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RECEPIRE CORRETTAMENTE IL CONCILIO VATICANO II

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    Coordin.
    00 10/04/2011 20:06
    Ci rammenta il Papa Benedetto XVI nella Lettera ai Vescovi del febbraio 2009:
    "Ma ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio
    deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé
    l'intera storia dottrinale della Chiesa. Chi vuole essere obbediente al Concilio,
    deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le
    radici di cui l'albero vive".
    Segnaliamo volentieri il libro del padre Domenicano, Giovanni Cavalcoli O.P. che aiuta
    a dipanare la matassa dell'ermeneutica sorta nell'interpretazione del Concilio Vaticano
    II, segno di grave rottura con la Tradizione e l'insegnamento della Chiesa...
    Rammentiamo ancora le parole di Benedetto XVI alla Sacra Rota, gennaio 2010,
    attraverso le quali per la prima volta il Pontefice denuncia uno scollamento reale di
    talune PASTORALI dal Magistero ufficiale della Chiesa... dice il Papa:
    "Occorre rifuggire da richiami pseudopastorali che situano le questioni su un
    piano meramente orizzontale, in cui ciò che conta è soddisfare le richieste
    soggettive"
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    Coordin.
    00 10/04/2011 20:06
    PAPAS
    [Modificato da Coordin. 10/04/2011 20:17]
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    Coordin.
    00 10/04/2011 20:10
    Il teologo gesuita Karl Rahner (1900-1984), perito del Concilio Ecumenico Vaticano II, nell'immediato postconcilio si procurò la fama di uno dei più
    grandi teologi cattolici ed interpreti del Concilio. Sennonché però, altri
    teologi eminenti, come il Fabro, Lakebrink, il card. Parente, il Von Balthasar
    e il Card. Ratzinger segnalarono le gravi insidie contenute nel sistema
    rahneriano e la falsità della sua interpretazione modernistica del Concilio,
    non conforme a quella della Chiesa postconciliare. Un'interpretazione non di
    continuità ma di rottura, che forniva pretesti a reazioni ultratradizionaliste.
    Dalle segnalazioni di questi teologi, in un primo tempo inascoltate, sta
    sorgendo un movimento teologico internazionale, fedele alla Chiesa e al
    Papa, il quale si è impegnato a correggere le vedute rahneriane, le cui
    conseguenze si sono rivelate dannose in campo morale, come hanno
    segnalato alcuni moralisti, tra cui Don Dario Composta. Tale movimento
    si propone di contribuire alla vera interpretazione del Concilio, senza per
    questo misconoscere i meriti del teologo tedesco.
    L'AUTORE
    Nato nel 1941 a Ravenna, entrato nell'Ordine Domenicano nel 1971,
    sacerdote dal 1976. Addottorato in Filosofia nel 1970 presso l'Università di
    Bologna e in Teologia nel 1984 presso la Pontificia università S.Tommaso
    d'Aquino di Roma, insegna Metafisica nello Studio Filosofico Domenicano di
    Bologna e Metafisica e Teologia Sistematica nella Facoltà Teologica
    dell'Emilia Romagna. Dal 1982 al 1990 è stato officiale della Segreteria di
    Stato in Vaticano. A Roma ha insegnato per due anni Teologia all'Istituto
    Universitario di Magistero "Maria Assunta". Dal 1992 è Accademico
    Pontificio. Tiene corsi per catechisti a Radio Maria dal 1995. Ha coltivato e
    pubblicato studi di mistica e di demonologia. Studioso del pensiero di
    S.Tommaso d'Aquino, ha partecipato a congressi tomistici internazionali, ha
    pubblicato molti articoli su riviste specializzate ed alcuni libri, soprattutto
    di cristologia: "La gloria di Cristo" (2001); "Il mistero dell'Incarnazione"
    (2003); "Il mistero della Redenzione" (2004). È postulatore nella causa di
    beatificazione del teologo domenicano Tomas Tyn, sul quale ha pubblicato
    "Padre Tomas Tyn, un tradizionalista postconciliare", Fede & Cultura, 2007.
    Ha pubblicato inoltre "La questione dell'eresia oggi", (2008), "La liberazione
    della libertà", Fede & Cultura 2008; "Siate santi!", Fede & Cultura 2008.
    e così....Natale 2005 Benedetto XVI nel fare gli Auguri alla Curia, scandisce il
    suo memorabile discorso che è davvero per noi la bussola per tornare al vero
    Concilio e abbandonare ogni falsa interpretazione...
    ecco le parole del Papa:
    L'ultimo evento di quest'anno su cui vorrei soffermarmi in questa
    occasione è la celebrazione della conclusione del Concilio Vaticano II
    quarant'anni fa.
    Tale memoria suscita la domanda: Qual è stato il risultato del Concilio? È
    stato recepito nel modo giusto? Che cosa, nella recezione del Concilio,
    è stato buono, che cosa insufficiente o sbagliato? Che cosa resta
    ancora da fare?
    Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si
    è svolta in modo piuttosto difficile, anche non volendo applicare a quanto è
    avvenuto in questi anni la descrizione che il grande dottore della Chiesa, san
    Basilio, fa della situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea: egli la
    paragona ad una battaglia navale nel buio della tempesta, dicendo fra
    l'altro: "Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l'uno
    contro l'altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei
    clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando,
    per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede ..."
    (De Spiritu
    Sancto, XXX, 77; PG 32, 213 A; SCh 17bis, pag. 524).
    Non vogliamo applicare proprio questa descrizione drammatica alla situazione
    del dopo-Concilio, ma qualcosa tuttavia di quanto avvenuto vi si riflette.
    Emerge la domanda: Perché la recezione del Concilio, in grandi parti
    della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile?
    Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o ­ come diremmo
    oggi ­ dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di
    applicazione
    .
    I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche
    contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha
    causato confusione, l'altra, silenziosamente ma sempre più
    visibilmente, ha portato e porta frutti.
    Da una parte esiste un'interpretazione che vorrei chiamare "ermeneutica della
    discontinuità e della rottura"; essa non di rado si è potuta avvalere della
    simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna.
    Dall'altra parte c'è l'"ermeneutica della riforma", del rinnovamento nella
    continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un
    soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso,
    unico soggetto del Popolo di Dio in cammino.
    L'ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra
    Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare
    . Essa asserisce che i testi del
    Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del
    Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere
    l'unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose
    vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero
    spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai
    testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da
    essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi
    rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua
    novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo
    spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l'intenzione più profonda,
    sebbene ancora indistinta, del Concilio. In una parola: occorrerebbe seguire
    non i testi del Concilio, ma il suo spirito.
    In tal modo, ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come
    allora si definisca questo spirito e, di conseguenza, si concede spazio ad ogni
    estrosità. Con ciò, però, si fraintende in radice la natura di un Concilio
    come tale. In questo modo, esso viene considerato come una specie di
    Costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la
    Costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del
    mandante, cioè del popolo al quale la costituzione deve servire. I Padri non
    avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del
    resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal
    Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna e,
    partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso. I Vescovi, mediante il Sacramento che hanno
    ricevuto, sono fiduciari del dono del Signore. Sono "amministratori dei misteri
    di Dio" (1 Cor 4,1); come tali devono essere trovati "fedeli e saggi" (cfr Lc
    12,41-48). Ciò significa che devono amministrare il dono del Signore in modo
    giusto, affinché non resti occultato in qualche nascondiglio, ma porti frutto e il
    Signore, alla fine, possa dire all'amministratore: "Poiché sei stato fedele nel
    poco, ti darò autorità su molto" (cfr Mt 25,14-30; Lc 19,11-27). In queste
    parabole evangeliche si esprime la dinamica della fedeltà, che interessa nel
    servizio del Signore, e in esse si rende anche evidente, come in un Concilio
    dinamica e fedeltà debbano diventare una cosa sola.
    All'ermeneutica della discontinuità si oppone l'ermeneutica della riforma, come
    l'hanno presentata dapprima Papa Giovanni XXIII nel suo discorso d'apertura
    del Concilio l'11 ottobre 1962 e poi Papa Paolo VI nel discorso di conclusione
    del 7 dicembre 1965. Vorrei qui citare soltanto le parole ben note di Giovanni
    XXIII, in cui questa ermeneutica viene espressa inequivocabilmente quando
    dice che il Concilio "vuole trasmettere pura ed integra la dottrina, senza
    attenuazioni o travisamenti", e continua: "Il nostro dovere non è
    soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come  se ci
    preoccupassimo unicamente dell'antichità, ma di dedicarci con alacre
    volontà e senza timore a quell'opera, che la nostra età esige... È
    necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere
    fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che
    corrisponda alle esigenze del nostro tempo. Una cosa è infatti il
    deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra veneranda
    dottrina, e altra cosa è il modo col quale esse sono enunciate,
    conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata" (S.
    Oec. Conc. Vat. II Constitutiones Decreta Declarationes, 1974, pp. 863-865).
    È chiaro che questo impegno di esprimere in modo nuovo una determinata
    verità esige una nuova riflessione su di essa e un nuovo rapporto vitale con
    essa; è chiaro pure che la nuova parola può maturare soltanto se nasce da una
    comprensione consapevole della verità espressa e che, d'altra parte, la
    riflessione sulla fede esige anche che si viva questa fede. In questo senso il
    programma proposto da Papa Giovanni XXIII era estremamente esigente,
    come appunto è esigente la sintesi di fedeltà e dinamica. Ma ovunque questa
    interpretazione è stata l'orientamento che ha guidato la recezione del Concilio,
    è cresciuta una nuova vita e sono maturati frutti nuovi. Quarant'anni dopo il
    Concilio possiamo rilevare che il positivo è più grande e più vivo di quanto non
    potesse apparire nell'agitazione degli anni intorno al 1968. Oggi vediamo che
    il seme buono, pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce, e cresce
    così anche la nostra profonda gratitudine per l'opera svolta dal
    Concilio.
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    Coordin.
    00 10/04/2011 20:14
    Paolo VI, nel suo discorso per la conclusione del Concilio, ha poi indicato
    ancora una specifica motivazione per cui un'ermeneutica della discontinuità
    potrebbe sembrare convincente. Nella grande disputa sull'uomo, che
    contraddistingue il tempo moderno, il Concilio doveva dedicarsi in modo
    particolare al tema dell'antropologia. Doveva interrogarsi sul rapporto tra la
    Chiesa e la sua fede, da una parte, e l'uomo ed il mondo di oggi, dall'altra
    (ibid., pp. 1066 s.).
    La questione diventa ancora più chiara, se in luogo
    del termine generico di "mondo di oggi" ne scegliamo un altro più
    preciso: il Concilio doveva determinare in modo nuovo il rapporto tra
    Chiesa ed età moderna. Questo rapporto aveva avuto un inizio molto
    problematico con il processo a Galileo. Si era poi spezzato totalmente,
    quando Kant definì la "religione entro la pura ragione" e quando, nella
    fase radicale della rivoluzione francese, venne diffusa un'immagine
    dello Stato e dell'uomo che alla Chiesa ed alla fede praticamente non
    voleva più concedere alcuno spazio
    .

    Lo scontro della fede della Chiesa con un liberalismo radicale ed anche
    con scienze naturali che pretendevano di abbracciare con le loro
    conoscenze tutta la realtà fino ai suoi confini, proponendosi
    caparbiamente di rendere superflua l'"ipotesi Dio", aveva provocato
    nell'Ottocento, sotto Pio IX, da parte della Chiesa aspre e radicali
    condanne di tale spirito dell'età moderna. Quindi, apparentemente non
    c'era più nessun ambito aperto per un'intesa positiva e fruttuosa, e drastici
    erano pure i rifiuti da parte di coloro che si sentivano i rappresentanti dell'età
    moderna. Nel frattempo, tuttavia, anche l'età moderna aveva conosciuto degli
    sviluppi.
        Ci si rendeva conto che la rivoluzione americana aveva offerto un
    modello di Stato moderno diverso da quello teorizzato dalle tendenze radicali
    emerse nella seconda fase della rivoluzione francese. Le scienze naturali
    cominciavano, in modo sempre più chiaro, a riflettere sul proprio limite,
    imposto dallo stesso loro metodo che, pur realizzando cose grandiose, tuttavia
    non era in grado di comprendere la globalità della realtà. Così, tutte e due le
    parti cominciavano progressivamente ad aprirsi l'una all'altra. Nel
    periodo tra le due guerre mondiali e ancora di più dopo la seconda guerra
    mondiale, uomini di Stato cattolici avevano dimostrato che può esistere uno
    Stato moderno laico, che tuttavia non è neutro riguardo ai valori, ma vive
    attingendo alle grandi fonti etiche aperte dal cristianesimo.

       La dottrina sociale cattolica, via via sviluppatasi, era diventata un modello
    importante tra il liberalismo radicale e la teoria marxista dello Stato. Le scienze
    naturali, che senza riserva facevano professione di un proprio metodo in cui
    Dio non aveva accesso, si rendevano conto sempre più chiaramente che questo
    metodo non comprendeva la totalità della realtà e aprivano quindi nuovamente le porte a Dio, sapendo che la realtà è più grande del metodo naturalistico e di
    ciò che esso può abbracciare. Si potrebbe dire che si erano formati tre cerchi di
    domande, che ora, nell'ora del Vaticano II, attendevano una risposta.
    Innanzitutto occorreva definire in modo nuovo la relazione tra fede e scienze
    moderne; ciò riguardava, del resto, non soltanto le scienze naturali, ma anche
    la scienza storica perché, in una certa scuola, il metodo storico-critico
    reclamava per sé l'ultima parola nella interpretazione della Bibbia e,
    pretendendo la piena esclusività per la sua comprensione delle Sacre Scritture,
    si opponeva in punti importanti all'interpretazione che la fede della Chiesa
    aveva elaborato.

    In secondo luogo, era da definire in modo nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato
    moderno, che concedeva spazio a cittadini di varie religioni ed ideologie,
    comportandosi verso queste religioni in modo imparziale e assumendo
    semplicemente la responsabilità per una convivenza ordinata e tollerante tra i
    cittadini e per la loro libertà di esercitare la propria religione. Con ciò, in terzo
    luogo, era collegato in modo più generale il problema della tolleranza religiosa
    ­ una questione che richiedeva una nuova definizione del rapporto tra fede
    cristiana e religioni del mondo. In particolare, di fronte ai recenti crimini del
    regime nazionalsocialista e, in genere, in uno sguardo retrospettivo su una
    lunga storia difficile, bisognava valutare e definire in modo nuovo il rapporto
    tra la Chiesa e la fede di Israele.

         Sono tutti temi di grande portata - erano i grandi temi della seconda parte del
    Concilio - su cui non è possibile soffermarsi più ampiamente in questo
    contesto. È chiaro che in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un
    unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in
    un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale
    tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro
    esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi ­ fatto questo
    che facilmente sfugge alla prima percezione. È proprio in questo insieme di
    continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera
    riforma.
    In questo processo di novità nella continuità dovevamo imparare a
    capire più concretamente di prima che le decisioni della Chiesa
    riguardanti cose contingenti ­ per esempio, certe forme concrete di
    liberalismo o di interpretazione liberale della Bibbia ­ dovevano
    necessariamente essere esse stesse contingenti, appunto perché
    riferite a una determinata realtà in se stessa mutevole.

    Bisognava imparare a riconoscere che, in tali decisioni, solo i principi esprimono
    l'aspetto duraturo, rimanendo nel sottofondo e motivando la decisione
    dal di dentro.
    Non sono invece ugualmente permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere sottoposte a
    mutamenti. Così le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme
    della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare. Così, ad esempio, se
    la libertà di religione viene considerata come espressione dell'incapacità
    dell'uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del
    relativismo, allora essa da necessità sociale e storica è elevata in modo
    improprio a livello metafisico ed è così privata del suo vero senso, con la
    conseguenza di non poter essere accettata da colui che crede che l'uomo è
    capace di conoscere la verità di Dio e, in base alla dignità interiore della verità,
    è legato a tale conoscenza.

    Una cosa completamente diversa è invece il considerare la libertà di
    religione come una necessità derivante dalla convivenza umana, anzi
    come una conseguenza intrinseca della verità che non può essere
    imposta dall'esterno, ma deve essere fatta propria dall'uomo solo
    mediante il processo del convincimento.
    Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il Decreto sulla libertà
    religiosa un principio essenziale dello Stato moderno, ha ripreso nuovamente il
    patrimonio più profondo della Chiesa. Essa può essere consapevole di trovarsi
    con ciò in piena sintonia con l'insegnamento di Gesù stesso (cfr Mt 22,21),
    come anche con la Chiesa dei martiri, con i martiri di tutti i tempi. La Chiesa
    antica, con naturalezza, ha pregato per gli imperatori e per i responsabili
    politici considerando questo un suo dovere (cfr 1 Tm 2,2); ma, mentre pregava
    per gli imperatori, ha invece rifiutato di adorarli, e con ciò ha respinto
    chiaramente la religione di Stato. I martiri della Chiesa primitiva sono morti
    per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così
    sono morti anche per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della
    propria fede ­ una professione che da nessuno Stato può essere imposta, ma
    invece può essere fatta propria solo con la grazia di Dio, nella libertà della
    coscienza. Una Chiesa missionaria, che si sa tenuta ad annunciare il suo
    messaggio a tutti i popoli, deve necessariamente impegnarsi per la libertà della
    fede.

    Essa vuole trasmettere il dono della verità che esiste per tutti ed assicura
    al contempo i popoli e i loro governi di non voler distruggere con ciò la loro
    identità e le loro culture, ma invece porta loro una risposta che, nel loro
    intimo, aspettano ­ una risposta con cui la molteplicità delle culture non si
    perde, ma cresce invece l'unità tra gli uomini e così anche la pace tra i popoli.
    Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede
    della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha
    rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa
    apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua
    intima natura e la sua vera identità. La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in
    cammino attraverso i tempi; essa prosegue "il suo pellegrinaggio fra le
    persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio", annunziando la morte
    del Signore fino a che Egli venga
    (cfr Lumen gentium, 8).
    Chi si era aspettato che con questo "sì" fondamentale all'età moderna tutte le
    tensioni si dileguassero e l'"apertura verso il mondo" così realizzata
    trasformasse tutto in pura armonia, aveva sottovalutato le interiori tensioni e
    anche le contraddizioni della stessa età moderna; aveva sottovalutato la
    pericolosa fragilità della natura umana che in tutti i periodi della storia e in
    ogni costellazione storica è una minaccia per il cammino dell'uomo. Questi
    pericoli, con le nuove possibilità e con il nuovo potere dell'uomo sulla materia e
    su se stesso, non sono scomparsi, ma assumono invece nuove dimensioni: uno
    sguardo sulla storia attuale lo dimostra chiaramente. Anche nel nostro tempo
    la Chiesa resta un "segno di contraddizione" (Lc 2,34) ­ non senza motivo
    Papa Giovanni Paolo II, ancora da Cardinale, aveva dato questo titolo agli
    Esercizi Spirituali predicati nel 1976 a Papa Paolo VI e alla Curia Romana.

    Non poteva essere intenzione del Concilio abolire questa
    contraddizione del Vangelo nei confronti dei pericoli e degli errori
    dell'uomo. Era invece senz'altro suo intendimento accantonare
    contraddizioni erronee o superflue, per presentare a questo nostro
    mondo l'esigenza del Vangelo in tutta la sua grandezza e purezza. Il
    passo fatto dal Concilio verso l'età moderna, che in modo assai impreciso è
    stato presentato come "apertura verso il mondo", appartiene in definitiva al
    perenne problema del rapporto tra fede e ragione, che si ripresenta in sempre
    nuove forme. La situazione che il Concilio doveva affrontare è senz'altro
    paragonabile ad avvenimenti di epoche precedenti. San Pietro, nella sua prima
    lettera, aveva esortato i cristiani ad essere sempre pronti a dar risposta (apo-
    logia) a chiunque avesse loro chiesto il logos, la ragione della loro fede (cfr
    3,15). Questo significava che la fede biblica doveva entrare in discussione e in
    relazione con la cultura greca ed imparare a riconoscere mediante
    l'interpretazione la linea di distinzione, ma anche il contatto e l'affinità tra loro
    nell'unica ragione donata da Dio. Quando nel XIII secolo, mediante filosofi
    ebrei ed arabi, il pensiero aristotelico entrò in contatto con la cristianità
    medievale formata nella tradizione platonica, e fede e ragione rischiarono di
    entrare in una contraddizione inconciliabile, fu soprattutto san Tommaso
    d'Aquino a mediare il nuovo incontro tra fede e filosofia aristotelica, mettendo
    così la fede in una relazione positiva con la forma di ragione dominante nel suo
    tempo.

    La faticosa disputa tra la ragione moderna e la fede cristiana che, in un primo
    momento, col processo a Galileo, era iniziata in modo negativo, certamente

    conobbe molte fasi, ma col Concilio Vaticano II arrivò l'ora in cui si richiedeva
    un ampio ripensamento. Il suo contenuto, nei testi conciliari, è tracciato
    sicuramente solo a larghe linee, ma con ciò è determinata la direzione
    essenziale, cosicché il dialogo tra ragione e fede, oggi particolarmente
    importante, in base al Vaticano II ha trovato il suo orientamento. Adesso
    questo dialogo è da sviluppare con grande apertura mentale, ma anche con
    quella chiarezza nel discernimento degli spiriti che il mondo con buona ragione
    aspetta da noi proprio in questo momento. Così possiamo oggi con gratitudine
    volgere il nostro sguardo al Concilio Vaticano II: se lo leggiamo e recepiamo
    guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più
    una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa.
    Infine, devo forse ancora far memoria di quel 19 aprile di quest'anno,
    in cui il Collegio Cardinalizio, con mio non piccolo spavento, mi ha
    eletto a successore di Papa Giovanni Paolo II, a successore di san
    Pietro sulla cattedra del Vescovo di Roma? Un tale compito stava del
    tutto fuori di ciò che avrei mai potuto immaginare come mia vocazione.
    Così, fu soltanto con un grande atto di fiducia in Dio che potei dire
    nell'obbedienza il mio "sì" a questa scelta. Come allora, così chiedo
    anche oggi a tutti Voi la preghiera, sulla cui forza e sostegno io conto.
    Al contempo desidero ringraziare di cuore in quest'ora tutti coloro che
    mi hanno accolto e mi accolgono tuttora con tanta fiducia, bontà e
    comprensione, accompagnandomi giorno per giorno con la loro
    preghiera.
      Il Signore Dio alle minacce della storia non si è
    opposto con il potere esteriore, come noi uomini, secondo le prospettive di
    questo nostro mondo, ci saremmo aspettati. L'arma sua è la bontà. Si è
    rivelato come bimbo, nato in una stalla. È proprio così che contrappone il suo
    potere completamente diverso alle potenze distruttive della violenza. Proprio
    così Egli ci salva. Proprio così ci mostra ciò che salva. Vogliamo,  andargli incontro pieni di fiducia, come i pastori, come i sapienti
    dell'Oriente. Chiediamo a Maria di condurci al Signore. Chiediamo a Lui stesso
    di far brillare il suo volto su di noi. Chiediamogli di vincere Egli stesso la
    violenza nel mondo e di farci sperimentare il potere della sua bontà.

    Con questi sentimenti imparto di cuore a tutti Voi la Benedizione Apostolica.
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    Credente
    00 15/10/2012 22:36
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    Coordin.
    00 30/12/2012 00:10

      1. Il Concilio: l’ermeneutica della rottura e quella della continuità

    di P.Raniero Cantalamessa.

    In questa meditazione vorrei riflettere sul secondo grande motivo di celebrazione di questo anno: il cinquantesimo anniversario dell’inizio del concilio Vaticano II.

    Negli ultimi decenni si sono moltiplicati i tentativi di tracciare un bilancio dei risultati del concilio Vaticano II [1]. Non è il caso di proseguire in questa linea, né, d’altra parte, il tempo a disposizione lo permetterebbe. Parallelamente a queste letture analitiche, c’è stato, fin dagli anni stessi del Concilio, il tentativo di una valutazione sintetica, la ricerca, in altre parole, di una chiave di lettura dell’evento conciliare. Io vorrei inserirmi in questo sforzo e tentare, addirittura, una lettura delle diverse chiavi di lettura.

    Esse sono state sostanzialmente tre: aggiornamento, rottura, novità nella continuità. Nell’annunciare al mondo il concilio Giovanni XXIII usò ripetutamente la parola “aggiornamento”, che, grazie a lui, è entrata nel vocabolario universale. Nel discorso di apertura del Concilio diede una prima spiegazione di ciò che intendeva con questo termine:

    “Il ventunesimo Concilio Ecumenico vuole trasmettere integra, non sminuita, non distorta, la dottrina cattolica […].Però noi non dobbiamo soltanto custodire questo prezioso tesoro, come se ci preoccupassimo della sola antichità, ma, alacri, senza timore, dobbiamo continuare nell’opera che la nostra epoca esige, proseguendo il cammino che la Chiesa ha percorso per quasi venti secoli […]. Occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi”[2].

    A mano a mano però che i lavori e le sessioni del Concilio progredivano, si delinearono due schieramenti opposti a seconda che, delle due esigenze espresse dal papa, si accentuava la prima o la seconda: cioè la continuità con il passato o la novità rispetto ad esso. In seno a questi ultimi, la parola aggiornamento finì per essere sostituita dalla parola rottura. Ma con uno spirito e con intenti ben diversi, a seconda del proprio orientamento. Per l’ala cosiddetta progressista, si trattava di una conquista da salutare con entusiasmo; per il fronte opposto, si trattava di una tragedia per l’intera Chiesa.

    Tra questi due fronti – concordi nell’affermazione del fatto, ma opposti nel giudizio su di esso – si colloca la posizione del Magistero papale che parla di “novità nella continuità”. Paolo VI, nella Ecclesiam suam riprende la parola “aggiornamento” di Giovanni XXIII e dice di volerla tenere presente come “indirizzo programmatico”[3]. All’inizio del suo pontificato Giovanni Paolo II ribadì il giudizio del suo predecessore [4] e in più occasioni si espresse nella stessa linea. Ma è stato soprattutto l’attuale Sommo Pontefice Benedetto XVI a spiegare cosa intende il Magistero della Chiesa per “novità nella continuità”. Lo ha fatto pochi mesi dopo la sua elezione, nel noto discorso programmatico alla Curia romana del 22 Dicembre 2005. Ascoltiamone alcuni passaggi:

    “Emerge la domanda: Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. […] All’ermeneutica della discontinuità si oppone l’ermeneutica della riforma”.

    Il papa ammette che una certa discontinuità e rottura c’è stata, ma essa non riguarda i principi e le verità di base della fede cristiana, ma alcune decisioni storiche. Tra queste annovera la situazione di conflittualità creatasi tra la Chiesa e il mondo moderno, culminata nella condanna in blocco della modernità sotto Pio IX, ma anche situazioni più recenti, come quella creata dagli sviluppi della scienza, dal nuovo rapporto tra le religioni con le implicazioni che esso ha per il problema della libertà di coscienza; non ultimo, la tragedia della Shoa che imponeva un ripensamento dell’atteggiamento verso il popolo ebraico. Scrive:

    “È chiaro che in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi – fatto questo che facilmente sfugge alla prima percezione. È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma”.

    Se dal piano assiologico, cioè dei principi e dei valori, passiamo al piano cronologico, potremmo dire che il Concilio rappresenta una rottura e una discontinuità rispetto al passato prossimo della Chiesa e rappresenta invece una continuità rispetto al suo passato remoto. In molti punti, soprattutto sul punto centrale che è l’idea di Chiesa, il concilio ha voluto operare un ritorno alle origini, alle fonti bibliche e patristiche della fede.

    La lettura del Concilio fatta propria dal Magistero, quella cioè della novità nella continuità, aveva avuto un precursore illustre nel “Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana” del cardinal Newman, definito spesso, anche per questo, “il Padre assente del Vaticano II”. Newman dimostra che, quando si tratta di una grande idea filosofica o una credenza religiosa, come è il cristianesimo,

    “non si può giudicare dai suoi inizi quelle che sono le sue virtualità e le mete a cui tende. […]. A seconda delle nuove relazioni che essa si trova ad avere, sorgono pericoli e speranze e principi antichi riappaiono sotto forma nuova. Essa muta insieme a loro per restare sempre identica a se stessa. In un mondo soprannaturale le cose vanno altrimenti, ma qui sulla terra vivere è mutarsi e la perfezione è il risultato di molte trasformazioni”[5]

    San Gregorio Magno anticipava, in qualche modo, questa convinzione quando affermava che la Scrittura “cum legentibus crescit”, “cresce con coloro che la leggono”[6]; cioè, cresce a forza di essere letta e vissuta, a misura che sorgono nuove domande e nuove sfide dalla storia. La dottrina della fede muta, dunque, ma per restare fedele a se stessa; muta nelle contingenze storiche, per non mutare nella sostanza, come diceva Benedetto XVI.

    Un esempio banale, ma indicativo è quello della lingua. Gesù parlava la lingua del suo tempo; non l’ebraico che era la lingua nobile e delle Scritture (il latino del tempo!), ma l’aramaico parlato dalla gente. La fedeltà a questo dato iniziale non poteva consistere, e non consistette, nel continuare a parlare in aramaico ai tutti i futuri ascoltatori del vangelo, ma nel parlare greco ai Greci, latino ai Latini, armeno agli Armeni, copto ai Copti, e così di seguito fino ai nostri giorni. Come diceva Newman, è proprio mutando che spesso si è fedeli al dato originario.

    2. La lettera uccide, lo Spirito da la vita

    Con tutto il rispetto e l’ammirazione dovuti all’immenso e pionieristico contributo del cardinal Newman, a distanza di un secolo e mezzo dal suo saggio e con quello che la cristianità ha vissuto nel frattempo, non si può, tuttavia, non rilevare anche una lacuna nello svolgimento del suo argomento: la quasi totale assenza dello Spirito Santo. Nella dinamica di sviluppo della dottrina cristiana, non si tiene sufficiente conto del ruolo preminente che Gesù aveva riservato al Paraclito nel rivelare ai discepoli quelle verità di cui essi non potevano ancora “portare il peso” e nel condurli “alla verità tutta intera” (Gv. 16,12-13).

    Che cos’é che permette di risolvere il paradosso e parlare di novità nella continuità, di permanenza nel cambiamento, se non appunto l’azione dello Spirito Santo nella Chiesa? Lo aveva capito perfettamente sant’Ireneo quando afferma che la rivelazione è come un “deposito prezioso contenuto in un vaso di valore che, grazie allo Spirito di Dio, ringiovanisce sempre e fa ringiovanire anche il vaso che la contiene” [7]. Lo Spirito Santo non dice parole nuove, non crea nuovi sacramenti, nuove istituzioni, ma rinnova e vivifica perennemente le parole, i sacramenti e le istituzioni create da Gesù. Non fa cose nuove, ma fa nuove le cose!

    L’insufficiente attenzione al ruolo dello Spirito Santo spiega molte delle difficoltà createsi nella recezione del Concilio Vaticano II. La Tradizione, in nome della quale alcuni hanno rifiutato il concilio, era una Tradizione dove lo Spirito Santo non giocava alcun ruolo. Era un insieme di credenze e di pratiche fissato una volta per tutte, non l’onda della predicazione apostolica che avanza e si propaga nei secoli e, come ogni onda, non si può cogliere se non in movimento. Congelare la Tradizione e farla partire, o terminare, a un certo punto, significa farne una morta tradizione e non come la definisce Ireneo una “vivente Tradizione”. Charles Péguy esprime, da poeta, questa grande verità teologica:

    “Gesù non ci ha dato delle parole morte
    Che noi dobbiamo chiudere in piccole scatole (O in grandi)
    E che dobbiamo conservare in olio rancido…
    Come le mummie d’Egitto.
    Gesù Cristo non ci ha dato delle conserve di parole da conservare.
    Ma ci ha dato delle parole vive da nutrire…
    È da noi che dipende, infermi e carnali,
    Di far vivere e di nutrire e mantenere vive nel tempo
    Quelle parole pronunciate vive nel tempo”[8].

    Bisogna dire subito però che sul fronte dell’opposto estremismo le cose non andavano diversamente. Qui si parlava volentieri dello “spirito del Concilio”, ma non si trattava, purtroppo, dello Spirito Santo. Per “spirito del Concilio si intendeva quel di più di slancio, di coraggio innovativo, che non sarebbe potuto entrare nei testi del Concilio a causa delle resistenze di alcuni e del necessario compromesso tra le parti.

    Vorrei ora cercare di illustrare quella che a me sembra la vera chiave di lettura pneumatica del Concilio, cioè qual è il ruolo dello Spirito Santo nell’attuazione del Concilio. Riprendendo un pensiero ardito di sant’Agostino a proposito del detto paolino sulla lettera e lo Spirito (2 Cor 3,6), san Tommaso d’Aquino scrive:

    “Per lettera si intende ogni legge scritta che resta al di fuori dell’uomo, anche i precetti morali contenuti nel Vangelo; per cui anche la lettera del Vangelo ucciderebbe, se non si aggiungesse, dentro, la grazia della fede che sana”[9].

    Nello stesso contesto, il santo Dottore afferma: “La legge nuova è principalmente la stessa grazia dello Spirito Santo che è data ai credenti”[10]. I precetti del Vangelo sono anch’essi la legge nuova, ma in senso materiale, quanto al contenuto; la grazia dello Spirito Santo è la legge nuova in senso formale, in quanto dà la forza di mettere in pratica gli stessi precetti evangelici. È quella che Paolo definisce “la legge dello Spirito che da la vita in Cristo Gesù” (Rom 8, 2).

    Questo è un principio universale che si applica a ogni legge. Se perfino i precetti evangelici, senza la grazia dello Spirito Santo, sarebbero “lettera che uccide”, cosa dire dei precetti della Chiesa, e cosa dire, nel nostro caso, dei decreti del Concilio Vaticano II? La “implementazione”, o l’attuazione del Concilio non avviene dunque recto tramite, non bisogna cercarla nell’applicazione letterale e quasi meccanica del Concilio, ma “nello Spirito”, intendendo con ciò lo Spirito Santo e non un vago “spirito del concilio” aperto a ogni soggettivismo. Il Magistero papale è stato il primo a riconoscere questa esigenza. Giovanni Paolo II, nel 1981, scriveva:

    “Tutta l’opera di rinnovamento della Chiesa, che il Concilio Vaticano II ha così provvidenzialmente proposto e iniziato – rinnovamento che deve essere ad un tempo «aggiornamento» e consolidamento in ciò che è eterno e costitutivo per la missione della Chiesa – non può realizzarsi se non nello Spirito Santo, cioè con l’aiuto della sua luce e della sua potenza”[11].

    3. Dove cercare i frutti del Vaticano II

    C’è stata, nella realtà, questa sospirata “nuova Pentecoste”? Un noto studioso di Newman, Ian Ker, ha messo in luce il contributo che egli può dare, oltre che alla comprensione dello svolgimento del Concilio, anche alla comprensione del post-Concilio[12]. A seguito della definizione dell’infallibilità papale nel Concilio Vaticano I nel 1870, il cardinal Newman fu indotto a fare una riflessione generale sui concili e sul senso delle loro definizioni. La sua conclusione fu che i concili possono avere spesso effetti non intesi sul momento da quelli che vi parteciparono. Questi vi possono vedere molto di più, o molto di meno, di quello che in seguito tali decisioni produrranno.

    In questo modo, Newman non faceva che applicare alle definizioni conciliari il principio dello sviluppo che aveva illustrato a proposito della dottrina cristiana in genere. Un dogma, come ogni grande idea, non si comprende appieno se non dopo che se ne sono viste le conseguenze e gli sviluppi storici. Dopo che il fiume –per usare la sua immagine – dal terreno accidentato che l’ha visto nascere, scendendo, trova infine il suo letto più ampio e profondo[13]. Successe così alla definizione dell’infallibilità papale che nel clima acceso del momento sembrò a molti contenere molto di più di quello che di fatto la Chiesa e il papa stesso desunsero da essa. Essa non rese ormai inutile ogni futuro concilio ecumenico, come qualcuno sul momento temette o sperò; il Vaticano II ne è la conferma[14].

    Tutto ciò trova una singolare conferma nel principio ermeneutico di Gadamer della “storia degli effetti” (Wirkungsgeschichte), secondo cui per capire un testo bisogna tener conto degli effetti che esso ha prodotto nella storia, inserendosi in questa storia e dialogando con essa[15]. È quello che avviene in modo esemplare nella lettura spirituale della Scrittura. Essa non spiega il testo solo alla luce di ciò che lo ha preceduto, come fa la lettura storico-filologica con la ricerca delle fonti, ma anche alla luce di ciò che lo ha seguito, spiega la profezia alla luce della sua realizzazione in Cristo, l’Antico testamento alla luce del Nuovo.

    Tutto questo getta una singolare luce sul tempo del post-Concilio. Anche qui le vere realizzazioni si collocano forse da una parte diversa da quella dove noi guardavamo. Noi guardavamo al cambiamento nelle strutture e istituzioni, a una diversa distribuzione del potere, alla lingua da usare nella liturgia, e non ci accorgevamo di quanto queste novità fossero piccole in confronto a quella che lo Spirito Santo stava operando. Abbiamo pensato di rompere con le nostre mani gli otri vecchi, mentre Dio ci offriva il suo metodo di rompere gli otri vecchi che consiste nel mettere in essi il vino nuovo.

    Alla domanda se c’è stata una nuova Pentecoste, si deve rispondere senza esitazione: Sì! Quale ne è il segno più convincente? Il rinnovamento della qualità della vita cristiana, là dove tale Pentecoste è stata accolta. Il fatto dottrinalmente più qualificante del Vaticano II sono i primi due capitoli della Lumen gentium, nei quali si definisce Chiesa come sacramento e come popolo di Dio in cammino sotto la guida dello Spirito Santo, animata dai suoi carismi, sotto la guida della gerarchia. La Chiesa, insomma, come mistero e istituzione; come koinonia, prima che gerarchia. Giovanni Paolo II ha rilanciato questa visione facendo della sua attuazione l’impegno prioritario al momento di entrare nel nuovo millennio” [16].

    Ci domandiamo: dov’è che questa immagine di Chiesa dai documenti è passata alla vita? Dov’è che essa ha preso “carne e sangue”[17]? Dov’è che la vita cristiana è vissuta secondo “la legge dello Spirito”, con gioia e convinzione, per attrazione e non per costrizione? Dov’è che la parola di Dio è tenuta in sommo onore, si manifestano i carismi, è più sentita l’ansia per una nuova evangelizzazione e per l’unità dei cristiani?

    Trattandosi di un fatto interiore che avviene nel cuore delle persone, la risposta ultima a queste domande la conosce solo Dio. Dovremmo ripetere, a proposito della nuova Pentecoste, quello che Gesù diceva del regno di Dio: “Nessuno dirà: ‘Eccolo qui’, oppure: ‘Eccolo là’. Perché il regno di Dio è in mezzo voi” (Lc 17, 21). Possiamo tuttavia cogliere dei segni, aiutati anche dalla sociologia religiosa che si occupa di queste cose. Da questo punto di vista, la risposta che da più parti si da a quella domanda è: nei movimenti ecclesiali!

    Bisogna precisare subito una cosa. Dei movimenti ecclesiali, fanno parte, nella sostanza se non nella forma, anche quelle parrocchie, associazioni di fedeli e nuove comunità, nelle quali si vive la stessa koinonia e la stessa qualità di vita cristiana. Da questo punto di vista, movimenti e parrocchie non vanno visti in opposizione o in concorrenza tra di loro, ma unite nella realizzazione, in modo diverso, di uno stesso modello di vita cristiana. Tra di esse vanno annoverate anche talune delle cosiddette “comunità di base, quelle in cui il fattore politico non ha preso il sopravvento su quello religioso.

    Si deve insistere sul corretto nome: movimenti “ecclesiali”, non movimenti “laicali”. La maggioranza di essi sono formati, non da una sola, ma da tutte le componenti ecclesiali: laici, certo, ma anche vescovi, sacerdoti, religiosi, suore. Rappresentano l’insieme dei carismi, il “popolo di Dio” della Lumen gentium. È solo per ragioni pratiche (perché esiste già la Congregazione del clero e quella dei religiosi) se di essi si occupa il “Pontificio Consiglio dei laici”.

    Giovanni Paolo II vedeva in questi movimenti e comunità parrocchiali vive “i segni di una nuova primavera della Chiesa”[18]. Nello stesso senso si è espresso, in diverse occasioni, Papa Benedetto XVI [19]. Nell’omelia della Messa crismale del Giovedì Santo del 2012 ha detto:

    “Chi guarda alla storia dell’epoca post-conciliare può riconoscere la dinamica del vero rinnovamento, che ha spesso assunto forme inattese in movimenti pieni di vita e che rende quasi tangibili l’inesauribile vivacità della santa Chiesa, la presenza e l’azione efficace dello Spirito Santo”.

    Parlando dei segni di una nuova Pentecoste, non si può fare a meno di menzionare in particolare, se non altro per la vastità del fenomeno, il Rinnovamento carismatico, o Rinnovamento nello Spirito, anche se esso non è, propriamente parlando, un movimento ecclesiale nel senso sociologico del termine (non ha un fondatore, una struttura, una spiritualità propria), ma è piuttosto una corrente di grazia destinata a disperdersi nella Chiesa come una scarica elettrica nella massa.

    Quando, per la prima volta, nel 1973, uno degli artefici maggiori del Vaticano II, il cardinal Suenens, sentì parlare del fenomeno, stava scrivendo un libro intitolato “Lo Spirito Santo – fonte delle nostre speranze”, ed ecco cosa racconta nelle sue memorie:

    “Smisi di scrivere il libro. Pensai che era una questione della più elementare coerenza prestare attenzione all’azione dello Spirito Santo, per quanto essa potesse manifestarsi in modo sorprendente. Ero particolarmente interessato dalla notizia del risveglio dei carismi, dal momento che il Concilio aveva invocato un tale risveglio”.

    Ed ecco cosa scrisse dopo aver costatato di persona e vissuto dal di dentro tale esperienza, condivisa ora da milioni di altre persone:

    “Improvvisamente, san Paolo e gli Atti degli apostoli sembrano diventare vivi e divenire parte del presente; quello che era autenticamente vero nel passato, sembra accadere di nuovo sotto i nostri occhi. È una scoperta della vera azione dello Spirito Santo che è sempre all’opera, come Gesù stesso ha promesso. Egli mantiene la sua parola. È di nuovo una esplosione dello Spirito di Pentecoste, una gioia che era diventata sconosciuta alla Chiesa”[20].

    I movimenti ecclesiali e le nuove comunità non esauriscono certo tutte le potenzialità e le attese di rinnovamento del Concilio, ma rispondono alla più importante di esse, almeno agli occhi di Dio. Essi non sono esenti da debolezze e a volte anche da derive parziali; ma quale altra grande novità è apparsa nella storia della Chiesa senza sbavature umane? Non avvenne la stessa cosa quando, nel secolo XIII, apparvero gli ordini mendicanti? Anche allora furono i pontefici romani, soprattutto Innocenzo III, a riconoscere ed accogliere per primi la grazia del momento e ad incoraggiare il resto dell’episcopato a fare altrettanto.

    4. Una promessa adempiuta

    Allora, qual è, ci domandiamo, il significato del Concilio, inteso come l’insieme dei documenti da esso prodotti, la Dei Verbum, la Lumen gentium, Gaudium et spes, Nostra aetate, ecc.? Li lasceremo da parte per attenderci tutto dallo Spirito? La risposta è contenuta nella frase con cui Agostino riassume il rapporto tra la legge e la grazia: “È stata data la legge perché si cercasse la grazia ed è stata data la grazia perché si osservasse la legge” [21]. Lo Spirito non dispensa dunque dal valorizzare anche la lettera, cioè i decreti, del Vaticano II; al contrario, è proprio lui che spinge a studiarli e a metterli in pratica. E difatti, fuori dell’ambito scolastico e accademico dove essi sono materia di discussione e di studio, è proprio nelle realtà ecclesiali ricordate sopra che essi sono tenuti in maggiore considerazione.

    L’ho sperimentato su me stesso. Io mi sono liberato dai pregiudizi contro gli ebrei e contro i protestanti, assorbiti negli anni della formazione, non per aver letto Nostra aetate, ma per aver fatto anch’io, nel mio piccolo e per merito di alcuni fratelli, l’esperienza della nuova Pentecoste. Dopo ho sentito il bisogno di rileggere Nostrae aetate, come ho riletto la Dei Verbum dopo che lo Spirito ha fatto nascere in me un amore nuovo per la parola di Dio e per l’evangelizzazione. Il movimento però può essere nei due sensi: alcuni – per usare il linguaggio di Agostino – dalla lettera sono indotti a cercare lo Spirito, altri dallo Spirito sono spinti ad osservare la lettera.

    Il poeta Thomas S. Eliot ha scritto dei versi che ci possono illuminare sul senso delle celebrazioni in atto per i 50 anni del Vaticano II:

    “Non dobbiamo arrestarci nella nostra esplorazione
    E il termine del nostro esplorare
    Sarà arrivare là donde siamo partiti
    E conoscere il luogo per la prima volta” [22]

    Dopo tante esplorazioni e controversie, siamo ricondotti anche noi là da dove siamo partiti, cioè all’evento del Concilio. Ma tutto il lavorio intorno ad esso non è stato vano perché, nel senso più profondo, solo ora noi siamo in grado di “conoscere il luogo per la prima volta”, cioè di valutarne il vero significato, sconosciuto agli stessi Padri del concilio.

    Questo permette di dire che l’albero cresciuto dal concilio è coerente con il seme da cui è nato. Da che cosa è nato infatti l’evento del Vaticano II? Le parole con cui Giovanni XXIII descrive la commozione che accompagnò “l’improvviso fiorire nel suo cuore e dalle sue labbra della semplice parola concilio”[23], hanno tutti i segni di una ispirazione profetica. Nel discorso di chiusura della prima sessione egli parlò del concilio come di “una nuova desiderata Pentecoste, che arricchirà abbondantemente la Chiesa di energie spirituali”[24].

    A 50 anni di distanza non possiamo che costatare il compimento da parte di Dio della promessa fatta alla Chiesa per bocca del suo umile servitore, il beato Giovanni XXIII. Se ci sembra che parlare di una nuova Pentecoste, sia per lo meno esagerato, visti tutti i problemi e le controversie sorti nella Chiesa dopo e a causa del Concilio, non dobbiamo far altro che andare a rileggerci gli Atti degli apostoli e costatare come problemi e controversie non mancarono neppure dopo la prima Pentecoste. E non meno accesi di quelli di oggi!

    *

    NOTE

    [1] Cf. Il Concilio Vaticano II. Recezione e attualità alla luce del Giubileo, a cura di R. Fisichella, Ed. San Paolo 2000.

    [2] Giovanni XXIII, Discorso di apertura del Concilio, nr. 6,5. (I testi del Concilio sono citati nella versione presente nel sito internet ufficiale del Vaticano).

    [3] Paolo VI, Enc. Ecclesiam suam, 52; cf. anche Insegnamenti di Paolo VI, vol. IX (1971), p. 318.

    [4] Giovanni Paolo II, Udienza generale del 1 Agosto 1979.

    [5] J.H. Newman, Lo sviluppo della dottrina cristiana, Bologna, Il Mulino 1967, pp.46 s.

    [6] Gregorio Magno, Commento a Giobbe XX,1 (CC 143 A, p. 1003).

    [7] S. Ireneo, Contro le eresie, III, 24,1.

    [8] Ch. Péguy, Le Porche du mystère de la deuxième vertu, La Pléiade, Paris 1975, pp. 588 s. (trad. ital. di M. Cassola, Milano 1978, pp. 60-62).

    [9] Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-IIae, q. 106, a. 2.

    [10] Ibid., q. 106, a. 1; cf già Agostino, De Spiritu et littera, 21, 36.

    [11] Giovanni Paolo II, Lettera apostolica A Concilio Constantinopolitano I, 25 marzo 1981, in AAS 73 (1981) 515-527.

    [12] I. Ker, Newman, the Councils, and Vatican II, in “Communio”. International Catholic Review, 2001, pp. 708-728.

    [13] Newman, op. cit. p.46.

    [14] Un esempio ancora più chiaro è quello che successe con il concilio ecumenico di Efeso del 431. La definizione di Maria come la Theotokos, Madre di Dio, nelle intenzioni del concilio e soprattutto del suo promotore Cirillo di Alessandria, doveva servire unicamente ad affermare l’unità di persona di Cristo. Di fatto, essa diede il via all’immensa fioritura di devozione alla Vergine e alla costruzione delle prime basiliche in suo onore, tra cui quella di Santa Maria Maggiore a Roma. L’unità di persona di Cristo fu definita in un altro contesto e in maniera più equilibrata, dal concilio di Calcedonia del 451.

    [15] Cf H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode, Tübingen 1960.

    [16] Novo millennio ineunte, 42.

    [17] I. Ker, art. cit. p.727.

    [18] Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte,46.

    [19] Cfr. il suo discorso ai movimenti ecclesiali la vigilia Pentecoste 2006 in: The Beauty of Being a Christian. Movements in the Church. Proceedings of the Second World Congress on the Ecclesial Movements and New Communities (Frascati 31 Maggio – 1 Giugno 2006), Roma, Libreria Editrice Vaticana 2007.

    [20] Card. L.-J. Suenens, Memories and Hopes, Dublino, Veritas 1992, p. 267.

    [21] Agostino, De Spiritu et littera ,19,34.

    [22] T.S. Eliot, Four Quartets V , The Complete Poems and Plays, Faber & Faber, Londra 1969, p.197:

    “We shall not cease from exploration
    And the end of our exploring
    Will be to arrive where we started
    And know the place for the first time”

    [23] Giovanni XXIII, Discorso di apertura del concilio Vaticano II, 11 Ottobre 1962, nr. 3,1

    [24] Giovanni XXIII, Discorso di chiusura del primo periodo del concilio, 8 dicembre 1962, nr. 3,6.

    [Modificato da Coordin. 30/12/2012 00:15]
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    Coordin.
    00 30/12/2012 00:11

     

     

     

     

    Seconda Predica di Avvento 2012

    1. Il Concilio: l’ermeneutica della rottura e quella della continuità

    In questa meditazione vorrei riflettere sul secondo grande motivo di celebrazione di questo anno: il cinquantesimo anniversario dell’inizio del concilio Vaticano II.

    Negli ultimi decenni si sono moltiplicati i tentativi di tracciare un bilancio dei risultati del concilio Vaticano II [1]. Non è il caso di proseguire in questa linea, né, d’altra parte, il tempo a disposizione lo permetterebbe. Parallelamente a queste letture analitiche, c’è stato, fin dagli anni stessi del Concilio, il tentativo di una valutazione sintetica, la ricerca, in altre parole, di una chiave di lettura dell’evento conciliare. Io vorrei inserirmi in questo sforzo e tentare, addirittura, una lettura delle diverse chiavi di lettura.

    Esse sono state sostanzialmente tre: aggiornamento, rottura, novità nella continuità. Nell’annunciare al mondo il concilio Giovanni XXIII usò ripetutamente la parola “aggiornamento”, che, grazie a lui, è entrata nel vocabolario universale. Nel discorso di apertura del Concilio diede una prima spiegazione di ciò che intendeva con questo termine:

    “Il ventunesimo Concilio Ecumenico vuole trasmettere integra, non sminuita, non distorta, la dottrina cattolica […].Però noi non dobbiamo soltanto custodire questo prezioso tesoro, come se ci preoccupassimo della sola antichità, ma, alacri, senza timore, dobbiamo continuare nell’opera che la nostra epoca esige, proseguendo il cammino che la Chiesa ha percorso per quasi venti secoli […]. Occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi”[2].

    A mano a mano però che i lavori e le sessioni del Concilio progredivano, si delinearono due schieramenti opposti a seconda che, delle due esigenze espresse dal papa, si accentuava la prima o la seconda: cioè la continuità con il passato o la novità rispetto ad esso. In seno a questi ultimi, la parola aggiornamento finì per essere sostituita dalla parola rottura. Ma con uno spirito e con intenti ben diversi, a seconda del proprio orientamento. Per l’ala cosiddetta progressista, si trattava di una conquista da salutare con entusiasmo; per il fronte opposto, si trattava di una tragedia per l’intera Chiesa.

    Tra questi due fronti – concordi nell’affermazione del fatto, ma opposti nel giudizio su di esso – si colloca la posizione del Magistero papale che parla di “novità nella continuità”. Paolo VI, nella Ecclesiam suam riprende la parola “aggiornamento” di Giovanni XXIII e dice di volerla tenere presente come “indirizzo programmatico”[3]. All’inizio del suo pontificato Giovanni Paolo II ribadì il giudizio del suo predecessore [4] e in più occasioni si espresse nella stessa linea. Ma è stato soprattutto l’attuale Sommo Pontefice Benedetto XVI a spiegare cosa intende il Magistero della Chiesa per “novità nella continuità”. Lo ha fatto pochi mesi dopo la sua elezione, nel noto discorso programmatico alla Curia romana del 22 Dicembre 2005. Ascoltiamone alcuni passaggi:

    “Emerge la domanda: Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. […] All’ermeneutica della discontinuità si oppone l’ermeneutica della riforma”.

    Il papa ammette che una certa discontinuità e rottura c’è stata, ma essa non riguarda i principi e le verità di base della fede cristiana, ma alcune decisioni storiche. Tra queste annovera la situazione di conflittualità creatasi tra la Chiesa e il mondo moderno, culminata nella condanna in blocco della modernità sotto Pio IX, ma anche situazioni più recenti, come quella creata dagli sviluppi della scienza, dal nuovo rapporto tra le religioni con le implicazioni che esso ha per il problema della libertà di coscienza; non ultimo, la tragedia della Shoa che imponeva un ripensamento dell’atteggiamento verso il popolo ebraico. Scrive:

    “È chiaro che in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi – fatto questo che facilmente sfugge alla prima percezione. È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma”.

    Se dal piano assiologico, cioè dei principi e dei valori, passiamo al piano cronologico, potremmo dire che il Concilio rappresenta una rottura e una discontinuità rispetto al passato prossimo della Chiesa e rappresenta invece una continuità rispetto al suo passato remoto. In molti punti, soprattutto sul punto centrale che è l’idea di Chiesa, il concilio ha voluto operare un ritorno alle origini, alle fonti bibliche e patristiche della fede.

    La lettura del Concilio fatta propria dal Magistero, quella cioè della novità nella continuità, aveva avuto un precursore illustre nel “Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana” del cardinal Newman, definito spesso, anche per questo, “il Padre assente del Vaticano II”. Newman dimostra che, quando si tratta di una grande idea filosofica o una credenza religiosa, come è il cristianesimo,

    “non si può giudicare dai suoi inizi quelle che sono le sue virtualità e le mete a cui tende. […]. A seconda delle nuove relazioni che essa si trova ad avere, sorgono pericoli e speranze e principi antichi riappaiono sotto forma nuova. Essa muta insieme a loro per restare sempre identica a se stessa. In un mondo soprannaturale le cose vanno altrimenti, ma qui sulla terra vivere è mutarsi e la perfezione è il risultato di molte trasformazioni”[5]

    San Gregorio Magno anticipava, in qualche modo, questa convinzione quando affermava che la Scrittura “cum legentibus crescit”, “cresce con coloro che la leggono”[6]; cioè, cresce a forza di essere letta e vissuta, a misura che sorgono nuove domande e nuove sfide dalla storia. La dottrina della fede muta, dunque, ma per restare fedele a se stessa; muta nelle contingenze storiche, per non mutare nella sostanza, come diceva Benedetto XVI.

    Un esempio banale, ma indicativo è quello della lingua. Gesù parlava la lingua del suo tempo; non l’ebraico che era la lingua nobile e delle Scritture (il latino del tempo!), ma l’aramaico parlato dalla gente. La fedeltà a questo dato iniziale non poteva consistere, e non consistette, nel continuare a parlare in aramaico ai tutti i futuri ascoltatori del vangelo, ma nel parlare greco ai Greci, latino ai Latini, armeno agli Armeni, copto ai Copti, e così di seguito fino ai nostri giorni. Come diceva Newman, è proprio mutando che spesso si è fedeli al dato originario.

    2. La lettera uccide, lo Spirito da la vita

    Con tutto il rispetto e l’ammirazione dovuti all’immenso e pionieristico contributo del cardinal Newman, a distanza di un secolo e mezzo dal suo saggio e con quello che la cristianità ha vissuto nel frattempo, non si può, tuttavia, non rilevare anche una lacuna nello svolgimento del suo argomento: la quasi totale assenza dello Spirito Santo. Nella dinamica di sviluppo della dottrina cristiana, non si tiene sufficiente conto del ruolo preminente che Gesù aveva riservato al Paraclito nel rivelare ai discepoli quelle verità di cui essi non potevano ancora “portare il peso” e nel condurli “alla verità tutta intera” (Gv. 16,12-13).

    Che cos’é che permette di risolvere il paradosso e parlare di novità nella continuità, di permanenza nel cambiamento, se non appunto l’azione dello Spirito Santo nella Chiesa? Lo aveva capito perfettamente sant’Ireneo quando afferma che la rivelazione è come un “deposito prezioso contenuto in un vaso di valore che, grazie allo Spirito di Dio, ringiovanisce sempre e fa ringiovanire anche il vaso che la contiene” [7]. Lo Spirito Santo non dice parole nuove, non crea nuovi sacramenti, nuove istituzioni, ma rinnova e vivifica perennemente le parole, i sacramenti e le istituzioni create da Gesù. Non fa cose nuove, ma fa nuove le cose!

    L’insufficiente attenzione al ruolo dello Spirito Santo spiega molte delle difficoltà createsi nella recezione del Concilio Vaticano II. La Tradizione, in nome della quale alcuni hanno rifiutato il concilio, era una Tradizione dove lo Spirito Santo non giocava alcun ruolo. Era un insieme di credenze e di pratiche fissato una volta per tutte, non l’onda della predicazione apostolica che avanza e si propaga nei secoli e, come ogni onda, non si può cogliere se non in movimento. Congelare la Tradizione e farla partire, o terminare, a un certo punto, significa farne una morta tradizione e non come la definisce Ireneo una “vivente Tradizione”. Charles Péguy esprime, da poeta, questa grande verità teologica:

    “Gesù non ci ha dato delle parole morte
    Che noi dobbiamo chiudere in piccole scatole (O in grandi)
    E che dobbiamo conservare in olio rancido…
    Come le mummie d’Egitto.
    Gesù Cristo non ci ha dato delle conserve di parole da conservare.
    Ma ci ha dato delle parole vive da nutrire…
    È da noi che dipende, infermi e carnali,
    Di far vivere e di nutrire e mantenere vive nel tempo
    Quelle parole pronunciate vive nel tempo”[8].

    Bisogna dire subito però che sul fronte dell’opposto estremismo le cose non andavano diversamente. Qui si parlava volentieri dello “spirito del Concilio”, ma non si trattava, purtroppo, dello Spirito Santo. Per “spirito del Concilio si intendeva quel di più di slancio, di coraggio innovativo, che non sarebbe potuto entrare nei testi del Concilio a causa delle resistenze di alcuni e del necessario compromesso tra le parti.

    Vorrei ora cercare di illustrare quella che a me sembra la vera chiave di lettura pneumatica del Concilio, cioè qual è il ruolo dello Spirito Santo nell’attuazione del Concilio. Riprendendo un pensiero ardito di sant’Agostino a proposito del detto paolino sulla lettera e lo Spirito (2 Cor 3,6), san Tommaso d’Aquino scrive:

    “Per lettera si intende ogni legge scritta che resta al di fuori dell’uomo, anche i precetti morali contenuti nel Vangelo; per cui anche la lettera del Vangelo ucciderebbe, se non si aggiungesse, dentro, la grazia della fede che sana”[9].

    Nello stesso contesto, il santo Dottore afferma: “La legge nuova è principalmente la stessa grazia dello Spirito Santo che è data ai credenti”[10]. I precetti del Vangelo sono anch’essi la legge nuova, ma in senso materiale, quanto al contenuto; la grazia dello Spirito Santo è la legge nuova in senso formale, in quanto dà la forza di mettere in pratica gli stessi precetti evangelici. È quella che Paolo definisce “la legge dello Spirito che da la vita in Cristo Gesù” (Rom 8, 2).

    Questo è un principio universale che si applica a ogni legge. Se perfino i precetti evangelici, senza la grazia dello Spirito Santo, sarebbero “lettera che uccide”, cosa dire dei precetti della Chiesa, e cosa dire, nel nostro caso, dei decreti del Concilio Vaticano II? La “implementazione”, o l’attuazione del Concilio non avviene dunque recto tramite, non bisogna cercarla nell’applicazione letterale e quasi meccanica del Concilio, ma “nello Spirito”, intendendo con ciò lo Spirito Santo e non un vago “spirito del concilio” aperto a ogni soggettivismo. Il Magistero papale è stato il primo a riconoscere questa esigenza. Giovanni Paolo II, nel 1981, scriveva:

    “Tutta l’opera di rinnovamento della Chiesa, che il Concilio Vaticano II ha così provvidenzialmente proposto e iniziato – rinnovamento che deve essere ad un tempo «aggiornamento» e consolidamento in ciò che è eterno e costitutivo per la missione della Chiesa – non può realizzarsi se non nello Spirito Santo, cioè con l’aiuto della sua luce e della sua potenza”[11].

    3. Dove cercare i frutti del Vaticano II

    C’è stata, nella realtà, questa sospirata “nuova Pentecoste”? Un noto studioso di Newman, Ian Ker, ha messo in luce il contributo che egli può dare, oltre che alla comprensione dello svolgimento del Concilio, anche alla comprensione del post-Concilio[12]. A seguito della definizione dell’infallibilità papale nel Concilio Vaticano I nel 1870, il cardinal Newman fu indotto a fare una riflessione generale sui concili e sul senso delle loro definizioni. La sua conclusione fu che i concili possono avere spesso effetti non intesi sul momento da quelli che vi parteciparono. Questi vi possono vedere molto di più, o molto di meno, di quello che in seguito tali decisioni produrranno.

    In questo modo, Newman non faceva che applicare alle definizioni conciliari il principio dello sviluppo che aveva illustrato a proposito della dottrina cristiana in genere. Un dogma, come ogni grande idea, non si comprende appieno se non dopo che se ne sono viste le conseguenze e gli sviluppi storici. Dopo che il fiume –per usare la sua immagine – dal terreno accidentato che l’ha visto nascere, scendendo, trova infine il suo letto più ampio e profondo[13]. Successe così alla definizione dell’infallibilità papale che nel clima acceso del momento sembrò a molti contenere molto di più di quello che di fatto la Chiesa e il papa stesso desunsero da essa. Essa non rese ormai inutile ogni futuro concilio ecumenico, come qualcuno sul momento temette o sperò; il Vaticano II ne è la conferma[14].

    Tutto ciò trova una singolare conferma nel principio ermeneutico di Gadamer della “storia degli effetti” (Wirkungsgeschichte), secondo cui per capire un testo bisogna tener conto degli effetti che esso ha prodotto nella storia, inserendosi in questa storia e dialogando con essa[15]. È quello che avviene in modo esemplare nella lettura spirituale della Scrittura. Essa non spiega il testo solo alla luce di ciò che lo ha preceduto, come fa la lettura storico-filologica con la ricerca delle fonti, ma anche alla luce di ciò che lo ha seguito, spiega la profezia alla luce della sua realizzazione in Cristo, l’Antico testamento alla luce del Nuovo.

    Tutto questo getta una singolare luce sul tempo del post-Concilio. Anche qui le vere realizzazioni si collocano forse da una parte diversa da quella dove noi guardavamo. Noi guardavamo al cambiamento nelle strutture e istituzioni, a una diversa distribuzione del potere, alla lingua da usare nella liturgia, e non ci accorgevamo di quanto queste novità fossero piccole in confronto a quella che lo Spirito Santo stava operando. Abbiamo pensato di rompere con le nostre mani gli otri vecchi, mentre Dio ci offriva il suo metodo di rompere gli otri vecchi che consiste nel mettere in essi il vino nuovo.

    Alla domanda se c’è stata una nuova Pentecoste, si deve rispondere senza esitazione: Sì! Quale ne è il segno più convincente? Il rinnovamento della qualità della vita cristiana, là dove tale Pentecoste è stata accolta. Il fatto dottrinalmente più qualificante del Vaticano II sono i primi due capitoli della Lumen gentium, nei quali si definisce Chiesa come sacramento e come popolo di Dio in cammino sotto la guida dello Spirito Santo, animata dai suoi carismi, sotto la guida della gerarchia. La Chiesa, insomma, come mistero e istituzione; come koinonia, prima che gerarchia. Giovanni Paolo II ha rilanciato questa visione facendo della sua attuazione l’impegno prioritario al momento di entrare nel nuovo millennio” [16].

    Ci domandiamo: dov’è che questa immagine di Chiesa dai documenti è passata alla vita? Dov’è che essa ha preso “carne e sangue”[17]? Dov’è che la vita cristiana è vissuta secondo “la legge dello Spirito”, con gioia e convinzione, per attrazione e non per costrizione? Dov’è che la parola di Dio è tenuta in sommo onore, si manifestano i carismi, è più sentita l’ansia per una nuova evangelizzazione e per l’unità dei cristiani?

    Trattandosi di un fatto interiore che avviene nel cuore delle persone, la risposta ultima a queste domande la conosce solo Dio. Dovremmo ripetere, a proposito della nuova Pentecoste, quello che Gesù diceva del regno di Dio: “Nessuno dirà: ‘Eccolo qui’, oppure: ‘Eccolo là’. Perché il regno di Dio è in mezzo voi” (Lc 17, 21). Possiamo tuttavia cogliere dei segni, aiutati anche dalla sociologia religiosa che si occupa di queste cose. Da questo punto di vista, la risposta che da più parti si da a quella domanda è: nei movimenti ecclesiali!

    Bisogna precisare subito una cosa. Dei movimenti ecclesiali, fanno parte, nella sostanza se non nella forma, anche quelle parrocchie, associazioni di fedeli e nuove comunità, nelle quali si vive la stessa koinonia e la stessa qualità di vita cristiana. Da questo punto di vista, movimenti e parrocchie non vanno visti in opposizione o in concorrenza tra di loro, ma unite nella realizzazione, in modo diverso, di uno stesso modello di vita cristiana. Tra di esse vanno annoverate anche talune delle cosiddette “comunità di base, quelle in cui il fattore politico non ha preso il sopravvento su quello religioso.

    Si deve insistere sul corretto nome: movimenti “ecclesiali”, non movimenti “laicali”. La maggioranza di essi sono formati, non da una sola, ma da tutte le componenti ecclesiali: laici, certo, ma anche vescovi, sacerdoti, religiosi, suore. Rappresentano l’insieme dei carismi, il “popolo di Dio” della Lumen gentium. È solo per ragioni pratiche (perché esiste già la Congregazione del clero e quella dei religiosi) se di essi si occupa il “Pontificio Consiglio dei laici”.

    Giovanni Paolo II vedeva in questi movimenti e comunità parrocchiali vive “i segni di una nuova primavera della Chiesa”[18]. Nello stesso senso si è espresso, in diverse occasioni, Papa Benedetto XVI [19]. Nell’omelia della Messa crismale del Giovedì Santo del 2012 ha detto:

    “Chi guarda alla storia dell’epoca post-conciliare può riconoscere la dinamica del vero rinnovamento, che ha spesso assunto forme inattese in movimenti pieni di vita e che rende quasi tangibili l’inesauribile vivacità della santa Chiesa, la presenza e l’azione efficace dello Spirito Santo”.

    Parlando dei segni di una nuova Pentecoste, non si può fare a meno di menzionare in particolare, se non altro per la vastità del fenomeno, il Rinnovamento carismatico, o Rinnovamento nello Spirito, anche se esso non è, propriamente parlando, un movimento ecclesiale nel senso sociologico del termine (non ha un fondatore, una struttura, una spiritualità propria), ma è piuttosto una corrente di grazia destinata a disperdersi nella Chiesa come una scarica elettrica nella massa.

    Quando, per la prima volta, nel 1973, uno degli artefici maggiori del Vaticano II, il cardinal Suenens, sentì parlare del fenomeno, stava scrivendo un libro intitolato “Lo Spirito Santo – fonte delle nostre speranze”, ed ecco cosa racconta nelle sue memorie:

    “Smisi di scrivere il libro. Pensai che era una questione della più elementare coerenza prestare attenzione all’azione dello Spirito Santo, per quanto essa potesse manifestarsi in modo sorprendente. Ero particolarmente interessato dalla notizia del risveglio dei carismi, dal momento che il Concilio aveva invocato un tale risveglio”.

    Ed ecco cosa scrisse dopo aver costatato di persona e vissuto dal di dentro tale esperienza, condivisa ora da milioni di altre persone:

    “Improvvisamente, san Paolo e gli Atti degli apostoli sembrano diventare vivi e divenire parte del presente; quello che era autenticamente vero nel passato, sembra accadere di nuovo sotto i nostri occhi. È una scoperta della vera azione dello Spirito Santo che è sempre all’opera, come Gesù stesso ha promesso. Egli mantiene la sua parola. È di nuovo una esplosione dello Spirito di Pentecoste, una gioia che era diventata sconosciuta alla Chiesa”[20].

    I movimenti ecclesiali e le nuove comunità non esauriscono certo tutte le potenzialità e le attese di rinnovamento del Concilio, ma rispondono alla più importante di esse, almeno agli occhi di Dio. Essi non sono esenti da debolezze e a volte anche da derive parziali; ma quale altra grande novità è apparsa nella storia della Chiesa senza sbavature umane? Non avvenne la stessa cosa quando, nel secolo XIII, apparvero gli ordini mendicanti? Anche allora furono i pontefici romani, soprattutto Innocenzo III, a riconoscere ed accogliere per primi la grazia del momento e ad incoraggiare il resto dell’episcopato a fare altrettanto.

    4. Una promessa adempiuta

    Allora, qual è, ci domandiamo, il significato del Concilio, inteso come l’insieme dei documenti da esso prodotti, la Dei Verbum, la Lumen gentium, Gaudium et spes, Nostra aetate, ecc.? Li lasceremo da parte per attenderci tutto dallo Spirito? La risposta è contenuta nella frase con cui Agostino riassume il rapporto tra la legge e la grazia: “È stata data la legge perché si cercasse la grazia ed è stata data la grazia perché si osservasse la legge” [21]. Lo Spirito non dispensa dunque dal valorizzare anche la lettera, cioè i decreti, del Vaticano II; al contrario, è proprio lui che spinge a studiarli e a metterli in pratica. E difatti, fuori dell’ambito scolastico e accademico dove essi sono materia di discussione e di studio, è proprio nelle realtà ecclesiali ricordate sopra che essi sono tenuti in maggiore considerazione.

    L’ho sperimentato su me stesso. Io mi sono liberato dai pregiudizi contro gli ebrei e contro i protestanti, assorbiti negli anni della formazione, non per aver letto Nostra aetate, ma per aver fatto anch’io, nel mio piccolo e per merito di alcuni fratelli, l’esperienza della nuova Pentecoste. Dopo ho sentito il bisogno di rileggere Nostrae aetate, come ho riletto la Dei Verbum dopo che lo Spirito ha fatto nascere in me un amore nuovo per la parola di Dio e per l’evangelizzazione. Il movimento però può essere nei due sensi: alcuni – per usare il linguaggio di Agostino – dalla lettera sono indotti a cercare lo Spirito, altri dallo Spirito sono spinti ad osservare la lettera.

    Il poeta Thomas S. Eliot ha scritto dei versi che ci possono illuminare sul senso delle celebrazioni in atto per i 50 anni del Vaticano II:

    “Non dobbiamo arrestarci nella nostra esplorazione
    E il termine del nostro esplorare
    Sarà arrivare là donde siamo partiti
    E conoscere il luogo per la prima volta” [22]

    Dopo tante esplorazioni e controversie, siamo ricondotti anche noi là da dove siamo partiti, cioè all’evento del Concilio. Ma tutto il lavorio intorno ad esso non è stato vano perché, nel senso più profondo, solo ora noi siamo in grado di “conoscere il luogo per la prima volta”, cioè di valutarne il vero significato, sconosciuto agli stessi Padri del concilio.

    Questo permette di dire che l’albero cresciuto dal concilio è coerente con il seme da cui è nato. Da che cosa è nato infatti l’evento del Vaticano II? Le parole con cui Giovanni XXIII descrive la commozione che accompagnò “l’improvviso fiorire nel suo cuore e dalle sue labbra della semplice parola concilio”[23], hanno tutti i segni di una ispirazione profetica. Nel discorso di chiusura della prima sessione egli parlò del concilio come di “una nuova desiderata Pentecoste, che arricchirà abbondantemente la Chiesa di energie spirituali”[24].

    A 50 anni di distanza non possiamo che costatare il compimento da parte di Dio della promessa fatta alla Chiesa per bocca del suo umile servitore, il beato Giovanni XXIII. Se ci sembra che parlare di una nuova Pentecoste, sia per lo meno esagerato, visti tutti i problemi e le controversie sorti nella Chiesa dopo e a causa del Concilio, non dobbiamo far altro che andare a rileggerci gli Atti degli apostoli e costatare come problemi e controversie non mancarono neppure dopo la prima Pentecoste. E non meno accesi di quelli di oggi!

    *

    NOTE

    [1] Cf. Il Concilio Vaticano II. Recezione e attualità alla luce del Giubileo, a cura di R. Fisichella, Ed. San Paolo 2000.

    [2] Giovanni XXIII, Discorso di apertura del Concilio, nr. 6,5. (I testi del Concilio sono citati nella versione presente nel sito internet ufficiale del Vaticano).

    [3] Paolo VI, Enc. Ecclesiam suam, 52; cf. anche Insegnamenti di Paolo VI, vol. IX (1971), p. 318.

    [4] Giovanni Paolo II, Udienza generale del 1 Agosto 1979.

    [5] J.H. Newman, Lo sviluppo della dottrina cristiana, Bologna, Il Mulino 1967, pp.46 s.

    [6] Gregorio Magno, Commento a Giobbe XX,1 (CC 143 A, p. 1003).

    [7] S. Ireneo, Contro le eresie, III, 24,1.

    [8] Ch. Péguy, Le Porche du mystère de la deuxième vertu, La Pléiade, Paris 1975, pp. 588 s. (trad. ital. di M. Cassola, Milano 1978, pp. 60-62).

    [9] Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-IIae, q. 106, a. 2.

    [10] Ibid., q. 106, a. 1; cf già Agostino, De Spiritu et littera, 21, 36.

    [11] Giovanni Paolo II, Lettera apostolica A Concilio Constantinopolitano I, 25 marzo 1981, in AAS 73 (1981) 515-527.

    [12] I. Ker, Newman, the Councils, and Vatican II, in “Communio”. International Catholic Review, 2001, pp. 708-728.

    [13] Newman, op. cit. p.46.

    [14] Un esempio ancora più chiaro è quello che successe con il concilio ecumenico di Efeso del 431. La definizione di Maria come la Theotokos, Madre di Dio, nelle intenzioni del concilio e soprattutto del suo promotore Cirillo di Alessandria, doveva servire unicamente ad affermare l’unità di persona di Cristo. Di fatto, essa diede il via all’immensa fioritura di devozione alla Vergine e alla costruzione delle prime basiliche in suo onore, tra cui quella di Santa Maria Maggiore a Roma. L’unità di persona di Cristo fu definita in un altro contesto e in maniera più equilibrata, dal concilio di Calcedonia del 451.

    [15] Cf H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode, Tübingen 1960.

    [16] Novo millennio ineunte, 42.

    [17] I. Ker, art. cit. p.727.

    [18] Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte,46.

    [19] Cfr. il suo discorso ai movimenti ecclesiali la vigilia Pentecoste 2006 in: The Beauty of Being a Christian. Movements in the Church. Proceedings of the Second World Congress on the Ecclesial Movements and New Communities (Frascati 31 Maggio – 1 Giugno 2006), Roma, Libreria Editrice Vaticana 2007.

    [20] Card. L.-J. Suenens, Memories and Hopes, Dublino, Veritas 1992, p. 267.

    [21] Agostino, De Spiritu et littera ,19,34.

    [22] T.S. Eliot, Four Quartets V , The Complete Poems and Plays, Faber & Faber, Londra 1969, p.197:

    “We shall not cease from exploration
    And the end of our exploring
    Will be to arrive where we started
    And know the place for the first time”

    [23] Giovanni XXIII, Discorso di apertura del concilio Vaticano II, 11 Ottobre 1962, nr. 3,1

    [24] Giovanni XXIII, Discorso di chiusura del primo periodo del concilio, 8 dicembre 1962, nr. 3,6.