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REFERENDUM GIUGNO 2011

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    00 07/06/2011 18:16
    la questione idrica

    tratto da www.lavoce.info




    REFERENDUM SULL'ACQUA: LE DOMANDE GIUSTE
    di Andrea Boitani e Antonio Massarutto

    Domande e risposte sui referendum numero 1 e 2.
    Non si prevede alcuna privatizzazione dell'acqua, ma la legge non mette in discussione neppure la natura pubblica del servizio, l'universalità dell'accesso, il diritto soggettivo dei cittadini a riceverlo a condizioni accessibili. Non è l'ingresso dei privati nella gestione dei servizi idrici a far salire i prezzi. E in ogni caso la tariffa dovrà continuare a coprire gli investimenti. Da evitare invece che contenga extraprofitti. La gestione dell'acqua è uno dei temi di cui si discuterà a Trento al Festival dell'economia, a cui parteciperà anche uno degli autori di questo articolo.

    Il quesito referendario n. 1 - modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici di rilevanza economica - così recita: Volete Voi che sia abrogato l’art. 23-bis (Servizi pubblici locali di rilevanza economica) del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e finanza la perequazione tributaria”, convertito, con modificazioni, in legge 6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall’art. 30, comma 26, della legge 23 luglio 2009, n. 99, recante “Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia”, e dall’art. 15 del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, recante “Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della corte di giustizia della Comunità europea”, convertito, con modificazioni, in legge 20 novembre 2009, n. 166, nel testo risultante a seguito della sentenza n. 325 del 2010 della Corte costituzionale?

    PRIVATIZZAZIONE DELL’ACQUA?

    I promotori del quesito hanno giustificato la richiesta di abrogazione sostenendo che l’articolo 23-bis prevede la privatizzazione dell’acqua.
    In realtà, la proprietà della risorsa idrica non viene messa in discussione dalla legge, ma questo è addirittura banale. Ciò che conta davvero è che la legge non mette in discussione neppure la natura pubblica del servizio, l’universalità dell’accesso, il diritto soggettivo dei cittadini a riceverlo a condizioni accessibili: la responsabilità della fornitura continua a essere pubblica e sono i piani di gestione approvati da soggetti pubblici a decidere quali servizi offrire, quanti investimenti fare, quali obiettivi di miglioramento perseguire. L’eventuale coinvolgimento del privato è una scelta che si può descrivere così: il “condominio cittadino” ha bisogno di un idraulico per far funzionare il sistema di servizio, e deve decidere se assumerne direttamente uno alle sue dipendenze (affidamento “in house”) oppure affidare il compito a un professionista esterno. La legge non richiede che il professionista esterno sia un privato, ma richiede che la scelta venga effettuata tramite una gara pubblica. L’idraulico, chiunque esso sia (azienda pubblica o azienda privata), non è e non sarà mai il “padrone dell’acqua”: l’acqua appartiene ai cittadini, le infrastrutture appartengono ai cittadini, le modalità di accesso alle infrastrutture per approvvigionarsi del bene essenziale sono decise dal soggetto pubblico, le tariffe sono approvate dal soggetto pubblico. L’idraulico ha solo il compito di recapitarci l’acqua a casa, con le caratteristiche qualitative richieste affinché la possiamo usare e poi riprenderla per restituirla all’ambiente. Però, l’idraulico costa: il vincolo per il comune, qualunque modello scelga, è che le tariffe pagate dai cittadini coprano questi costi.

    CON I PRIVATI ACQUA PIÙ CARA?

    Uno dei leit-motiv dei referendari è che, con l’ingresso dei privati nella gestione dei servizi idrici, il prezzo dell’acqua non potrebbe che salire. Ma il prezzo dell’acqua sale non perché la gestione sia privata, ma semmai perché è stata, per così dire, “defiscalizzata” a partire dal 1994, quando venne approvata la Legge Galli (legge 36/1994, forse la legge ad attuazione più ritardata della storia nazionale). In passato, e in parte ancora oggi, è stata la finanza pubblica a farsi carico (poco) degli investimenti, mentre la tariffa a stento copriva i costi operativi. Se il contributo della fiscalità generale viene meno, il gestore (chiunque esso sia, pubblico o privato) deve ottenere le risorse finanziarie dal mercato, o sotto forma di prestiti (capitale di terzi) o di equity (capitale proprio). Le regole tariffarie sono uguali per tutti e prevedono che la tariffa copra i costi di gestione, gli ammortamenti e il costo del capitale investito: questo vale sia per le gestioni pubbliche che per quelle dove c’è una qualsiasi forma di coinvolgimento privato.

    CON I PRIVATI ACQUA PEGGIORE?

    Un altro tema su cui insistono i referendari è che, con l’ingresso dei privati, non potremmo più essere sicuri della qualità dell’acqua che beviamo e che, quindi, le gestioni private metterebbero in pericolo la nostra salute. Ma la qualità dell’acqua – in tutti i sensi, compreso quello relativo agli scarichi depurati – è decisa dal regolatore pubblico. Non solo l’eventuale ingresso dei privati non farà peggiorare la qualità, ma potrà farla sensibilmente migliorare, anche tenendo conto del maggiore antagonismo tra regolatore e regolato. Con le gestioni pubbliche, il regolatore pubblico chiude più facilmente un occhio e anche l’opinione pubblica è spesso disposta a tollerare dal pubblico disfunzioni che mai tollererebbe da un privato. Basti citare la vicenda dell’arsenico: le gestioni coinvolte si dividono esattamente a metà tra pubbliche e private, ma quando capita ad Acea la si sbatte in prima pagina, quando invece capita alla gestione pubblica di Viterbo stranamente non ne parla nessuno. L’acqua del sindaco, chissà perché, è sempre ottima e abbondante, anche quando fa schifo. Va anche considerato che le tariffe sono congegnate in modo da premiare chi fa investimenti: il privato, se vuole guadagnare, deve investire. E infatti, i dati dimostrano che le gestioni privatizzate investono di più di quelle pubbliche, che invece sono più vincolate dall’obiettivo politico di tenere basse le tariffe.

    EFFETTI COLLATERALI?

    I referendari pensano all’acqua, però l’abrogazione della legge riporterebbe in vigore le normative pre-vigenti non solo per i servizi idrici, ma anche per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, i trasporti locali, eccetera. Secondo quelle normative, la possibilità di affidamento dei servizi “in house”, al di fuori di un chiaro quadro di regolazione, era assai più ampia. L’articolo 23-bis, infatti limita l’affidamento “in house” a “situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato”. In ogni caso, la legge che col referendum si potrebbe abrogare richiede che la scelta dell’affidamento “in house” vada motivata e trasmessa con una relazione all’Antitrust e all’autorità di settore (se esiste) che devono esprimere un parere (purtroppo non vincolante). Qualcuno, facendo spallucce, dice che, per i settori diversi dall’acqua, si potrebbe intervenire nuovamente ad abrogazione eventualmente avvenuta. Ma il quesito referendario riguarda un intero articolo di legge, che si occupa di tutti i servizi pubblici locali. Dovessero vincere i sì, la manifesta volontà degli elettori riguarderebbe tutti i servizi e non solo l’acqua. Perché il legislatore dovrebbe rispettare l’esito del referendum per l’acqua e tradirlo per altri settori?

    Il quesito referendario n. 2 - determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito – chiede: Volete voi che sia abrogato il comma 1, dell’art. 154 (Tariffa del servizio idrico integrato) del Decreto Legislativo n. 152 del 3 aprile 2006 “Norme in materia ambientale”, limitatamente alla seguente parte: “dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito”?

    SE IL PROFITTO VENISSE ABOLITO, L’ACQUA COSTEREBBE DI MENO?

    Il quesito sembra motivato dall’idea una “adeguata remunerazione del capitale investito” comporti inevitabilmente prezzi dei servizi idrici maggiori. Se fosse vero che il prezzo aumenta per colpa del profitto, sarebbe vero anche per qualsiasi altra attività economica: anche le case, le automobili, il pane e gli abiti costerebbero di meno se fossero prodotti da un soggetto pubblico che non remunera il capitale investito. Ma la storia dell’Unione Sovietica smentisce questa credenza. Dobbiamo intenderci sul significato di “profitto”. In un mercato concorrenziale, rappresenta il costo-opportunità del capitale e il premio per l’imprenditore che riesce a produrre lo stesso valore degli altri con costi più bassi (o un valore più alto agli stessi costi). In un mercato monopolistico non regolato, il profitto è gonfiato dalla rendita di monopolio. Nel settore idrico le possibilità di sfruttare la concorrenza sono limitate alla fase di affidamento del servizio (da quattro a dieci volte in un secolo, diciamo), ma una buona regolazione può aiutare non poco. Del resto, non basta non fare profitti per costare poco: un’impresa che non remunera il capitale, ma ha personale in eccesso o affida consulenze d’oro agli amici dell’assessore, alla fine, potrebbe costare di più. Se la regolazione è costruita in modo che il profitto rappresenti l’eventuale premio per l’impresa che si dà da fare per ridurre i costi, il cittadino ne può trarre beneficio.

    Attualmente il “metodo normalizzato” per il calcolo della tariffa idrica prevede che il costo del capitale da imputare alla tariffa sia calcolato in modo forfetario al 7 per cento del valore del capitale investito: questa scelta è arbitraria e discutibile. Quel 7 per cento non è “profitto”, ma ingloba in sé gli interessi passivi sui finanziamenti che l’azienda riceve dal mercato, e copre in parte il rischio di impresa. Viene riconosciuto a tutte le gestioni e non solo a quelle private. È vero che il valore del 7 per cento, fissato arbitrariamente nel 1996, quando ancora c’era la lira, rappresenta un valore ormai privo di qualsiasi riferimento con il “vero” costo del capitale che le gestioni sostengono. Ad ogni modo, il quesito referendario abolirebbe l’inciso relativo alla “adeguatezza della remunerazione del capitale investito”, ma non il principio, stabilito dallo stesso articolo 154 comma 1 una riga dopo, in base al quale la tariffa deve garantire la copertura dei costi, comprensivi degli investimenti. Dire che la tariffa deve coprire gli investimenti significa che, in ogni caso, il costo del capitale dovrà essere coperto: con cosa si ripagherebbero i debiti contratti con le banche, altrimenti? E se questo capitale fosse capitale di rischio (equity), il suo costo è rappresentato dall’utile netto aziendale. Quello che dovrebbe invece essere evitato (ma non serviva certo il referendum per ribadirlo) è che la tariffa contenga “extraprofitti”, ossia remunerazioni eccessive rispetto al costo-opportunità del capitale e al premio per il rischio.

    L’ACQUA DIVENTERÀ UN BENE DI LUSSO?

    Gli effetti distributivi non vanno mai trascurati: è giusto preoccuparsene, ma senza allarmismi e senza confusioni. Oggi spendiamo circa 90 euro/anno pro capite e a regime potrebbero diventare il 20 per cento in più, con l’attuazione dei piani di gestione esistenti. Volendo proiettare a lungo termine le tariffe davvero necessarie per un equilibrio di lungo periodo si potrebbe arrivare a 140-150 euro pro-capite. Non sono cifre irrisorie, sebbene si tratti pur sempre di 50 centesimi al giorno. Oltre tutto, questi valori medi oscillano da una realtà all’altra e l’incidenza sui redditi può essere molto diversa, considerando che poiché l’acqua è un bene essenziale, i ricchi ne consumano quanta i poveri. Il tema dell’incidenza tariffaria non va certamente banalizzato, ma può essere affrontato in modo adeguato, costruendo strutture tariffarie diverse da quella attuale. Un conto è dire che i ricavi da tariffa (complessiva) devono coprire i costi totali, un altro conto è discutere di come costruirla. Ad esempio, si potrebbero introdurre quote fisse significative parametrate ai valori catastali in modo da ridurre l’incidenza sulle fasce sociali più deboli. Si può anche pensare a forme integrative di intervento della finanza pubblica, finalizzate a garantire che l’accesso al mercato dei capitali avvenga a condizioni più vantaggiose, e quindi con un minore impatto sulla tariffa.



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    Κωνσταντίνος ΙΑ’ Δραγάσης Παλαιολόγος,
    Xρoνoκράτoρ και Koσμoκράτoρ
    Ελέω Θεού Βασιλευς και Αυτοκράτορ των Ρωμαίων.





    "Ci sono quattro grandi cause per cui vale la pena di morire: la Fede, la Patria, la Famiglia ed il Basileus. Ora voi dovete essere pronti a sacrificare la propria vita per queste cose, come d'altronde anch'io sono pronto al sacrifico della mia stessa vita.
    So che l'ora è giunta, che il nemico della nostra fede ci minaccia con ogni mezzo...Affido a voi, al vostro valore, questa splendida e celebre città, patria nostra, regina d'ogni altra.
    Miei signori, miei fratelli, miei figli, l'ultimo onore dei Cristiani è nelle nostre mani."

    "Ed allora questo principe, degno dell'immortalità, si tolse le insegne imperiali e le gettò via e, come se fosse un semplice privato, con la spada in pugno si gettò nella mischia. Mentre combatteva valorosamente per non morire invendicato, fu infine ucciso e confuse il proprio corpo regale con le rovine della città e la caduta del suo regno.
    Il mio signore e imperatore, di felice memoria, il signore Costantino, cadde ucciso, mentre io mi trovavo in quel momento non vicino a lui, ma in altra parte della città, per ordine suo, per compiervi un'ispezione: ahimè ahimè!."

    "La sede dell'Impero Romano è Costantinopoli e colui che è e rimane Imperatore dei Romani è anche l'Imperatore di tutta la Terra."

    "Re, io mi desterò dal mio sonno marmoreo,
    E dal mio sepolcro mistico io ritornerò
    Per spalancare la murata porta d'Oro;
    E, vittorioso sopra i Califfi e gli Zar,
    Dopo averli ricacciati oltre l'Albero della Mela Rossa,
    Cercherò riposo sui miei antichi confini."

    "Un Costantino la fondò, un Costantino la perse ed un Costantino la riprenderà”


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    LA RISPOSTA AI COMMENTI
    di Andrea Boitani e Antonio Massarutto



    Molti sono stati i commenti al nostro articolo. Non è possibile rispondere a ciascuno. Così scegliamo di rispondere (collettivamente) solo ai lettori critici, lasciando da parte quelli che hanno mostrato apprezzamento per i nostri argomenti e hanno avanzato anche spunti meritevoli di approfondimento. Tra i critici prevalgono gli argomenti contrari alla privatizzazione, e ci attribuiscono addirittura una "voglia di privato" dedotta non si sa bene da che cosa. Ma non era e non è nostra intenzione discutere di questo: ognuno la pensi come vuole e vada o non vada a votare come vuole. Non è nostra intenzione dare indicazioni di voto. L'importante è che sia chiaro a tutti per cosa si va a votare. Alcuni degli argomenti critici potrebbero trovarci in linea di principio d'accordo (Stiglitz l'abbiamo studiato anche noi), se quella di cui stiamo parlando fosse davvero una privatizzazione: peccato che, invece, non lo sia affatto.
    La campagna referendaria ha profuso una grande quantità di inesattezze e forzature, che ormai hanno dato vita nella mente delle persone a un mostro virtuale. Qui non si tratta di monarchia o repubblica. Non stiamo parlando di sottigliezze, ma di qualcosa di sostanziale. Alla gente che va a votare si sta facendo credere che il voto è "contro la privatizzazione" e "contro l'ingiusto profitto". Perfino la RAI, negli spot informativi, descrive la norma oggetto del primo quesito come quella che "consente l'affidamento della gestione a privati" (sic). Ci dispiace per chi in buona fede lo ha creduto e tuttora lo crede, ma purtroppo non è così.
    Primo punto. Checché vi abbiano fatto credere, la norma oggetto del primo quesito non riguarda la privatizzazione dell’acqua (o del servizio idrico), bensì l'obbligo di gara. Se vincerà il no, non ci sarà nessun obbligo di privatizzazione, perché la legge non prevede quello. Se invece vincerà il sì, non ci sarà nessun divieto di coinvolgere privati, perché nella norma che riprenderebbe vita (la cui abrogazione parziale prevista dall'art. 23-bis verrebbe annullata) la gestione dei servizi a rilevanza economica può essere effettuata mediante società pubblica, concessione a privati o società mista, come infatti è stato finora.
    L'unica cosa che cambierebbe veramente è che con la vecchia norma la scelta della gestione in house potrebbe avvenire in modo diretto e senza ulteriori spiegazioni (non solo per l'acqua, ma per tutti gli altri servizi locali). Con la nuova norma che si vuole abrogare, invece, il comune che desidera mantenere la gestione pubblica può farlo, (i) se riesce a dimostrare che la gara è inutile, meritandosi la deroga di cui al comma 3, oppure (ii) se l'azienda pubblica partecipa alla gara e la vince. Non esiste alcun obbligo di vendere il 40%: questa opzione serve solo se si vuole a mantenere l'affidamento esistente senza invocare la deroga, ma ci sono sempre le altre due strade, ugualmente possibili e legittime. Molte aziende si stanno organizzando per ottenere la deroga per il mantenimento dell'in house, e dati i criteri fissati molto generosamente dal DPR 168/2010, con ogni probabilità ci riusciranno.
    Chi dunque sostiene che il referendum è "contro la privatizzazione", evidentemente non conosce bene la norma che vorrebbe vedere abrogata. E chi, pur conoscendola molto bene, continua a raccontare favole solo perché – se la verità venisse detta fino in fondo - la gente non andrebbe a votare, fa solo disinformazione. Il decreto Ronchi non obbliga nessuno a privatizzare. Abolirlo, non impedisce a nessuno di privatizzare. Chi non ne fosse ancora convinto, è pregato di informarsi meglio.
    Secondo punto. Acqua gestita dal pubblico non vuol dire acqua gratis, perché i costi qualcuno li deve pagare. Che sia la fiscalità o la tariffa, questo qualcuno sono sempre i cittadini. È incredibile come tanta gente sembri non capire una cosa così elementare. L'impatto distributivo di fiscalità e tariffe non è identico, ma non è affatto scontato che la fiscalità sia più progressiva (e quindi più egualitaria) della tariffa. Discutiamo semmai di come costruire le tariffe in modo da evitare impatti sociali troppo gravosi: si può fare, ci sono molti modi per farlo. Ma ai referendari preme invece convincere i cittadini che le tariffe sono elevate per colpa del profitto, e che si possano abolire senza aggravio per la fiscalità. Parlano di "fallimento del full cost recovery": ma che fallimento sarebbe, visto che è praticato in tutto il mondo? E soprattutto dalle gestioni pubbliche che funzionano, dalla Scandinavia alla Germania, dall'Olanda agli Usa? Ma se poi gli si chiede come pensano di coprire quei costi cincischiano: li vogliono in fiscalità generale, ma senza aumentare le tasse.
    E, nell'impossibile tentativo di far quadrare il cerchio (diritti per tutti, tariffe basse e niente nuove tasse), sono costretti a inventarsi o improbabili riduzioni di altri capitoli di spesa (i mitici cacciabombardieri, la solita riduzione dell'evasione fiscale); a sostenere cose impossibili, come il fatto che se si fanno investimenti per ridurre le perdite questo farà diminuire i costi, e permetterà di finanziare l’investimento con i risparmi, mentre qualunque tecnico sa che accadrà esattamente il contrario, ossia che per ridurre le perdite i costi devono aumentare; o a prospettare strumenti finanziari - patacca, come i bond irredimibili (un vero e proprio furto ai danni delle generazioni future, cui rimarranno i debiti da pagare ma non le reti, perché un bel giorno dovranno essere rifatte daccapo con tariffe più alte o nuovo debito).
    La questione tuttavia è: ammesso che la fiscalità riesca a recuperare qualche margine di manovra, rinunciando al cacciabombardiere o catturando qualche evasore, per cosa è opportuno utilizzare in via prioritaria queste risorse? Per diminuire la pressione fiscale? Per gli ammortizzatori sociali, l'istruzione, il welfare, i beni culturali? Oppure per la bolletta dell'acqua? Perché usare il denaro pubblico per finanziare un obbligo di servizio universale che è già affermato e garantito (visto che l'acqua arriva già in tutte le case), e costa in media solo 90 euro all'anno pro capite (25 centesimi al giorno), ed è dunque già alla portata di (quasi) tutti? I cittadini devono sapere che acqua gratis non significa non pagare dazio, ma significa meno spesa pubblica in qualche altro capitolo. E’ legittimo scegliere più acqua a basso prezzo e meno welfare (noi non siamo d'accordo, ma sono ammesse opinioni diverse). Ma non è legittimo far credere che la scelta sia tra acqua gratis e acqua a pagamento.
    Sembra che campagna referendaria stia riportando a galla una cultura tipica degli anni 70 e 80 del secolo scorso: quando tutti invocavano diritti, ma nessuno si preoccupava di come avremmo pagato i costi corrispondenti. Il risultato, allora, fu gran parte del debito pubblico che ancora abbiamo sulle spalle. Ci è servito per molti anni a pagare spesa corrente, dalle pensioni baby, a una sanità il cui costo sistematicamente sfondava i tetti previsti, a un settore pubblico usato come ammortizzatore sociale. Ora, non paghi di aver depredato le generazioni future con la finanza allegra di quel periodo, si imbrogliano le carte in modo da farci credere che questo ennesimo pasto gratis si auto-finanzi. I cittadini sappiano che, invece, i pasti gratis esistono solo nel paese dei balocchi. Su questo non sono ammesse "opinioni", così come non ne sono ammesse sulla legge di gravità. L'aritmetica può essere assai sgradevole, ma non è un'opinione, purtroppo (o per fortuna).
    Ci preme peraltro di ricordare che, tuttavia, se il secondo referendum dovesse passare, verrebbe abolito l'inciso "adeguatezza della remunerazione del capitale investito", ma non il principio del "full cost recovery", ribadito nello stesso comma dello stesso articolo, giusto una riga dopo.
    La tariffa, con o senza referendum, continua a dover coprire il costo del servizio, ossia il costo della gestione, l'ammortamento e il costo del capitale investito. Se la finanza pubblica vorrà mettere a disposizione circuiti agevolati, o al limite anche a fondo perduto, potrà eventualmente farlo (nessuno glielo impedisce: basta votare una legge finanziaria che lo preveda), ma finché non lo farà, il gestore i soldi li deve chiedere al mercato (ossia alle banche, agli investitori). E quel costo andrà pagato.
    Terzo punto. L'acqua costa meno se la gestisce il pubblico? Qui si confonde il costo (ossia gli stipendi, i materiali, gli impianti, l'energia, gli interessi sui debiti) con la tariffa. Se le tariffe non coprono i costi, le aziende falliscono. Se le gestioni sono vincolate a recuperare i costi con le tariffe, una diminuzione di queste può aversi solo se i costi diminuiscono, ossia se la gestione diventa più efficiente (usa meno personale, acquista meno servizi o tecnologie meno costose), oppure se non si fanno gli investimenti. In un settore in cui la concorrenza non c'è e anche le gare funzionano male, la presunzione di superiorità del privato da questo punto di vista è spesso contraddetta dai fatti, ma se è per questo ciò non significa neppure il contrario. Vent'anni di studi empirici concludono sostanzialmente in pareggio, e mostrano che l'efficienza aumenta dove il sistema di regolazione funziona meglio (si può fare, senza dimenticare che anche la regolazione indipendente incontra limiti non è certamente una bacchetta magica). Niente osanna alla mano invisibile, dunque: ma neppure ostracismi a prescindere. Se molti lettori avessero la bontà di non partire in quarta citando esperienze note solo in via aneddotica e si volessero confrontare seriamente con la montagna di studi che la ricerca ha profuso in questi anni, scoprirebbero che le cose non sono così ovvie come la vulgata tende a far credere.
    Ribadiamo che la norma (e il referendum) non intervengono su una tabula rasa, e che non è certo questo voto il modo per prendere posizione sulla questione. I piani d'ambito sono già approvati, la dinamica tariffaria già prevista (in base alle norme vigenti, uguali per tutti, che il referendum non abroga), le regole per definire revisioni dei piani sono già stabilite. Un'eventuale gara da lì dovrebbe partire; se l'offerta fosse uguale o peggiore rispetto a quella dell'affidamento già in essere, il comune avrebbe tutte le ragioni per mantenere l'affidamento in essere. Dunque le tariffe non possono aumentare oltre a quanto già previsto, ma semmai diminuire, o aumentare di meno.
    Qualcosa potrà cambiare, semmai, se cambierà il metodo tariffario normalizzato, cosa che peraltro anche noi auspichiamo: sarà uno dei principali compiti della nuova agenzia di regolazione, che attendiamo al varco. La tariffa deve incentivare il gestore a ridurre i costi (si può: se ci riescono in altri paesi possiamo riuscirci anche noi), consentendogli di guadagnare il giusto (ossia, il costo del finanziamento sul mercato e il premio per il rischio che si assume investendo). Il rischio è una variabile che dipende dalla regolazione: più il costo va in tariffa "a piè di lista", più limitato è il rischio; più il costo è definito ex ante e tenuto fermo, più elevato è il rischio.
    Ce n'è abbastanza, a questo punto per dire a tutti, critici e sostenitori: arrivederci a Trento, o meglio a Rovereto, dove sabato 4 uno di noi due (non vi diciamo chi) si scontrerà sul ring con Ugo Mattei, e voleranno, se questo è il clima, botte da orbi. Speriamo che la prospettiva di veder scorrere il sangue faccia aumentare l'audience!



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    "Ci sono quattro grandi cause per cui vale la pena di morire: la Fede, la Patria, la Famiglia ed il Basileus. Ora voi dovete essere pronti a sacrificare la propria vita per queste cose, come d'altronde anch'io sono pronto al sacrifico della mia stessa vita.
    So che l'ora è giunta, che il nemico della nostra fede ci minaccia con ogni mezzo...Affido a voi, al vostro valore, questa splendida e celebre città, patria nostra, regina d'ogni altra.
    Miei signori, miei fratelli, miei figli, l'ultimo onore dei Cristiani è nelle nostre mani."

    "Ed allora questo principe, degno dell'immortalità, si tolse le insegne imperiali e le gettò via e, come se fosse un semplice privato, con la spada in pugno si gettò nella mischia. Mentre combatteva valorosamente per non morire invendicato, fu infine ucciso e confuse il proprio corpo regale con le rovine della città e la caduta del suo regno.
    Il mio signore e imperatore, di felice memoria, il signore Costantino, cadde ucciso, mentre io mi trovavo in quel momento non vicino a lui, ma in altra parte della città, per ordine suo, per compiervi un'ispezione: ahimè ahimè!."

    "La sede dell'Impero Romano è Costantinopoli e colui che è e rimane Imperatore dei Romani è anche l'Imperatore di tutta la Terra."

    "Re, io mi desterò dal mio sonno marmoreo,
    E dal mio sepolcro mistico io ritornerò
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