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un politico

Ultimo Aggiornamento: 18/11/2003 13:52
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16/11/2003 11:44

quali qualità o attitudini dovrebbe a tuo avviso possedere per svolgere degnamente il suo compito?


una volta elencate..se ne hai voglia..vorrei sapere se quando offri il tuo voto..tieni conto di ciò che hai sopra elencato?

le persone a cui affidi il tuo voto..secondo te..sono adatte a svolgere il loro compito..?

o quando voti ti affidi all'ideologia base del partito a cui si appoggiano senza tenere conto del singolo e del suo operato?
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elencami
5 diritti..e 5 doveri di un politico

[Modificato da collagediemozioni 16/11/2003 11.50]

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Quando mi trovo di fronte a tanta cortesia e ostentazione di buoni sentimenti,mi aspetto sempre di trovare una corrispondente dose di brutalità.E' la legge delle coppie di opposti:si presentano sempre insieme.

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16/11/2003 22:32

Re:

Scritto da: collagediemozioni 16/11/2003 11.44
quali qualità o attitudini dovrebbe a tuo avviso possedere per svolgere degnamente il suo compito?


una volta elencate..se ne hai voglia..vorrei sapere se quando offri il tuo voto..tieni conto di ciò che hai sopra elencato?

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diritti:
Indipendenza (no ai Peones)
Immunità per le opinioni espresse
Adeguata retribuzione che lo renda distante da compromessi

altri nonn ce ne sono o non ne vedo

Doveri:
Rispetto dei cittadini
Onestà morale ed intellettuale
Perseguire gli interessi dello 'Stato' e dei 'Cittadini'
Lavorare sodo per il miglioramento dello Stato

altri nonn ce ne sono o non ne vedo

Quando voto, purtroppo, per come è nei fatti strutturato il sistema parlamentare italiano, debbo necessariamente affidarmi all'ideologia o quanto meno dare 'fiducia' all'organizzzazione partito ed ai suoi leader (sottolineo il plurale)

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17/11/2003 09:13

Re: Re:

Scritto da: solitario 16/11/2003 22.32


diritti:
Indipendenza (no ai Peones)
Immunità per le opinioni espresse
Adeguata retribuzione che lo renda distante da compromessi

altri nonn ce ne sono o non ne vedo

Doveri:
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Onestà morale ed intellettuale
Perseguire gli interessi dello 'Stato' e dei 'Cittadini'
Lavorare sodo per il miglioramento dello Stato

altri nonn ce ne sono o non ne vedo

Quando voto, purtroppo, per come è nei fatti strutturato il sistema parlamentare italiano, debbo necessariamente affidarmi all'ideologia o quanto meno dare 'fiducia' all'organizzzazione partito ed ai suoi leader (sottolineo il plurale)

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Quoto ma vorrei aggiungere tra i doveri la coerenza nei confronti degli elettori che il più delle volte si trovano ad aver votato Tizio per certi suoi ideali o per un certo programma e poi.....

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La strega dell'Est

.... vorrei poter conoscere l'ignoto per capirlo......

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17/11/2003 10:56

ti rispondo con la storia di Ashoka
Quando era ragazzo, Ashoka - che sarebbe divenuto il più famoso imperatore dell’India - viveva a Pataliputra, la capitale della dinastia Maurya. Non molto lontano il Gange formava un estuario, scorrendo tra le palme. La città era difesa da un fossato e da un muro di cinta, con 560 torri e 64 porte. La nonna di Ashoka era probabilmente una principessa greca, figlia di Seleuco Nicatore, uno dei generali di Alessandro Magno, che regnava sulla Siria e a Babilonia. Chissà cosa accadde, in quegli anni, alla corte di Pataliputra. Ma le nonne hanno sempre raccontato favole ai loro nipoti e nessuno può escludere che la figlia di Seleuco raccontasse ai nipoti le avventure di Alessandro Magno in India.
Della giovinezza e dei primi anni di regno di Ashoka non sappiamo nulla, o quasi nulla di certo. Tutto ciò che accadeva (solamente accadeva) in India aveva la strana proprietà di venire assorbito come da una spugna o dal mare: ne restava un piccolo frammento; e questo frammento produceva una sovrabbondante vegetazione arborea, una proliferazione di fantasie e leggende, di possibile ed impossibile, in modo che chi racconta oggi, persino la più onesta studiosa come Romila Thapar, si trova costretto a raccontare senza volerlo storie fantastiche, per la gioia o lo spavento dei suoi lettori. Sappiamo che il nome di Ashoka voleva dire "senza dolore": proprio lui che sprofondò nel dolore, e costruì il suo regno intorno all’esperienza del dolore. Una leggenda tenebrosa avvolge la sua giovinezza. Non era figlio legittimo del padre, il re Bindusara: né il padre né le sue concubine lo amavano, perché era brutto e aveva la pelle ruvida al tocco. Per salire sul trono di Patalipura, fece assassinare il fratello maggiore, o i suoi novantanove fratelli, e centinaia di donne dell’harem, e costruì un carcere vicino alla capitale, per ricordare sulla terra l’inferno di gelo e di fuoco.

Una cosa è sicura, perché la proclamò egli stesso nei suoi molti editti incisi sulla roccia. Nell’ottavo anno di regno, Ashoka conquistò il paese di Kalinga, sul golfo del Bengala, finendo di consolidare l’impero. Nessun nemico poteva più minacciarlo. "Di là - egli disse - furono deportate 150.000 persone: 100.000 furono uccise; diverse centinaia di migliaia perirono". Sebbene avesse tollerato con indifferenza i delitti (reali o immaginari) che lo avevano portato sul trono, Ashoka non poté sopportare questo spettacolo di morte e di strage. Ciò produsse in lui "pena, deplorazione e angoscia". Credo che nessun sovrano della terra abbia mai dichiarato pubblicamente, con tale forza, sincerità e chiarezza, i propri delitti e il proprio rimorso, come se non fosse un potente, ma un qualunque essere umano che rivela a un amico le ombre della propria anima. Da quel momento Ashoka abbracciò la fede buddhista. Forse la conversione fu lenta, e attraversò momenti di freddezza e di dubbio. Ma in pubblico, sulle rocce dell’India, egli proclamò davanti a tutti che la sua conversione era stata improvvisa e drammatica. Nasceva da un trauma e aveva la violenza di un trauma. La sua vita era divisa in due: prima, aveva regnato come tutti, obbedendo alla violenza; poi, dopo i massacri di Kalinga, era diventato un altro sovrano. Il tempo era cambiato.

Come è abitudine dei potenti, la conversione di Ashoka prese una forma solenne, diventando uno dei grandiosi spettacoli che la storia inscena in onore dei suoi prediletti. Compì un pellegrinaggio all’albero dell’Illuminazione: l’albero ai piedi del quale il Buddha aveva ottenuto l’onniscienza, rimanendo per sette giorni seduto a gambe incrociate, nella beatitudine della Rivelazione. In quel luogo, costruì un tempio. Un altro pellegrinaggio lo condusse nel giardino di Lumbini, dove il Buddha era nato: un terzo viaggio di 256 giorni lo portò nell’India centrale e meridionale, per annunciare la sua rivelazione agli Indiani. I tamburi non suonavano più per invitare il popolo a spettacoli profani, ma alla visioni di scene celesti. Intanto nei conventi dei monaci buddhisti, Ashoka approfondì la nuova religione. Comprese che "la nascita è dolore, il declino è dolore, la malattia è sofferenza, la morte è sofferenza. Essere uniti a ciò che non si ama significa soffrire. Essere separati da ciò che si ama, non avere ciò che si desidera significa soffrire". La sostanza di tutte le persone che vedeva, di tutti i paesaggi che ammirava, di tutte le cose che toccava era il vuoto: ed egli doveva avere una compassione sempre più delicata per le forme impalpabili come l’aria, che apparivano e sfuggivano davanti ai suoi occhi non più desiderosi.

***

Quando Ashoka immaginò il suo ideale politico, aveva dietro le spalle una ricchissima tradizione, che gli giungeva dall’antica civiltà indo-europea, come appare anche nell’Odissea, fino alle idee induiste, buddhiste e a quelle di Alessandro Magno e dei suoi successori ellenistici. Era il sogno del sovrano universale, che si opponeva alle violenze della storia. Mentre il sovrano era immerso in preghiera, gli appariva il simbolo della ruota solare. Allora si alzava, lasciava il palazzo, e insieme all’esercito si metteva in marcia dietro la ruota luminosa che spendeva e si muoveva nel cielo. I re rivali si inchinavano, offrendo diademi e tiare: tutti i paesi accettavano la sua supremazia, che presto si estendeva al mondo. Il culmine della storia era toccato. Come il sole, il sovrano universale irraggiava e beneficiava i suoi sudditi, a qualsiasi regione e casta appartenessero, e salvava la natura. Mentre lui era lì, in alto, sulla vetta del mondo, diffondendo giustizia, il suolo produceva frumento e orzo, gli alberi erano pieni di frutti, le greggi figliavano, il mare dava pesci. Tutta la terra diventava un giardino: le querce sui monti erano piene di miele, le "lacrime delle nubi erano acqua di rosa, l’acqua cadeva sui fiori al momento propizio, i ruscelli assomigliavano a fiumi, e i fiori dei frutteti alle Pleiadi". Non c’era più sofferenza né bisogno di medicina. Nella reggia di Pataliputra, nel cuore del suo immenso regno, Ashoka pensò di essere il sovrano universale atteso da tanto tempo, e proclamò al popolo il suo dhamma. Non sapremmo come tradurre esattamente questa parola, che risvegliava echi molteplici negli orecchi di un re buddhista: perché dhamma è il fondamento nascosto dell’universo, che il sovrano deve scoprire: la legge, che indica a ognuno i doveri morali, religiosi e sociali: la dottrina del Buddha: il dominio di sé; e la compassione, la reverenza, la venerazione verso gli altri esseri umani che ogni buddhista deve provare, sebbene sappia che gli altri (e lui stesso) sono soltanto ombre vuote. Quando promulgò il Dhamma, Ashoka cercò di non accentuarne i colori buddhisti. La sua legge era rivolta a tutte le religioni dell’India e del mondo: a tutti i popoli, a tutte le classi e le caste, anche le più infime.

Il messaggio di Ashoka insegnava a rifiutare le violenza: a rispettare ogni fede religiosa: a rispettare la vita degli animali: a comportarsi amabilmente verso i servi e gli schiavi: a venerare il padre e la madre, i familiari e gli amici: a non denigrare gli altri; a dare conforto ai prigionieri, mitigando le punizioni nelle carceri. Ma Ashoka pretendeva di più. Quando come i re Incas, faceva piantare alberi di banyan lungo le strade, per dare ombra agli uomini e agli animali, quando faceva disporre boschetti di manghi e scavare pozzi, voleva conciliare tra loro la natura, gli uomini e gli animali, che la storia aveva diviso. Voleva che tutti, bipedi e quadrupedi, uccelli ed animali acquatici, alberi e fiumi, indiani e stranieri, serpenti e pesci, formassero lo stesso mondo unanime, compatto e solidale. Le creature dovevano vincere l’isolamento, che li aveva tenuti divisi, entrando "in comunione con gli dei".
***

Nella promulgazione del suo messaggio, Ashoka fu mosso da uno zelo incontenibile, che ancora oggi commuove. "Non sono mai pago - egli diceva sulle rocce - di quello che mi sforzo di fare per il bene di tutto il mondo... Quello che io mi sforzo di fare è assolvere il debito che ho verso le creature: agire perché esse siano felici in questo mondo e possano nell’altro attingere i cieli... Tutti gli uomini sono miei figli; e come per tutti miei figli; e come per tutti i miei figli desidero che ognuno di loro abbondi di benessere e felicità, così io lo desidero per tutti gli uomini". Di continuo, negli editti, si raffigurava come un padre ansioso e benefico. "Ora io ho così disposto: in ogni momento, dovunque io mi trovi, o a pranzo, o nel gineceo, o nei privati appartamenti, o in un luogo sacro, o nel palanchino, o nei giardini, dappertutto gli informatori mi diano notizia dei pubblici affari... Di qualunque ordine dato da me a viva voce, mi sia data notizia dell’esito immediatamente, dovunque io sia e in qualunque momento". Ma questo zelo generoso non gli bastava: perché sapeva, come gli insegnavano i suoi maestri monaci, che "la generosità non è tutto". Il potente doveva possedere le qualità del santo: "Il dominio di sé, la purezza d’animo, la fermezza della fede". Ashoka faceva leggere pubblicamente gli editti del Dhamma nel suo impero, che comprendeva quasi l’intera India. Li faceva leggere "anche a una singola persona", come se fossero messaggi privati, simili al vangelo di Matteo o di Giovanni, che si rivolgono al cuore di ciascuno di noi. Ispettori, che Ashoka definiva "persone civili, pazienti, gentili nei modi" attraversavano l’impero, ogni cinque anni, istruendo i sudditi nella dottrina della Legge e della Pietà. Ma la voce umana poteva venire dimenticata. Così Ashoka ordinò di incidere gli editti sulle rocce e sui pilastri, traducendoli nelle diverse lingue dell’impero e adattandoli alle varie filosofie e religioni. Temeva che si perdessero, o che qualche testo fosse scritto male, "o per difetto della pietra o per errore del lapicida"; e comandò di disporgli sotto gli occhi di tutti, vicino alle abitazioni, alle strade e ai luoghi religiosi.

A Kandahar, nell’odierno Afghanistan, gli editti vennero incisi in greco e in aramaico, la lingua ufficiale dell’antico impero persiano. Dobbiamo immaginare l’Afghanistan di allora, dove sotto la protezione di Ashoka i greci costruivano le loro città come ad Atene o a Corinto, insensibili ad ogni mutamento di civiltà o di clima, perché "dovunque era Grecia". Le strade correvano dritte in un piano rettangolare: c’erano templi con dèi greci, portici greci, ginnasi greci, colonne corinzie, capitelli con foglie d’acanto intagliate; e i figli e i nipoti dei soldati d’Alessandro leggevano l’Iliade come il loro generale, mettevano inscena le tragedie d’Euripide, conoscevano probabilmente la filosofia che nella loro epoca veniva insegnata nella madrepatria. Quando Ashoka fece tradurre i suoi editti in un bel greco sciolto ed elegante, i greci di Kadahar dovettero ammirarlo. Vi trovarono idee da lungo tempo familiari, con un delicato profumo buddhista: "E’ padrone di sé chi sa dominare la propria lingua. E gli uomini non esaltino sé stessi, né denigrino gli altri, in nessun caso: perché ciò è vanità ed è meglio cercar di parare benevolmente degli altri, e non denigrarli in nessun modo".



Ashoka non annunciò agli uomini una nuova epoca della storia, come i fedeli cristiani e musulmani, che numerarono da principio gli anni cominciando dalla nascita di Cristo o dalla fuga di Maometto della Mecca. L’idea dell’epoca non era indiana, ma greca. Con la sua coscienza drammatica della storia, Ashoka sentì tuttavia che la sua parola aveva prodotto una frattura nel tempo. Da quando aveva massacrato gli abitanti di Kalinga e si era pentito annunciando il dhamma, il tempo era mutato. Non c’è più il fosco passato dei sovrani violenti, ma il presente: la tolleranza, la compasione, gli alberi lungo le strade, i pozzi d’acqua, gli animali salvati, gli schiavi rispettati; e soprattutto si apriva davanti agli occhi un futuro. Nel futuro, che egli intravvedeva pieno di speranze, non voleva che il suo messaggio fosse dimenticato. Era certo che i suoi figli, nipoti e pronipoti avrebbero dato nuovo slancio "alla pratica della pietà, fino alla consumazione del mondo". La sua parola sarebbe durata per sempre.
*** Queste speranze furono vane. Non ci furono né figli, né nipoti, né pronipoti degni di Ashoka. L’impero Maurya si dissolse in poco tempo. Il dhamma venne dimenticato, fino a quando gli archeologi lo riscoprirono sulle rocce nella prima metà del diciannovesimo secolo. Non sappiamo nemmeno se il dhamma si fosse mai realizzato. Ci furono davvero tolleranza, rispetto, discrezione, amore per gli alberi e gli animali, amore per gli uomini, diffusione della Pietà, come proclamavano gli editti? O tutto fu soltanto l’ossessione di un potente solitario, che aveva conosciuto il dolore, la delusione e il fallimento?

Qualsiasi desiderio di incarnare il Bene sulla terra ci induce al sospetto: dubitiamo che fu soltanto un’astuzia del Male per introdursi , più sottilmente nel tempo. Forse quegli ispettori non erano "civili, pazienti, gentili nei modi", come diceva Ashoka, ma spie: mercanti, asceti, studenti, mendicanti, prostitute, che controllavano la puntigliosa applicazione del Bene. Forse accadeva come in Perù, molti secoli dopo, dove gli Indiani pranzavano e cenavano a porta aperta, perché i messi dell’Inca potessero entrare liberamente a casa loro. Il messo entrava, portava nelle piccole capanne rotonde il ricordo benevolo e astratto dell’imperatore, esaminava l’ordine, la pulizia e il decoro dell’abitazione, la cura e la diligenza di cui il marito e la moglie davano prova, l’obbedienza e la laboriosità dei figli; ed usciva ritornando a Cuzco. Di lì a poco i contadini venivano premiati con lode pubbliche, o fustigati pubblicamente alle braccia e alle gambe. Il potere ha molte risorse: persino quella di diventare buono, pur di non venire discusso.

Un libro, tradotto in cinese, ci racconta una bellissima storia sugli ultimi anni di Ashoka. Verso la fine della sua vita, i ministri gli tolsero tutto quanto gli apparteneva, lasciandogli soltanto un piatto d’oro e uno d’argento, dove i camerieri servivano i pranzi reali. Ashoka ne fece dono a un monastero buddhista. Da quel momento, il cibo gli venne servito in piatti e vasi di terra. Poi i ministri gli portarono la metà di un mango. Allora l’imperatore disse: "Non sono più il padrone. Le parole del Buddha sono veridiche. Ha detto che tutti coloro che si amano hanno il dolore di separarsi. Un tempo, facevo decreti ai quali nessuno poteva opporre ostacoli. Oggi sono come un’acqua impetuosa che urta contro una montagna e finisce di scorrere. Un tempo, ero per tutti, sulla vasta terra, un protettore e un signore. I re pieni di arroganza potevo sottometterli tutti. I miserabili e i deboli potevo soccorrerli tutti. Oggi la mia potenza è abolita. Sono simile a un carro demolito che non possiede nemmeno più la sua barra di sostegno. Sono come l’albero Ashoka (un albero dai fiori rossi), quando le sue radici sono disseccate e il suo tronco è senza rami: fiori, frutti, rami e foglie, tutto gli manca. Ho perduto ogni appoggio. I miei editti sono lettera morta".

Quando finì di parlare, Ashoka chiamò un dignitario, gli diede il mezzo mango, e gli comandò di portarlo al superiore di un monastero buddhista. Gli dirai: "E’ l’ultima elemosina del re Ashoka. Da padrone posso soltanto disporre di questa metà di mango. Ho perduto tutto ciò che possedevo. Che il monaco riceva l’ultima compassione di un infelice". Il superiore del monastero diede il mezzo mango all’intendente, con l’ordine di gettarlo nella minestra dei monaci, in modo che tutti condividessero l’ultima offerta di Ashoka. Del grande imperatore non rimase più niente. Tutto fu dimenticato: le guerre, i massacri, il dolore, il potere, il pentimento, la legge, la tolleranza, gli editti. Non ci fu più che mezzo mango grattugiato nella minestra dei monaci.







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17/11/2003 12:03

Re:

Scritto da: collagediemozioni 16/11/2003 11.44
quali qualità o attitudini dovrebbe a tuo avviso possedere per svolgere degnamente il suo compito?


una volta elencate..se ne hai voglia..vorrei sapere se quando offri il tuo voto..tieni conto di ciò che hai sopra elencato?

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è sufficiente la sola onestà, perchè solo una persona onesta sa ammettere i suoi errori e il proprio grado di competenza.
Non serve altro.
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"Il potere senza la colpa, l'amore senza il dubbio: è magnifico essere lupo".
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17/11/2003 14:09

Re:

Scritto da: collagediemozioni 16/11/2003 11.44
quali qualità o attitudini dovrebbe a tuo avviso possedere per svolgere degnamente il suo compito?


una volta elencate..se ne hai voglia..vorrei sapere se quando offri il tuo voto..tieni conto di ciò che hai sopra elencato?

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rispondo al titolo del post.
Un politico storicamente uno che credeva in qualcosa per riuscire a dare qualcosa.
Oggi uno che ha trovato un ottimo modo per avere una bella pensione.
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17/11/2003 16:16

Re:

Scritto da:
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[Modificato da collagediemozioni 16/11/2003 11.50]




Provo, un politico (eletto) ha diritto a:
Fiducia
Sostegno
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Poteri Istituzionali

DOVERI
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Rispetto delle minoranze e delle Istituzioni
Competenza
Onestà
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Re: Re:

Scritto da: mementino 17/11/2003 16.16


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17/11/2003 16:33

E POLITISCIAN mast ev onli uan ting.... e big dick ca ever funzions!

e chist is oll ca ai ev tu sei on dis matter...

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17/11/2003 19:33

Re:

Scritto da: sciaronston 17/11/2003 16.33
E POLITISCIAN mast ev onli uan ting.... e big dick ca ever funzions!

e chist is oll ca ai ev tu sei on dis matter...



ma lo sai che è proprio difficile leggere i tuoi post???
E non mi riferisco alle parole che scrivi...
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18/11/2003 13:52

Re: Re:

Scritto da: labyrint 17/11/2003 19.33


ma lo sai che è proprio difficile leggere i tuoi post???
E non mi riferisco alle parole che scrivi...
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ai no ..ai no... don uorry biutifol labirint...
ai chen andesten... ..bat ai em de superfaiga... en dez oll!


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