Forum del Poligono Pentimele

Un racconto di basettun

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    basettun
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    Registrato il: 06/01/2009
    Città: REGGIO CALABRIA
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    00 10/09/2009 19:50
    Buon compleanno


    Pensando intensamente ingiurie e gesti villani rivolti agli sventurati inconsapevoli che abbandonavo, ridiscesi la via ripidissima trattenendo il respiro in prossimità della porcilaia, imboccai l’asfalto senza voltarmi, avviai il motore che trasalì, gelato com’era, e sgommai come sempre per i primi duecento metri, fin oltre il ponticello. Non volevo nemmeno sbirciare gli specchietti per timore di vedere uno di essi gesticolare richiami. Varcato il ponte ero salvo e potevo pentirmi della fuga e delle ingiurie, della mia crudeltà di giudizio, dell’insofferenza, dell’egoismo che non sapevo adeguare alle esigenze degli altri.
    Ero salvo, e pentito e felice me ne andavo assolvendo per l’ennesima volta la mia coscienza incallita. Dove, non aveva alcuna importanza purché via da quelle stanze-prigioni.
    L’aria aperta, benché fredda e letale per la mia sindrome allergica, pregna com’era di pollini primaverili, esaltava gli strani sensi di libertà e di oppressione respiratoria causando alterni sentimenti d’estrema leggerezza e di precarietà fisica. Mi sentivo un naufrago galattico approdato su un pianeta inidoneo alla mia specie, e tuttavia grato alla sorte per le boccate di atmosfera che riuscivo a inspirare nonostante le insidie. Era una salvezza fittizia ma benedetta la campagna circostante.
    Ormeggiai la mia “nave” alla prima curva e tirammo un sospiro, il motore ed io.
    Precipitato con un grido dalle rocce, il fiume languiva quasi svenuto sulla lettiga di ghiaia, esile e malaticcio si sarebbe estinto ben prima di raggiungere il mare che s’intuiva lontano.
    Gli orti e i giardini d’aranci inverdivano l’agonia dell’acqua, ombreggiavano gli stagni che in sussulti muti sgusciavano brillanti fra le pietre e frammentati in decine di rigagnoli lambivano i pioppi fino a perdersi allo sguardo nelle buche delle terre incolte.
    Sul soffitto del mio rifugio il cielo era un affresco di Michelangelo, severo scagliava i cirri all’orizzonte per dissuadere ambizioni d’infinito.
    Una valanga di eucalipti rotolando sul dorso della collina schivava miracolosamente la mia piccola radura, sibilava nella scarpata e ondeggiando s’infilava rantolosa nella forra.
    Io piangevo, un po’ per la congiuntivite e un po’ per la sorpresa di scoprirmi ancora così minuscolo e vulnerabile, andavo lì per commuovermi nascosto agli occhi dei falchi, svestivo il rostro e lisciando le mie piume bianche le spalmavo d’innocenza per continuare a sentirmi uomo.

    Maria mi sorrise quando passai davanti alla scuola, forse dentro il riflesso del sole fresco del mattino le mie sembianze nel parabrezza apparivano più giovani, e lei mi accompagnò con lo sguardo per tutta la curva, aspettò che le fossi accanto e mi lanciò un’occhiata che diceva “mi piaci”.
    “Anche tu mi piaci”, le risposi con lo stesso mezzo, “ma è probabile che sia più vecchio di tuo padre”, pensai.
    Si aspettava che attraverso il finestrino le dicessi una parola, ma non sapevo farlo nemmeno a vent’anni. “Perché tua madre non mi ha insegnato a corteggiare una ragazza?”. Ero talmente timido allora e oggi sono così saggio da non poter cogliere il tuo invito.
    Proseguii velocemente fin oltre il ponticello e mi fermai nella piazza, la strada alle mie spalle era deserta tranne il corpicino di lei piegato per scrutarmi, ed io la guardavo senza farmene accorgere immaginando di tornare indietro e di parlarle.
    Sarei stato più pronto a un agguato piuttosto che alle iridi seducenti di Maria. Io bambino picchiava come Tyson sullo sterno, voleva sfondarmi da dentro ma sapeva che non sarebbe uscito, provò allora a torcermi lo stomaco e lo misi KO con un pugno. Nemmeno a sgocciolare dagli occhi fu capace perché li strizzai forte, riaprendoli vidi cerchi gialli fluorescenti che infiammavano i palazzi, e il cielo verdastro, che ammuffiva la città, filtrare dalle guarnizioni rinsecchite bruciandomi le cornee.

    Era un bel giorno d’aprile, disse mia madre, e alle sei del mattino eri già nato, l’aria era linda e trasparente e il sole pazientava dietro le persiane, quando gli aprimmo capì che aveva un altro fan e si presentò più splendido che mai, avanzò elegante e lento come un gatto che mostra il suo manto nero per sedurti, si sdraiò sulla coperta e ti sfiorò gli zigomi.
    Non seppi altro che ghignare al suo racconto, affondata nel divano mi sembrava così piccola e giovane e si rivolgeva a me come a un ragazzo, solo lei mi riconosceva ancora. Ma io non sapevo cogliere il suo richiamo, non potevo più mostrarmi, neanche a lei, così bianco e inerme. Premendo la maschera sul viso m’imposi di non guardarla, di non sentirla mentre le grinze mi arricciavano la pelle. L’aria fetida soffocava la sera pesante stravaccata sulle nostre case, aveva contagiato il mio respiro e ingiallivo e agonizzavo come le luci dei lampioni. Il sole era morto, seppellito e consumato chissà dove, non ricordo quando, io imputridivo appestando la stanza e mia madre mi credeva un bambino mentre andava e mi salutava con un sorriso, mi lanciava lo stesso sguardo di Maria ed io fuggivo, fin oltre il ponticello.

    La notte è sempre come un libro che comincio a sfogliare non appena mi addormento. Vi è narrata tutta la mia vita, ma anche il rimorso per le conseguenze della mia indole egoista e l’orrore della codardia che m’induce a vestirmi da impavido.
    La notte è il catino che raccoglie le lacrime di un bimbo terrorizzato, lasciato solo a fronteggiare l’ignoto che ha sembianze di un garofano azzurro.
    Era una piantina tanto minuscola quanto le mie mani mentre le mani ben più grandi di lei m’insegnavano come tenerla, l’avrei piantata nel giardino della scuola e le avrei dato il mio nome.
    Dopo diversi decenni tornai a vederla e trovai un mostro vegetale enorme, più alto dell’edificio, che coi rami si prendeva le pareti e minacciava di stritolarmi. Nonostante gli anni trascorsi ero ancora un bambino ma le mani dolci di mia madre erano cresciute ed invecchiate, l’ignoto inesorabile se l’era prese ed io non le avrei avute mai più così giovani e fresche.
    Allora urlai disperato tutto il mio dolore e il mio grido infinito penetrò nella notte come in una cassa armonica e si moltiplicò. Mi vidi da lontano straziato dalla rivelazione tragica e perduto, vinto, stremato perché ormai sarei stato solo per sempre.
    Nell’ultima pagina del mio libro c’era un ponticello, quando lo varcai capii di lasciare la notte. Ma oltre, quale altra madre mi avrebbe accolto a braccia aperte?

    Il nocciòlo aveva un ramo albino che separava il bosco dal cielo, si affacciava dall’armacera spruzzando le pietre di cadmio e ricadeva fin sull’asfalto nella nube di moscerini sfiorando il cadavere del riccio, là dove le ortiche disegnavano la sua tomba.
    Quel paesaggio lo conoscevo perché lo percorrevo ogni giorno, ma fermandomi ogni particolare sembrava un paesaggio nuovo e non sapevo decidere se fosse meglio sorvolarlo o viverlo da vicino cogliendone anche i drammi.
    Avevo fatto così per tutta la mia vita, avevo volato godendomi il volo nella stratosfera senza curarmi delle zolle che, alla fine, mi avrebbero accolto, ma ora le cercavo per riconciliarmi con la terra, con la mia ultima madre.
    Avevo pensato a Maria per tutto il giorno e forse ero fuggito per ricongiungermi col suo sguardo all’uscita della scuola, ma era già tardi e dovevo correre verso il nostro appuntamento, dovevo tagliare le curve e precipitarmi alla marina, spiegare le mie ali e tentare il volo che nel sogno mi riesce sempre.
    Oh, povera colomba, nemmeno una fucilata dignitosa mi colse, nemmeno una rete m’imbrigliò, nemmeno un falco mi ghermì. Caddi pesante e incredulo nel dirupo schiacciato dalla mia corazza, mi liberai dei cocci di vetro e mangiai l’erba per scacciare la paura e insieme all’erba succhiai la terra per capire d’esser vivo.
    Le mie gambe imprigionate sotto il motore non le sentivo, non mi sarebbero più servite perché le ali stavano per schiudersi e sgusciando dal bozzolo restai a galleggiare nell’aria.
    Il vento mi prese e mi scaraventò sui campi, senza fatica volai da una corolla all’altra e non conoscendo i loro nomi le chiamai tutte Maria, le baciai con dolcezza rammentando il primo bacio ché più dolce e tenero non si può e lo moltiplicai senza infangarlo, all’infinito.
    Poi lui venne, per affondare il ferro, nero e lucido, elegante e raffinato come solo il male può essere, mi paralizzò con lo sguardo ghiacciato e immemore di un sorriso.
    Strinse il pugno per stritolarmi ma non mi donò nemmeno un tale conforto, mi lasciò tramortito e consapevole, ingannato e vinto dal tempo, mi sanò le gambe per invecchiare ancora camminando, per vedere i mille minuscoli riflessi del sole sui prati, il cielo specchiato nelle acque, gli occhi di Maria ad ogni angolo ma sempre più distratti e lei ancora più giovane e imprendibile, mia madre appassita e stanca che mi crede ancora un bimbo, e l’aria fetida irrespirabile, densa e amara da ingoiare a pezzi.
    Avrei ceduto l’innocenza in cambio di altri anni e timoroso della morte l’avrei adulata carezzando le mie rughe, esaltando la saggezza, credendo che tutto ciò debba avere un senso ma sperando in segreto, giorno dopo giorno, che un fulmine possa cogliermi senza avviso, per non darmi il tempo di sfuggirlo.
    Sarebbe davvero un bel regalo per il mio compleanno.


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    Carmen...
    Post: 404
    Registrato il: 09/02/2009
    Città: REGGIO CALABRIA
    Età: 57
    Sesso: Femminile
    Utente Senior
    00 11/09/2009 12:23
    Grazie...

    [SM=g7443]
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    Gabriella.75
    Post: 416
    Registrato il: 14/08/2009
    Sesso: Femminile
    Utente Senior
    00 11/09/2009 16:23
    "DONNA" Maria.
    Complimenti Paolo, con questo racconto fai un elogio al mondo misterioso della DONNA.
    Attraverso la figura di Maria, madre, e di Maria, fanciulla, descrivi i momenti più importanti della vita dell’uomo: la nascita, e quindi il miracolo della maternità e l’amore compagna di giochi per tutta la vita. Tutto questo dentro una cornice di descrizioni poetiche che commuove il lettore.
    Hai voluto aprire quello scrigno che, se ancora per molti aspetti è segreto e misterioso, muove così tanto l’immaginazione da far sognare la vita umana nella sua pienezza per raggiungere dei beni infiniti , come la libertà e l’amore.
    [SM=g7348]


    Gabriella.