00 09/06/2009 18:08
Dino Buzzati
Nel maggio 1902 un contadino del conte Gerol, tale Giosuè Longo, che andava spesso a caccia per le montagne, raccontò di aver visto in valle Secca una grossa bestiaccia che sembrava un drago. A Palissano, l'ultimo paese della valle, era da secoli leggenda che fra certe aride gole vivesse ancora uno di quei mostri. Ma nessuno l'aveva mai preso sul serio. Questa volta invece l'assennatezza del Longo, la precisione del suo racconto, i particolari dell'avventura più volte ripetuti senza la minima variazione, persuasero che ci dovesse essere qualche cosa di vero e il conte Martino Gerol decise di andare a vedere. Certo egli non pensava a un drago; poteva darsi tuttavia che qualche grosso serpente di specie rara vivesse fra quelle gole disabitate.

Gli furono compagni nella spedizione il governatore della provincia Quinto Andronico con la bella e intrepida moglie Maria, il naturalista professore Inghirami e il suo collega Fusti, versato specialmente nell'arte dell'imbalsamazione. Il fiacco e scettico governatore da tempo si era accorto che la moglie aveva per il Gerol grande simpatia, ma non se ne dava pensiero. Acconsentì anzi volentieri quando Maria gli propose di andare col conte alla caccia del drago. Egli non aveva per il Martino la minima gelosia; né lo invidiava, pure essendo il Gerol molto più giovane, bello, forte, audace e ricco di lui.

Due carroze partirono poco dopo la mezzanotte dalla città con la scorta di otto cacciatori a cavallo e giunsero verso le sei del mattino al paese di Palissano. Il Gerol, la bella Maria e i due naturalisti dormivano; solo l'Andronico era sveglio e fece fermare la carroza dinanzi alla casa di un'antica conoscenza: il medico Taddei. Poco dopo, avvertito da un cocchiere, il dottore, tutto assonnato, il berretto da notte in testa, comparve a una finestra del primo piano. Andronico, fattosi sotto, lo salutò giovialmente, spiegandogli lo scopo della spedizione; e si aspettò che l'altro ridesse, sentendo parlare di draghi. Al contrario il Taddei scosse il capo a indicare disapprovazione. "Io non ci andrei se fossi in voi" disse recisamente. "Perché? Credete che non ci sia niente? Che siano tutte fandonie?"

"Non lo so questo" rispose il dottore. "Personalmente anzi credo che il drago ci sia, benché non l'abbia mai visto. Ma non mi ci metterei in questo pasticcio. è una cosa di malaugurio."

"Di malaugurio? Vorreste sostenere, Taddei, che voi ci credete realmente?"

"Sono vecchio, caro governatore" fece l'altro" e ne ho viste. Può darsi che sia tutta una storia, ma potrebbe anche essere vero; se fossi in voi, non mi ci metterei. Poi, state a sentire: la strada è difficile a trovare, sono tutte montagne marce piene di frane, basta un soffio di vento per far nascere un finimondo e non c'è un filo d'acqua. Lasciate stare, governatore, andate piuttosto lassù, alla Crocetta (e indicava una tonda montagna erbosa sopra il paese), là ci sono lepri fin che volete. "Tacque un istante e aggiunse:" Io non ci andrei davvero. Una volta poi ho sentito dire, ma è inutile, voi vi metterete a ridere...".

"Perché dovrei ridere" esclamò l'Andronico. "Ditemi, dite, dite pure."

"Bene, certi dicono che il drago manda fuori del fumo, che questo fumo è velenoso, basta poco per far morire."

Contrariamente alla promessa, l'Andronico diede una bella risata:" Vi ho sempre saputo reazionario" egli concluse" strambo e reazionario. Ma questa volta passate i limiti. Medioevale siete, il mio caro Taddei. Arrivederci a stasera, e con la testa del drago!"

Fece un cenno di saluto, risalì nella carrozza, diede ordine di ripartire. Giosuè Longo, che faceva parte dei cacciatori e conosceva la strada, si mise in testa al convoglio.

"Che cosa aveva quel vecchio da scuotere la testa?" domandò la bella Maria che nel frattempo si era svegliata.

"Niente" rispose l'Andronico" era il buon Taddei, che fa a tempo perso anche il veterinario. Si parlava dell'afta epizootica."

"E del drago?" disse il conte Gerol che sedeva di fronte. "Gli hai chiesto se sa niente del drago?"

"No, a dir la verità" fece il governatore. "Non volevo farmi ridere dietro. Gli ho detto che si è venuti quassù per un po' di caccia, non gli ho detto altro, io."

Alzandosi il sole, la sonnolenza dei viaggiatori scomparve, i cavalli accelerarono il passo e i cocchieri si misero a canticchiare.

"Era medico della nostra famiglia il Taddei. Una volta raccontava il governatore aveva una magnifica clientela. Un bel giorno non so più per che delusione d'amore si è ritirato in campagna. Poi deve essergli capitata un'altra disgrazia ed è venuto a rintanarsi quassù. Ancora un'altra disgrazia e chissà dove andrà a finire; diventerà anche lui una specie di drago!"

"Che stupidaggini!" disse Maria un po' seccata. "Sempre la storia del drago, comincia a diventare noiosa questa solfa, non avete parlato d'altro da che siamo partiti."

"Ma sei stata tu a voler venire!" ribatté con ironica dolcezza il marito. "E poi come potevi sentire i nostri dicorsi se hai continuato a dormire? Facevi finta forse?"

Maria non rispose e guardava inquieta, fuori dal finestrino. Osservava le montagne che si facevano sempre più alte, dirupate e aride. In fondo alla valle si intravvedeva una successione caotica di cime, per lo più di forma conica, nude di boschi o prato, dal colore giallastro, di una desolazione senza pari. Battute dal sole, esse risplendevano di una luce ferma e fortissima.

Erano circa le nove quando le vetture si fermarono perché la strada finiva. I cacciatori, scesi dalla carrozza, si accorsero di trovarsi ormai nel cuore di quelle montagne sinistre. Viste da presso, apparivano fatte di rocce fradice e crollanti, quasi di terra, tutta una frana dalla cima in fondo.

"Ecco, qui comincia il sentiero" disse il Longo, indicando una traccia di passi umani che saliva all'imboccatura di una valletta. Procedendo di là, in tre quarti d'ora si arrivava al Burel, dove il drago era stato visto. "è stata presa l'acqua?" domandò Andronico ai cacciatori.

"Ce ne sono quattro fiaschi; e poi due altri di vino, eccellenza" rispose uno dei cacciatori. "Ce n'è abbastanza, credo..."

Strano. Adesso che erano lontani dalla città, chiusi dentro alle montagne, l'idea del drago cominciava a sembrare meno assurda. I viaggiatori si guardavano attorno, senza scoprire cose tranquillizzanti. Creste giallastre dove non era mai stata anima viva, vallette che si inoltravano ai lati nascondendo alla vista i loro meandri: un grandissimo abbandono.

S'incamminarono senza dire parola. Precedevano i cacciatori coi fucili, le colubrine e gli altri arnesi da caccia, poi veniva Maria, ultimi i due naturalisti. Per fortuna il sentiero era ancora in ombra; fra le terre gialle il sole sarebbe stato una pena.

Anche la valletta che menava al Burel era stretta e tortuosa, non c'era torrente sul fondo, non c'erano piante né erba ai lati, solamente sassi e sfasciumi. Non canto di uccelli o di acque, ma isolati sussurri di ghiaia.

Mentre il gruppo così procedeva, sopraggiunse dal basso, camminando più presto di loro, un giovanotto con una capra morta sulle spalle. "Va dal drago, quello" fece il Longo; e lo disse con la massima naturalezza, senza alcuna intenzione di celia. La gente di Palissano, spiegò, era superstiziosissima, e ogni giorno mandava una capra al Burel, per rabbonire gli umori del mostro. L'offerta era portata a turno dai giovani del paese. Guai se il mostro faceva sentire la sua voce. Succedeva disgrazia.

"E ogni giorno il drago si mangia la capra?" domandò scherzoso il conte Gerol.

"Il mattino dopo non trovano più niente, questo è positivo."" Nemmeno le ossa?"" Eh no, nemmeno le ossa. La va a mangiare dentro la caverna."

"E non potrebbe darsi che fosse qualcuno del paese a mangiarsela?" fece il governatore. "La strada la sanno tutti. L'hanno veramente mai visto il drago acchiapparsi la capra?"

"Non so questo, eccellenza" rispose il cacciatore.

Il giovane con la capra li aveva intanto raggiunti.

"Di', giovanotto!" disse il conte Gerol con il suo tono autoritario" quanto vuoi per quella capra?"

"Non posso venderla, signore" rispose quello.

"Nemmeno per dieci scudi?"

"Ah, per dieci scudi... "accondiscese il giovanotto" vuol dire che ne andrò a prendere un'altra. "E depose la bestia per terra.

Andronico chiese al conte Gerol:

"E a che cosa ti serve quella capra? Non vorrai mica mangiarla, spero."" Vedrai, vedrai a che cosa mi serve" fece l'altro elusivamente.

La capra venne presa sulle spalle da un cacciatore, il giovanotto di Palissano ridiscese di corsa verso il paese (evidentemente andava a procurarsi un'altra bestia per il drago) e la comitiva si rimise in cammino.

Dopo meno di un'ora finalmente arrivarono. La valle si apriva improvvisamente in un ampio circo selvaggio, il Burel, una specie di anfiteatro circondato da muraglie di terra e rocce crollanti, di colore giallo-rossiccio. Proprio nel mezzo, al culmine di un cono di sfasciumi, un nero pertugio: la grotta del drago."è là" disse il Longo. Si fermarono a poca distanza, sopra una terrazza ghiaiosa che offriva un ottimo punto di osservazione, una decina di metri sopra il livello della caverna e quasi di fronte a questa. La terrazza aveva anche il vantaggio di non essere accessibile dal basso perché difesa da una paretina a strapiombo. Maria ci poteva stare con la massima sicurezza.

Tacquero, tendendo le orecchie. Non si udiva che lo smisurato silenzio delle montagne, toccato da qualche sussurro di ghiaia. Ora a destra ora a sinistra una cornice di terra si rompeva improvvisamente, e sottili rivoli di sassolini cominciavano a colare, estinguendosi con fatica. Ciò dava al paesaggio un aspetto di perenne rovina; montagne abbandonate da Dio, parevano, che si disfacessero a poco a poco."E se oggi il drago non esce?" domandò Quinto Andronico. "Ho la capra" replicò il Gerol. "Ti dimentichi che ho la capra!"

Si comprese quello che voleva dire. La bestia sarebbe servita da esca per far uscire il mostro dalla caverna.

Si cominciarono i preparativi: due cacciatori si inerpicarono con fatica una ventina di metri sopra l'ingresso della caverna per scaraventare giù sassi se mai ce ne fosse bisogno. Un altro andò a depositare la capra sul ghiaione, non lontano dalla grotta. Altri si appostarono ai lati, ben difesi dietro grossi macigni, con le colubrine e i fucili. L'Andronico non si mosse, con l'intenzione di stare a vedere.

La bella Maria taceva. Ogni intraprendenza era in lei svanita. Con quanta gioia sarebbe tornata subito indietro. Ma non osava dirlo a nessuno. I suoi sguardi percorrevano le pareti attorno, le antiche e le nuove frane, i pilastri di terra rossa che sembrava dovessero ad ogni momento cadere. Il marito, il conte Gerol, i due naturalisti, i cacciatori gli parevano pochi, pochissimi, contro tanta solitudine.

Deposta che fu la capra morta dinanzi alla grotta, cominciarono ad aspettare. Le 10 erano passate da un pezzo e il sole aveva invaso completamente il Burel, portandolo a un intenso calore. Ondate ardenti si riverberavano dall'una all'altra parte. Per riparare dai raggi il governatore e sua moglie, i cacciatori alzarono alla bell'e meglio una specie di baldacchino, con le coperte della carrozza; e Maria mai si stancava di bere. "Attenti!" gridò a un tratto il conte Gerol, in piedi sopra un macigno, giù sul ghiaione, con in mano una carabina, appeso al fianco un mazzapicchio metallico.

Tutti ebbero un tremito e trattennero il fiato scorgendo dalla bocca della caverna uscire cosa viva. "Il drago! il drago!" gridarono due o tre cacciatori, non si capiva se con letizia o sgomento.

L'essere emerse alla luce con dondolio tremulo come di biscia. Eccolo, il mostro delle leggende la cui sola voce faceva tremare un intero paese!

"Oh, che brutto!" esclamò Maria con evidente sollievo perché si era aspettata ben di peggio.

"Forza, forza!" gridò un cacciatore scherzando. E tutti ripreserO sicurezza in se stessi.

"Sembra un piccolo e ratorauru!" disse il prof. Inghirami a cui era tornata sufficiente tranquillità d'animo per i problemi della scienza.

Non appariva infatti tremendo, il mostro, lungo poco più di due metri, con una testa simile ai coccodrilli sebbene più corta, un esagerato collo da lucertola, il torace quasi gonfio, la coda breve, una specie di cresta molliccia lungo la schiena. Più che la modestia delle dimensioni erano però i suoi movimenti stentati, il colore terroso di pergamena (con qualche striatura verdastra) L'apparenza complessivamente floscia del corpo a spegnere le paure. L'insieme esprimeva una vecchiezza immensa. Se era un drago, era un drago decrepito, quasi al termine della vita.

"Prendi" gridò sbeffeggiando uno dei cacciatori saliti sopra l'imbocco della caverna. E lanciò una pietra in direzione della bestiaccia.

Il sasso scese a piombo e raggiunse esattamente il cranio del drago. Si udì nettissimo un toc sordo come di zucca. Maria ebbe un sussulto di repulsione.

La botta fu energica ma insufficiente. Rimasto qualche istante immobile, come intontito, il rettile cominciò ad agitare il collo e la testa lateralmente, in atto di dolore. Le mascelle si aprivano e chiudevano alternativamente, lasciando intravedere un pettine di acuti denti, ma non ne usciva alcuna voce. Poi il drago mosse giù per la ghiaia in direzione della capra.

"Ti hanno fatto la testa storna eh?" ridacchiò il conte Gerol che aveva improvvisamente smesso la sua alterigia. Sembrava invaso da una gioiosa eccitazione, pregustando il massacro.

Un colpo di colubrina, sparato da una trentina di metri, sbagliò il bersaglio. La detonazione lacerò l'aria stagnante, destò tristi boati fra le muraglie da cui presero a scivolare giù innumerevoli piccole frane.

Quasi immediatamente sparò la seconda colubrina. Il proiettile raggiunse il mostro a una zampa posteriore, da cui sgorgò subito un rivolo di sangue. "Guarda come balla!" esclamò la bella Maria, presa anche lei dal crudele spettacolo. Allo spasimo della ferita la bestiaccia si era messa infatti a girare su se stessa, sussultando, con miserevole affanno. La zampa fracassata le ciondolava dietro, lasciando sulla ghiaia una striscia di liquido nero. Finalmente il rettile riuscì a raggiungere la capra e ad afferrarla coi denti. Stava per ritirarsi quando il conte Gerol, per ostentare il proprio coraggio, gli si fece vicino, quasi a due metri, scaricandogli la carabina nella testa.

Una specie di fischio uscì dalle fauci del mostro. E parve che cercasse di dominarsi, reprimesse il furore, non emettesse tutta la voce che aveva in corpo, che un motivo ignoto agli uomini lo inducesse ad aver pazienza. Il proiettile della carabina gli era entrato nell'occhio. Gerol fatto il colpo, si ritrasse di corsa e si aspettava che il drago cadesse stecchito. Ma la bestia non cadde stecchita, la sua vita pareva inestinguibile come fuoco di pece. Con la pallottola di piombo nell'occhio, il mostro trangugiò tranquillamente la capra e si vide il collo dilatarsi come gomma man mano che vi passava il gigantesco boccone. Poi si ritrasse indietro alla base delle rocce, prese a inerpicarsi per la parete, di fianco alla caverna. Saliva affannosamente, spesso franandogli la terra sotto le zampe, ansioso di scampo. Sopra s'incurvava un cielo limpido e scialbo, il sole asciugava rapidamente le tracce di sangue.

"Sembra uno scarafaggio in un catino" disse a bassa voce il governatore Andronico, parlando a se stesso.

"Come dici?" gli chiese la moglie.

"Niente, niente" fece lui.

"Chissà perché non entra nella caverna!" osservò il prof. Inghirami, apprezzando lucidamente ogni aspetto scientifico della scena.

"Ha paura di restare imprigionato" suggerì il Fusti. "Deve essere, piuttosto completamente intontito. E poi come vuoi che faccia un simile ragionamento? Un ceratosaurus... Non è un ceratosaurus" fece il Fusti. "Ne ho ricostruiti parecchi per i musei, ma sono diversi. Dove sono gli aculei della coda?"

"Li tiene nascosti" replicò l'Inghirami. "Guarda che addome gonfio. La coda si accartoccia di sotto e non si può vedere. "Stavano così parlando quando uno dei cacciatori, quello che aveva sparato il secondo colpo di colubrina, si avviò di corsa verso la terrazza dove stava l'Andronico, con l'evidente intenzione di andarsene. "Dove vai? Dove vai?" gli gridò il Gerol. "Sta al tuo posto fin che non abbiamo finito."" Me ne vado" rispose con voce ferma il cacciatore. "Questa storia non mi piace. Non è caccia per me, questa."" Che cosa vuoi dire? Hai paura. è questo che vuoi dire?"" No signore, io non ho paura."" Hai paura sì, ti dico, se no rimarresti al tuo posto."" Non ho paura, vi ripeto. Vergognatevi piuttosto voi, signor conte."" Ah, vergognatevi?" imprecò Martino Gerol. "Porco furfante che non sei altro! Sei uno di Palissano, scommetto, un vigliaccone sei. Vattene prima che ti dia una lezione."

"E tu, Beppi, dove vai tu adesso?" gridò ancora il conte poiché un altro cacciatore si ritirava."Me ne vado anch'io, signor conte. Non voglio averci mano in questa brutta faccenda."

"Ah, vigliacchi!" urlava il Gerol."Vigliacchi, ve la farei pagare, se potessi muovermi!"

"Non è paura signor conte" ribatté il secondo cacciatore. "Non è paura, signor conte. Ma vedrete che finirà male!"

"Vi faccio vedere io adesso!" E, raccattata una pietra da terra, il conte la lanciò di tutta forza contro il cacciatore. Ma il tiro andò a vuoto. Vi fu qualche minuto di pausa mentre il drago arrancava sulla parete senza riuscire a innalzarsi. La terra e i sassi cadevano, lo trascinavano sempre più in giù, là donde era partito. Salvo quel rumore di pietre smosse, c'era silenzio.

Poi si udì la voce di Andronico. "Ne abbiamo ancora per un pezzo?" gridò al Gerol. "C'è un caldo d'inferno. Falla fuori una buona volta, quella bestiaccia. Che gusto tormentarla così, anche se è un drago?"

"Che colpa ce n'ho io?" rispose il Gerol irritato. "Non vedi che non vuol morire? Con una palla nel cranio è più vivo di prima..."

S'interruppe scorgendo il giovanotto di prima comparire sul ciglio del ghiaione con un'altra capra in spalla. Stupito dalla presenza di quegli uomini, di quelle armi, di quelle tracce di sangue e soprattutto dall'affannarsi del drago su per le rocce, lui che non l'aveva mai visto uscire dalla caverna si era fermato, fissando la strana scena.

"Ohi! Giovanotto!" gridò il Gerol. "Quanto vuoi per quella capra?"

"Niente, non posso" rispose il giovane."Non ve la do neanche a peso d'oro. Ma che cosa gli avete fatto?" aggiunse, sbarrando gli occhi verso il mostro sanguinolento.

"Siamo qui per regolare i conti. Dovreste essere contenti. Basta capre da domani."

"Perché basta capre?"

"Domani il drago non ci sarà più" fece il conte sorridendo.

"Ma non potete, non potete farlo, io dico" esclamò il giovane spaventato. "Anche tu adesso cominci!" gridò Martino Gerol. "Dammi subito qua la capra."

"No, vi dico" replicò duro l'altro ritirandosi.

"Ah, perdio!" E il conte fu addosso al giovane, gli vibrò un pugno in pieno viso, gli strappò la capra di dosso, lo scaraventò a terra.

"Ve ne pentirete, vi dico, ve ne pentirete, vedrete se non ve ne pentirete!" imprecò a bassa voce il giovane rialzandosi, perché non osava reagire.

Ma Gerol gli aveva già voltato le spalle.

Il sole adesso incendiava la conca, a stento si riusciva a tenere gli occhi aperti tanto abbacinava il riflesso delle ghiaie gialle, delle rocce, delle ghiaie ancora e dei sassi; niente, assolutamente, che potesse riposare gli sguardi.

Maria aveva sempre più sete, e bere non serviva a niente. "Dio, che caldo!" si lamentava. Anche la vista del conte Gerol cominciava a darle fastidio.

Nel frattempo, come sbucati dalla terra, decine di uomini erano apparsi. Venuti probabilmente da Palissano alla voce che gli stranieri erano saliti al Burel, essi se ne stavano immobili sul ciglio di vari crestoni di terra gialla e osservavano senza far motto.

"Hai un bel pubblico adesso!" tentò di celiare l'Andronico, rivolto al Gerol che stava trafficando intorno alla capra con due cacciatori.

Il giovane alzo gli sguardi fin che scorse gli sconosciuti che lo stavano fissando. Fece una smorfia di disprezzo e riprese il lavoro.

Il drago, estenuato, era scivolato per la parete fino al ghiaione e giaceva immobile, palpitando solo il ventre rigonfio.

"Pronti!" fece un cacciatore sollevando col Gerol la capra da terra. Avevano aperto il ventre alla bestia e introdotto una carica esplosiva collegata a una miccia.

Si vide allora il conte avanzare impavido per il ghiaione, farsi vicino al drago non più di una decina di metri, con tutta calma deporre per terra la capra, quindi ritirarsi svolgendo la miccia.

Si dovette aspettare mezz'ora prima che la bestia si movesse. Gli sconosciuti in piedi sul ciglio dei crestoni sembravano statue: non parlavano neppure fra loro, il loro volto esprimeva riprovazione. Insensibili al sole che aveva assunto una estrema potenza, non distoglievano gli sguardi dal rettile, quasi implorando che non si muovesse.

Invece il drago, colpito alla schiena da un colpo di carabina, si voltò improvvisamente, vide la capra, vi si trascinò lentamente. Stava per allungare la testa e afferrare la preda quando il conte accese la miccia. La fiammella corse via rapidamente lungo il cordone, ben presto raggiunse la capra, provocò l'esplosione.

Lo scoppio non fu rumoroso, molto meno forte dei colpi di colubrina, un suono secco ma opaco, come di asse che si spezzi. Ma il corpo del drago fu ributtato indietro di schianto, si vide quindi che il ventre era stato squarciato. La testa riprese ad agitarsi penosamente a destra e a sinistra, pareva che dicesse di no, che non era giusto, che erano stati troppo crudeli, e che non c'era più nulla da fare. Rise di compiacenza il conte, ma questa volta lui solo. "Oh che orrore! Basta!" esclamò la bella Maria coprendosi la faccia con le mani. "Sì" disse lentamente il marito" anch'io credo che finirà male. "Il mostro giaceva, in apparenza sfinito, sopra una pozza di sangue nero. Ed ecco dai suoi fianchi uscire due fili di fumo scuro, uno a destra e uno a sinistra, due fumacchi grevi che stentavano ad alzarsi. "Hai visto?" fece l'Inghirami al collega. "Sì, ho visto" confermò l'altro. "Due sfiatatoi a mantice, come nel Ceratosaurus, i cosiddetti operculi hammeriani."

"No" disse il Fusti. "Non è un Ceratosaurus."

A questo punto il conte Gerol, di dietro al pietrone dove si era riparato, si avanzò per finire il mostro. Era proprio in mezzo al cono di ghiaia e stava impugnando la mazza metallica quando tutti i presenti mandarono un urlo.

Per un istante Gerol credette fosse un grido di trionfo per l'uccisione del drago. Poi avvertì che una cosa stava muovendosi alle sue spalle. Si voltò di un balzo e vide, oh ridicola cosa, vide due bestiole pietose uscire incespicando dalla caverna, e avanzarsi abbastanza celermente verso di lui. Due piccoli rettili informi, lunghi non più di mezzo metro, che ripetevano in miniatura l'immagine del drago morente. Due piccoli draghi, i figli, probabilmente usciti dalla caverna per fame.

Fu questione di pochi istanti. Il conte dava bellissima prova di agilità."Tieni! Tieni!" gridava gioiosamente roteando la clava di ferro. E due soli colpi bastarono. Vibrato con estrema energia e decisione, il mazzapicchio percosse successivamente i mostriciattoli, spezzò le teste come bocce di vetro. Entrambi si afflosciarono, morti, da lontano sembravano due cornamuse.

Allora gli uomini sconosciuti, senza dare la minima voce, si allontanarono correndo giù per i canali di ghiaia. Si sarebbe detto che fuggissero una improvvisa minaccia. Essi non provocarono rumore, non smossero frane, non volsero il capo neppure per un istante alla caverna del drago, scomparvero così come erano apparsi, misteriosamente.

Il drago adesso si moveva, sembrava che mai e poi mai sarebbe riuscito a morire. Trascinandosi come lumaca, si avvicinava alle bestiole morte, sempre emettendo due fili di fumo. Raggiunti che ebbe i figli, si accasciò sul ghiaione allungò con infinito stento la testa, prese a leccare dolcemente i due mostriciattoli morti, forse allo scopo di richiamarli in vita.

Infine il drago parve raccogliere tutte le superstiti forze, levò il collo verticalmente al cielo, come non aveva ancora fatto e dalla gola uscì, prima lentissimo, quindi con progressiva potenza un urlo indicibile, voce mai udita nel mondo, né animalesca né umana, così carica d'odio che persino il Conte Gerol ristette, paralizzato dall'orrore.

Ora si capiva perché prima non aveva voluto rientrare nella tana, dove pure avrebbe trovato scampo, perché non aveva emesso alcun grido o ruggito, limitandosi a qualche sibilo. Il drago pensava ai due figli e per risparmiarli aveva rifiutato la propria salvezza; se si fosse infatti nascosto nella caverna, gli uomini lo avrebbero inseguito là dentro, scoprendo i suoi nati; e se avesse levato la voce, le bestiole sarebbero corse fuori a vedere. Solo adesso che li aveva visti morire, il mostro mandava il suo urlo di inferno.

Invocava un aiuto il drago, e chiedeva vendetta per i suoi figli. Ma a chi? alle montagne forse, aride e disabitate? al cielo senza uccelli né nuvole, agli uomini che lo stavano suppliziando, al demonio forse? L'urlo trapanava le muraglie di roccia e la cupola del cielo, riempiva l'intero mondo. Sembrava impossibile (anche se non c'era alcun ragionevole motivo) sembrava impossibile che nessuno gli rispondesse. "Chi chiamerà?" domandò l'Andronico tentando inutilmente di fare scherzosa la propria voce. "Chi chiama? Non c'è nessuno che venga, mi pare?"" Oh, che muoia presto!" disse la donna. Ma il drago non si decideva a morire, sebbene il conte Gerol, accecato dalla smania di finirla, gli sparasse contro con la carabina. Tan! Tan! Era inutile. Il drago accarezzava con la lingua le bestiole morte; pur con moto sempre più lento, un sugo biancastro gli sgorgava dall'occhio illeso. "Il sauro!" esclamò il professor Fusti. "Guarda che piange!" Il governatore disse:"è tardi. Basta, Martino, è tardi, è ora di andare".

Sette volte si levò al cielo la voce del mostro, e ne rintronarono le rupi e il cielo. Alla settima volta parve non finire mai, poi improvvisamente si estinse, piombò a picco, sprofondò nel silenzio. Nella mortale quiete che seguì si udirono alcuni colpi di tosse. Tutto coperto di polvere, il volto trasfigurato dalla fatica, dall'emozione e dal sudore, il conte Martino, gettata tra i sassi la carabina, attraversava il cono di sfasciumi tossendo, e si premeva una mano sul petto.

"Che cosa c'è adesso?" domandò l'Andronico con volto serio per presentimento di male. "Che cosa ti sei fatto?"" Niente" fece il Gerol sforzando a giocondità il tono della voce. "Mi è andato dentro un po' di quel fumo."" Di che fumo?" Gerol non rispose ma gli fece segno con la mano al drago. Il mostro giaceva immobile, anche la testa si era abbandonata fra i sassi; si sarebbe detto ben morto, senza quei due sottili pennacchi di fumo. "Mi pare che sia finita" disse l'Andronico. Così infatti sembrava. L'ostinatissima vita stava uscendo dalla bocca del drago.

Nessuno aveva risposto al suo grido, in tutto il mondo non si era mosso nessuno. Le montagne se ne stavano immobili, anche le piccole frane si erano come riassorbite, il cielo era limpido, neppure una minuscola nuvoletta e il sole andava calando. Nessuno, né bestia né spirito, era accorso a vendicare la strage. Era stato l'uomo a cancellare quella residua macchia del mondo, l'uomo astuto e potente che dovunque stabilisce sapienti leggi per l'ordine, l'uomo incensurabile che si affatica per il progresso e non può ammettere in alcun modo la sopravvivenza dei draghi, sia pure nelle sperdute montagne. Era stato l'uomo ad uccidere e sarebbe stato stolto recriminare.

Ciò che l'uomo aveva fatto era giusto, esattamente conforme alle leggi. Eppure sembrava impossibile che nessuno avesse risposto alla voce estrema del drago. Andronico, così come sua moglie e i cacciatori, non desiderava altro che fuggire; persino i naturalisti rinunciarono alle pratiche dell'imbalsamazione, pur di andarsene presto lontani.

Gli uomini del paese erano spariti, come presentissero maledizione. Le ombre salivano su per le pareti crollanti. Dal corpo del drago, carcame incartapecorito, si levavano ininterrotti i due fili di fumo e nell'aria stagnante si attorcigliavano lentamente. Tutto sembrava finito, una triste cosa da dimenticare e nient'altro. Ma il conte Gerol continuava a tossire, a tossire. Sfinito, sedeva sopra un pietrone, accanto agli amici che non osavano parlargli. Anche la intrepida Maria guardava da un'altra parte. Si udivano solo quei brevi colpi di tosse. Inutilmente Martino Gerol cercava di dominarli; una specie di fuoco colava nell'interno del suo petto sempre più in fondo. "Me la sentivo" sussurrò il governatore Andronico alla moglie che tremava un poco. "Me la sentivo che doveva finire malamente."


Vorrei che andaste incontro al sole e al vento
con la pelle, più che con il vestito,
perchè il respiro della vita
è nella luce solare
e la mano della vita è nel vento

Kahlil Gibran "Il profeta"