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Roma Papale

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    pedrodiaz
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    00 04/09/2011 15:51
    Lettera diciassettesima
    Lettera diciassettesima

    Il Processo

    Enrico ad Eugenio

    Roma, Maggio 1849.

    Mio caro Eugenio,

    Erano cinquanta giorni che gemevo in quel sepolcro di viventi senza aver veduto altra sembianza umana che quella poco simpatica del mio carceriere. Una mattina sentii aprire la porta della prigione in un’ ora straordinaria, e credea di essere chiamato ai tanto desiderati esami, ma invece era il carceriere il quale messe sossopra la mia prigione per bene spazzarla; poscia bruciò sopra uno scaldino alcune bacche di lauro ed altre erbe per disinfettarne l’ aria, tolse lo sgabello di legno, ed in quella vece portò due decenti sedie di paglia. Io era attonito per tali straordinarie attenzioni e ne domandai la ragione; mi fu detto che fra poco avrei ricevuta una visita, di persona rispettabilissima. Puoi immaginare qual fosse la mia consolazione nel sentirmi annunziare una visita: ma per quanto facessi, non mi riuscì di poter sapere chi fosse la rispettabile persona che era per visitarmi. Io attendeva con grande ansietà, e la mia mente vagava su tutte le mie conoscenze, faceva mille congetture, ma la più probabile mi pareva che quella visita dovesse essere una visita del Padre Commissario. Verso le dieci, sento di nuovo aprire la porta, e l’ingrata voce del carceriere mi annunziò la visita dell’ abate Pallotta (Nota 1 - Santi contemporanei: l'abate Pallotta).

    L’ abate Pallotta è un prete che gode in Roma fama di grande santità. Piccolissimo di statura, macilente nel viso, gracile nella persona, calvo nella testa, coperto di un abito di panno grossolano, legato al fianco con una cintura della stessa stoffa, affetta 1’ aria di uno di quei santi che si veggono dipinti sugli altari. Egli gode in Roma tutta la stima e la venerazione specialmente del popolo basso.

    Quest’uomo è il confessore ordinario dei prigionieri dell’ Inquisizione (Nota 2 - Confessore del S. Uffizio. - Evasione), ed era stato mandato da me per convertirmi. Appena entrato nella mia prigione, trasse da una delle vaste saccoccie del suo abito un Crocifisso di ottone, un libro, ed una stola violacea; poscia trasse da una manica del suo abito un’ immagine della Vergine in basso rilievo sul rame: adattò il Crocifisso sulla tavola poggiandolo al muro in modo che restasse ritto, e pose ai piedi di esso la immagine della Vergine, si pose al collo la stola e si prostrò avanti a quelle immagini a pregare. Dopo alcuni minuti di preghiera, si assise, e m’ invitò ad inginocchiarmi ai suoi piedi per fare la mia confessione. Io risposi che Dio solo rimette i peccati, e che la mia confessione l’ aveva fatta a Dio, la faceva ogni giorno a Dio, e perciò non poteva farla ad un uomo; tanto meno a lui che non conosceva punto, e che sapea di certo non avergli mai fatta alcuna ingiuria per cui dovessi domandargliene perdono.

    Mentre io parlava così, il povero abate si faceva segni di croce, si levò da sedere tutto spaventato, ed allontanandosi da me, mi disse che io era posseduto dal demonio, e che voleva esorcizzarmi (Nota 3 - Esorcismi), ed afferrato il libro degli esorcismi si accingeva a farlo, ma io, levandogli il libro dalle mani, gli dissi che i posseduti dal demonio sono coloro che perseguitano così barbaramente gl’ innocenti, e quindi se avea voglia di esorcizzare qualcuno, andasse ad esorcizzare i Padri Inquisitori e il mio carceriere.

    Queste parole fecero su di lui l’ effetto della scossa elettrica. Cadde genuflesso innanzi a me, trasse di tasca una disciplina di ferro, e, movendo non so quale ordigno, si aprì il suo abito dietro le spalle che rimasero nude, in quello stato incominciò con quanta forza aveva a disciplinarsi gridando: "Signore, misericordia" (Nota 4 - Disciplina. - Esercizi di Ponterotto).

    Quest’ azione mi scosse fortemente, non sapea cosa pensare di quell’ uomo. Pochi istanti passarono in quello stupore; ma, quando vidi le sue spalle insanguinate, mi scossi, mi gettai sopra lui, e gli strappai violentemente la disciplina di mano. Avrei desiderato di avere con me il sig. Pasquali, affinchè, col suo sangue freddo e con la sua conoscenza biblica, avesse fatto conoscere a quell’ uomo il suo fanatismo religioso: ma egli levatosi in piedi mi disse in tuono amorevole: "Figlio mio, voi che temete tanto pochi colpi di disciplina, cosa farete nei tormenti indescrivibili dell’ inferno, nei quali fra poco cadrete, se ricusate il perdono che oggi Iddio vi offre nella sua misericordia?"

    Qui nacque fra noi una discussione: io diceva che non solo non ricusava il perdono di Dio, ma che lo avea di già ricevuto nella sua misericordia. "Eresia, ostinazione, diceva il prete: il perdono di Dio non si riceve che per nostro mezzo." Non ti starò qui a rapportare quella discussione che durò per circa mezz’ ora, solo ti dirò che a tutti i passi del Vangelo che io citava per dimostrare che il perdono dei peccati ci viene gratuitamente da Dio alla sola condizione di credere in Gesù Cristo, egli rispondeva baciando l’immagine della Vergine, e pregandola che mi liberasse dal demonio dell’eresia. Voleva che anch’ io baciassi quell’ immagine e mi prostrassi con lui solo per dire un’ Ave Maria, promettendomi che la Vergine avrebbe operata la mia conversione. Io mi ricusai positivamente, e recitai con solennità le parole del secondo comandamento di Dio (Nota 5 - Secondo Comandamento). Allora l’abate Pallotta rimise in tasca le sue immagini, e uscì dalla prigione dicendo: "Questo genere di demoni non si scaccia che con l’orazione e col digiuno."

    La maniera di agire di quest’ uomo mi turbò: passai il resto di quella giornata agitato da pensieri e dubbi, tanto più che mi avvidi che la mia condotta avea dovuto portare un gran turbamento in tutti gl’ impiegati dell’ Inquisizione. Difatti poco dopo uscito 1’ abate Pallotta dal mio carcere, vi entrò il carceriere con un prete che asperse con acqua benedetta tutta la prigione, e ne gettò una quantità sopra la mia persona. Le sedie mi furono tolte e riposto al suo luogo lo sgabello. In luogo del solito desinare, non ebbi che una scarsa porzione di pane nero. Il carceriere ogni volta che entrava nella mia prigione si faceva segni di croce, non mi parlava più, e se io lo interrogava non rispondeva. Passarono in questa guisa nove giorni.

    Il decimo giorno era talmente estenuato dal digiuno che appena potea reggermi in piedi: fu allora che fui chiamato al mio primo esame. Condotto dal carceriere nella camera degli esami, vidi quel Padre Domenicano che avea veduto nella mia prigione la sera del mio arresto; egli era seduto sopra un seggiolone dinnanzi ad una tavola, sopra la quale era posato ritto un gran Crocifisso nero, ed un cartone sul quale era stampato il principio dell’ Evangelio di S. Giovanni a grosse lettere. Al lato sinistro della tavola, era seduto un prete notaio con tutto l’occorrente per scrivere. Il Padre Domenicano avea innanzi a sè una quantità di carte legate assieme, che poi seppi essere il mio processo. Io mi fermai in piedi innanzi alla tavola, ed il carceriere era alla mia sinistra alquanto indietro. Mi fu ordinato di giurare sul Vangelo di dire la verità anche contro me stesso (Nota 6 - Giuramento all'inquisito. - Procedura del S. Uffizio). Io giurai, perchè realmente era mia intenzione di dire tutta la verità anche contro me stesso, purchè non compromettessi altri. Dopo giurato, mi fu ordinato di sedere sopra una piccola panca di legno.

    Il Padre Domenicano che era il giudice istruttore incominciò allora 1’ interrogatorio. Incominciò a domandarmi il nome, il cognome, la patria, l’ età, il nome dei miei parenti, il motivo per cui era venuto in Roma, e tante e tante altre cose che mi pareva non avessero che far nulla col mio processo. Ma è meglio che io ti scriva questo interrogatorio per domande e risposte, come mi fu fatto, e come ho procurato tenerlo a memoria.

    D. Sapete voi dove vi trovate ?
    R. Nelle prigioni del S. Uffizio.
    D. Per qual motivo siete in queste prigioni?
    R. Ella lo sa meglio di me.
    D. Ma voi lo sapete?
    R. Non lo so.
    D. Però potrete immaginare il perché vi siete?
    R. Credo che sia per aver parlato con dei Protestanti.
    D. Per qual ragione credete voi così?
    R. Perchè il Padre P. Gesuita mi avea minacciato del S. Uffizio, se io non lasciava la conversazione di quei Protestanti; e tengo per certo, che egli mi abbia accusato.
    D. Chi erano quei Protestanti coi quali avete conversato, e come li avete conosciuti?
    Io dissi allora il nome dei miei tre amici, e raccontai a lungo il come ed il perchè mi era trattenuto con loro.
    D. Quali discorsi avete tenuti con quei Protestanti?
    Raccontai distesamente e con tutta sincerità tutto quello che mi ricordava delle nostre conversazioni.



    continua
    Pedro
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    pedrodiaz
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    00 04/09/2011 15:51
    D. Quali sono i vostri sentimenti su tali cose?
    R. Dei miei sentimenti interni debbo renderne conto a Dio solo: non credo che nessun tribunale abbia il diritto di giudicare i miei pensieri e i miei sentimenti.
    Allora il giudice istruttore mi fece osservare che io mi era obbligato con giuramento di rispondere con verità a tutte le interrogazioni, e disse che se io ricusava di rispondere a quella o qualunque altra, sarei reo di spergiuro, ed avrebbe notato nel processo questo mio nuovo delitto, perchè fosse insieme con gli altri punito secondo la legge.
    Conobbi allora, ma troppo tardi, l’inganno che mi si era teso col farmi giurare: restai un momento perplesso sulla validità di quel giuramento; poscia finalmente risposi: "Non il timore del gastigo, ma l’amore della verità, e 1’ obbligo che sento di confessarla, mi spingono a rispondere. I miei sentimenti sono di credere tutto quello che insegna la Parola di Dio, non una sillaba di più, non una sillaba di meno." Un sogghigno infernale apparve sulla livida faccia di quel frate, il quale seguitò così ad interrogarmi:
    D. Cosa intendete per Parola di Dio?
    R. Tutto quello che è scritto nei libri del Vecchio e del Nuovo Testamento.
    D. Credete voi che la tradizione non scritta sia Parola di Dio?
    R. No; perchè S. Paolo pronuncia 1’ anatema contro chiunque aggiunge alla Parola di Dio, perchè Gesù Cristo dice, che la tradizione annulla il Comandamento di Dio.
    D. Ammettete voi come canonici e divinamente ispirati tutti i libri del Vecchio Testamento, che il Concilio di Trento ha dichiarato tali?
    R. No; perchè S. Paolo mi dice, che Dio ha confidati i suoi Oracoli alla Sinagoga, non al Concilio di Trento; quindi ritengo come canonici e divini solo quei libri che come tali sono stati sempre ritenuti dalla Sinagoga.
    D. Avete manifestati ad alcuno questi vostri sentimenti ?
    R. Li ho manifestati al mio confessore.
    D. Chi era il vostro confessore?
    R. Il Padre M. Gesuita.
    D. Cosa vi diceva egli sentendo da voi queste cose?
    R. Non mi ricordo precisamente, ma so che le sue risposte non mi persuadevano.
    D. Perchè non vi persuadevano?
    R. Perchè non erano appoggiate alla Parola di Dio.
    D. Il vostro confessore vi dava l’assoluzione?
    Questa interrogazione mi fece sospettare, che la mia risposta avrebbe potuto nuocere ad un terzo, onde risposi: "Io ho giurato di dire tutto quello che riguarda me, fosse anche contro me stesso, e manterrò il mio giuramento; ma non risponderò mai alle interrogazioni che riguardano gli altri."
    D. Oltre il vostro confessore a quali altre persone avete manifestati questi vostri sentimenti?
    R. Ho detto che non ho parlato, che al confessore.
    D. Giurate su questo punto (Nota 7 - Ripetizione del giuramento).
    R. Non voglio giurare, e non giurerò più.
    Il giudice allora mi disse che egli mi ammoniva a titolo di carità a giurare; che se ricusava il giuramento era una prova che io avea mentito, il Santo Tribunale avea in mano delle prove della mia menzogna. Risposi che non volea più giurare per nessun conto, che il giuramento in nessun tribunale può darsi al prevenuto contro sè stesso; che le interrogazioni fattemi erano capziose e suggestive, che non avrei più risposto a tali interrogazioni. Infatti incrociando le braccia sul petto mi rinchiusi nel più stretto silenzio, e più non risposi. "Voi costringerete, mi disse il giudice, il Santo Tribunale a servirsi dei rimedi di diritto (Nota 8 - La tortura) per farvi parlare; ma io protesto innanzi a Dio e innanzi agli uomini di essere innocente di tutto il male che ve ne avverrà: voi lo avete voluto." Così dicendo, si alzò e disse al carceriere: "Questo reo è raccomandato alla vostra carità." Il carceriere mi prese per la mano e mi condusse fuori.

    Io credeva ritornare nella mia prigione, ma il carceriere mi fece salire una lunghissima scaletta a chiocciola, e mi condusse in una cameruccia nel più alto del palazzo. Quella prigione si chiamava la camera della prova, ed era stata sostituita all’ antica tortura. Era una piccolissima camera situata immediatamente sotto il tetto: un abbaino rotondo fatto a lanterna era nel centro più alto della prigione, e dava ad essa una forte luce aumentata dalla splendida bianchezza delle mura e del pavimento imbiancato a calcina; non vi era in essa camera che un sacco di paglia ed un vaso da notte; non sedie, non sgabello, non tavola; delle barre di ferro impedivano d’avvicinarsi all’ abbaino, sia per respirare, sia per aprire le vetrate. Negli eccessivi calori dell’ estate di Roma, quella prigione era insopportabile: sembrava di essere in un forno. Quando il sole avea tramontato e che si potea sperare un poco di riposo non essendo più tormentato da quell’ eccessiva luce, allora subentrava un nuovo tormento: il calorico rinchiuso in quel piccolo spazio mi sembrava insopportabile: allora io sentiva tutto l’ orrore di quell’ aria mefitica e corrotta per l’eccessivo calore, e per le esalazioni del vaso immondo che il carceriere avea ordine di vuotare ogni terzo giorno. A tutto questo aggiungi che io non poteva, come nell’ altra mia prigione, avere l’acqua a discrezione, ma mi si portava una volta al giorno una piccola tazza di acqua, che trangugiava tutta di un fiato e che bastava a non farmi morire dalla sete. Per tutto cibo non avea che un tozzo di pane nero quanto potesse bastare a trattenermi in vita. Avrei amato meglio soffrire la tortura della corda piuttostochè soffrire quella così orribile e così prolungata tortura della fame, della sete, del calore, dell’ aria pestilenziale, della solitudine. I sentimenti di rabbia e di odio contro i miei persecutori si suscitarono potenti nel mio animo: tutti i sentimenti religiosi sparirono: non sentiva in me che rabbia e disperazione. Mi venne perfino l’idea di fracassarmi il cranio contro quelle pareti, ma Dio mi preservò da questo eccesso. Io non pregava più, non credeva più. L’afflizione avea superate tutte le mie forze, ed al quarto giorno di questo tormento era ridotto in uno stato tale di atonia, che le mura della prigione pareva girassero continuamente attorno di me, e mi pareva essere trasportato come da un turbine.

    Mentre era in questo stato, fui condotto di nuovo nella camera dell’ esame, ed in quello stato fui esaminato. Comprenderai bene che io non ho la più piccola memoria nè di quello che mi fu domandato, nè di quello che io rispondessi. Ma sembra che il mio esame piacesse ai reverendi Padri, perchè dopo l’esame fui ricondotto nella mia antica prigione che mi parve una reggia, mi furono dati subito dei cordiali, e, prima di essere rimesso all’antico vitto, mi fu dato per otto giorni il vitto dei convalescenti, cioè brodo, carne, vino, e pane bianco.

    Dopo alcuni giorni, quando già avea riprese le mie forze, mi fu annunziata un’ altra visita misteriosa (Nota 9 - I convertitori). Era il Padre N. dell’Oratorio di S. Filippo Neri, che da protestante si era fatto cattolico, e passava per uomo dottissimo ed uno dei migliori teologi di Roma. Egli incominciò a mettere fuori i soliti argomenti in favore della Chiesa cattolica. Io lo lasciai parlare quanto volle senza mai interromperlo: ma mentre egli parlava mi venne in pensiero di usare uno strattagemma per avere da lui quello che tanto desiderava, cioè una Bibbia. Gli dissi che le sue ragioni potevano avere del vero, che io sarei entrato volentieri con lui in discussione; ma che avrei domandato in grazia di avere una Bibbia per potere studiar bene sopra essa que’ passi che mi parevano controvertibili, e sui quali avrei a lui domandate spiegazioni.

    Il Padre N. parve contento e mi disse che ne avrebbe parlato al padre Commissario: difatti poco tempo dopo venne il carceriere, mi portò una Bibbia latina, quattro fogli di carta, un calamaio ed una penna: mi disse che della carta ne avrei dovuto rendere conto, e che badassi bene a non distruggerne nemmeno un bocconcino.

    A gran pena mi contenni da non saltare dall’allegrezza in presenza del carceriere, per vedermi possessore della tanto desiderata Bibbia, e ciò sotto il tetto dell’ Inquisizione. Appena uscito il carceriere, apro avidamente la Bibbia, e si presentano sotto i miei occhi queste parole: "Lo Spirito del Signore è sopra di me; perciocchè il Signore mi ha unto per annunziare le buone novelle ai mansueti; mi ha mandato per fasciar quelli che hanno il cuor rotto, per bandir libertà a quelli che sono in cattività, ed apritura di carceri ai prigioni" (Isaia LXI, 1); appena lette queste parole, mi parve di riconoscere la mano di Dio che verificasse sopra me quelle cose, mi parea sentire Gesù Cristo al mio fianco, la prigione non mi era più spaventevole, non sentiva più quella solitudine che tanto mi avea afflitto, perchè sentiva che Dio era con me. Mi prostrai per ringraziare il mio Dio; piansi, pregai, e mi sentii consolato.

    Da quel momento posso dire che datasse la mia rigenerazione, mi pareva essere nato a nuova vita, non sentiva più i patimenti, Dio era con me, ed io non temeva più nulla dagli uomini. Domani ti scriverò quello che mi accadde con la mia Bibbia. Intanto credimi

    Il tuo affezionatissimo
    Enrico
    Pedro
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    pedrodiaz
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    00 04/09/2011 15:52

    Santi contemporanei: l'abate Pallotta

    Nota 1. alla lettera diciassettesima di Roma Papale 1882

    Roma abbonda di preti, frati e monache che godono fama di santità, ed anche fanno miracoli. Fu per qualche anno celebre il padre Bernardo Paolotto, per i miracoli che faceva, delle ricchezze che portava al suo convento; ma la sua fama non fu di lunga durata, e dovè allontanarsi da Roma, e non si è sentito più parlare di lui.

    Un altro santo, la cui fama durò fino alla morte, fu fra Petronio Sarco laico, zoccolante, il quale era preso per padrino in tutti i battesimi delle famiglie principesche romane.

    Un altro santo era fra Felice laico cappuccino, il quale un giorno, avendo fatto ferrare il suo asino, disse al maniscalco che S. Francesco lo avrebbe pagato. Il maniscalco, che non poteva dire altrettanto nè al ferraio, nè al padrone di casa, insisteva per avere il danaro; allora fra Felice disse all'asino di restituire i suoi ferri, e 1' asino scuotendo ad una ad una le sue zampe, lasciò da esse cadere i suoi ferri.

    Ma il santo contemporaneo, che fosse in maggior grido, era l'abate don Vincenzo Pallotti, chiamato comunemente 1' abate Pallotta. Era un uomo di statura piccolissimo, vestiva l'abito ecclesiastico con una semplicità piuttosto affettata, la sua casa era un santuario. Nella prima camera vi era una statua della Madonna in cera di grandezza naturale, ritta in piedi dentro un'urna di cristallo, una lampada era sempre accesa dinanzi ad essa. In una seconda camera vi era un gran crocifisso alto quanto la parete con la via crucis all' intorno. La terza camera era piuttosto grande, e le pareti erano tutte ricoperte di libri ascetici e teologici perfettamente inutili per lui, perchè diceva non aver tempo da perdere nel leggere. In mezzo di quella camera vi era un gran crocifisso messo in terra, che tutti quelli che entravano dovevano baciarlo. Finalmente vi era un camerino dove egli si teneva per confessare. In esso vi era il Monte Calvario con la scena della crocifissione tutta in rilievo, poi vi era un piccolo canapè tessuto di paglia ordinaria. Nella sua casa non vi era cucina, perchè per lui perfettamente inutile; egli non mangiava che poco pane, un pezzo di formaggio nei giorni di grasso, e qualche frutto secco nei giorni di magro; la sua bevanda non era che acqua semplice.

    Il suo padre era un ricco pizzicagnolo. Divenuto vecchio, vedendo il figlio così santo, confessò al figlio di avere, come il solito, rubato nel peso agli avventori, e domandò al figlio come rimediare a questo fatto. Il figlio che era ignorante, ma di buona fede, non aveva adottata la morale dei preti di restituire alla Chiesa quello che si è rubato ai laici; d' altronde è impossibile trovare tutti i derubati per fare la restituzione. Allora l'abate Pallotta ordinò al padre di dare da quel1' ora innanzi tre once di più a libbra a tutti coloro che andavano a spendere. Il buon vecchio così fece; ma il pubblico essendosene avveduto, era tale l'affluenza degli avventori nella sua bottega, che dalla mattina alla sera era sempre piena. La cosa sarebbe finita con l'intiero fallimento del vecchio; ma gli altri due figli che erano nella bottega, che non dividevano per nulla le opinioni del fratello, scacciarono il padre, e così rimisero le cose come prima.

    L' abate Pallotta godeva una grande influenza in Roma, egli otteneva tutto quel che voleva, avea fondato due case di rifugio per le povere ragazze abbandonate, e mandava tutte le sere alcuni de' suoi discepoli nelle vie più frequentate di Roma a cercar coteste ragazze, e persuaderle di entrare nei suoi rifugi; in questo modo ne manteneva più di duecento. Egli aveva stabilito una congregazione di preti chiamata l'Apostolato cattolico, ed uno dei suoi discepoli fu l'abate don Raffaele Melia, che fece poi tanto chiasso in Londra come missionario apostolico e cappellano dell'ambasciata sarda.

    L'abate Pallotta era un fanatico, ma lo era in buona fede. Egli non si serviva della sua santità per arricchire sè od altri; egli era umile, ed era notte e giorno occupato a predicare, confessare ed assistere i malati. Egli morì nel 1849, nei tempi di grandi sconvolgimenti in Roma; egli fu sempre eguale a sè stesso, continuò nel suo tenore di vita senza intrigarsi per nulla nelle cose politiche; a tutti coloro che gli domandavano cosa egli pensasse su quelle cose, rispondeva che bisognava pregare e pregar molto, affinché Dio dirigesse tutto alla sua gloria. Mentre il popolo romano dava la caccia ai preti, 1' abate Pallotta era da tutti riverito e rispettato.

    Pedro
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    00 04/09/2011 15:52

    Confessore del S. Uffizio. – Evasione

    Nota 2. alla lettera diciassettesima di Roma Papale 1882

    Fra le altre cose che si era addossate 1' abate Pallotta, era quella di essere confessore del S. Uffizio. I carcerati del S. Uffizio, eccettuati coloro che sono carcerati per eresia, sono obbligati confessarsi ogni sabato. In quei tempi il confessore del S. Uffizio era 1' abate Pallotta. Sebbene però siano obbligati alla confessione, non gli è mai permesso di ricevere la comunione. Qualche volta la confessione di quei carcerati serve per la loro liberazione, non già perchè il confessore abbia alcuna influenza sopra gli inquisitori, ma perchè tante volte se il carcerato è furbo può con la sua ipocrisia ingannare i carcerieri. Ecco un fatto accaduto nel mio tempo. Un giovane appartenente ad una delle migliori compagnie equestri, e famoso per i suoi sforzi ginnastici, era carcerato nell'Inquisizione per aver detto qualche cosa contro ai preti. Costui, non vedendo la maniera di poter uscire, si diede al bigottismo, si confessava con gran fervore tutti i sabati, si faceva trovare sempre dal carceriere in preghiera, non parlava che di cose divote e con tale fervore che il carceriere lo credeva un santo. Finse una tosse, per cui il carceriere mosso a compassione lo lasciava passeggiare per prendere un poco d'aria nel cortile delle prigioni. Era il giorno dell'ottava del Corpus Domini, nel quale vi è la grande processione a S. Pietro, pochi passi distante dal S. Uffizio. Il carceriere volle mettere il giovine nella prigione per andare a vedere la processione; il giovane fu preso in quel momento da un accesso così forte di tosse che lo soffocava; allora il carceriere pensò di chiudere bene la porta del cortile e lasciarvelo, sicuro che non avrebbe potuto saltare un muro di cinque metri di altezza. Appena uscito il carceriere, il giovane messe in opera tutta la sua abilità ginnastica, passò il muro, andò nella camera del carceriere, si vestì dei meglio suoi abiti, lo derubò di orologio, anelli, denaro, ed uscì per la porta grande del palazzo, passando avanti il portiere, il quale lo credè un signore che fosse stato a visitare qualcuno dei RR. padri.

    Pedro
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    pedrodiaz
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    00 04/09/2011 15:53

    Esorcismi

    Nota 3. alla lettera diciassettesima di Roma Papale 1882

    Una delle occupazioni, alle quali si dava, assai volentieri l'abate Pallotta, erano gli esorcismi. Io ho assistito molte volte agli esorcismi fatti dall' abate Pallotta, e, sebbene allora fossi cattolico in buona fede, non mi sono mai potuto persuadere che quelle persone da lui esorcizzate fossero state possedute dal demonio. Egli esorcizzava specialmente e di preferenza nella chiesa del Collegio Irlandese, a porte chiuse è vero, ma alla presenza di un centinaio di persone almeno, e del rettore del collegio Irlandese dottor Cullen, oggi primate d' Irlanda.

    In Roma gli indemoniati non sono rari, perchè si forma con essi una bella bottega. L'indemoniata (ordinariamente sono donne) è visitata dai devoti e dalle devote, e ciascun visitatore lascia soccorsi alla famiglia, così il diavolo vi si trattiene molto tempo, e quando poi ne esce, la persona liberata è sempre ben collocata.

    Non tutti i preti possono esorcizzare, ma soltanto coloro che ne hanno speciale permesso dal cardinal Vicario, che sono i preti che hanno maggior fama di santità. L' esorcizzare è un' arte che si deve apprendere nei libri. Abbiamo sott' occhio un libro di circa 500 pagine del reverendo padre Girolamo Menghi, stampato in Venezia con permesso e privilegio, ed intitolato "Compendio dell' arte esorcistica," dove sono insegnate tutte le arti per cacciare i demoni. Sarebbe cosa curiosa, ma assai lunga, dare il compendio di codesto libro: per darne una semplice idea, diremo che il rimedio più efficace che è suggerito, quando tutti gli esorcismi riuscissero inutili, è di scomunicare il demonio; alla scomunica egli non può resistere, bisogna che esca. Questo solo fatto basta a dimostrare quale sia la sapienza degli esorcisti.

    Pedro
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    pedrodiaz
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    Disciplina. – Esercizi di Ponterotto

    Nota 4. alla lettera diciassettesima di Roma Papale 1882

    L' abate Pallotta era un missionario, ed i Missionari usano ancora, in Roma ed in qualche altro paese, di darsi la disciplina per muovere il popolo al ravvedimento. L' abate Pallotta, uomo di buona buona fede, se la dava davvero; ma in generale la disciplina dei Missionari è un atto di commedia, nè più nè meno. Racconterò quello che ho veduto io stesso le tante volte in Roma. Nella così detta Pia casa di Ponterotto, si dànno gli esercizi spirituali agli uomini: ed ecco i colpi di scena che si usano per scuotere gli ignoranti. La cappella dove si fanno le prediche non è illuminata che da due piccole lampade chiuse dentro un tubo di ferro, su questo tubo è intagliato un teschio con due ossa, l'intaglio è coperto d' una carta rossa, per cui la luce che tramandano quelle lampade non esce che da quell' intaglio: luce abbastanza sepolcrale e piuttosto spaventevole.

    La quarta sera degli esercizi, si fa in quella cappella la predica della Madonna, prendendo i materiali dal libro delle Glorie di Maria di S. Alfonso. Quando il predicatore ha bene infervorato i suoi ascoltanti, gli domanda se volessero vedere Maria, e, facendo loro quasi credere ad un miracolo, promette che quella sera stessa vedranno Maria, se sono veramente risoluti di darsi a lei. Gli ascoltanti infervorati piangono e gridano: "Viva Maria!" allora si apre in un istante una gran porta, che gli ascoltanti non avevano mai veduta, un torrente di luce inonda la cappella, e si vede 1' immagine di Maria risplendente fra centinaia di ceri, fra i profumi dell' incenso ed i fiori, senza vedere nè un prete, nè anima vivente. Questo colpo di scena inaspettato produce un grand' effetto sui semplici.

    La quinta sera, si fa la disciplina: ed ecco in che modo. Nella solita cappella delle prediche, il predicatore tratta un argomento dei più terribili, come per esempio la Giustizia di Dio che vuol essere soddisfatta dai peccatori. Quando ha condotto gli uditori al punto di fargli vedere che per essi è finita, propone il rimedio di fare entrare i preti a pregare per loro; allora entrano nella cappella sei preti scalzi con stole violacee al collo, restano nel mezzo della cappella, e, ad esortazione del predicatore, cantano in tuono flebile: "Parce, Domine, parce populo tuo" (perdona, Signore, perdona al tuo popolo). Il predicatore ripiglia che la preghiera non basta, che alla preghiera bisogna aggiungere l'umiliazione, che l' intercessione dei preti è potentissima, ma bisogna che sia ripetuta; allora i preti si mettono in ginocchio, e cantano la seconda volta le stesse parole. Il predicatore riprende che i peccati sono troppo gravi, e che egli sente che fra i suoi uditori vi sono dei cuori ostinati che impediscono il libero corso alla divina misericordia. Quindi dice ai preti, come diceva Elia ai falsi profeti: "Gridate più forte;" i preti allora si gettano con la faccia in terra e gridano quanto più possono forte quelle stesse parole. Allora il predicatore, come scoraggiato, rimanda i preti a pregare nelle loro camere, ed essi vanno in refettorio. Allora il predicatore riprende la sua predica, e dice che, giacchè le preghiere e le umiliazioni non han giovato, ci vuole il sangue, che egli darà volentieri per la salute dei suoi uditori, così dicendo, tira fuori con gran rumore una disciplina. La disciplina è composta di una ventina di liste, ciascuna delle quali è formata da tre lamine di ferro ben lucenti, ma ottuse che non possono tagliare, unite 1' una all' altra con un anellino di ferro; tutte queste liste sono unite insieme ed attaccate ad un manico di cuoio. Il predicatore scuote questa disciplina, che fa un rumore spaventevole, gli uditori credono che egli si percuota e si ferisca per loro, e corrono a strappargliela dalle mani. Qui succede un gran chiasso, tutti piangono e domandano misericordia, ed il predicatore promette a nome di Dio che la misericordia è fatta.

    Per tornare all' abate Pallotta, egli avea sempre una disciplina in tasca; ma la sua disciplina non era per ostentazione, era piccola, ma le lamine di ferro erano taglienti, e fra una lamina e 1' altra in luogo di esservi un anello, vi era una stella di ferro a più punte ben aguzze. Quando si disciplinava, tirava un cordoncino avanti sul petto che apriva la sottana in due dietro le spalle, e il sangue scorreva realmente allorchè si disciplinava. Egli non si faceva mai la disciplina in pubblico ma solo quando si trattava della conversione di qualche peccatore ostinato.

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    00 04/09/2011 15:54

    Secondo Comandamento

    Nota 5. alla lettera diciassettesima di Roma Papale 1882

    Ognuno sa che la Chiesa romana, per favorire il culto delle immagini, ha tolto di netto dal decalogo il secondo Comandamento di Dio, ed è arrivata a questo punto di sfacciataggine, di dipingere Mosè con in mano, le Tavole della Legge, nelle quali sono scritti i dieci comandamenti, non quelli che Dio ha dati, ma quelli raffazzonati da essa. Nella Chiesa romana, non dirò fra il popolo, ma fra i preti, non ve n' è uno fra mille, il quale sappia che la sua Chiesa ha tolto quel Comandamento; così si spiega l'azione dell' abate Pallotta nel sentirsi citare quelle parole, egli le crede un'eresia, e giudicò colui che le pronunciava come un eretico ostinato.

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    00 04/09/2011 15:54

    Giuramento all'inquisito. – Procedura del S. Uffizio

    Nota 6. alla lettera diciassettesima di Roma Papale 1882

    In nessun tribunale, per quanto sia dispotico, si dà mai giuramento all' inquisito contro se stesso, essendo una tentazione potentissima allo spergiuro, ed essendo anche contro la legge naturale che comanda la propria difesa. Ma il tribunale del S. Uffizio è sopra ogni legge. L' inquisito deve giurare di rispondere a tutte le interrogazioni con tutta verità anche contro se stesso. Gl' interrogatorii sono molto lunghi, le interrogazioni sono per la più parte insidiose, e dirette a far cadere in contradizione l' inquisito: allora il giudice inquirente gli contesta la contradizione, e fa notare nel processo lo spergiuro che costituisce nel S. Uffizio il delitto di sospetto di eresia.

    Sembrano impossibili agli uomini onesti cotali iniquità: è necessario dunque darne una spiegazione. Appena un individuo è arrestato per ordine del S. Uffizio, egli non è nè prevenutoinquisito, ma egli è già reo. Nella procedura del S. Uffizio il prevenuto non è chiamato che col nome di reo. Una volta accusato, tutta la procedura non è diretta a scoprire la verità, ma a confermare l' accusa; quindi si suppone che 1' accusato sempre mentisca, e nel Direttorio degli inquisitori si dànno dieci cautele al giudice istruttore per costringere il reo a dire quel che vuole il santo tribunale. Per esempio, la quarta cautela è questa: l'istruttore deve avere in mano il processo, svolgerlo, fingere di leggere, e poi dire: "Dal processo resulta chiaro che voi mentite;" deve anche figurare di leggere una deposizione che non esiste, per costringere il reo a confessare quello che non è mai esistito.

    La quinta cautela è questa: l'inquisitore deve fingere di non potere più ascoltare il reo per molti mesi, e dire che avrebbe voluto sbrigarlo in quel giorno; ma, poichè non vuol confessare, deve rimandarlo al carcere rigoroso, e chi sa fra quanto tempo potrà ascoltarlo di nuovo.

    La sesta cautela è di moltiplicare in tal modo le interrogazioni da generare confusione nella mente dell' accusato, e così indurlo a contradirsi.

    Non solamente il S. Uffizio opera in questo modo per trarre dalla bocca degli inquisiti ciò che vuole, ma gli impedisce ogni mezzo di difesa. L' inquisito non può mai sapere chi sono i suoi accusatori, ed i testimoni che han deposto contro di lui, per cui non può dargli nessuna eccezione. Quanti infelici sono stati accusati per odio, per malignità e per vendetta! Il S. Uffizio crede ciecamente all'accusatore, il giuramento dell' accusatore è per lui prova della verità, sebbene 1' accusatore sia persona che non sarebbe ammessa a rendere testimonianza dinanzi a qualunque altro tribunale; ma il giuramento dell' inquisito si esige solo per contestargli lo spergiuro.

    Le difese del S. Uffizio sono parimente illusorie. Vi è un difensore pagato dal tribunale, il quale naturalmente non gode la fiducia di nessuno dei difesi. Al difensore è comunicato il processo, egli scrive la difesa e poi deve presentarla al procuratore fiscale per 1' approvazione. Quando il fiscale l'ha approvata, togliendole veramente quello che può essere difesa se ce n' è, allora la difesa è passata ai copisti, che ne fanno le copie manoscritte, insieme alle osservazioni che su di essa fa i1 fiscale, e si mandano ai giudici, i quali, senza ascoltare nè vedere il prevenuto, lo giudicano inappellabilmente su quello scritto.

    Accade qualche volta che un inquisito vuol difendersi da sè stesso, ovvero domanda un avvocato di fiducia per suo difensore. Se si difende da sè stesso, gli è comunicato il processo, ma non tutto, gli sono comunicati quegli atti dai quali non possa mai venire in cognizione nè degli accusatori, nè dei testimoni, e così la difesa resta impossibile. Su quel processo gli si permette di scrivere la sua difesa, la quale deve essere passata al fiscale, il quale vi toglie tutto quello che vuole, poi la fa copiare e passare ai giudici con le sue risposte.

    Quando si permette ad un avvocato di difendere un accusato, l'avvocato può parlare con 1' accusato una volta prima di aver veduto il processo, in conseguenza non può domandare al suo difeso gli schiarimenti necessari, perchè non conosce il processo. Si consegna all' avvocato il processo, ma senza il nome degli accusatori e dei testimoni, e soppresse tutte le circostanze che potrebbero farli conoscere. L'avvocato su quell'informe processo deve scrivere la sua difesa, consegnarla al fiscale, il quale ne sopprime quelle parti che crede, vi risponde, e poi la distribuisce ai giudici.

    In questo barbaro sistema tutti i principii di giustizia sono rovesciati, la difesa è un' illusione, la parola resta sempre per ultimo al fisco, e mai al difensore ed all' accusato; i giudici condannano senza mai aver veduto, nè ascoltato il prevenuto.

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    00 04/09/2011 15:55

    Ripetizione del giuramento

    Nota 7. alla lettera diciassettesima di Roma Papale 1882

    L'interrogatorio che abbiamo messo nel testo non è punto inventato, ma è preso quasi parola per parola dal formulario pratico dell'Inquisizione chiamato Arsenale del S. Uffizio. È in facoltà dell'inquisitore di far ripetere il giuramento durante 1' interrogatorio: e si fa ripetere il giuramento quando, nella moltiplicità delle interrogazioni suggestive, 1' inquisito ha dato una qualche risposta che sembra essere in contradizione con una risposta antecedente. Allora il giuramento serve per contestare lo spergiuro, quindi il S. Uffizio si serve del giuramento come di pietra d' incappo e di sasso d'intoppo contro il povero inquisito.

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    00 04/09/2011 15:55

    La tortura

    Nota 8. alla lettera diciassettesima di Roma Papale 1882

    La tortura è chiamata nell' Inquisizione un rimedio di diritto. Dal 1815, che fu abolita la tortura nello Stato Pontificio, anche l'Inquisizione ha abolita la tortura materiale, vale a dire la tortura dell' acqua, del fuoco e della corda; ma ha inventata invece un' altra tortura, che chiama morale, e consiste nel digiuno, nella oscurità, nella troppa luce, nel soffocamento. La tortura a cui fu sottoposto il nostro Enrico era la tortura della luce, della fame, del soffocamento per aria mefitica. Altre volte, quando si vuol dare la tortura delle tenebre, la camera della tortura è tutta parata di panni neri, la finestra perfettamente chiusa in guisa che non spiri un raggio di luce. Questa tortura si usa specialmente per le donne e le persone nervose. La persona chiusa in quella camera non sente nulla, non vede nulla se non che di tanto in tanto è spaventata da orribili voci che si fanno giungere nella camera per mezzo di una ciarabottana. Queste torture durano sette o otto giorni continui, e quando il paziente, estenuato e ridotto quasi fuori di sè, è condotto alla camera degli esami, necessariamente dice tutto quello che gli si vuol far dire, parte perchè non è in sè, parte per timore di essere ricondotto nella camera della prova.

    Vi è un' altra specie di tortura meno crudele, ma più immorale, ed è questa: si finge di avere compassione del carcerato e si mette in una prigione più grande e più comoda in compagnia di un altro prigioniere, il vitto è migliorato e gli usano delle attenzioni; il prigioniere che gli si dà per compagno non è un prigioniere, ma un carceriere, od altro individuo al servizio dell' inquisizione. Egli si finge carcerato per lo stesso titolo del suo compagno, ed usa tutte le arti per farlo parlare. Naturalmente un infelice prigioniero, che per molti mesi non ha veduto nessuno, non ha parlato con nessuno, apre il suo cuore e dice tutto quello che pensa. Quando ha detto abbastanza, un segno di convenzione fatto dal finto carcerato al carceriere basta per far conoscere che il merlo ha cantato, come si dice in gergo di prigione: allora il vero prigioniero è ricondotto nella sua antica prigione, ed il traditore consegna nel processo tutte le confessioni del compagno, aggiungendovi anche del suo per farsi merito, le convalida col suo giuramento, e così sono ritenute come confessioni fatte dal prevenuto. Bisogna dire che anche l' Inquisizione ha progredito: questi mezzi sono più atti della corda a trarre di bocca le confessioni.

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    00 04/09/2011 15:56

    I convertitori

    Nota 9. alla lettera diciassettesima di Roma Papale 1882

    Oltre il confessore, il S. Uffizio adopra ancora degli individui per convertire gli eretici nelle sue prigioni. Questi uomini sono per lo più Protestanti che si sono fatti Cattolici. In Roma vi sono parecchi che da preti Puseiti sono divenuti Cattolici romani: è di questi che 1' Inquisizione si serve per mandarli nelle carceri degli accusati di eresia. Ma quando il carcerato giungesse a riconoscere il suo errore e a confessarlo, sarebbe ammesso all' abiura, ma non perciò riacquisterebbe la sua libertà. Egli sarebbe liberato dalla morte, ma condannato al carcere perpetuo. Dopo l'abiura, godrebbe il beneficio di potersi confessare ogni sabato, ed avrebbe il suo breviario se è prete, o libri di divozione se laico.

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    00 04/09/2011 15:57
    Lettera 18°
    www.sentieriantichi.org/romapapale/18_00_conversione.html
    Pedro