto la diretta alterazione della storia di Isacco. Ma, nell'un caso e nell'altro, ciò che spinge il processo di interpretazione è la medesima convinzione: che questi testi sono normativi per l'esperienza della comunità e che perciò l'esperienza della comunità deve in qualche modo essere riflessa e rappresentata in essi.

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