Forum del Poligono Pentimele

Un racconto di basettun

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    basettun
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    00 13/11/2009 17:03
    Torno subito, forse


    Luca era seduto di fronte allo schermo del computer e cercava le parole per iniziare la storia ma non le trovava, nella mente aveva un vuoto che sembrava vuoto e invece era una folla di frasi spezzate o di concetti interrotti dallo scontro con realtà concrete che li contraddicevano. Ogni pensiero, breve e all’apparenza concluso, finiva per diradarsi nella nebbia non appena provava ad alzare lo sguardo verso il monitor e lì trovava il suo messaggio che transitava “torno subito, forse”. Allora dava un colpo al mouse e preparava le dita sulla tastiera, ma già il gesto l’aveva distratto e non sapeva decidersi con quale lettera cominciare.
    Cosa aveva pensato? Qual era l’idea? E quando riusciva a ricordarla non gli sembrava più così preziosa, era banale o troppo profonda alla partenza di un racconto che, alla fine, sarebbe stato un viaggio, non semplice ma nemmeno complicato, come nello scompartimento di un treno che ti sposta da un punto geografico all’altro, anzi, trascina il paesaggio nel tuo finestrino che sembra lo schermo del computer e quasi leggi il tuo messaggio “torno subito, forse”.
    Quando capì di essere sul treno e non seduto alla sua scrivania gli venne un colpo, non era mai stato così lontano da sé, separato dalla realtà tanto da non riconoscerla. Ed era solo, imbarcato chissà da quanto. Per andare dove, nemmeno questo sapeva, né perché aveva deciso.
    Ma era partito e l’idea gli piaceva, doveva raccontare una storia e il modo migliore l’aveva scelto senza saperlo: cominciare, non ha importanza come, un viaggio senza capo né coda né motivi.
    Un viaggio è una storia e il paesaggio che scorreva al di là del vetro era una scenografia perfetta che cambiava senza dargli il tempo d’innamorarsi di un luogo o di una luce o di un colore o di una linea e alla fine del viaggio, perché una fine ci sarebbe stata, avrebbe avuto una storia scritta dalla prima parola all’ultima, una storia veloce da rileggere lentamente per capirla o per non capire niente e dopo … il dopo sarebbe stato inutile.

    Qualche anno prima, quindici per l’esattezza, ma per lui erano quindici giorni quando stava bene e quindici mesi quando stava male, aveva conosciuto Laura, proprio durante un viaggio sul treno, il solito viaggio di cinquanta chilometri che faceva ogni mattina per andare al lavoro. Alle cinque e mezza prendeva il rapido che di rapido aveva solo il nome, anzi, andava davvero veloce da una stazione all’altra ma si fermava in tutte le stazioni, così che il viaggio durava due ore, quasi quanto ci avrebbe impiegato a farlo in bicicletta.
    Ma l’ultima volta che aveva montato una bici aveva dieci anni e da allora ne erano passati altri venti, e quelli gli sembravano almeno quaranta quando stava bene e ottanta quando stava male, perciò Luca si sentiva un vecchio quand’era al massimo della sua esuberanza e già morto e seppellito quand’era depresso.
    Luca faceva il segretario precario in una scuola elementare, era sposato, aveva due figli e un altro sarebbe arrivato da lì a poco. Quando suonava la sveglia cominciava a bestemmiare, mentalmente per non infastidire i congiunti, si tuffava sotto la doccia e lì lo scroscio gli lavava i peccati più recenti e ne usciva lindo come dalla fonte battesimale. Si sentiva pulito come Adamo nel paradiso terrestre prima di conoscere Eva, dava uno sguardo ai bimbi nel pieno del sonno, un'occhiata truce alla moglie alla quale dedicava pure uno sputacchio mentale, e usciva che fosse scirocco o tramontana per benedire quel lavoro ch’era arrivato, finalmente, almeno per un anno, e alleviava le torture quotidiane che lo schiaffeggiavano: il cappotto per la grande, le scarpe per il piccolo, e l’affitto e la bolletta della luce e la bombola del gas e l’olio e il latte e noi perché non dobbiamo avere la televisione e soldi dai tuoi non ne voglio e che si facciano i fatti loro e non sei capace di trovarti un lavoro come si deve e vaffanculo e non mi rompere le palle e la porta che sbatte e l’intonaco che si sbriciola.
    L’aria era fredda e pungeva pure i polmoni o torrida da abbrustolire i peli del naso ma Luca aspirava con tutte le forze e la strada gli sembrava il prato di trifogli umido di rugiada, le pareti dei palazzi erano costoni di montagne o siepi di rovi ai margini dei boschi e saltellava per arrivare a quel rottame di auto ch’era parcheggiata in discesa perché partiva solo a spinta.
    Quella mattina qualcuno l’aveva incastrata parcheggiando a spina di pesce proprio davanti al suo muso, dovette spingere la macchina indietro di un paio di metri forzando la salita, poi liberò il ferrovecchio che gli passò accanto prendendo velocità, si agganciò allo sportello e volò sul sedile con l’abilità di una scimmia. Fece appena in tempo ad innestare una marcia e mollare la frizione prima di tamponare l’autobus ch’era fermo all’incrocio, ma non fece danni, il motore tossì per liberarsi dell’umido della notte e Luca l’aiutò sfarfallando sull’acceleratore.
    Poco dopo Laura stava entrando in stazione, sentì il baccano del coupé senza marmitta che si sistemava nel viale a muso in giù e ne vide l’unico occhio che si spegneva, si sistemò la sciarpa e il bavero della giacca ed incontrò le sue amiche raccolte in un angolo del bar ch'era il luogo più caldo, poi prese a ridere senza scoprirsi la bocca mentre Loredana le chiedeva cosa ci fosse da ridere alle cinque e mezza del mattino con un freddo che ti congela il culo.
    - Mi ha telefonato, ieri sera.
    - Non ci credo.
    - Ti giuro, è stato un’ora al telefono, voleva che andassimo insieme in pizzeria.
    - E sei andata?
    - Ma sei pazza, nemmeno lo conosco.
    - Ma se non esci con lui, come farai a conoscerlo?
    - Ma non m’interessa, figurati, è così insignificante.
    - Insignificante? Ma l’hai guardato bene? Dio manda il pane a chi non ha denti.
    - Tu te lo saresti già mangiato, vero?
    - Sì, a piccoli morsi per farlo durare di più.
    - E tu, come sei messa?
    - Quello stronzo è da una settimana che non si fa vivo.
    Luca spalancò la porta in quel momento e si diresse dritto al banco senza degnare di uno sguardo il drappello di maestre, si prese un cornetto e ordinò un caffè.
    Laura e Loredana si avvicinarono tenendosi a braccetto.
    - Te la possiamo offrire noi la colazione?
    - Sì, grazie. Dove andate di bello?
    - Vaffanculo, dove vai tu.
    - Certo che… uno esce di casa la mattina sperando d’incontrare finalmente una donna garbata e poi si prende il primo vaffanculo della giornata da una che ti vuole offrire il caffè.
    - Gne gne gne… ti presento Laura, lei sì ch’è dolce, come la marmellata del tuo cornetto.
    Laura lo guardò da sotto la sciarpa sgranando gli occhi e accennando un risolino.
    Si sistemarono nello stesso vagone insieme alle altre di cui Luca non ricordava nemmeno il nome e Laura si tolse la giacca rivelando un corpicino fatto davvero bene.
    Luca le guardò il culo ch’era a un palmo dal suo viso mentre lei aggiustava le sue cose, abbassò gli occhi e aspettò che si sedesse.
    - Eri tu che facevi quel rumore assordante nel viale?
    - Sì, è la mia centoventotto. Mi dispiace, ti ha disturbato?
    - No, io ero già sveglia, ma non puoi sperare di passare inosservato.
    - Infatti, con la tredicesima dovrò cambiare la marmitta, se resterà qualcosa dopo che avrò comprato il cappotto e le scarpe per i bambini e la televisione a colori per mia moglie.
    - Ma quanti figli hai?
    - Due e uno in arrivo fra sei mesi.
    - Che bello, auguri. – Laura si alzò e gli diede due baci sulle guance.
    - Loredana, Luca aspetta un altro figlio.
    - Congratulazioni papà. Certo che tu non lo fai arrugginire, come qualcuno che conosco io.
    - Zitta! Non la stare a sentire, lei quello che ha nel cuore ce l’ha in bocca. – disse Laura accompagnando le parole coi gesti.
    - Sì, magari, è da una settimana che… – Laura le piantò il palmo della mano sulla bocca e soffocò il resto della frase.
    - E non ce l’hai le foto dei tuoi figli?
    - Sì, devo averne una. – Luca tirò fuori il portafoglio e mostrò una foto che aveva scattato l’estate scorsa, c’erano i bimbi insieme alla madre.
    - Che belli, e lei è tua moglie?
    - Sì, è bella, vero?
    - Bella, sì, e siete ancora innamorati?¬
    - Ah sì, come il primo giorno. – Luca sentì la macchia della menzogna che gli si spiaccicava in pieno viso e d’istinto provò a pulirla, ma capì che avrebbe dovuto aspettare la prossima doccia e sorrise.
    - Dicono che dopo qualche anno non è più come prima, soprattutto se ci sono figli.
    - Forse è così, – disse Luca – ma a noi non è successo, ci amiamo anche più di prima. – continuò cercando di pulirsi il viso ma non faceva altro che allargare la macchia.
    - E lo sai perché? Perché ognuno ha il massimo rispetto dell’altro. Sappiamo di essere diversi, perché è normale che due persone lo siano, ma ognuno di noi sa ritagliarsi i propri spazi rispettando quelli dell’altro. E’ questo il segreto di una coppia che funziona. E poi cerchiamo di non essere volgari, la volgarità uccide l’amore, come se ci fossimo appena conosciuti e dovessimo mostrare la parte migliore di noi per conquistare l’altro.
    A quel punto Luca si sentiva una maschera, impiastricciata sul viso, che cominciava a colare dentro il maglione e pensò che forse non sarebbe bastata una doccia per lavare tutte quelle bugie.
    In effetti il suo matrimonio era andato a rotoli già dopo un anno, lui e sua moglie ormai si odiavano e odiavano anche se stessi perché non avevano avuto il coraggio di separarsi. Ma erano venuti i figli, e almeno per loro si doveva continuare, a costo di buttare alle ortiche i migliori anni della gioventù, questo gli avevano insegnato, la famiglia era sacra e bisognava tenerla insieme con tutto il bene e tutto il male che comporta, anzi, era proprio il male che diventava il cemento giacché il male unisce più del bene.
    Il male era un complice di cui ci si vergogna, Luca lo nascondeva alla vista dei parenti e degli amici i quali credevano che tutto andasse per il meglio, che la loro unione fosse stata benedetta sul serio, non per finta come fa il prete, e che i figli fossero il risultato di un amore grande che si perpetuava negli anni. Ma erano lontani dalla verità e Luca pensava che tutte le coppie vivessero una realtà inventata fatta di propaganda e ostentazione di felicità virtuale, un mondo falso che si relazionava con altre false realtà e produceva un ambiente stravolto e innaturale.
    Ma se quello era il mondo, Luca dimostrava di saper mentire meglio degli altri, non una volta che si fosse mostrato scontento o infelice, non un litigio in pubblico né uno sguardo truce né un segnale d’insofferenza, la regola era: siamo felici, e lui dimostrava d’esserlo più di tutti, da sempre e per sempre dato che Dio l’aveva scelto come esempio e un esempio non può deludere.
    L’altra faccia della medaglia era il dolore causato dalla menzogna, perché Luca sapeva di mentire e intuiva il disagio di quella parte ingenua di sé, chiamatela anima se vi pare, che aspira alla verità. Perciò Luca aveva scoperto che anche il dolore è qualcosa di cui vergognarsi, è un sentimento da non mostrare a nessuno, e così la vita di Luca s’era ridotta a una vergogna continua, segreta anch’essa, che tingeva d’infamia ogni suo gesto e ogni parola.
    - E tu sei sposata?
    - No.
    - Fidanzata?
    - Sì… no… boh!
    - Come boh, sei fidanzata o no?
    - Credo di sì.
    - Credi?
    - Sì, sto con un ragazzo.
    - Come si chiama?
    - Lorenzo.
    - E quando vi sposate?
    - Mai!
    - A Giugno, si sposano a Giugno. – intervenne Loredana.
    - Non è vero!
    - No?
    - Non mi va di parlarne.
    - Oh, scusa, non volevo essere invadente.
    ¬Laura s’era girata un po’ di lato verso il finestrino, aveva tirato un libro dalla borsa e s’era messa a leggere. Luca l’aveva osservata per qualche minuto, non aveva saputo trovare altre frasi da rivolgerle e s’era girato anche lui verso la striscia dinamica di paesaggio che cominciava a illuminarsi.
    Il mare sembrava la proiezione di una diapositiva, se non fosse stato per il pennacchio di fumo sulla cima dell’Etna che cambiava di forma ogni minuto, e le spiagge, le case, gli alberi che transitavano a velocità diverse sui vari piani prospettici animavano quella foto che non sembrava vera. Luca si voltava per guardare Laura e dal movimento rapido dei suoi occhi la percepiva distratta, per nulla immersa nella lettura, immobile eppure percorsa dalle luci e dai colori tanto da apparire partecipe alla corsa.
    Quando il treno entrò in galleria i loro sguardi s’incrociarono per un centinaio di metri, ma fu un istante e subito dopo si separarono e tornarono quelli di Laura sulla pagina del libro e quelli di Luca sulla striscia che cominciava a rallentare.
    Loredana si accorse che la sua amica s’era persa nei pensieri e volle trarla in salvo, le si accostò all’orecchio e le sussurrò qualcosa che la fece sorridere, ma doveva essere qualcosa di sconveniente perché Laura diede uno sguardo furtivo fra le gambe di Luca e arrossì.
    - Secondo me ce l’ha bello grosso, – continuò Loredana – ora glielo chiedo.
    - Ma sei scema! – esclamò Laura, preoccupata che lo facesse davvero, poi scoppiarono a ridere e non la finivano più, ogni parola pronunciata da chiunque sembrava una battuta che si ricollegava a quella pronunciata all’inizio e andarono avanti così per il resto del viaggio.
    Il mare sembrava un foglio di cellofan posato sul palcoscenico, era illuminato dal basso dai fari filtrati di verde pallido e increspato da una ventola lenta, giusto per innescare le ombre lunghe delle onde. Quando il treno finì di girare sulla curva ampia del promontorio, una lampada gialla si accese e lo illuminò, la saetta lo percorse cominciando dal locomotore e poi, velocemente, giù fino alle ultime vetture, Luca si voltò e incontrò il semaforo dell’est che arrostiva come la piastra di una stufa, si alzò e tirò il finestrino per farlo entrare ma l’aria era ancora gelida.
    - Guardate! – disse.
    - E’ il sole, – lo tranquillizzò Loredana – non l’avevi mai visto?
    - No, mi sembra sempre la prima volta.
    Laura guardò stupita lo stupore di lui che sembrava rapito dallo spettacolo e s’era alzato in piedi quasi per applaudire.

    continua


    [Modificato da basettun 13/11/2009 17:04]
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    Carmen...
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    00 13/11/2009 19:00

    [SM=g7348]

    aspetto la continuazione.... [SM=g7350]
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    basettun
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    00 14/11/2009 18:41
    Torno subito, forse - segue


    Sul marciapiede della stazione Luca sembrava distrutto ma non ricordava nulla di ciò che lo aveva ridotto così. Le ore in ufficio erano passate lente, come una tortura pianificata che non deve ucciderti ma ti doma con metodo scientifico per fiaccare le tue difese e poi t’impone la soma, il giogo e tutti quegli attrezzi che servono per ridimensionare la personalità di un uomo a ragione delle funzioni di buon impiegato che deve assumere.
    Senza darlo ad intendere, Luca, con una sgroppata, se ne liberava alla fine di ogni turno ma per non rischiare di astrarsi troppo dalla realtà continuava a ruminare dalla musetta, che era l’unico collegamento piacevole col padrone, lo stipendio alla fine del mese. Anche questa era una vergogna, questo suo piegarsi alle necessità della vita adottando atteggiamenti doverosamente servili che, pur non essendo utili al buon rendimento professionale, facevano parte del bagaglio di tradizioni medievali ch’era proprio del mondo della scuola.
    Laura, in prossimità della fermata, s’era affacciata senza motivo cosciente, durante il viaggio di ritorno aveva osservato il mare che s’era scurito come se le luci di scena in profondità si fossero spente ed ora sembrava una lastra impenetrabile segnata di virgole blu. Del sole s’erano perse le tracce allo zenit.
    Una coperta gettata dai monti teneva prigioniero quel po’ di calore che aveva lasciato, che rimbalzava dalla terra alle nubi respirato cento volte e sfuggiva dai tagli provocati dal vento, asole scucite o rabberciate alla buona che si deformavano di minuto in minuto.
    Intravide Luca che si attardava e lo chiamò gesticolando in modo plateale.
    - Siamo qui! – urlò, e tutti si voltarono per riconoscerla, anche Luca, che si avviò verso quella vettura ch’era l’ultima ed era rimasta fuori del marciapiede, si arrampicò sui gradini e la raggiunse quando già il convoglio stava per muoversi.
    - Ma sei sola, e le altre dove sono?
    - Loredana è avanti, sta parlando con un suo collega, ma adesso torna. Vuoi andare da lei?
    - No, a quest’ora preferisco la compagnia di persone più tranquille.
    - Loredana è fatta così, è piena di vita e non si dà un attimo di respiro.
    - Insegnate nella stessa scuola?
    - No, ma siamo amiche da un bel po’.
    - Ma tu quanti anni hai? Sembri una ragazzina.
    - Ne ho ventitré, e tu?
    - Io ne ho trentuno. Ma stai facendo una supplenza?
    - No, sono già di ruolo. Non sembra vero ma ho vinto un concorso quando avevo diciannove anni. E tu? Mi ha detto Loredana che fai il segretario.
    - Precario, per fortuna.
    - Perché, per fortuna?
    - Perché è un mestiere che non mi piace. Non mi piace la scuola, non mi piacciono i miei colleghi, non mi piace niente di questo lavoro. Lo faccio solo perché devo portare uno stipendio a casa.
    - E cosa ti piacerebbe fare?
    - Niente, scrivere e vendere i miei libri.
    - Tu scrivi?
    - Qualcosa, sì, racconti, poesie.
    - Davvero? E hai pubblicato qualcosa?
    - No, costa troppo. Gli editori vogliono essere pagati, non sono editori ma tipografi, basta che paghi ti pubblicano qualsiasi cosa, ma senza soldi…
    - E non hai niente qui da farmi leggere?
    - No. Ma se vuoi domani ti porto delle poesie.
    - Oh, sì, grazie.
    - Ta tan! Credevate di esservi liberati di me? – Loredana fece il suo ingresso come l’anta di una porta che sbatte, si sedette sulle gambe di Luca e gl’infilò le mani sotto il maglione.
    - Riscaldami, sono congelata. – e gli strofinava il petto.
    - E perché vuoi congelare anche me? – Luca provò a trattenerla ma senza convinzione, lei allora sfilò le mani dal maglione e gliele mise fra le gambe.
    - Guarda, – le disse Luca – c’è un posto ideale per riscaldarsi le mani… il bocchettone del riscaldamento.
    - Chissà cosa credevo… – Loredana si alzò e si sistemò lì accanto. – Non esistono più gli uomini di una volta, secondo me dovreste farvi tutti preti.
    - Ho capito, ti vuoi confessare.
    - Sì, padre Luca, ho peccato, ma solo col pensiero… ormai, figurati.
    - Lo sapevo. Ma col pensiero si fanno i peccati peggiori. Lo sai, vero?
    - A chi lo dici. Ma, tanto, io solo col pensiero li faccio.
    - E allora cerca di non pensare troppo.
    - Ci riesco solo quando dormo.
    - E allora dormi.
    - E allora fammi spazio.
    - Luca si spostò accanto a Laura che sorrideva.
    - Chiamatemi quando arriviamo. E fate i bravi.

    Letizia aveva il muso lungo, chissà cosa le era andato storto quel giorno. Luca non si preoccupò più di tanto, dato che quella era l’espressione normale di sua moglie nei giorni lieti, entrò senza rivolgerle la parola per non scatenare una sua reazione e salutò i bambini, poi mangiucchiò qualcosa in piedi, si prese una bottiglia di vino e si chiuse nello studio. Appena chiusa la porta la salutò.
    - Ciao, Mestizia, come mai quel muso lungo? Eri triste perché il tuo Luca non c’era? Oh, tesoro mio, ma lo sai che devo andare a lavorare, non vado mica a giocare a carte. Vieni, siedi sulle mie ginocchia e metti le mani sotto il mio maglione, io le metterò sotto il tuo, così. Vedi che ti è tornato il sorriso? Ora ci beviamo un bicchiere di vino e poi ti spoglio nuda.
    Letizia, intanto, rimuginava sull’indifferenza dimostrata da suo marito, per lei era un’offesa grave che quello entrasse e non la degnasse di una parola, nemmeno un ciao smozzicato o un ehi per innescare un collegamento. Non che le importasse dialogare con lui, anzi, meno parlavano e meglio era, ma ignorarla era lo sgarbo peggiore che potesse farle. Nella sua mente si figurava l’approccio ideale.
    - “Ehi, sto morendo di fame, che si mangia?”
    - “Solo a mangiare pensi?”
    - “Prima a mangiare e poi al resto, che hai cucinato?”
    - “Pasta e fagioli.”
    - “Porta in tavola, dai!”
    - “Con calma! Anch’io ho lavorato, cosa credi?”
    - “Senti, non è che ti devo prendere a schiaffi tanto per cominciare…”
    - “A chi, vedi dove devi andare…”
    A quel punto s’immaginava una sberla e un’altra pronta per arrivare, si toccava la guancia con la mano e intanto il sangue le cominciava a ribollire, non per l’offesa subita ma perché una manifestazione così virile le risvegliava i sensi. Quindi lo avrebbe servito e riverito come si fa con un padrone, avrebbe aspettato che fosse sazio e un po’ brillo e poi, sparecchiando la tavola gli avrebbe parato il culo a portata di mano e lui avrebbe accolto l’invito, le avrebbe infilato una mano fra le cosce e le avrebbe sfilato d'un colpo le mutande, poi avrebbe chiuso a chiave la porta e si sarebbe fatta scopare sul tavolo.
    Ma perché lui non era così? Perché non la picchiava come faceva suo padre con sua madre e i suoi fratelli con le loro mogli e i suoi cognati con le sue sorelle? I loro sì che erano matrimoni ben riusciti, questo pensava, la donna non faceva in tempo a farsi alzare la cresta che l'uomo con una sberla o una cinghiata la rimetteva in riga, e senza por tempo in mezzo sfoderava l’attrezzo e se la scopava subito, tanto per mettere le cose in chiaro e dimostrare, senza ombra di dubbio, chi è che porta i pantaloni.
    Ma quelli erano uomini di provincia, rudi e duri, non come lui che si credeva un poeta, che le aveva scritto decine di poesie, che la trattava come se fosse un suo pari, che cercava di essere garbato e gentile e faceva l’amore lentamente dedicando un’ora solo ai preliminari.
    E che cavolo! Lei voleva essere trattata come una donna.
    Più tempo passava e più si pentiva d’essersi messa con un cittadino.
    Spalancò la porta dello studio e lo sorprese appisolato sulla poltrona.
    - Ma solo a mangiare pensi?
    Luca trasalì.
    - Che succede?
    - Che succede, entri, nemmeno mi cachi per dire, stronza, che hai fatto stamattina, ti sei sbattuta la testa nei muri, come va. Ti sembra modo?
    - Ma che dici, non gridare che i bambini s’impressionano.
    - S’impressionano? Si devono terrorizzare che hanno un padre come te. Ma che hanno fatto di male, poveri figli? Mi dovevo stare al paese e maritarmi col farmacista. Oh stupida che sono stata.
    Letizia prese a schiaffeggiarsi e Luca si alzò e cercò di calmarla. Non capiva che in quel momento l’unica cosa da fare era tirarle due ceffoni maschi, strapparle di dosso quel cencio di veste e violentarla. Cercò, invece, di abbracciarla, lei si divincolò, diede un calcio al tavolino mandando in frantumi la bottiglia e scappò in cucina dove, per sfogarsi, ruppe un intero servizio di piatti. E lo fece con metodo, uno alla volta lanciati tutti nello stesso angolo, in modo da facilitarsi la raccolta successiva.
    Luca si era portato le mani sulla testa, aveva deciso che al decimo piatto sarebbe intervenuto per farla smettere ma a quel traguardo non se la sentì di affrontarla e decise per il quindicesimo, poi rimandò al ventesimo ma lei al diciottesimo smise.
    - “Cazzo!” – pensò Luca – “Sei fondi, sei piani e sei da frutta."
    - Ma sei impazzita? – disse affacciandosi con cautela.
    Letizia, per tutta risposta, afferrò una bottiglia di vino dalla rastrelliera e la lanciò nel solito angolo per innaffiare i cocci.
    - Eh no, maledizione, il vino no! – esclamò Luca furibondo, fece due passi avanti e si mise fra lei e le bottiglie.
    - Non ti permettere di toccare il vino che ti spacco tutta come quei piatti! – le urlò puntandole sul viso la mano in segno di minaccia.
    Letizia lo vide arrabbiato davvero e pensò che era meglio ritirarsi, si chiuse nella stanza dei bambini e scoppiò a piangere. I bimbi, vedendo la mamma in lacrime presero a piangere anche loro e si strinsero a lei per abbracciarla e restarono così a lamentarsi per un’ora.
    - Mamma, perché piangi?
    - Perché papà è cattivo.
    - Mamma, perché papà ti vuole picchiare?
    - E’ cattivo, il vostro papà è cattivo, siamo sfortunati.
    A questa frase la più grande aprì la porta e si diresse verso suo padre.
    - Non ti devi permettere di toccare la mamma! – gli urlò con tutta la voce che aveva.
    Luca la guardò stupito e gli sembrò di vedere Letizia in miniatura.
    - Vieni qui. – le disse.
    La bambina esitò, allora Luca si sedette e aprì le braccia, lei si scaraventò su di lui e si fece abbracciare mentre riprendeva a piangere.
    - Io non voglio picchiare nessuno, non picchierei mai la mamma.
    - E allora perché hai detto che la spacchi tutta?
    - E’ solo un modo di dire, non farei mai del male alla mamma né a voi, ero solo arrabbiato.
    - Non ti devi arrabbiare, se no la fai piangere.
    - Va bene, ora non sono più arrabbiato, stai tranquilla, torna di là, vai, cerca di calmare la mamma.
    Piano, piano i lamenti e i pianti nell’altra stanza si smorzarono, man mano che l’ultima luce del pomeriggio, rimasta a curiosare nella casa mentre il sole incendiava una pennellata di cielo, scavalcava in fretta le finestre e lo raggiungeva, come uno sciame che s’è attardato. Il buio sembrò un impiegato che arrivava in ufficio, si tolse la giacca, scambiò qualche battuta coi colleghi, diede uno sguardo al giornale e infine si sedette e s’immerse nel silenzio, dove c’erano già, prigionieri dei loro pensieri, Luca, Letizia e i bambini.

    continua


    [Modificato da basettun 14/11/2009 18:52]
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    Gabriella.75
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    00 14/11/2009 20:22
    Riesci con le tue descrizioni poetiche e affascinanti a rendere intrigante e appassionante anche una storia che cela il dramma di un rapporto di coppia logoro. Moltissimi uomini vorrebbero avere il coraggio, la tolleranza, il rispetto e la ricchezza dei sentimenti di Luca... e moltissime donne vorrebbero possedere la dolcezza, la riservatezza, la delicatezza e la cultura di Laura. Continua...


    Gabri

    [SM=g7350]
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    basettun
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    00 15/11/2009 18:29
    Torno subito, forse - segue

    Laura trovò Lorenzo che l’aspettava seduto in macchina, aveva lo stereo ad alto volume e si muoveva al ritmo della musica, come se fosse in discoteca, si accostò per baciarlo ma lui non se ne accorse, mimando le parole del rock e facendo un sacco di smorfie avviò il motore e partirono. Quando il cd finì erano già nella pineta e finalmente si parlarono.
    - Ti piace il nuovo impianto?
    - Nuovo?
    - Ma come, non hai sentito che sonorità? Ho fatto montare due casse anche dietro, senti. – e accese di nuovo spostando il balance per farle sentire solo gli altoparlanti posteriori. – Eh? Che ne dici? Non sembra di stare al centro della band? – e attaccò di nuovo a muoversi come un Celentano dell’ultima generazione.
    Laura lo guardò sorridendo ma non fece una mossa, poi si girò intorno e vide altre auto ferme, in ognuna c’era una coppia di giovani impegnata in attività sessuali.
    - Ma, non ti va una pizza? – gli chiese senza girarsi.
    - Una pizza? E me lo dici ora?
    - Te l’ho detto che non ho cenato, ma tu ascoltavi la musica…
    - Ma quando me l’hai detto… – sbuffò e rimuginò, guardò l’orologio, mise in moto e innestò la retromarcia. – La signora vuole una pizza? – disse ripartendo – E noi la portiamo a mangiare la pizza.
    Al tavolo, perché Laura volle sedersi, la scrutò mentre lei sminuzzava la Margherita in pezzetti troppo piccoli e dato che lui aveva già cenato, le raccontò tutti i particolari dell’impianto stereo che s’era fatto montare nel pomeriggio, elencò le caratteristiche tecniche, le differenze con gli altri apparecchi che gli sprovveduti acquistavano perché non conoscevano quello che aveva scelto lui. Lui si documentava, era al corrente delle ultime novità, degli accorgimenti più segreti che i tecnici tenevano nascosti gelosamente.
    - E sai perché? Perché se ce l’hanno tutti non puoi andare in giro a dire che hai il meglio del meglio. Però io ho preso a Lillo e gli ho detto: senti bello, non voglio le solite cazzate che gli monti ai pecorari, a me mi devi mettere le cose migliori che hai, che se mi perdo una nota di Sting te lo riporto un pezzo alla volta, e non qui in laboratorio ma nella cassetta della posta. Lui rideva, ma poi è andato di là ed è tornato con cinque pacchi. Questo, mi ha detto, ce l’hanno solo in due, uno è un boss della malavita e l’altro è il padrone di mezza città, ma a te ti faccio una modifica e diventa unico. E così, cara mia, ho il migliore impianto stereo mobile che c’è sul mercato.
    A quel punto si sarebbe aspettato i complimenti della sua ragazza, ma Laura continuò ad imboccare svogliata i pezzetti della Margherita e non gli fece nemmeno un cenno di compiacimento. Così lui se l’immaginò, scosse la testa come per dirsi, bravo, e le rubò un po’ di pizza per farla finire prima.
    Quando uscirono dalla pizzeria erano già le ventitré e Laura si fece riaccompagnare a casa. Lorenzo fece un po’ l’offeso finché lei non chiuse il portone, poi prese il telefono e chiamò tre o quattro amici ai quali comunicò la lieta notizia del nuovo impianto stereo e li convocò in un pub.

    Quella poca luce che riusciva a penetrare la tenda proveniva dagli abbaglianti delle auto che imboccavano il viadotto, urtava nell’angolo dell’armadio, rimbalzava sul soffitto e precipitava ai lati dello specchio frantumandosi. Laura ne seguiva il percorso ogni volta spostando solo gli occhi e quando la vedeva spezzarsi in decine di lampi, subito correva con lo sguardo a coglierne un’altra per accompagnarla, e cercava, così, di addormentarsi.
    Ma ogni volta un senso incompiuto di tristezza la teneva sveglia, provava ad acchiappare al volo l’ultima luce che le era sfuggita ma la ritrovava in frammenti imprendibili che in un attimo si erano già spenti e lei era ancora in ritardo sulla luce successiva, la cercava, la sopravanzava con lo sguardo ma quella, più veloce, era già esplosa.
    Si sentiva anche lei così, un lampo di luce che appena ci pensi è già finito.
    Aveva ventitré anni, come il sole a un metro dall’orizzonte curvo del mare, che comincia a splendere così intensamente e a mostrare i raggi dorati, proprio come lo disegnano i bambini, e a scaldare davvero. Adesso era la stella del mattino che semina i colori e risveglia le piante dal letargo, apriva gli occhi su quella porzione di mondo e produceva la vita col solo sguardo, la scandiva minuto per minuto e la spingeva a cercare l’impeto primario vincendo il gelo del buio.
    Tutti le rispondevano, chi scoprendo i petali, chi con un frullo d’ali, chi rivolgendole un sorriso, ma lei non riconosceva la sua stagione, si sentiva già dietro le nuvole del ponente dopo aver saltato lo zenit senza accorgersene, da sole bambino rosso come il fuoco a stella cadente verso la notte, già spenta, già fredda.
    Dov’era finita la sua gioventù? Dov’erano finiti i sogni ad occhi aperti, ch’erano così veri e vicini da sembrare prendibili? Ma, soprattutto, dov’era finito l’amore?
    Aveva conosciuto Lorenzo che aveva diciotto anni, era allegro e lei aveva bisogno di allegria, il primo anno insieme lo avevano trascorso ridendo, lui aveva sempre la battuta pronta, era simpatico, aveva tanti amici ch’erano divertenti come lui, scherzavano su tutto, passavano le notti a schiamazzare tra pub e pizzerie e poi a spigolare un po’ di sesso nelle pinete. Ma già dopo un anno le risate erano spente, gli scherzi non divertivano più, e il sesso nella pineta sembrava la conta delle pecore prima del sonno.
    Da qualche tempo Laura provava ad evitarlo e lui se n’era accorto, non perché non le piacesse più, Lorenzo era giovane e aveva un corpo d’atleta, coi muscoli agili e scattanti, ma aveva scoperto che quell’uomo non la stimolava mentalmente, non riusciva ad accendere la sua curiosità, non sapeva coinvolgerla in dialoghi colti o almeno intelligenti. Ma ciò che più l'angustiava era la personalità di lui, tutta rivolta alla cura dell’aspetto fisico, dell’abbigliamento, dell’automobile che vezzeggiava come se fosse un essere umano.
    Le cose più preziose, per Lorenzo, erano, nell’ordine, la sua BMW, il suo Rolex, i suoi Levi’s, le sue Nike, l’anello col rubino che gli aveva regalato sua madre e la sua Laura, che, anche se non era preziosa, era sua e guai a chi gliela toccava. Poi aveva un sacco di altre cose che appartenevano ad una seconda categoria, quella dei beni sostituibili, che venivano accantonati non appena scopriva il prodotto più tecnologicamente avanzato, o quello più alla moda, o anche solo il più appariscente: il telefono, gli occhiali da sole, la camicia, la giacca e, appunto, lo stereo mobile.
    Laura sospettava di essere inclusa in quest’ultimo elenco o, addirittura, in una lista ben più mortificante, quella che comprendeva il padre, la madre, gli altri parenti che gli erano capitati così, per caso, senza che lui avesse avuto la possibilità di sceglierli.
    Però era un bravo ragazzo, Lorenzo, aveva la sua attività ben avviata sulle orme del padre, un bel conto corrente, un appartamento che aspettava solo l’arredamento e una bella donna come tocco finale e, magari, due o tre marmocchi ai quali trasmettere il gusto per le cose belle e di valore. Lorenzo aspettava lei, che si decidesse una volta per tutte a sposarlo.
    Ma Laura aveva rimandato già due volte quello che le appariva come un salto definitivo verso la notte. Dall’ultima data fissata era trascorsa un’estate, poi l’autunno che aveva stemperato un po’ l’entusiasmo di lui, ora era l’inverno che gelava ogni pensiero di rinascita, ma in primavera lui sarebbe tornato alla carica e l’avrebbe tempestata di domande, di regali e di fiori, perché quando sentiva che la loro unione vacillava prendeva a farle regali uno dietro l’altro. E Laura si sarebbe barricata dietro gl’impegni di lavoro, avrebbe scavato trincee fatte di “ma cosa vuoi che cambi?”, “ma non stai bene così?”, “siamo ancora troppo giovani”, finché non fosse arrivata l’estate che l’avrebbe distratto col surf, col motoscafo, con le gite alle isole e i falò sulle spiagge.
    Ma ora era lì, a cavalcare le schegge di luce artificiale delle quali credeva di sentire pure il rumore mentre urtavano i mobili della sua stanza, ed era un rumore continuo e ritmato, come quello del treno sui giunti delle rotaie. A questo pensiero si unì il lumino rosso che scoprì proprio in quell’istante, era il led del televisore, e lo vide ingrandirsi fino a diventare il sole rosso che aveva stupito Luca, rievocò la sua figura che s’alzava e lo sguardo di lui così ingenuo come quello di un bambino, come i visi dei suoi alunni che restavano a bocca aperta vedendo la nevicata, anche se l’avevano vista decine di volte.
    Era lo stupore di chi è grato alla vita per ogni piccola cosa, che accoglie come un dono il soffio del vento e un raggio di sole, e s’incanta se fra i rami dormienti del melo a gennaio scopre un frutto tardivo beccato dai merli.

    continua


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    Gabriella.75
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    00 15/11/2009 21:01
    Altre figure, oltre a quelle di Laura e Luca, che invitano ad un' attenta riflessione sono quelle di Letizia e Lorenzo. Letizia, al contrario di Laura, rappresenta quella categoria di donne sempre insoddisfatte, arroganti, ignoranti, vigliacche (che si avvalgano dell’innocenza di bambini per ricattare un uomo); e Lorenzo, al contrario di Luca, un eterno immaturo, sciocco, frivolo, fatuo che riempie la sua esistenza con l’opulenza, l’agiatezza e il lusso. Non so se è un caso o se lo scrittore ha volutamente fatto iniziare i nomi di questi quattro personaggi con la consonante L; è una pura coincidenza oppure la L è l’inizio della parola Libertà?
    Mi piace pensare che è un elogio alla Libertà a dispetto della schiavitù, della servitù, della prigionia, della cattività, della sottomissione, dell’oppressione, del giogo………continua

    Gabri

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    [Modificato da Gabriella.75 15/11/2009 21:06]
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    basettun
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    00 16/11/2009 21:54
    Torno subito, forse - segue

    “Ti ho portato le poesie”, le avrebbe detto senza nemmeno guardarla, mentre lei si toglieva la giacca e la sistemava e avrebbe continuato a sistemarsi anche lui, scegliendo un posto nello scompartimento, senza dare un’importanza eccessiva alla frase, come se fosse stato un “ciao, come stai”. Lei non avrebbe sentito o non avrebbe capito e lui non l’avrebbe ripetuto più, si sarebbero seduti e avrebbero parlato del tempo, del lavoro o di altre cose banali.
    Luca era sicuro che sarebbe andata così e cercava di non pensarci.
    Ma da quando si era svegliato il suo unico pensiero era quello, sotto la doccia recitava a memoria i suoi versi immaginando che fosse lei a leggerli, la pensava assorta nella lettura e poi, a tratti, fantasticava lo sguardo di Laura che si alzava e lo guardava negli occhi, in corrispondenza di una delle frasi più toccanti, e sembrava che ne udisse il pensiero: “Ma l’ha scritto proprio lui… che tenerezza, che sensibilità… chi l’avrebbe mai detto.”
    Quando aveva smesso di accarezzarsi col sapone e aveva preso ad asciugarsi col telo ruvido, anche i pensieri erano cambiati e l’immaginava distratta o adulante, come era più probabile che sarebbe stata, poi tornava a lisciarsi i capelli e di nuovo le appariva soave e sinceramente attratta. Il pensiero di lei cambiava a seconda delle cose che faceva, era aspro e disincantato mentre spingeva l’auto per farla partire ma tornò lieve e fascinoso mentre un sorso di caffè lo scaldò e sentì la sua voce che diceva: - Ciao, me le hai portate le poesie?
    - Sì. – disse girandosi, e la vide così bella e calda che gli sembrò il sole di mezza estate. Il suo sguardo fu talmente pieno dell’immagine di lei che Laura pensò che nessun uomo l’aveva mai guardata così e si sentì accolta come non le era mai accaduto.
    Nessuno dei due capì quanto quell’incontro e quello scambio di parole e di sguardi fu importante per l’altro. Ognuno si coccolò la propria gioia credendola una debolezza e cercando, perciò, di non mostrarla, ma entrambi parlavano con gli occhi un linguaggio che non ha scrittura, muto e tenero, ch’era compreso dal respiro più lieve e celato, e negato alla coscienza.
    - Ecco, ne ho messe insieme alcune delle ultime, spero che non ti annoi a leggerle.
    Laura sorrise, le prese e le conservò in borsa di nascosto, come se si fossero scambiati un biglietto d’amore.
    Luca non stava più nella pelle, rischiò di perdere il treno perché si attardò coi pensieri dentro la tazzina del caffè, quando sentì l’annuncio del rapido in partenza si mise a correre e lo acciuffò per un pelo, ma non seppe decidersi a cercarla nei vagoni consueti, prese a girare nella prima classe per almeno mezz’ora, poi tornò indietro e la incontrò nel corridoio.
    - Ma dov’eri finito?
    - Ero di là con un amico.
    - Vieni, dentro fumano tutte, cerchiamo un posto tranquillo.
    Trovarono l’ultimo vagone ch’era pieno di studenti. Quando scesero tutti, alla prima stazione, si sedettero accanto al finestrino, Laura dispiegò i fogli con le poesie.
    - Ora voglio scoprire chi sei. – disse, e si arrischiò a leggere a voce alta per condividere con lui il momento magico che è la lettura di una poesia.
    Che fosse un rischio lo sapeva ancor prima di cominciare, perché se i versi fossero stati banali o non le fossero piaciuti, avrebbe espresso in diretta il proprio disappunto, anche senza volerlo, e lui ne sarebbe rimasto ferito. Ma qualcosa le diceva che Luca non poteva avere scritto banalità e così cominciò.
    - “Sulla rupe sembiante inerte giaccio/ e guizzano gli sguardi/ volti a schegge dinamiche di sole/ dove il blu diventa elettrico./ Gli evasi balenano pensanti/ sospinti dal flusso di elettroni/ convergono cogli apici dei lampi/ e si smorzano al richiamo./ Lumini ignari di audacia/ al buio sembrano stelle./ Sperante e incredulo mi annotto.”
    Laura restò a guardare il foglio e sembrava che rileggesse in silenzio, Luca sentiva ogni fibra dei suoi muscoli in tensione e il cuore ch’era indeciso se battere o fermarsi, la guardava aspettando e temendo il momento in cui avrebbe alzato gli occhi ma lei restava immobile, assorta. Quando sollevò lo sguardo trovò quello di lui che la fissava e sorrise. Avrebbe voluto gridare, saltargli addosso e abbracciarlo ma dovette limitarsi ad un sorriso, pur se così ampio da farle male alle guance.
    - Ma tu non sei incredulo. – gli disse.
    - Incredulo come un adulto, sì, ma anche sperante come un bambino, per fortuna.
    - Gli evasi sono i tuoi pensieri, vero?
    - Sì.
    - Che si fanno un giro, su per il cielo, e giocano coi lampi.
    - Sì.
    - E tu sei felice perché sei libero di volare col tuo pensiero che ha le ali.
    - Sì.
    - Perciò sembri inerte ma non lo sei. Anche se alla fine ti rendi conto che hai giocato con la fantasia e i tuoi pensieri ti sembrano, sì, luminosi come le stelle ma, forse, privi del coraggio operativo.
    - Già! Non sempre te lo puoi permettere.
    - Ma non smetti di sperare.
    - No, finché avrò forza.
    - E’ bellissima. E’ semplice ed efficace.
    Anche Laura era semplice ed efficace, Luca lo capiva analizzando le poche parole e i pochi gesti che lei faceva. Quando la immaginava, la vedeva quasi immobile e silente ma percepiva un processo chimico simile all’ebollizione, che la faceva apparire spumeggiante e allo stesso tempo statica, un’energia nascosta ch’era suggerita da pochi indizi, un sorriso eclatante, un richiamo acuto, un gesto veloce che rallentava al tatto e si trasformava in carezza.
    - C’è qualcosa in te. – le disse.
    - Qualcosa?
    - Qualcosa che ti percorre velocemente. Credevo che fossero i colori e le luci del paesaggio… ma è qualcosa che hai dentro.
    Laura lo scrutò e vide che i suoi occhi si muovevano veloci, come se guardando lei vedesse il paesaggio che scorreva nel finestrino del treno. Le sembrò strano perché lei era immobile, mentre gli occhi di Luca facevano centinaia di metri per guardare il suo viso da un punto all’altro, così le sembrò di correre per non farsi acchiappare mentre lui, anche da fermo, la raggiungeva sempre.
    Era una bella corsa, lei si sentiva un paesaggio aggrappato a uno spicchio di terra, ma involato per magia e scagliato da una forza segreta lontano, di fronte allo sguardo di lui che la inseguiva, la superava, poi si fermava ad aspettarla e ne gustava la brezza mentre sfrecciava come un rapido e poi via, ad inseguirla ancora.
    Entrambi ebbri e veloci ansimavano, affusolati e più belli, correndo l’uno negli occhi dell’altro si sfuggivano, si cercavano, s’incontravano e lei non voleva farsi prendere, o forse sì, e lui provava ad afferrarla e ne temeva il contatto, esitava e lei era già passata.
    Era trascorso qualche minuto, di silenzio, sembrava, nonostante il frastuono del treno in corsa. Laura durante il suo volo aveva abbassato gli occhi più volte per riposarli sui fogli ma li aveva rialzati subito per ritrovare lo sguardo di Luca e sorrideva, quasi imbarazzata, per essere scrutata così.
    - Non dovrai passare e scomparire come quel paesaggio, – disse Luca girandosi verso il finestrino e alzandosi perché la sua fermata era imminente. – ormai lo conosco a memoria, ogni albero, ogni casa. Tu non dovrai essere una bella visione che passa veloce.
    - Non passerò veloce. – rispose lei mentre continuava a sorridere e dal suo viso sfuggivano frasi che, in quella circostanza, non poteva dire.
    - Promesso? – ma Luca aveva accolto tutte le parole del linguaggio muto e già sapeva ciò che lei avrebbe risposto.
    - Te lo giuro. – disse Laura baciandosi due dita.
    Lui baciò due delle sue e gliele porse per unirle a quelle di lei.
    Era il primo segnale d’intimità.

    continua


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    Gabriella.75
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    00 17/11/2009 15:54
    Se l’intento dell’autore è quello di far commuovere il lettore, in questa quarta parte del racconto “Torno subito, forse” l’obiettivo è stato pienamente raggiunto, infatti, mi sono veramente commossa. Luca e Laura con una personalità “semplice ed efficace” come il contenuto della loro poesia, comunicano i loro sentimenti con pochi sguardi, con poche parole e in pochi attimi percepiscono l’immenso, l’infinito, la bellezza e la ricchezza del PAESAGGIO che li accoglie con umiltà e generosità per offrirgli la gioia di vivere un NUOVO GIORNO sgombro da nubi e tempeste.
    Emozionante il momento in cui Luca, con fanciullesco atteggiamento, chiede: “Tu non dovrai essere una bella visione che passa veloce”…e la risposta arriva con dolci note: “Non passerò veloce”……

    Continua, ti prego.
    [SM=g7350]


    Gabri
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    Carmen...
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    00 17/11/2009 16:03
    si...in questa ultima parte mi piace come è descritto l'inizio di un amore...emozionante!

    [SM=g7372]
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    Gabriella.75
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    00 17/11/2009 16:12
    Ciao, Carmen, mi piace condividere con te questo pensiero.

    Gabri

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    Carmen...
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    00 17/11/2009 16:31
    Ciao Gabry, di solito sono un pò restia a commentare i lavori di mio fratello perchè il mio intervento sembra "di parte" ma trovo che le sue opere siano molto belle e certi racconti, anche se li conosco già, mi emozionano sempre.

    [SM=g7350]
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    Gabriella.75
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    00 17/11/2009 16:55
    Si, è vero, hai ragione Carmen, i racconti di Paolo emozionano sempre ed è per questo che io amo definirli "senza tempo" e "senza età".
    Adesso ti saluto, sono ancora in ufficio e devo tornare a casa, a presto. Un abbraccio.

    Gabri





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    basettun
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    00 17/11/2009 18:55
    Torno subito, forse - segue

    Prima della fermata, il treno percorreva qualche centinaio di metri in galleria e cominciava la lunga frenata. Era come una stanza segreta dove ognuno era costretto a rifugiarsi e si ritrovava da solo a fare i conti con la propria parte incognita, quella che a volte, a tratti, si rivela a te stesso e ti terrorizza. I pensieri e le emozioni stampati sui muri e che sei obbligato a vedere, come se tu stesso li avessi scritti e disegnati per rammentarli ma ne fossi fuggito, ti aggrediscono con la forza della verità e ti feriscono più di quanto potrebbe una vita di menzogne.
    Le pareti di pietra ingiallite dai neon rallentavano e la privazione del paesaggio lo colpiva più del paesaggio stesso, Luca fissava la prigione che sfuggiva e quasi si fermava e poteva leggerne le frasi d’amore e i disegni scabrosi incisi dagli operai che l’avevano costruita. Quando stava per stagnare e condannarlo per sempre a subire nevrosi e speranze di altri, spariva d’improvviso.
    La galleria era il segnale quotidiano della fine di un viaggio, quello di Luca, ma sembrava la metafora della sua vita ch’era giunta a quel chilometro e s’era quasi fermata. Solo che nell’allegoria del viaggio la galleria finiva e il paesaggio riappariva, per poche centinaia di metri prima della stazione, e quel breve manifestarsi lo consolava.
    Ma nella realtà il suo treno sembrava seppellito per sempre e il paesaggio, murato agli sguardi, che col tempo che pianifica e rende ragione di ogni effetto sarebbe apparso superfluo, lo avrebbe creduto una chimera che seppur conosciuta e aspirata in passato, quando la mente conosce e aspira perché giovane o ingenua o libera, si manifesta ora come un balocco.
    Era triste Luca scendendo dal treno, perché la felicità che gli si era rivelata nel volto e nel corpo di Laura, nella corsa di sguardi che l’aveva sfinito volante sui campi, sulle spiagge, trasfigurato nella velocità dei colori cangianti dal blu sottomarino al carminio del sole urlante, era imprendibile. Proprio come un trastullo d’infanzia smarrito chissà dove, chissà quando, e il dove e il quando sono così lontani che disperi che siano persino esistiti. Ne rammenti, a volte, la forma, l’odore, le sensazioni del tatto ma non ricordi quale emozione, perché la memoria dei sensi è scolpita e i sentimenti sono invece fugaci. Perché la vita è fisica e non lascia memoria d’intenti.
    Un sudario gli calò fino alle scarpe, tanto che incespicò e cadde sulla via che lo conduceva al suo ufficio e diede la colpa ai marciapiedi sconnessi mentre si rialzava e si specchiava, per un attimo, nella pozza di pioggia che sembrava una mattonella.
    Raccolse le sue parti che s’erano scomposte e nella confusione dell’incidente non seppe sistemarle, tanto che il cervello si ritrovò al posto delle gambe, e quasi correndo passò dritto davanti al portone della scuola, fino al capolinea del bus che sembrava aspettarlo e che infatti partì subito dopo che Luca vi si era aggrappato.
    Era la linea per le frazioni di campagna, a bordo c’erano tutte le maestre che raggiungevano le classi rurali e che restarono sorprese dalla presenza del segretario. Pensarono ad una ispezione ch’era sfuggita alla loro rete informativa e cominciarono a parlottare concordando velocemente i sistemi per coprire la collega che s’era assentata arbitrariamente e per scoprire altre eventuali questioni che fossero giunte alle orecchie della direzione. Poi due di loro gli si avvicinarono e con modi vagamente seducenti provarono a farlo parlare. Ma fu inutile, perché Luca non vedeva e non sentiva niente e solo grazie all’automatismo dell’educazione rispondeva ai saluti.
    Quando, dopo mezz’ora, l’autobus si fermò in prossimità di una grande quercia con accanto una fontanella, Luca pensò di scendere perché il luogo gli piaceva, una maestra lo seguì perché era la sua fermata e lo afferrò per il braccio prima che lui si avviasse.
    - Allora, è da me che viene! – gli disse accompagnandolo per qualche passo.
    Ma la scuola non era nella direzione che aveva scelto Luca, era dalla parte opposta, allocata in un edificio fatiscente col tetto di lamiera. La maestra sapeva che il segretario non c’era mai stato e allora lo prese e lo condusse giù per il viottolo fino all’uscio, dove c’erano già tutti e nove gli alunni delle quattro classi e due capre che aspettavano.
    - Bambini, questo è il segretario della scuola. – disse la maestra.
    - Buongiorno segretario. – gridarono i bambini in coro, e a loro si aggiunse il belato delle capre che si allarmavano ad ogni voce.
    Luca si guardò intorno e il paesaggio gli piacque, c’erano poche case, orti e recinti e un bosco in lontananza, guardò la maestra e finalmente la vide, rientrò in sé arrossendo e sperando vivamente che lei non avesse percepito il suo smarrimento.
    Entrarono nell’aula ch’era umida e i bambini aprirono le imposte, attaccarono la stufa e spinsero fuori le capre che s’erano intrufolate. Ognuno di loro portò la sua sedia per offrirla a Luca.
    - Io mi chiamo Luisa, – disse la maestra – ci siamo conosciuti in una riunione ma forse non ti ricordi di me.
    - No, scusa, siete così tante.
    - E viaggiamo pure insieme, prendiamo lo stesso treno.
    - Davvero?
    - Tu stai sempre insieme a due mie colleghe, Laura e Loredana.
    - Ah, sì! – Luca vagava con lo sguardo e cominciava ad ambientarsi, vedeva i bambini che li scrutavano e coglievano ogni parola del dialogo, quasi in silenzio se non fosse stato per i due che si litigavano il posto vicino all’unica bambina.
    - Ecco, vedi, – disse Luisa – in direzione sarà arrivata la voce che due bambini, due gemelli, che non hanno ancora l’età scolare, vengono accolti in quest’aula, ma ti giuro che sono due bambini intelligenti, sarebbe un peccato non istruirli, sono già più bravi di alcuni dei loro compagni che sono in classi superiori. Qui la lezione è unica per tutte e quattro le classi e loro, i “Rositi”, sanno già la tabellina del nove e la storia dell’antica Roma.
    I “Rositi” erano in prima fila e sull’attenti, Luisa, indicandoli, gli spiegò ch’erano chiamati così per via dei capelli che ricordavano il colore di un fungo molto comune in quelle montagne e li chiamò, come se fossero uno solo, alla cattedra.
    - Lino, dimmi la tabellina del nove. – e quello gliela propinò senza errori.
    - E tu, – si rivolse all’altro – chi fu il primo re di Roma?
    - Romolo! Ch’era fratello di Remo e hanno fatto il solco con l’aratro tirato dai buoi.
    - E chi di voi mi sa dire il passato remoto del verbo essere?
    - Io fui, tu fosti, egli fu… – risposero facendo a gara a chi finiva prima.
    - Bravi, bravi. Andate a posto. – disse Luisa orgogliosa. – Vedi, – continuò rivolta a Luca – come si può lasciarli a casa?
    - Certo, non è giusto. Ma io non sono qui per questo.
    - No? E per cosa, allora? Qui non ci sono altri problemi. – lo guardò aspettando una risposta ma Luca non sapeva cosa dire, in quel momento cercava di elaborare una giustificazione credibile.
    - Forse, – continuò Luisa – per la bidella che è ammalata da dieci giorni. Ma vengono le sue figlie a fare la pulizia! Vedi? E’ tutto pulito.
    - Ma la scuola non è come una famiglia, se la bidella si ammala si manda una supplente.
    Luca si aggrappò a quell’alibi e lo fece diventare il motivo della sua visita.
    - Una supplente? Ma chi ti viene in questa montagna?
    - Qualcuno che ha bisogno di lavorare.
    - Ma qui siamo davvero come una famiglia. Aspetta che si facciano le dieci e vedrai.
    Luca lasciò Luisa alle sue lezioni e uscì a passeggiare nella campagna circostante, doveva aspettare il pullman di ritorno che sarebbe passato alle dodici e trenta. Intanto non sapeva come fare per avvisare la direzione della sua assenza, l’unico telefono pubblico, gli dissero, era nella bottega di generi alimentari, su, al paese distante un paio di chilometri. Nessuno sapeva chi fosse, altrimenti gli avrebbero offerto la disponibilità del loro telefono di casa, ma Luca era lì per caso, senza che nemmeno lui sapesse perché e cercava di essere invisibile per non disturbare.
    Non altrettanto invisibile era la pena che lo aveva aggredito e s’era impossessata del suo volto stravolgendone i lineamenti; ne percorreva la fisionomia dal mento alla fronte come un’onda sismica che produca fratture e rilievi nei campi. Sembrava sofferente per un dolore fisico e dondolava perdendo a volte l’equilibrio.
    Era la sua coscienza adulta che faceva a pugni col bambino rintanato chissà da quanto, che s’era affacciato al tepore di un sole pigro e l’aveva trovata guardiana.
    Non tana, si rivelava il rifugio, ma prigione fosca allestita per avvilire il diletto, ché mai potesse, la gioia, tramare insidie men che virtuali alla stabilità del tempio, eretto in memoria di un culto effimero che abbisogna di simboli autorevoli.
    Il matrimonio e la famiglia pendevano dai chiodi come il crocefisso sulle pareti della coscienza. La sua più antica educazione gl’imponeva di venerarli, e offenderli, anche solo col pensiero, gli procurava un dolore troppo grande.
    Ma il paesaggio, fuori delle mura dell’ufficio, era così nuovo e bello che persino l’idea della trasgressione, di cui avrebbe dovuto render conto l’indomani, sembrava giustificato da quel po’ di conforto che gli arrecava.
    Cosa mai era quella pena, se non il disagio di un conflitto fra la condizione iniqua e l’anelito di riscatto?
    Luca lo sapeva perché altre volte l’aveva provata, era la stessa pena che procura una malattia, lo stesso spossamento causato da un accesso di febbre, doveva solo curarsi e sarebbe guarito. Ma per la prima volta credeva che i ruoli fossero stati invertiti da un ammaestramento beffardo; ciò che appariva malanno era invece brama di benessere ch’era opportuno reprimere.
    Coi modi consueti, la confessione, la penitenza, l’espiazione, per poi tornare a nutrirsi d’ipocrisia, di volgarità, di arroganza fino a quando il virus della felicità non l’avesse colpito ancora.
    Un vaccino, ecco cosa gli serviva. Ma non lo erano, forse, i figli che arrivano a cementare le coppie e inibire gli istinti? Luca ne aveva accolti tre ma la sua salute non ne aveva trovato giovamento, piuttosto il desiderio di evasione si era moltiplicato.
    Al pensiero dei bambini corrispose un nodo alla gola.
    - “Eccolo,” – pensò Luca, – “ecco un altro nodo scorsoio che mi tiene appeso alla mia mediocrità.” – come se i figli fossero stati le catene che lo tenevano legato a Letizia e gl’impedivano di rivolgere la sua attenzione verso un’altra donna che potesse amarlo davvero.
    Poi girò lo sguardo verso la valle che diradava con curve morbide fino al piano e si sbiadiva liquida nella marina, pensò di berne come se fosse una panacea e cominciò dagli orti più vicini, dagli ovili, i pollai, le terrazze coi vigneti che si tuffavano nel dirupo, gli uliveti che rubavano un po’ di cielo e lo mischiavano coi pascoli e coi rovi che recintavano il bosco. Bevve fin dove riusciva a vedere, fino alla striscia di città che sembrava una ditata di gesso sulla lavagna, fino al graffito che avanzava disegnando il confine col mare.
    Era il diretto delle dieci, Luca sentì il vociare degli alunni che si riversavano nella piazzetta di fronte alla scuola, arrivarono di corsa e lo presero due da una mano e due dall’altra tirandolo fino alle panche. Lì alcune mamme avevano apparecchiato per la colazione, Luisa lo presentò e loro, dopo i convenevoli di rito, gli confezionarono una pagnotta che sembrava un pranzo completo. Il nonno dei “Rositi” colse l’occasione per stappare una delle sue bottiglie di vino e deliziò la compagnia coi detti antichi e le filastrocche finché sua moglie non lo mandò a radunare le capre che si erano disperse.
    Luisa guardava Luca e rideva, lo vedeva divertito e confuso per quella accoglienza che non si sarebbe aspettato.
    - Non è meglio del tuo ufficio qui?
    - Ah, non c’è paragone, facciamo a cambio? Vai tu, domani, a dirigere la segreteria e io vengo qui a fare il maestro?
    - No, nemmeno per sogno.
    - No, segretario, – intervenne una delle mamme. – la maestra Luisa lasciatecela qui. Voi, invece, perché non trasferite la segreteria, così questa bella giovane la vedete tutti i giorni?
    - Volentieri, se il direttore è d’accordo… qui il paesaggio è più bello.
    - Eeeh, il paesaggio.
    - Segretario, perché non ve la sposate la maestra Luisa? – disse uno dei bambini, il quale aveva colto al volo l’allusione. E a quella frase tutti i suoi compagni, tranne uno, presero a battere le mani sul ritmo di: - Si sposano, si sposano -.
    Uno, infatti, s’era rattristato e si abbracciò a Luisa, tanto che lei dovette consolarlo.
    - Non è vero, – lo tranquillizzò. – non ci sposiamo.
    - Che tragedia, – sussurrò Luca all’orecchio di Luisa. – ora questo mi odia.
    Quando la mattina finì, Luca e Luisa scelsero due posti vicini sul pullman e poi viaggiarono insieme anche sul treno. Lei pensava che era un bell’uomo e che non le sarebbe dispiaciuto farsi corteggiare, lui tramava un diversivo per non pensare a Laura, e giurò a se stesso che non le avrebbe mai parlato di poesia.

    continua


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    Gabriella.75
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    00 18/11/2009 17:00
    Questa parte del racconto è, secondo me, una pagina di poesia, un quadro di luce e di colori, una dolce sinfonia, un momento di storia di vita vera.
    Luca è invaso da una profonda tristezza;
    Laura è entrata nella sua vita, piano e leggera come un battito di ali di una farfalla, ma con la forza di un uragano e, Luca, simile ad un filugello, chiuso nel suo bozzolo, col filo dei pensieri si è costruito da solo la sua prigione: “dovevo fuggire, magari poi sarei tornato ma intanto dovevo fuggire, per conquistare l’autonomia, per emanciparmi, per conoscere l’emozione e la paura di vivere il mondo…” (L’ Aranceto). L’evasione spingono Luca in un altro paesaggio, rurale, semplice e accogliente dove si inebria dell’accoglienza di Luisa e Lino (altre due consonanti L). E’ un tentativo per non pensare a Laura, ma……..Continua…..a farmi commuovere.

    Gabri

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    sarasole71
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    00 18/11/2009 19:47
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    aspetto con ansia la continuazione
    adoro questo racconto... [SM=g7495]
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    basettun
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    00 18/11/2009 22:04
    Torno subito, forse - segue

    Il rientro a casa fu burrascoso, Letizia lo aggredì già sulle scale e lui s’infilò subito nel portone per attirarla dentro, non voleva che i vicini sentissero la litigata.
    - Dove sei stato oggi?
    - Come, dove sono stato? A scuola, no? Dove pensi che vada quando esco alle cinque del mattino? – ma già Luca aveva intuito il guaio.
    - Infame! Alle dodici e mezza ha telefonato il direttore e voleva sapere perché non eri a scuola. Con quale puttana te ne sei andato?
    - Ma che dici? Non gridare! E tu che gli hai detto?
    - Gli ho detto, mio marito ha detto che andava a scuola, forse il treno ha avuto un incidente. No signora, stia tranquilla, non c’è stato nessun incidente. Certo, mio marito è un bastardo e chissà con quale troia se la spassa.
    - Non gli avrai mica detto così?
    - Certo che gliel’ho detto, devono saperlo tutti che sei un bastardo.
    A quel punto Letizia spalancò il portone ed urlò.
    - Mio marito è un bastardo e se ne va con le puttane. Tutti lo devono sapere.
    Luca la tirò dentro e richiuse.
    - Ma ti posso spiegare? Perché arrivi subito a conclusioni grottesche?
    - Grottesche? Ma parla come mangi, poeta del cazzo!
    - Oh, insomma, basta! – gridò Luca – Ma che sono io, un ragazzo che mi devo giustificare se non sono andato a scuola? E chi sei tu, mia madre? – poi si girò, fece qualche passo e approfittando del momento di tregua continuò – Se ti calmi posso anche spiegarti cosa ho fatto, ma non hai nessun diritto di offendermi. – disse puntandole un dito in faccia. – Ho dei problemi in una frazione e sono andato a controllare. Ecco, ora lo sai.
    - In una frazione? E senza dire niente al direttore?
    - Sono cose che riguardano me. Al direttore lo dirò domani, se è il caso.
    - Certo, come no. E dimmi, com’è la maestra di questa frazione, bionda o bruna?
    - Ma quale maestra, è un maestro anziano che sta per andare in pensione, è andato di testa e combina guai.
    - Ma a chi la racconti? Si sente lontano un chilometro che puzzi di femmina.
    - Ma come parli? Ma ti stai sentendo?
    Letizia cominciò a muovere le mandibole come se masticasse e prima che Luca si rendesse conto di cosa stava facendo, gli sputò in faccia. E fu uno sputo così carico di rabbia e di disprezzo come se avesse sputato sul cadavere di un ratto.
    Luca restò più mortificato che nauseato. Riprese la sua giacca ed uscì mentre lei gli sbatteva la porta alle spalle.
    - “Non torno più,” – pensava spingendo la macchina – “giuro che non torno più. Mi sputerò in faccia io stesso se sarò così stupido da tornare in quella casa.”
    Luca aveva pochi soldi in tasca, che gli sarebbero dovuti bastare per il resto della settimana, ma la prima cosa che fece fu di entrare in un bar e di prendersi una fetta di torta e un brandy, cosa che gli costò quanto quattro giorni di prima colazione. Quando l’alcol cominciò a manovrare le sue cellule cerebrali, entrò in un market ed acquistò una bottiglia, poi cercò una strada che portava fuori dell’abitato, si sistemò sotto un albero e cominciò a bere e a pensare, a pensare e a bere fino a quando le parole non presero il posto dei pensieri e allora parlava e beveva, beveva e parlava e diceva tutto quello che non aveva detto per tutti gli anni che era stato con Letizia.
    - Erano anni che mi volevi sputare in faccia e finalmente l’hai fatto, l’hai trovato il coraggio brutta femmina troglodita, è quello che mi merito per tutti gli anni di fatica e di umiliazioni che ho dovuto subire per portare soldi a te e ai tuoi figli. Dov’eri tu quando mi rompevo la schiena per scaricare il camion? E quando facevo venti ore di guida tutte di fila per poter partire l’indomani dopo quattro ore di sonno? Perché dovevo guadagnare di più ché i soldi non bastavano mai. E nemmeno ti svegliavi per farmi un caffè. E ora mi accusi che me ne vado con le puttane. Brutta schifosa, cosa credi che non ne abbia incontrate? Non sono andato mai con nessuna, né prima né dopo che ti ho conosciuta, stupido che sono, e sì che ne ho avute tante a portata di mano, pronte a darmela anche gratis, ché non sono poi così male, e invece tornavo sempre a casa, da una che s’incazza solo a vedermi e alla fine mi sputa pure in faccia. Spùh! – Luca sputava dentro l’abitacolo della sua macchina immaginando la figura di lei – Spùh! E ora che ho trovato un posto nella scuola, che finalmente mi riposo un po’, non ti va bene, ora che posso conoscere una migliore di te ti viene la paura perché lo sai che non vali niente. Brutta disonesta! Dovevi restare al tuo paese e maritarti col farmacista del cazzo, forse lui era degno di te. O forse non esiste nemmeno, questo farmacista, te lo sei inventato. Chi poteva volerti al paese? Solo un primitivo come te. Spùh!
    A metà bottiglia, si rese conto che stava parlando con un fantasma e allora girò lo specchietto verso di sé e sputò verso il suo viso riflesso.
    - Spùh! Brutto cretino, pensavi di aver trovato l’amore eterno, eterno un cazzo. Spùh! Vaffanculo tu, tua mamma, tuo padre e tutti quelli che ti hanno insegnato le cazzate che ti riempiono la testa. E’ più sincera questa bottiglia che mi fa pensare davvero, e mi fa pensare cose vere, lo schifo che provo per te, per lei, per tutta la mia vita passata. Spùh! – E con un pugno ruppe lo specchietto, poi ne sferrò altri sul parabrezza, sullo sterzo, sul cruscotto, ma non fece molti più danni di quanti già non ce ne fossero.
    La sua ira era controllata da un senso remoto della conservazione, talmente remoto che sfuggiva alle sue volontà estemporanee, archiviato in modo ingegnoso tanto da apparire una chiave del sistema inespugnabile, persino da chi l’aveva ideata. E l’impeto di bere, di ubriacarsi per sconvolgere le sue convinzioni arcaiche, cagionava solo la seduzione fugace della libertà. Luca si dibatteva nell’abitacolo della sua automobile come dentro la prigione dell’educazione che aveva ricevuto da giovane, sferrava pugni e sputi ma non aveva l’intenzione vera di distruggerla.

    Non tornò a casa quella sera, dormì in auto e l’indomani raggiunse la stazione con un’ora di anticipo per poter smacchiare i vestiti sporchi di vomito, si ripulì alla bell’e meglio e poi si sistemò sulla ventola del riscaldamento per asciugarsi, ma non fece in tempo e si presentò sul treno con chiazze sulla camicia e sui pantaloni. Lo stesso aveva cercato di fare con le macchie nella sua mente, le aveva ripulite come poteva ma ne sentiva ancora l’odore acre inconfondibile del vomito raffermo. Sul treno si nascose a ridosso della motrice, dove non lo avrebbe cercato nessuno se non il bigliettaio che già lo conosceva e perciò non gli faceva obiezioni. Viaggiò così fino alla sua destinazione dove sgattaiolò con un salto in prossimità del semaforo ch’era già fuori del marciapiede. Lì aspettò dietro un palo che tutti sparissero e poi andò in ufficio, dove fu più importante giustificare le macchie sui vestiti che l’assenza del giorno prima. Quelle furono il radiatore dell’auto ch’era scoppiato e s’era salvato il viso per un pelo, l’altra, più contorta, narrò di un parente incontrato sul treno, che s’era sentito male e l’aveva dovuto accompagnare all’ospedale dove aveva perso la mattinata al pronto soccorso, e figurati se in quel trambusto di cardiologi e terapie intensive aveva pensato di avvisare.
    Al ritorno fece in modo di perdere il treno dell’una e mezza, perciò s’imbarcò sul locale delle due e arrivò alle cinque, e nonostante tutti i giuramenti, le imprecazioni e gli sputi, tornò a casa come se niente fosse accaduto.
    Chissà come, ma sapeva già che non ci sarebbero state sceneggiate né liti né urla, entrò senza incontrare anima viva e si recò dritto in cucina dove trovò sul tavolo, al suo posto, un piatto di maccheroni, le posate, un bicchiere e una bottiglia di vino. La pasta era fredda e incollata, la divorò in quattro bocconi e mentre si scolava la bottiglia un bicchiere alla volta, sentiva il vociare dei bambini nell’altra stanza e la voce di sua moglie che li incitava al silenzio.
    - Zitti, zitti, – diceva Letizia – papà è stanco e deve riposare.
    Lui sputò dentro il bicchiere, gli era sembrato di vedere la sua immagine riflessa sul fondo ma era solo un gioco delle gocce residue, che s’erano spente all’improvviso quando il sole s’era stancato e aveva mollato la presa sull’orizzonte precipitando.
    Luca prese la forchetta e nel sugo ch’era rimasto nel piatto scrisse una frase: “torno subito, forse”.
    La stessa frase che transitava, quindici anni dopo, nello schermo del suo computer e che lui aveva scambiato per una striscia di paesaggio nel finestrino del treno. Ma non fu sorpreso, gli capitava spesso di viaggiare col pensiero e la vera sorpresa era semmai di ritrovarsi sempre a casa alla fine del viaggio.
    Laura gli si accostò alle spalle e gli accarezzò i capelli.
    - Dopo tanti anni – disse – non sono mai sicura che torni.
    - Eppure – rispose Luca – sei l’unica che può esserne certa.

    fine


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    Carmen...
    Post: 404
    Registrato il: 09/02/2009
    Città: REGGIO CALABRIA
    Età: 57
    Sesso: Femminile
    Utente Senior
    00 19/11/2009 10:46
    Emozionante fino alla fine, mi piace come hai descritto le sensazioni provate dai personaggi.
    [SM=g7372] [SM=g7443]


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    Gabriella.75
    Post: 416
    Registrato il: 14/08/2009
    Sesso: Femminile
    Utente Senior
    00 19/11/2009 23:06
    Questo racconto, intenso e deciso come una pittura, può sembrare una cronaca, tanto a volte è lineare e minuziosamente descrittivo, ma anche un canto, con i suoi continui richiami ad un mondo poetico che la realtà quotidiana sembra negare, e forse una trama amorosa, perchè a prima vista esso è proprio questo. Certamente il racconto è tutte queste cose, ma nessuna di esse in particolare: forse è soprattutto una riflessione sulla libertà umana, sull'aspirazione di ognuno di noi a realizzarci pienamente (nell'amore, nelle passioni, nello spirito) a dispetto di quel «vero», quella realtà quotidiana che con la sua volgarità e banalità pare ucciderci poco alla volta, ogni giorno. Se l'artista è profeta (spesso inascoltato) perchè riesce a dire ciò che noi non riusciamo a pronunciare e forse nemmeno a pensare, questo racconto è un bell'esempio di come la letteratura abbia ancora un senso nella nostra esistenza. La vita crea spesso delle prigioni invisibili ma poderose, che ci soffocano e ci impediscono di svilupparci come esseri umani completi. Paolo ha voluto semplificare questa tesi - anche per fini narrativi - intrecciandola con il tema di due anime amanti, soffocate dal grigiore di due storie piatte e inadatte ad esse, che riescono a scardinare la loro prigione ed a fuggire dalla banalità delle proprie esistenze precedenti. Questa è la lezione profonda che il racconto ci mostra, quell'eterna dicotomia tra reale ed ideale, tra materia e spirito, tra costrizione e libertà. Ma, almeno in questo racconto, Paolo dà una risposta piena di speranza, perchè i due protagonisti riescono a essere liberi: nel loro caso, liberi di amare. Un racconto dunque intenso e struggente, non solo per la delicata storia d'amore, nè solo per i begli sprazzi poetici e per le descrizioni quasi pittoriche, ma anche e soprattutto per essere un vero e proprio inno della libertà dello spirito, a dispetto della brutalità che la vita quotidiana ci impone tante volte. Un invito, dunque, a riflettere su ciò che davvero ha senso nell'esistenza di ognuno di noi.
    Gabriella.