Se sei un appassionato/a dei vecchi film comici italiani vieni a parlarne su Award & Oscar, ti aspettiamo!

Officina della poesia "Nicola Imbraguglio" Laboratorio poetico

La Scimmia Randagia di Maria Grazia Calandrone - Crocetti Editore

  • Posts
  • f.almerighi
    00 4/9/2009 2:10 PM
    Ho letto questo libro di Poesie dalla copertina bianca, mi piacerebbe se altri lo leggessero. Traggo dalla rete una recensione di G. Lucini e alcuni estratti dal libro. Un libro gigantesco.

    Non ha avuto fretta di pubblicare, la quarantenne Maria Grazia Calandrone, ma ha voluto pubblicare bene. Questo sembra suggerire la veste, la mole, la cura di questo volume nel quale Maria Grazia tenta un'impresa di alto contenuto tematico, ossia quella di raccontare l'uomo, il suo essere nel tempo e nel mondo, a partire da prima della nascita (come simbolo, dunque). L'uomo-essere, un pensiero, un tema che le cresce dentro come il frutto della maternità, con la maternità. Non so cosa ne pensi l'autrice di questa mia impressione, ma a me sembra che questa esperienza, che poi è fondamentale e dolcemente sconvolgente per ogni donna, sia il quadro entro il quale ella ha ricostruito, a volte in modo onirico e a volte con accenti più realistici, l'intera epica umana a partire dal femminile, con lo sguardo del femminile, rivendicando con forza i valori del femminile. Con una fertilità poetica che a volte sembra quasi febbrile, Maria Grazia è riuscita a dare una base poetica seria e concreta alla visione femminile del mondo, costruendo un orizzonte (anche di antropologia e non solo di poesia) che di fatto costituisce un "altro" modo di vedere la vita. Non sto dicendo che Maria Grazia Calandrone sia l'unica donna che ha fatto questo: sarebbe ingiusto verso migliaia di brave intellettuali e poete. Voglio soltanto dire che per la sua limpidezza, per la sua precisione, la sua essenzialità, e anche il suo valore che a mio avviso è indiscutibile, questo libro può essere considerato un importante riferimento, un orizzonte forte del "diversamente da" la cultura maschile. E lo fa senza contrasti, senza polemiche, senza mai far trasparire questa intenzione (che potrebbe anche essere inconscia o neppure voluta: non è qui l'intenzione dell'autrice). Il risultato viene raggiunto, e io lo registro come tale, perché l'autrice ha saputo esprimere il suo orizzonte senza cadere nei trabocchetti, nelle fuorvianze, nei ripensamenti e dunque scrivendo una poesia "se stessa", genuina, assolutamente al di fuori da una "letterarietà" che ne avrebbe costituito il fallimento (la letterarietà è, infatti, volenti o nolenti dominata dalle categorie del maschile, da quell'orizzonte di cultura e di senso).

    Ecco dunque perché Maria Grazia ha fatto bene i suoi conti, nel senso che ha molto riflettuto prima di scrivere questo libro: un libro che - sembrerebbe - è nato velocemente, in pochi mesi di lavoro (almeno nella sua identità di opera) ma che dimostra di avere alle spalle una lunga riflessione antropologica e anche filosofica. Un libro colto, maturo, dalla spiccata personalità, anche se si tratta di "opera prima" (l'autrice pubblicò già nel '98 Pietra di paragone, per i tipi di Tracce, ma si trattava di una pubblicazione-premio per un concorso letterario). Maria Grazia si impone dunque alla nostra attenzione come una significativa promessa di un arricchimento del nostro panorama poetico e sono convinto che il tempo mi darà ragione.

    Se poi andiamo a sondare il verso usato dall'autrice, notiamo subito la sua singolarità. Verso che sembra nervoso, nonostante il tono complessivo del libro sia alieno da puntate all'enfasi, agli eccessi drammatici: tutto sembra fluire in un discorso come sussurrato (anche se, a dire il vero, le cose tremende e vere sono sempre tremende e vere anche se sussurrate, non occorre gridarle). verso irregolarissimo: a volte lungo alcune righe, a volte brevissimo: ma c'è una ragione in tutto questo e sta nel corpo che partecipa al verso, nel respiro polmonare, fisico, unito allo stato emotivo che spezza a volte brutalmente, con cesure, senza mai "alzare la voce". Anche qui, si sente la lunga e paziente riflessione sul verso, sul "proprio" verso, quello che interpreta il sentire.

    Un libro dunque completo, in tutti i sensi, permeato peraltro anche, come si diceva, da quella gioiosa e trepida (e a volte pensosa) attesa, da quella passione contenuta di madre che osserva la sua creatura, s'immedesima in lei, torna alla sua infanzia, vola nel futuro, certo con una specie di nervosismo, che però rende più l'idea di una sollecitudine e di un'attenzione amorosa, non certo di una nevrosi.

    E poi l'amore. Nel libro compare molte volte questa parola, usata nei modi più sottili e, a mio modo di vedere, sempre inediti perché abbinata, sfumata, disciolta in situazioni, come a indicare il suo ruolo di cogenza, di sale che dà sapore all'insipido. La parola "amore" usata senza lo scadimento del dire per dire, ma sempre con forte connotazione, che la fa insomma risorgere dalla piattezza nella quale l'ha relegata la comunicazione massmediale.

    Un bel libro dunque, che fa onore anche al suo editore, Crocetti, che dimostra sempre di avere l'occhio lungo nelle sue scelte editoriali.





    da: La scimmia randagia





    consonante del pianto



    L'incontro (casuale, mentre avanziamo immersi nel quartiere del sole) con una persona da tempo dimenticata arriva a dissolvere parzialmente l'idea che ci eravamo fatti della nostra esistenza. Eppure, avevamo badato alla obbiettività, sapendo bene che il tempo, potendo reggere alla luce dei giorni: soltanto come idea e ricordo, è una materia modificabile.

    Eppure non ci siamo fatti mancare occasione per sistemare a fondo le linee pur sommarie della nostra coerenza. Ma questo incontro sta come un'isola dentro i nostri fondali, porta addosso - come un grande cetaceo - altri esseri, rotte. relitti, la solitudine spiaggiata dei ponti dell'adolescenza. Se ne deduce che l'umore raggiante dilaga in senso inverso dal presente, si affianca (non ostante la nostra vigilanza all'esperienza e alla concrezione del dolore. Se ne deduce che siamo programmati per dimenticare il dolore.



    La luce discende sul corpo

    dai propri occhi - mentre mimetizziamo

    con le piante e il tempo (la lettera

    degli anni) sopito al fondo della scena: quel corpo

    più piccolo, quei pochi statici tratti

    un altro sé - ma uguale

    a in sogno ricorrente

    noi, una tiepida paura

    nel solco della propria soluzione agonistica.



    Eravamo tra i lampioni dell'argine

    loro irriconoscibili aggettivi, tempo

    scandito dalle abitudini. Simili - cosi fermi -

    a luci ignare o clausole

    testamentarie. I portici

    proteggevano i forni dalla pioggia marina. Accanto al mare, pioggia e terra

    sono attutite

    dalla somiglianza: anche i nostri pochi anni d'amore erano acqua

    che si respinge ai poli, va a ingrossare un sinonimo che cresce

    pesci monologanti

    e luce smerigliata di altura. Cosi l'argine è lento

    ai fini della morte, inversamente portato a cadere.



    La rovistata purezza dell'edera mischiata al sole delle facciate

    ingiallite, come d niente che brilla tra i capelli

    dei bambini - o gli aerei

    che volano bassi

    nel cielo scivoloso. L'udito-spazio

    nella campagna bianca e giubilante

    sopra la nemesi e la carità dei nostri occhi.



    La superstizione si fonda su un ricordo non completato - se un giorno abbiamo

    [ ritirato gli occhi di fronte

    al peregrinante brusio di una folla, a una somma di anni

    forse ancora esaudibile. Emanava una nenia dall'esito incerto

    dai muri

    della pensione milano

    messa come di slancio

    nel vicolo, tra gli alberi

    telegrafici e il rullare continuo di maioliche

    al passaggio dei treni. Eppure l'aria si ammucchiava più fredda nei cavi

    delle scapole sotto le magliette, come spostata

    da un fischiare di navi verso il faro. Il richiamo del largo alla terra degli uomini. Se uno

    tra i passeggeri avesse rappresentato l'ottimismo dei mari che sminuzzano i solidi

    [ e non conservano

    che attutite confidenze di relitti, avremmo dimenticato

    tutti, per imitazione: da quell'androne di albergo di ringhiera sterminato

    dal funerale, ogni alleato avrebbe sparso semi

    in un'anima ancora gutturale: collettiva. Avremmo stretto mani

    senza volgere gli occhi al carro

    nero che se ne andava e ci portava via.



    L'incontro ci ha costretti a ricordare anche le consonanze, le belle gite tra i vigneti sabini presi dal sole settembrino del 1979, la luce corta del primo pomeriggio durante il quale, isolati, abbiamo incominciato a riprodurre su carta il panorama - che splendeva perfetto, prima che vi calassero le ombre: avevamo già in noi una nostalgia preventiva, il concetto di un futuro mai uguale e per ciò doloroso, se anche migliore. Giorno per giorno perfezioniamo il nostro testamento.







    STANZE



    I

    (sala travaglio)



    La terra è lontana, un bisbiglio

    nell'intestardimento della notte che chiude i primi fiori

    lungo i sentieri. un corpo bianco stretto dalla notte

    ti chiude. Dolore: una moria privata

    della storia: ma un mestiere

    imparato: affermazione

    del tempo. Volentieri asseconderemmo la manovra

    che estrae tempo umano

    dai corpi, scaveremmo ne1 nugolo fitto delle coperte

    la piccolezza di una similitudine - volentieri, se già non fossimo nati.



    La frana innaturale della grandine all'alba apertamente

    reclina sulla propria reliquia. L'ordine perfetto di un corpo

    fuori

    dal proprio limite continua

    la natura, l'altro dolore, il puro dolore

    dell'altro. Vedo nel tuo dolore la tua salvezza, mia

    bestiola cieca - la tua forza

    disperata di passare - fatto oceano a spallate

    nello stretto del sangue. Questo piccolo grumo di fango e saliva risale la sponda

    da dove è venuto. Ora che siamo perduti

    e liberati secondo natura, siamo sonno

    che nega, ora: mentre ricuciono i monconi. Per primi

    sogno navi di gomma e saltimbanchi.



    Di notte insieme agli altri vedrai il mondo

    dal quale veniamo: porta sull'aria

    che ha odore umano di capelli

    e mattine tremate

    dal passaggio di creature che sono a volte felici.





    II

    (sala parto)



    Col peso del creato sul nostro petto

    tra le vetrate ancora fredde.

    Ora il mondo è più grande, un camminare eretto e secolare

    lungo l'idraulica della notte

    restia a muoversi

    a compassione. Siamo fatti di una materia fragile

    come l'anemia e l'oro.



    L'acqua e le ombre che sopra l'acqua

    svernavano

    nel grido inconsolato della nascita; vento largo che impregna le zolle,

    il gusto reciproco di mancarsi con la voce (smagliata dall'attraversamento

    dei recinti). Le case, i corpi: natura che semplicemente si addormenta, converge

    là dove sporge il sole,

    l'azzurro che non ha finito di cadere

    sulla fronte

    che rivolgi alla terra: l'anima

    roderà anche le tue calcagna

    come una lupa. Sarebbe saggio

    lasciare la sua intemperanza fuori dal tempio e sopportare il perdurare Solo

    del suo pensiero (un alone canoro) in torno al capo, partire

    dalla scena dell'incontro

    in questo luogo che non affaccia sul mondo.



    Sedute in fila ad alimentare il creato

    sotto gli occhi dei dirimpettai

    che indicano oltre le montagne distrattamente qualcosa

    salire dagli appezzarnenti.



    Porgiamo lui come una parte piccola di noi

    ferita da una maschera sentimentale che andava e veniva

    tra le lamiere impennate dal vento delle nostre decadi. Vele

    di latta in mezzo agli alberi

    da frutta e al fumo

    temperato dei comignoli

    stampato sui muri come l'anello d'ombra dell'altalena

    ricavata dalla ruota di camion - d'inverno rasa

    fino all'orlo infiammabile

    di grandine e larve. Urtava nello spigolo dell'anno (l'ultima festa

    comandata prima di andarsene

    insieme a un dispiacere: il tempo che passa

    come il piccolo attrito che adesso asciuga nelle tue narici

    sotto il mio volto inconsolabilmente fedele.







    condanna alla fortuna o scena di rottura



    I bambini limitano il nostro infinitesimale scivolìo nella morte

    con le loro parole con le loro braccia

    piene di tutto l'invisibile

    venuto dai solchi senza specchiamenti di nuvole dell'infanzia per trapiantarci sull'acqua

    in qualità di dicerie terrestri che si imbastiscono come grandi archi per essere

    [ dettate dalla bocca del cielo. La prosa

    retroattiva del mare sigla più del metallo delle armate

    le ortodosse colonie abbeverate di terra e i sorsi copiosi più ancora dei cantieri

    navali inarcati sugli affluenti, circondati da affioramenti di teste piccole

    dall'umore salutante. Siamo arcipelaghi cinti di luce, fiumi senza tribù,

    [ né relativo rimpianto.



    La sera logora l'intavolata

    ombra delle cabine sulla sabbia: come il piede dell'uomo, la luce

    fa uno strappo tra il grigio e i gommoni

    che l'obliqua copisteria del tramonto sommariamente trascrive su gobbe terrestri

    o pedane - ma lascia intatta quella forma di casa copiata sul mare, odorosa

    di resina e saponi altrui, del cielo che si scarica a spintoni.



    Siamo membri del corpo materno nello scamiciato a fiori

    e siamo esseri pericolosi, diritti, veli neri tesi tra i chiodi

    che non gettano ombre. Solo uno

    si professò innocente: il legno rugginoso delle barche porta a riva l'odore del suo oblio

    e l'imposta nerastra pressione del suo palmo

    in blocco alla buia legione della larga aria; la sua bella testa

    (remigando la paglia dei capelli al contraccolpo climatico sulla bocca

    del forno in gesso del sole) taglia il Luogo Comune; con le mani

    fa approdare il collasso dei pescatori (specie di Simone

    detto Pietro) - perché il mare salassa i terrestri

    e i pescatori stanno

    al mare come al cielo

    l'affettuosa montagna

    sta, assorbendo e drenando

    l'ansante

    (inizio di) perturbazione divina.

    Questo, se dio

    solo abbassa la fronte sulla corteccia del nostro Albero

    Maestro - e ci sogna.



    Un ritardo nel gettito solitario e intelligente della pioggia

    annunciata dall'asciuttezza di tutti i canali - e comunque imperfetta, là dove cade

    nel sonno intrauterino e irriga la sua pace apocalittica di cratere spento.



    E lei che parla dentro - alla ripresa di metà mattina - dei cari, di quelli

    cui basta una incrinatura per scivolare verso la catastrofe, nel vento dei mari

    baltici

    tra pali secchi sferzati

    dal bianco inesistente del dolore. Fin che perdonano alla nostra assenza il gesto

    [ di farsi scoprire a cose fatte.



  • tadzio71
    00 4/10/2009 11:58 AM
    Grazie per avermi permesso di conoscere meglio questa poetessa il cui linguaggio mi affascina sempre.

    Leggerò senz'altro il libro che consigli