00 24/06/2009 18:18
Da “La Repubblica” del 21 giugno 2009

Ritorno alla Luna. Quarant’anni dopo il primo sbarco l’uomo ricomincia l’esplorazione. Stavolta a fini pratici. 


Vittorio Zucconi (Washington).

 

Femmina da sempre nell’immaginazione popolare e letteraria, la Luna, pallida, rossa, blu, leopardianamente graziosa, perse la propria purezza quel giorno d’estate, il 21 luglio del 1969, e fu una brusca storia, consumata come un amore balneare e gettata. Ma quarant’anni dopo l’Uomo è finalmente pronto al matrimonio riparatore, ammesso che lei ci voglia ancora. Sopravvisse come un ricordo, un’avventura e un senso di colpa per la grande “sedotta e abbandonata” che ora vorremo sposare per unire il nostro destino a lei, nella speranza, come ammette la Nasa, che si riveli più accogliente di allora. E che possa rappresentare la base per la grande emigrazione dell’umanità dal pianeta madre, che stiamo logorando e divorando come termiti, verso nuove colonie extraterrestri. Il porto di partenza per i nostri pronipoti scafisti e clandestini dello spazio, nei secoli a venire. Ci torneremo, fra pochi giorni, in punta di piedi, non con gli scarponi di Armstrong e Aldrin, ma con un robot ambasciatore, lo LRO – impronunciabile acronimo per Lunar Reconaissance Orbiter – che gli Stati Uniti hanno lanciato giovedì per trovare la chiave della conquista finale della pallida signora: l’acqua.

Non ci saranno mai prospettive di insediamento permanente umano, di basi per i barconi spaziali oltre la Terra, se quelle tracce blu rilevate da altre esplorazioni, quell’ipotesi di molecole di idrogeno intrappolate nelle zone d’ombra e nel fondo dei crateri protetti dalla luce e dai gas solari, non manterranno la promessa. Andremo a cercare la più elementare e la più indispensabile delle sostanze, l’acqua. Una bottiglietta della più costosa minerale venduta sulla Terra può arrivare a cinquanta euro nei ristoranti più pretenziosi. La stessa bottiglia da mezzo litro, trasportata da qui alla Luna, costerebbe mille volte di più, cinquantamila euro, calcola la Nasa. Un prezzo che nessun avventore in tuta sigillata potrebbe mai permettersi, visto che nella implacabile polvere lunare, appiccicosa e abrasiva come nessuna polvere terrestre, di una cosa certo i futuri abitanti del satellite soffriranno. Di sete.

Con l’occhio della LRO, la telecamera montata a bordo della navicella madre insieme ad altri sensori, e poi di un’altra sonda, la LCROSS, destinata a schiantarsi sulla superficie della Luna sollevando una colonna di polvere alta dieci chilometri e visibile dalla Terra, studieremo il grande bacino di Aitken, nel Polo Sud, per vedere se quelle chiazze tradotte in blu nelle carte topografiche possano essere immensi giacimenti di ghiaccio. Quindi possano rappresentare l’oasi nello spazio, a 385 mila chilometri di distanza, alla quale le carovane dell’umanità potranno abbeverarsi nel viaggio oltre la Terra. Molti ci credono, ci vogliono credere.

Altri scienziati sono scettici e immaginano una grande delusione. Ma tutti convengono sul cambiamento irreversibile del nostro rapporto con la Luna.

Da traguardo ideologico, prima che tecnologico, nella corsa esibizionistica e politica fra le grandi potenze in lotta nella decade degli anni Sessanta aperta dalla “quasi guerra nucleare” fra Urss e Stati Uniti attorno a Cuba, il satellite di polvere e crateri è diventato un obiettivo vitale per l’umanità, che cerca spazi di sopravvivenza per la specie insaziabile. Solo se dovessimo continuare a crescere di numero al ritmo attuale, e consumare carne alla media di oggi, fra un secolo sarebbero necessarie due Terre e mezza per sfamarci.

Dunque la riscoperta della Luna, come la missione su Marte, diventa un giardino da salire per la scalata alla “frontiera infinita”.

Saranno quattro umani, se i robot sapranno fare prima il loro lavoro, a tentare di stabilire la prima colonia sulla Luna entro il 2018, sparati dal nuovo razzo che la Nasa sta collaudando e che sostituirà quel Saturno 5 che riposa abbattuto sulla sabbia di Cape Canaveral, ormai curiosità da turisti in camiciola a fiori e bambini annoiati. Porterà un nome un po’ brutale, quello di “Aries”, l’ariete, simbolo massimo della mascolinità mitologica, ma il modulo di allunaggio che dovrà proteggere questa avanguardia dei futuri coloni riprenderà il nome che il Lem del 1969 portava a chi tenne i telespettatori sospesi nell’ansia di quella notte in attesa del messaggio di conferma “The Eagle has landed”, l’aquila si è posata. Si chiamerà infatti “Altair”, che nella sua radice araba, an-nasr at-nair, significa appunto “l’aquila in volo” ed è il nome della dodicesima stella per ordine di luminosità.

I quattro tenteranno di sconfiggere la grande nemica delle macchine terrestri, la polvere che tutto invade, e di restare una settimana: soggiorno apparentemente breve, ma lunghissimo nella realtà di un ambiente micidiale dove l’escursione termica fra notte e giorno, le radiazioni, il vento gassoso del sole garantiscono prove estreme per equipaggiamento e organismo umano. Nessuno, neppure i viaggiatori dell’Apollo, ha mai trascorso una settimana sulla Luna, e se la missione dovesse fallire, anche i progetti del successivo salto verso Marte sarebbero rimessi in dubbio. Soprattutto da un pubblico americano, e internazionale, che da tempo ha perduto interesse per le avventure spaziali e dove ancora sopravvivono sacche ostinate di “cospirazionisti”, convinti che la Luna sia vergine. E che l’allunaggio di Apollo 11, nonostante sia stato seguito da altri cinque sbarchi umani, Apollo 12, 14, 15, 16 e 17 fino al dicembre del 1972, sia stato sceneggiato in uno studio fotografico.

Fu soltanto la tragedia dello Shuttle Columbia, consumata in diretta tv nella sua interminabile agonia sopra il Texas nel 2003, a restituire, nel crudele paradosso delle cattive notizie che sole fanno notizia, alla sfida oltre l’orbita terrestre l’attenzione che la Luna non aveva saputo conservare. Fu per rispondere alla amarezza del Columbia, accresciuta dalla delusione per la guerra in Iraq lanciata appena un mese dopo, che il presidente George Bush annunciò nel gennaio del 2004 il “Nuovo Progetto di Esplorazione e Scoperte”, con il traguardo della Luna e poi di Marte.

Un atto di psicoterapia nazionale, uno slancio di orgoglio che non commosse il padrone del borsellino americano, il Congresso: stanziò la magra somma di sedici miliardi di dollari. Meno di quanto oggi, Washington progetti di spendere per cercare di salvare Chrysler e General Motors. Un decimo del costo finale, calcolato in dollari di oggi, delle missioni Apollo, che pesarono per quasi centocinquanta miliardi.

Il ritorno alla Luna sarà quindi – ammesso che tutti i collaudi dei nuovi vettori Aries, dei moduli Altair, dei razzi di salvataggio montati sulla vetta dei missili per evitare l’altra tragedia pubblica che scosse l’America dal sonno, l’esplosione di Challanger, vadano bene – un matrimonio senza passione. Più un atto dovuto, che un atto d’amore, perché così sembriamo fatti noi umani. Quando la vecchia Aquila toccò la superficie del Mare della Tranquillità, attorno ai televisori si raccolse la più vasta audience che il mondo avesse mai visto, per quello che fu un magnifico “stunt”, un incredibile successo rimasto appunto come uno stupendo effetto speciale cinematografico fine a se stesso. E segnò la conclusione di una traiettoria che i profughi tedeschi di Von Braun e l’industria americana non ancora de localizzata oltremare avevano saputo tracciare fino a spremerne l’ultima goccia. Se e quando la nuova Aquila, l’Altair, si staccherà dalla Florida per vedere se sarà davvero possibile la grande migrazione dei terrestri verso la frontiera infinita, molti saranno indifferenti, nel senso di déjavu, già visto e fatto. Ignorando che dal suo successo, e dal sorriso enigmatico della Luna potrebbe dipendere la sopravvivenza della nostra specie.





Armstrong. Quella frase la pensai tutto il viaggio


Enrico Franceschini (Londra)

 

“Un piccolo passo per l’uomo, un grande balzo per l’umanità”.

Quarant’anni dopo, si discute ancora se Neil Armstrong abbia pronunciato esattamente queste parole. Di recente due studiosi australiani hanno analizzato le registrazioni ridigitalizzate della breve frase detta dall’astronauta americano mentre il 21 luglio 1969 scendeva dalla scaletta del modulo Eagle, posava un piede sulla superficie del nostro satellite, diventava il primo uomo sulla Luna ed entrava così nella storia. Sono giunti alla conclusione che Armstrong non disse “a small step for a man” (un piccolo passo per un uomo): dimenticò forse per l’emozione di pronunciare l’articolo indeterminativo “a” (un) e dunque disse “a small step for man” (un piccolo passo per l’uomo, inteso in senso ampio, nel senso di tutti gli esseri umani). Ma il significato della frase cambia poco. Il punto è un altro. Come, dove, quando e perché decise di pronunciare quelle fatidiche parole? Si preparava da mesi al “grande balzo”. Sapeva che sarebbe stato il primo a scendere dalla scaletta (così come lo sapeva Buzz Aldrin, il secondo, che di quel lieve ritardo non si liberò mai più, vivendolo come una frustrazione per il resto della sua esistenza).

Armstrong aveva avuto dunque tutto il tempo di pensare a cosa avrebbe detto, sicuramente consapevole che le sue parole sarebbero rimaste scolpite nella memoria di tutti. Le aveva scelte da solo, sfogliando libri di versi e romanzi classici in notti insonni prima della sua odissea? Oppure gliele aveva suggerite qualcuno, un filosofo, un religioso, un politico, uno scrittore? O magari un bambino? “Le pensai da solo, tra me e me, senza chiedere consigli a nessuno, senza consultare alcun testo”. Così mi disse un giorno di primavera del 1985, quando lo incontrai a New York per intervistarlo per Repubblica. Lo ascoltai incredulo: per uno che aveva imparato a volare prima che a guidare la macchina, che a ventuno anni pilotava i caccia da combattimento nella Guerra di Corea, che tornò in patria con tre medaglie al valore, che poi fece il pilota di jet sperimentali, per approdare alla Nasa, diventare astronauta e partire per il viaggio più importante, verso la Luna, per un tipo così insomma, quelle parole sembravano un po’ troppo poetiche. Pensai che volesse nascondere la vera fonte della sua ispirazione, perciò gli domandai quando, in quale preciso momento, la frase si formò nella sua testa. “Mi venne in mente dopo il lancio, durante il viaggio di avvicinamento alla Luna e in particolare nelle ore in cui mi apprestavo a scendere dalla scaletta”, rispose laconico.

L’affermazione mi parve ancor meno credibile della prima  Continuai l’intervista. E, quando la scrissi, tralasciai questa parte della conversazione: pensavo che nessuno l’avrebbe presa per buona e che avrei fatto la figura di non essere riuscito a tirargli fuori la verità.

Solo qualche settimana fa, leggendo rievocazioni sui giornali e libri sullo sbarco sulla Luna, pubblicati in tutto il mondo in prossimità del quarantesimo anniversario di quella missione senza uguali, ho scoperto che fu proprio così, o che perlomeno quella è la versione ufficiale dell’episodio accreditata da Armstrong e dalla Nasa. Un quarto di secolo or sono mi aveva dato una notizia in anteprima e non ero stato capace di riconoscerla, giudicando la verità troppo banale, troppo semplice. In realtà il sangue freddo dimostrato da Armstrong in guerra, oltre che nello spazio e in particolare nella missione lunare (gli astronauti si accorsero che la chiavetta d’accensione del modulo Eagle, necessaria per farlo decollare e congiungersi in orbita con l’astronave Columbia che li avrebbe riportati sulla Terra, si era spezzata, ma come meccanici di fortuna utilizzarono una penna per attivare la sequenza di lancio), avrebbero dovuto convincermi che un tipo così non si sarebbe messo a rimuginare troppo su cosa dire, quando fosse venuto il momento di scendere per primo dalla scaletta. O meglio, “se” fosse venuto il momento di scendere. Armstrong, infatti, pensava di avere soltanto un cinquanta per cento di possibilità che l’atterraggio sulla Luna avesse successo. “Fui estremamente sorpreso, e ovviamente euforico, di avercela fatta”, mi confessò. Per cui, nel dubbio di arrivare alla meta, scervellarsi sulla frase da dire al momento dello sbarco sarebbe stata certamente una perdita di tempo, dal suo punto di vista.

Oggi, alla vigilia del quarantennale dello sbarco, avrei voluto fargli qualche altra domanda sul tema. Ma ormai, più celebre di un campionissimo dello sport, di un divo di Hollywood, di un presidente degli Stati Uniti, Neil Armstrong è gestito da un’agenzia che amministra ogni sua apparizione, ogni suo discorso, ogni sua parola, a pagamento s’intende. Non firma più autografi, perché vengono rivenduti su eBay a migliaia di dollari; e ha dovuto fare causa al suo fidato barbiere, quando è venuto a sapere che raccoglieva i capelli che gli tagliava, per rivenderli. Inoltre, a quasi settantanove anni, è un eroe fragile, le cui energie vengono cautamente centellinate. Restano, a illuminare il personaggio, le risposte di quella lunga intervista.

Come si sta sulla Luna? “Benissimo, è molto più piacevole di quanto uno immagini, io ci sarei tornato volentieri. L’unico problema per noi era la tuta, una vera e propria armatura, scomoda e ingombrante, ma ora non è più così”. L’uomo tornerà sulla Luna? “Ci tornerà di certo, perché sappiamo ancora molto poco del nostro satellite, perché ha rocce e altre risorse da sfruttare, perché dalla sua faccia nascosta un radiotelescopio potrebbe esplorare il cosmo senza il disturbo di segnali radio terrestri”. Arriveremo anche su Marte? “E’ terribilmente lontano, la Luna dista 385mila chilometri dalla Terra, Marte 350milioni di chilometri, ma la distanza, il tempo per percorrerla, le radiazioni da attraversare non sono ostacoli proibitivi. E in futuro non ho dubbi che sarà inventata una nuova generazione di razzi, con tecnologie più economiche e più potenti”. Ci saranno conflitti per il possesso della Luna? “Noi vi abbiamo piantato la bandiera americana ma non l’abbiamo mai rivendicata come nostra, anzi abbiamo firmato un trattato secondo cui è di tutti”. Crede agli extraterrestri? “Ci sono miliardi di galassie, ciascuna ha miliardi di stelle come il Sole, e nell’intera storia dell’universo sarebbe accaduto solo alla Terra di sviluppare la vita? Ma gli extraterrestri potrebbero essere infinitamente avanti o infinitamente indietro rispetto a noi, e anche infinitamente lontani: forse sviluppando tecniche radio sempre più potenti, l’invenzione di mister Marconi ci permetterà un giorno di contattarli, o almeno di ascoltare, se non di capire, ciò che ci mandano a dire”.

 
[Modificato da zsbc08 24/06/2009 18:19]