00 11/06/2010 14:25

Il nuovo corpo

Nostro Signore delle Mutazioni, David Cronenberg ne sta operando una anche su se stesso. Apparentemente sta cambiando il suo cinema verso pellicole di genere, più classiche, scritte da altri. Cinema che chiameremmo su commissione. Ma la mutazione è più sottile. Cronenberg infatti conferma il suo concetto di cinema “virale”, andando a contagiare con le sue ossessioni e la sua poetica anche prodotti apparentemente lontani dal suo essere, andando a “possedere” storie non sue.
Come quella, scritta dallo Steve Knight di Piccoli affari sporchi, de La Promessa dell’Assassino (Eastern Promises in originale). Londra: Anna (una Naomi Watts sempre perfetta nel ruolo di donna in pericolo), un’ostetrica, si trova alle prese con un’adolescente russa morta dando alla luce una bambina. Traducendo il suo diario, Anna si trova ad avere a che fare con una fratellanza criminale russa. E, in particolare, con Nikolai (Viggo Mortensen, che con Cronenberg sembra avere trovato il suo autore ideale), autista del capo. Se a una prima impressione il film può sembrare un film lontano da Cronenberg, in realtà è un film completamente suo. Sia guardandolo dall’esterno, che dall’interno, come piacerebbe a lui.

Interno: la Nuova Mente
Dopo aver narrato ampiamente la poetica della Nuova Carne, raccontando le mutazioni che la tecnologia opera sul corpo umano, Cronenberg sembra aver inaugurato una poetica della Nuova Mente. Da Spider a A History Of Violence (ma il discorso era già presente ne La Zona Morta e Scanners) Cronenberg racconta la mente come il più potente dei mezzi. Le mutazioni più importanti, sembrano suggerire i suoi ultimi film, avvengono all’interno di noi stessi, grazie ai complicati meccanismi del nostro Io. In Spider è una malattia, la schizofrenia, a modificare la mente (e la percezione) del protagonista. Ma in A History Of Violence e La Promessa dell’Assassino è semplicemente la volontà, la scelta, a indurre alla mutazione una persona. Quelle di Tom Stall e di Nikolai sono decisioni consapevoli di diventare un altro da sé, ad assumere una nuova identità. Quella di un buon padre di famiglia, dopo essere stato un killer, nel primo caso. Quella di diventare un re dopo essere stato un servitore, e forse quella di essere un uomo più giusto dopo essere stato un assassino nel secondo.
In questo senso La Promessa dell’Assassino è un film complementare e speculare rispetto a A History Of Violence. Nikolai fa il percorso inverso rispetto a quello di Tom, che veniva risucchiato dal Bene verso il Male, in un ritorno al passato e verso la sua vera natura. Nilolai è invece proiettato verso il futuro, e dal Male si muove – anche solo per un attimo – verso il Bene. In ogni caso vediamo due personaggi in cui i due aspetti coesistono, a ricordarci che la natura umana è questa, due uomini in continua evoluzione – o mutazione – interiore. Entrambi i film sono un viaggio alle origini e verso le prospettive della propria identità. C’è il rapporto con un fratello, in A History Of Violence. Ci si riferisce spesso al rapporto con i padri, in questo film. Ha perso il padre Anna, afferma di non avere né padre né madre Nikolai. Che però, in un gioco quasi shakespeariano, sembra prendere il posto del vero figlio nel cuore di Semyon, il capofamiglia russo. Ma in ogni caso quello che sembra emergere è la difficoltà, se non l’impossibilità, di affrancarsi completamente da quelle che sono le proprie origini.
Ed è un discorso che va al di là della propria identità personale. A History Of Violence sembrava far riferimento anche alla storia di violenza che stava alla base della nascita di una nazione come l’America. Una violenza insita nel DNA americano e destinata a ritornare ciclicamente, come la storia recente insegna. In questo film l’attenzione è puntata verso la nuova Europa, e al pericolo che le origini, intese come tradizioni, determinino una chiusura verso l’esterno, e verso l’integrazione. Ma La Promessa dell’Assassino è speculare a A History Of Violence anche nella forma, fatta di atmosfere cupe e raggelate, di una fotografia omogenea (qui sui toni lividi del grigio che dipingono una Londra invernale e insolita), per un racconto dall’incedere lento e sospeso, con una sensazione di attesa, di pericolo imminente, che atterrisce lo spettatore.

Esterno: la Nuova Carne
Ma non manca ne La Promessa dell’Assassino l’attenzione al corpo. Che è senz’altro presente molto più che negli ultimi film. Corpi mutilati, privati delle dita e dei denti, per essere privati della propria identità. Corpi giovani sfruttati per puro piacere, senza rispetto, come quelli delle ragazze russe costrette a prostituirsi. Corpi gettati nel fiume come oggetti, una volta eliminati. C’è anche tutto il vecchio Cronenberg nascosto come un parassita nel corpo di un film che sembra lontano dai suoi canoni. Come nelle sequenze quasi splatter delle gole tagliate, in cui la carne è penetrata dal metallo delle lame come in Crash lo era dalle lamiere delle auto.
La Promessa dell’Assassino è un film in cui la carne è presente fin da subito, da quel cordone ombelicale reciso dopo la nascita. Si potrebbe dire, come in Inseparabili, che ancora una volta la bellezza è “interiore”, nel senso che l’unica cosa bella, carica di speranza, è la neonata, ed è appena uscita da un utero, uno di quegli organi interni che i gemelli Mantle ammiravano. Ma la piccola è anche uno di quei figli della rabbia (è il frutto di una violenza sessuale), nati dalla violenza come in Brood – La covata malefica (qui è effettiva dove lì era metaforica). E il sangue che la ricopre appena nata in questo senso è anche fortemente simbolico. Ancora ad ammonirci che dentro di noi (nella mente come nel corpo) Bene e Male sono destinati a coesistere.
Una storia di violenza è quella che l’adolescente morta portava dentro di sé. Ma è anche quella che Nicolai porta sul proprio corpo. “Nelle prigioni russe la storia della tua vita è scritta con i tatuaggi. Se non hai i tatuaggi non esisti”. Il corpo tatuato di Nicolai è l’espressione esteriore dell’impossibilità di sfuggire al proprio passato, di rimuoverlo. Il suo corpo è la sua storia, la sua identità. È mutato più volte per trasmettere la sua posizione, la sua carica. Il corpo di Nicolai è la sua arma, come vediamo nella scena ormai famosissima (e da antologia di Storia del Cinema) in cui combatte nudo in un bagno turco, privato di ogni difesa e arma, e sostenuto solo dal proprio, quasi ferino, istinto di sopravvivenza. Ma il suo corpo tatuato è in sé anche il veicolo per raccontare una storia. Ed ecco che il cerchio si chiude, e, come in molti dei film di Cronenberg, si fa di nuovo spazio il concetto del corpo umano come medium, come veicolo di comunicazione. Lo era ai tempi di Videodrome, in cui negli orifizi del corpo potevano essere inserite delle videocassette, e il corpo diventava estensione della televisione, e quindi esso stesso media. O in eXistenZ, in cui il corpo si connetteva al gamepod organico in modo che diventassero l’uno estensione dell’altro, e che il corpo umano fosse lo scenario del videogioco e il suo veicolo di trasmissione. Il corpo racconta, è questo che ci vuole dire Cronenberg. Racconta da dove veniamo, chi siamo, non può mentire. La carne è comunicazione. La carne è identità.

La poesia della Nuova Mente e quella della Nuova Carne si fondono alla perfezione nel nuovo film di Cronenberg, anche nei momenti in cui soffre di qualche sviluppo narrativo e di qualche personaggio eccessivamente caratterizzato. Nel corpo di un film di genere e di un racconto classico si è incistato il virus di un cinema carico di malattia e ossessione, com’è da sempre quello di David Cronenberg. Che ha reso il cinema un corpo mutante, un medium essenziale per raccontarci chi siamo.
Maurizio Ermisino, cinemaplus.it



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In una Londra notturna e piovosa si compiono due differenti destini. Un omicidio rituale apre le danze di una guerra tra opposte fazioni di immigrati dell’Est-Europa, mentre una ragazza, poco più che adolescente e priva di documenti di identità, muore dando alla luce una bambina. L’ostetrica Anna Khitrova (Naomi Watts), impugnato il diario della giovane, inizia le sue incaute indagini, volte a rintracciare i parenti prossimi della vittima. Il diario è però scritto in cirillico, e l’unico indizio comprensibile è il biglietto da visita di un ristorante tradizionale russo. Qui Anna incontra Semyon (Armin Mueller-Stahl), cordiale ristoratore e padre intransigente, che si offre premurosamente di tradurre lo "scomodo" quaderno. Semyon è in realtà il boss della Vory V Zakone, la mafia russa londinese che lui governa con mano ferma dalle cucine del suo locale. Kirill (Vincent Cassel), il fragile e tracotante "principe ereditario", amministra per conto del padre il traffico di prostitute esteuropee. Ad affiancarlo e proteggerlo ci pensa il suo gelido compare, Nikolaj (Viggo Mortensen), che si proclama semplice autista, ma è molto di più: maestro dell’inumazione fluviale, dello scongelamento di cadaveri, della cancellazione dell’identità, quella degli altri come la propria.
Con Eastern Promises, David Cronenberg realizza forse il suo film più aderente ai meccanismi del genere: la sceneggiatura, opera di Steve Knight (già autore dell’interessante script per Dirty Pretty Things di Stephen Frears) è solida e lineare e la si può leggere agilmente come una versione capovolta del plot di A History of Violence. Se la precedente pellicola di Cronenberg ci offriva una limpida parabola sulla violenza tout court, da Eastern Promises non dobbiamo aspettarci un messaggio altrettanto cristallino e universale. Ma l’adesione ai canoni del thriller urbano con annesso sottomondo mafioso, se da un lato diluisce la pienezza che può restituire un’allegoria monotematica, d’altro canto moltiplica le chiavi di lettura, abilmente incastonate tra le pieghe del racconto.
Il thriller ha un’andatura tesa e implacabile, e la resa naturalistica della violenza cattura lo spettatore in una morsa, mentre lo stile inappuntabile della regia ci regala momenti di intenso piacere visivo, amplificato da uno humour tagliente che sottolinea con gusto le mille sfaccettature dell’animo umano. Eppure, nonostante cotanta ricchezza, Eastern Promises è un film semplice, il centro del suo discorso è il tema del sacrificio. Quello di una ragazza russa vittima di violenza che muore di parto e, soprattutto, quello di Nikolaj/Viggo, che per scalare l’impervia piramide del potere, va incontro a una graduale e inesorabile eucarestia: per il personaggio, la violenza più cruda certifica l’adesione completa e sincera a un ruolo che qualcun altro ha predisposto per lui. Ma non dobbiamo confonderci, Eastern Promises non intende certo suggerire metafore religiose, l’olocausto, qui, è tutto terreno. A Cronenberg non interessa d’altronde né il peccato, né tantomeno la redenzione (e la chiosa del film ce lo conferma), non è l’anima che va salvata, bensì l’identità nelle sue manifestazioni più secolari: le pagine di un diario, il proprio corpo, che le prostitute alienano, e la propria pelle, che Nikolaj subaffitta alla mafia, affinché essa vi riscriva, sotto forma di simboli tatuati, il suo passato e il suo presente. Naturalmente in questa abiura alla propria identità possiamo rinvenire facilmente una metafora del lavoro dell’attore, cui Eastern Promises paga il dovuto omaggio: se Nikolaj/Viggo è trattato con delizioso sadismo, Cronenberg regala finalmente a Vincent Cassel il suo ruolo di villain più complesso e affascinante. Meno risolta è invece la caratterizzazione del personaggio di Anna, cui certo Naomi Watts dona luminosità e grazia, ma che si rivela un semplice grimaldello d’ingresso per il mondo sommerso della Vory V Zakone.
Nel graduale dipanarsi dell’intreccio malavitoso, che coinvolge russi, curdi e ceceni, traspare ben presto quanto il meltin’ pot londinese sia di fatto un’utopia irrealizzabile e, nel mentre, viene negata anche la possibilità del connubio sociale più elementare, ovvero quello della coppia. La ragione di questo impedimento è semplice e radicale: l’impossibilità è genetica. L’uomo e la donna abitano infatti universi separati, il loro incontro è infecondo, oppure è violento. La sterilità dunque è globale, al tempo stesso sociale e biologica.
Mentre la tragica spirale di rancori, invidie e potere pare inghiottire tutto nei vortici torbidi del Tamigi, un’anodina maternità rischiara il cammino, ma è solo per condurci in quelle villette a schiera che tanto cinema d’autore, come anche di genere, ci hanno abituato a osservare con sospetto.
Daria Pomponio, cinemavvenire.it

Tom/Nikolai: le metamorfosi di Viggo

Dopo eXsistenZ qualcosa è cambiato nel cinema di Cronenberg. Lo sguardo. Lo sguardo si è fatto superficialmente normale, lineare. Ha perso l’ansia del mostrare i mondi che si sovrappongono e le cose-oggetti-figure magmatiche, metamorfosizzate, penetrate e penetranti della carne.
È calato un velo sopra il cinema di Cronenberg, che non lascia più vedere la mostruosità accecante, ma la nasconde sotto pelle. Nella rete silenziosa e piena di tranelli narrativi-visivi-interpertativi di Spider e dentro il corpo segnato, ferito, gonfiato, pesante di Viggo Mortensen.
Con A History of Violence e Eastern Promises il regista canadese genera due gemelli attaccatti come appendici l’uno all’altro: film di violenza e morte, di sangue e segni, incarnati nello stesso attore, Viggo Mortensen, che crea senso attraverso l’esposizione visibile delle metamorfosi a cui il suo corpo è sottomesso.
Entrambi i protagonisti dei due film sono parte di un mondo famigliare che ne occulta la vera identità, entrambi risucchiati in un essere diverso dall’originale, entrambi hanno generato una copia di se stessi: come in La Mosca, l’uomo primitivo è scomparso sotto i segni di un nuovo essere. Scoperto, visibile: in entrambi i film due personaggi sono colpiti in un occhio, Fogarty e uno dei killer curdi che attaccano Nikolai. È Josey ha compiere quell’atto, a rendere la visione inaccettabile, ferita, ad aprire un nuovo canale di osservazione e comprensione. La visione di queste multiple identità e di questa carne così esposta e narrativa diventa accecante anche per noi spettatori.
In A History of Violence Tom Stall è un dolce, titubante, quasi goffo padre di famiglia, proprietario di un ristorante in una piccola città. Il suo è un corpo lontano da ogni concretezza, un corpo casuale e isolato: abita lontano, in un irreale momento storico, in un’altrettanto irreale realtà americana, nascosta, provinciale, di camicie a scacchi e scarpe pesanti.
Un mostro esce fuori da Tom Stall, con un nome, Joey Cusack, un fantasma accovacciato dentro il suo corpo rassicurante e i suoi occhi azzurri e grandi, spalancati. Un essere invisibile che combatte e uccide con un’abilità felina, quasi casualmente. E il sangue, che sempre e comunque schizza sulla faccia di Viggo Mortensen, è il segno visibile della sua innata bestialità, sono i suoi tatuaggi.
Con questo personaggio alle spalle, Mortensen entra dentro “l’autista” di Eastern Promises. Nikolai è ciò che di Tom si riusciva solo a intravedere: ritto, elegante, composto, padrone dello spazio in cui si muove, viene da una grande città, Londra, con una presenza inquietante simile a quella che aveva Carl Fogarty in A History of Violence, dietro gli occhiali neri e il vestito costoso.
Il volto rugoso e gli occhi taglienti, l’autista è un pesante corpo uscito direttamente dalle viscere del Mortensen-Tom, il corpo nero che incarna un’anima irrimediabilmente occultata, corrotta forse. Se la pelle di Tom non lascia trasparire nulla del suo doppio, quella di Nikolai ha subito una tale trasfigurazione da coprire qualsiasi senso ulteriore .Il russo, con la presenza ingombrante della sua massa fisica, ha annientato la sua vera identità sotto una moltitudine di tatuaggi, che sono racconto visivo, unico segno sensato di realtà.
Dall’altra parte del mondo, Philadelphia come Londra, un protagonista per un altro: Mortensen mette in scena uno sdoppiamento multiplo, che fa di lui un essere cronenberghiano per eccellenza, ibrido tra carne marchiata e significati identitari, tra le ferite del suo copro di attore, come la cicatrice sul labbro superiore, e quelli della finzione filmica, siano tatuaggi o lacerazioni sceniche.
Le parole rimangono nascoste e non interpretabili (la lingua russa non viene tradotta): rimane invece, come forte stampo recitativo in grado di offrire un’interpretazione del mondo, la sua voce e l’inflessione, la sua nudità, essa stessa un racconto.
Non a caso, per Tom la più forte esplicitazione del suo doppio avviene durante il violento rapporto sessuale che ha con la moglie sulle scale. Un unione di corpi sgraziati, appena spogliati, che lascia ematomi sulla pelle come tatuaggi indelebili di un’eccitazione incontrollata per l’altro, il nascosto, il crudele, lo sconosciuto.
Per Nikolai, figura perennemente in stato di tensione (difensiva, aggressiva, erotica) non c’è scioglimento sessuale o possibilità di esprimere la propria carica: con un corpo che già divampa di una violenta passione, di una spinta totale alla definizione di sé (che è inevitabilmente anche un mascheramento), il doppio di Tom si trova a recitare attraverso la sola presenza fisica in una scena di lotta all’ultimo sangue, che pare davvero una scena di sesso.
Là dove il sesso sembrava uno stupro o un momento di rabbioso contrasto, qui la lotta, primitiva, mascolina, definitiva, integra l’orgasmo con la morte, il sangue con la perdita della purezza, il duello per la sopravvivenza con l’unico momento di esplosione erotica. A Nikolai è precluso qualsiasi slancio fecondo, qualsiasi piacere fisico coinvolgente che non sia lo scontro e l’uccisione.
Cronenberg ancora in modo imprevedibile e estremo spoglia l’individuo della relatività della sua identità per mostrare tutto il senso della carne, unica certezza, unica verità. Per A History of Violence c’era un corpo normato che scintillava follia omicida; per Eastern Promises c’è un corpo d’eccezione, che è scrittura e racconto in sé, che rimane svuotato di qualsiasi anima. Mostrare i tatuaggi è dire chi si è, e solo attraverso l’incisione della pelle Nikolai può essere scambiato per “Il principe”. Per poi diventare “Il re”, irrimediabilmente legato al ruolo che si è scelto.
Infine, le parole non servono più, i significati dei dialoghi rimangono oscurati dietro la pastosa pronuncia russa di Mortensen: davanti ai boss della mafia, Nikolai narra, spiega, recita davvero solo e unicamente con l’esposizione del corpo. Un corpo imperfetto, umano, un’ostensione quasi sacra, in grado di esprimere potere, violenza, sessualità, significato: egli è in tutto e per tutto ciò che di lui si vede. E la sua nudità, così definitivamente senza rimedio, che lo espone alle armi da taglio in una spinta estenuante verso la morte, colpisce rabbiosamente ogni senso, oltre la vista, coinvolgendo anche il corpo di chi è obbligato a guardare l’osceno. Un fuori scena messo dentro la scena, che è la scena, mai così ammirabile, desiderabile, commovente, produttrice di senso.
Lì sta tutto il film di Croneberg, lì è il passato di Stall, lì si completa la metamorfosi di Nikolai/Joey: davvero qui il tempo si ferma e la Storia non è più in grado di modificare il destino di un uomo.
Francesca Bertazzoni, hideout.it



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Cronenberg vince; vince quando lo spettatore compra il biglietto, entra e dopo due ore di immagini esce con gli occhi graffiati da quelle stesse immagini. Nella sua straordinaria fotografia Londra è una città al margine, di sobborgo, periferia lontana dalla city più importante del mondo, piovosa e silenziosa.
L'ostetrica Anna (Naomi Watts) rimane coinvolta nel tracciato della sua vita, da una nuova nascita, una bambina, figlia di una quattordicenne russa schiava e senza futuro. La ragazza muore durante il parto, ma il suo diario e i segreti in esso custoditi a sopravvive nelle mani di Ivana. Il mondo che le si schiude dalla carta, è una casta, una famiglia potente ed efferata della mafia russa, espatriata in Inghilterra, chiusa da lucchetti di omertà, il cui capo Semyon ( Armin Mueller-Stahl è) è un uomo segnato nel viso dagli anni, ma inferocito dal vigore del tempo e dell'esperienza che ne comporta.
La mafia russa governa la zona, ne governa il traffico di droga e la prostituzione minorile ucraina, cecena, russa e siberiana di giovani, pezzi di carne, mercificate e brutalizzate.
Gli affari della famiglia sono gestiti dal figlio impotente e schizofrenico di Semyon, (il talento imbarazzantemente naturale di Vincent Cassel) che nella vita è condannato dalla sua stessa psicologia fragile ad essere un secondo.
E poi lui, l'autista (Viggo Mortensen), colui che non vede, non sente e non parla, l'uomo che accoglie l'ombra e che dell'ombra ne vive i benefici e le crudezze.
Non esistono in verità durante il film gli intrecci tra i personaggi, gli eventi scatenanti alla tragedia che scandiscono solitamente una sceneggiatura.
C'è un unico motivo centrale: la trasformazione; è il lento incancrenirsi, all'interno dell'uomo, della violenza come forma di supremazia sull'individuo se stesso.
Come forma di autogestione di emozioni e suggestioni.
Il corpo è una macchina, è lo strumento per il potere; il potere che diviene violenza di unghie e sudore nei rapporti sessuali, il potere che diviene nel rapporto padre – figlio disconoscimento del proprio sangue impregnato di vergogna, il potere che diviene, lungo i gradini della scalata al trono di “re” della famiglia, glaciazione emozionale e mentale.
Il tatuaggio diventa quindi simbolo del passaggio necessario perché l'uomo sia uomo, perché disconosca la sua famiglia di origine e ne abbracci una seconda, crudele e traditrice, ne diventi marchio.
Il corpo deve rappresentare ogni singolo evento della tua vita, ogni simbolo è una violenza inferta o una violenza subita.
Trasformare la pelle in inchiostro cicatrizzato, trasformarsi in fascio di potere.
Il nemico deve conoscere dal tuo corpo quello che rappresenti, e temerne.
Cronenberg vince, e vince perché di questa violenza fa emergere la valenza sociale nella casta del terrore; una violenza mai indirizzata verso il mondo esterno alla casta, inesistente e ininfluente, ma la lascia colare ed addensarsi tra i suoi componenti, fino a farla diventare solida, di ghiaccio.
Vince perché dirige degl'ottimi attori senza il guinzaglio della preparazione psicologica, lascia che siano i gesti, a volte lenti e impassibili, altre volte nevrotici e comportamentali, che vibrino in sostituzione ai suoni.
Ed è di nuovo per lui il corpo ad essere il solo veicolo onnipotente della comunicazione visiva.
Laura Novak, centraldocinema.it