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Gottfried Benn

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    Nihil.
    Post: 711
    00 11/02/2010 00:33
    Autore fuori dagli schemi, la sua poesia viaggia fra ermetismo, simbolismo ed espressionismo, raggiungendo risultati deflagranti quando combina crudezza di linguaggio ad immagini archetipiche cristiane.
    Benn nasce nel 1886 e si spegne nel 1956, trascorrendo gran parte della sua esistenza nell'amata-odiata Berlino, figlio della buona borghesia... laureatosi in medicina, il nostro presta servizio come chirurgo militare nell'esercito tedesco nella prima guerra mondiale, rimanendo sconvolto dalle mutilazioni di guerra che giornalmente è costretto a curare, mutilazione che sono solo una somatizzazione della lacerazione dell'anima prodotta dalla guerra, come Benn evidenzia stupendamente nella sua prima raccolta "Morgue" ("Obitorio"): nella sua prima opera, Benn descrive senza filtri, utilizzando spesso un assettico linguaggio medico, le mutilazioni che vede, facendone metafora della condizione di uomo monco dell'individuo moderno. Finita la guerra, Benn continua ad esercitare la professione di medico e viene eletto -grazie a "Morgue"- membro dell'accademia tedesca. Profondo disprezzatore della politica e dei suoi giochi di potere, Benn aderisce nel 1933 al partito Nazionalsocialista, vedendo in esso la possibilità di una stabilizzazione sociale dopo 15 anni di continue rivolte comuniste che minacciavano di trasformare la Repubblica di Weimar in uno stato socialista; solamente un anno dopo, il nostro si pentirà della propria scelta, accorgendosi di come i grandi della cultura tedesca contemporanea fossero stati ridotti all'emigrazione o al silenzio, e lui stesso venne mal tollerato dal regime come autore "degenerato", per la sua netta condanna della guerra. Per sfuggire alla povertà (il regime nazionalsocialista non gli consetiva di esercitare da civile la sua professione) divenne medico presso la Wehrmacht, che per tutta la guerra divenne il rifugio di coloro che non aderivano al regime nazista e non volevano emigrare. Durante gli anni del regime scrisse poco nulla, tranne qualche poesia contro il regime stesso, fatta circolare solamente fra fidatissimi amici, poiché il nostro non credeva minimamente alla missione politica dell'artista ne all'incidenza che questo poteva avere sulla società. Finita la guerra, venne accantonato dalla nuova repubblica federale perché compromesso col nazismo, tuttavia ottenne il posto di medico di guardia in un piccolo ambulatorio nella periferia berlinese, posto che lo salvò dalla crisi morale che molti suoi contemporanei provarono di fronte al fallimento dei valori nei quali avevano creduto. Le sue ultime due raccolte "Poesie statiche" e "Flutto ebbro", rispettivamente del 1945 e del 1949, sono le ultime composizioni di un autore che scelse in silenzio di fronte alle nuove utopie del benessere materiale che dopo il '50 sostennero l'Europa nella sua ricostruzione.
    Difficile dire quali siano le origini della poesia di Benn: gli echi romantici (di cui ad esempio viveva la poesia di Rilke) sono in lui pressoché assenti, mentre abbondano riferimenti ai poeti naturalisti di metà ottocento come Anne von Dorste; uguale indifferenza il nostro sente verso Stefan George e Trakl, i due simbolisti che apriranno la strada all'espressinismo tedesco, mentre prova una forte attrazzione per i canti devozionali della chiesa luterana, di cui adotta a partire dalle "poesie statiche" perfino il metro (l'ottava). Le radici di Benn sembrano spostarsi continuamente da Nietzsche a Baudelaire, da Rimbaud a Goethe, senza vi sia un vero e proprio filo conduttore, se non l'idea che lo ossessiona dalla prima lirica scritta: l'arte come disclipina della forma, forma la quale altro non è che l'incarnarsi dell'universale in un corpo che ne riveli il massimo dello splendore. Questa idea guida lo muove fin da "Morgue", in cui la cruda descrizione di arti amputati è racchiusa in una cornice formale di raffinatezza squisita, quasi che la bellezza della struttura potesse riassorbire il dolore in uno schema che lo provede come momento di passaggio, e non come punto d'arrivo. Con "Flutto Ebbro" e "Poesie statiche" Benn cambia parzialmente registro, semplificando la forma e ricercando il dialogo con il lettore, lettore/ascoltatore di un monologo disperato che vede sulla stessa scena l'uomo ferito ed umiliato (quello uscito dalla seconda guerra mondiale, poco importa se vinto o vincitore) e l'A/altro, visto come limite e salvezza, aguzzino e consolatore di una morte che si rivela scacco parodossale, e non più compimento di una parabola come voleva il maestro Goethe.
    eccovi alcuni testi:

    Canti

    I

    Oh se fossimo i nostri avi primevi.
    un grumo di muco in una palude calda.
    Vita e morte, fecondazione e parto
    verrebbero dai nostri muti umori.

    Fossimo un'alga, fossimo una duna,
    che il vento forma, greve verso il basso.
    Già una testa di libellula, un'ala di gabbiano
    sarebbe troppo e già troppo soffrire.


    Madre

    Io ti porto sulla fronte
    come una ferita che non si chiude.
    Non sempre duole. E il cuore
    non ne muore dissanguato.
    Ma ogni tanto d'improvviso son cieco e mi sento
    del sangue in bocca.

    La Coppa

    Vieni per l'ultima volta,
    poiché eravamo così soli
    e ci rifugiammo in una coppa
    con immagini e sogni.

    Ma era appena oggi
    e il nostro mare era notte,
    preda fummo l'uno dell'altro,
    il carico bianco.

    Ci sfiorammo come due razze,
    due popoli ai primordi,
    le stirpi, la scure, le pallide,
    si arresero.

    Tu vieni per l'ultima volta,
    poiché era solo un gioco,
    o vedesti che nella coppa
    cadevano lacrime e ombre-

    vedesti, vedesti il suo inclinarsi
    e spargere questo vino a fiumi
    e poi il suo cadere e tacere:
    la mutazione dell'essere-?


    Sempre più muto


    Tu negli ultimi regni,
    tu nell'ultima luce,
    non c'è luce nel pallido
    volto che fissa,
    là sono le tue lacrime,
    là sei denudato a te stesso,
    là è il dio, l'unico,
    che scioglie tutti i tormenti.

    E da tempi innominabili
    uno ti ha distrutto,
    appelli e canti ti accompagnano,
    uditi sull'acqua,
    resti di alberi tropicali,
    boschi del fondo marino,
    spazi pervasi d'orrore
    li portano fin qui.

    Antico era il tuo desiderio,
    antichi sole e notte,
    tutto: sogni e sgomento
    meditati fino a smarrirsi,
    sempre più della fine, sempre più puro
    tu stratificato in distanze,
    sempre più muto, nessuno
    aspetta nessuno chiama.



    "Il poeta è puro acciaio, duro come una selce" Novalis

    No Copyright: copia, remixa, diffondi.






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    Vondur
    Post: 78
    00 26/01/2011 08:46
    Grazie Nihil per questo tuo post, molto interessante.

    Ho letto un po' di cose di questo autore, e ne sono rimasto affascinato. Continuerò a documentarmi leggendo il più possibile, sopratutto nella sua lingua madre.

    Questo è uno dei casi in cui ti senti davvero piccolo, direi invisibile ai cospetti suoi. Mi sono piaciute alcune affermazioni che lo riguardano: "Il Picasso della poesia" e "la poesia non diretta ad alcuno"

    è cinico e cattivo, anche per questo interessante.


    La sposa del negro

    Giaceva sul cuscino insanguinato
    la bionda nuca di una donna bianca.
    Sulla sua chioma infuriava il sole
    e la leccava sulle chiare cosce,
    s'inginocchiava sui seni un po' scuri
    non deformati da vizio e da prole.
    Un negro a lei vicino : per il calcio
    di un cavallo gli occhi e la fronte spappolati.
    Del piede sinistro
    suo sudicio due dita gl'infilava
    nell'orecchio di lei piccolo e bianco.
    Come una sposa ella però dormiva:
    felice all'orlo del suo primo amore,
    come all'inizio di molte ascensioni
    del sangue caldo e giovane.
    Finchè
    s'immerse nella gola bianca il bisturi
    ed un panno purpureo di sangue
    le si gettò sulle anche.