Ho letto questo libro di Poesie dalla copertina bianca, mi piacerebbe se altri lo leggessero. Traggo dalla rete una recensione di G. Lucini e alcuni estratti dal libro. Un libro gigantesco.
Non ha avuto fretta di pubblicare, la quarantenne Maria Grazia Calandrone, ma ha voluto pubblicare bene. Questo sembra suggerire la veste, la mole, la cura di questo volume nel quale Maria Grazia tenta un'impresa di alto contenuto tematico, ossia quella di raccontare l'uomo, il suo essere nel tempo e nel mondo, a partire da prima della nascita (come simbolo, dunque). L'uomo-essere, un pensiero, un tema che le cresce dentro come il frutto della maternità, con la maternità. Non so cosa ne pensi l'autrice di questa mia impressione, ma a me sembra che questa esperienza, che poi è fondamentale e dolcemente sconvolgente per ogni donna, sia il quadro entro il quale ella ha ricostruito, a volte in modo onirico e a volte con accenti più realistici, l'intera epica umana a partire dal femminile, con lo sguardo del femminile, rivendicando con forza i valori del femminile. Con una fertilità poetica che a volte sembra quasi febbrile, Maria Grazia è riuscita a dare una base poetica seria e concreta alla visione femminile del mondo, costruendo un orizzonte (anche di antropologia e non solo di poesia) che di fatto costituisce un "altro" modo di vedere la vita. Non sto dicendo che Maria Grazia Calandrone sia l'unica donna che ha fatto questo: sarebbe ingiusto verso migliaia di brave intellettuali e poete. Voglio soltanto dire che per la sua limpidezza, per la sua precisione, la sua essenzialità, e anche il suo valore che a mio avviso è indiscutibile, questo libro può essere considerato un importante riferimento, un orizzonte forte del "diversamente da" la cultura maschile. E lo fa senza contrasti, senza polemiche, senza mai far trasparire questa intenzione (che potrebbe anche essere inconscia o neppure voluta: non è qui l'intenzione dell'autrice). Il risultato viene raggiunto, e io lo registro come tale, perché l'autrice ha saputo esprimere il suo orizzonte senza cadere nei trabocchetti, nelle fuorvianze, nei ripensamenti e dunque scrivendo una poesia "se stessa", genuina, assolutamente al di fuori da una "letterarietà" che ne avrebbe costituito il fallimento (la letterarietà è, infatti, volenti o nolenti dominata dalle categorie del maschile, da quell'orizzonte di cultura e di senso).
Ecco dunque perché Maria Grazia ha fatto bene i suoi conti, nel senso che ha molto riflettuto prima di scrivere questo libro: un libro che - sembrerebbe - è nato velocemente, in pochi mesi di lavoro (almeno nella sua identità di opera) ma che dimostra di avere alle spalle una lunga riflessione antropologica e anche filosofica. Un libro colto, maturo, dalla spiccata personalità, anche se si tratta di "opera prima" (l'autrice pubblicò già nel '98 Pietra di paragone, per i tipi di Tracce, ma si trattava di una pubblicazione-premio per un concorso letterario). Maria Grazia si impone dunque alla nostra attenzione come una significativa promessa di un arricchimento del nostro panorama poetico e sono convinto che il tempo mi darà ragione.
Se poi andiamo a sondare il verso usato dall'autrice, notiamo subito la sua singolarità. Verso che sembra nervoso, nonostante il tono complessivo del libro sia alieno da puntate all'enfasi, agli eccessi drammatici: tutto sembra fluire in un discorso come sussurrato (anche se, a dire il vero, le cose tremende e vere sono sempre tremende e vere anche se sussurrate, non occorre gridarle). verso irregolarissimo: a volte lungo alcune righe, a volte brevissimo: ma c'è una ragione in tutto questo e sta nel corpo che partecipa al verso, nel respiro polmonare, fisico, unito allo stato emotivo che spezza a volte brutalmente, con cesure, senza mai "alzare la voce". Anche qui, si sente la lunga e paziente riflessione sul verso, sul "proprio" verso, quello che interpreta il sentire.
Un libro dunque completo, in tutti i sensi, permeato peraltro anche, come si diceva, da quella gioiosa e trepida (e a volte pensosa) attesa, da quella passione contenuta di madre che osserva la sua creatura, s'immedesima in lei, torna alla sua infanzia, vola nel futuro, certo con una specie di nervosismo, che però rende più l'idea di una sollecitudine e di un'attenzione amorosa, non certo di una nevrosi.
E poi l'amore. Nel libro compare molte volte questa parola, usata nei modi più sottili e, a mio modo di vedere, sempre inediti perché abbinata, sfumata, disciolta in situazioni, come a indicare il suo ruolo di cogenza, di sale che dà sapore all'insipido. La parola "amore" usata senza lo scadimento del dire per dire, ma sempre con forte connotazione, che la fa insomma risorgere dalla piattezza nella quale l'ha relegata la comunicazione massmediale.
Un bel libro dunque, che fa onore anche al suo editore, Crocetti, che dimostra sempre di avere l'occhio lungo nelle sue scelte editoriali.
da: La scimmia randagia
consonante del pianto
L'incontro (casuale, mentre avanziamo immersi nel quartiere del sole) con una persona da tempo dimenticata arriva a dissolvere parzialmente l'idea che ci eravamo fatti della nostra esistenza. Eppure, avevamo badato alla obbiettività, sapendo bene che il tempo, potendo reggere alla luce dei giorni: soltanto come idea e ricordo, è una materia modificabile.
Eppure non ci siamo fatti mancare occasione per sistemare a fondo le linee pur sommarie della nostra coerenza. Ma questo incontro sta come un'isola dentro i nostri fondali, porta addosso - come un grande cetaceo - altri esseri, rotte. relitti, la solitudine spiaggiata dei ponti dell'adolescenza. Se ne deduce che l'umore raggiante dilaga in senso inverso dal presente, si affianca (non ostante la nostra vigilanza all'esperienza e alla concrezione del dolore. Se ne deduce che siamo programmati per dimenticare il dolore.
La luce discende sul corpo
dai propri occhi - mentre mimetizziamo
con le piante e il tempo (la lettera
degli anni) sopito al fondo della scena: quel corpo
più piccolo, quei pochi statici tratti
un altro sé - ma uguale
a in sogno ricorrente
noi, una tiepida paura
nel solco della propria soluzione agonistica.
Eravamo tra i lampioni dell'argine
loro irriconoscibili aggettivi, tempo
scandito dalle abitudini. Simili - cosi fermi -
a luci ignare o clausole
testamentarie. I portici
proteggevano i forni dalla pioggia marina. Accanto al mare, pioggia e terra
sono attutite
dalla somiglianza: anche i nostri pochi anni d'amore erano acqua
che si respinge ai poli, va a ingrossare un sinonimo che cresce
pesci monologanti
e luce smerigliata di altura. Cosi l'argine è lento
ai fini della morte, inversamente portato a cadere.
La rovistata purezza dell'edera mischiata al sole delle facciate
ingiallite, come d niente che brilla tra i capelli
dei bambini - o gli aerei
che volano bassi
nel cielo scivoloso. L'udito-spazio
nella campagna bianca e giubilante
sopra la nemesi e la carità dei nostri occhi.
La superstizione si fonda su un ricordo non completato - se un giorno abbiamo
[ ritirato gli occhi di fronte
al peregrinante brusio di una folla, a una somma di anni
forse ancora esaudibile. Emanava una nenia dall'esito incerto
dai muri
della pensione milano
messa come di slancio
nel vicolo, tra gli alberi
telegrafici e il rullare continuo di maioliche
al passaggio dei treni. Eppure l'aria si ammucchiava più fredda nei cavi
delle scapole sotto le magliette, come spostata
da un fischiare di navi verso il faro. Il richiamo del largo alla terra degli uomini. Se uno
tra i passeggeri avesse rappresentato l'ottimismo dei mari che sminuzzano i solidi
[ e non conservano
che attutite confidenze di relitti, avremmo dimenticato
tutti, per imitazione: da quell'androne di albergo di ringhiera sterminato
dal funerale, ogni alleato avrebbe sparso semi
in un'anima ancora gutturale: collettiva. Avremmo stretto mani
senza volgere gli occhi al carro
nero che se ne andava e ci portava via.
L'incontro ci ha costretti a ricordare anche le consonanze, le belle gite tra i vigneti sabini presi dal sole settembrino del 1979, la luce corta del primo pomeriggio durante il quale, isolati, abbiamo incominciato a riprodurre su carta il panorama - che splendeva perfetto, prima che vi calassero le ombre: avevamo già in noi una nostalgia preventiva, il concetto di un futuro mai uguale e per ciò doloroso, se anche migliore. Giorno per giorno perfezioniamo il nostro testamento.
STANZE
I
(sala travaglio)
La terra è lontana, un bisbiglio
nell'intestardimento della notte che chiude i primi fiori
lungo i sentieri. un corpo bianco stretto dalla notte
ti chiude. Dolore: una moria privata
della storia: ma un mestiere
imparato: affermazione
del tempo. Volentieri asseconderemmo la manovra
che estrae tempo umano
dai corpi, scaveremmo ne1 nugolo fitto delle coperte
la piccolezza di una similitudine - volentieri, se già non fossimo nati.
La frana innaturale della grandine all'alba apertamente
reclina sulla propria reliquia. L'ordine perfetto di un corpo
fuori
dal proprio limite continua
la natura, l'altro dolore, il puro dolore
dell'altro. Vedo nel tuo dolore la tua salvezza, mia
bestiola cieca - la tua forza
disperata di passare - fatto oceano a spallate
nello stretto del sangue. Questo piccolo grumo di fango e saliva risale la sponda
da dove è venuto. Ora che siamo perduti
e liberati secondo natura, siamo sonno
che nega, ora: mentre ricuciono i monconi. Per primi
sogno navi di gomma e saltimbanchi.
Di notte insieme agli altri vedrai il mondo
dal quale veniamo: porta sull'aria
che ha odore umano di capelli
e mattine tremate
dal passaggio di creature che sono a volte felici.
II
(sala parto)
Col peso del creato sul nostro petto
tra le vetrate ancora fredde.
Ora il mondo è più grande, un camminare eretto e secolare
lungo l'idraulica della notte
restia a muoversi
a compassione. Siamo fatti di una materia fragile
come l'anemia e l'oro.
L'acqua e le ombre che sopra l'acqua
svernavano
nel grido inconsolato della nascita; vento largo che impregna le zolle,
il gusto reciproco di mancarsi con la voce (smagliata dall'attraversamento
dei recinti). Le case, i corpi: natura che semplicemente si addormenta, converge
là dove sporge il sole,
l'azzurro che non ha finito di cadere
sulla fronte
che rivolgi alla terra: l'anima
roderà anche le tue calcagna
come una lupa. Sarebbe saggio
lasciare la sua intemperanza fuori dal tempio e sopportare il perdurare Solo
del suo pensiero (un alone canoro) in torno al capo, partire
dalla scena dell'incontro
in questo luogo che non affaccia sul mondo.
Sedute in fila ad alimentare il creato
sotto gli occhi dei dirimpettai
che indicano oltre le montagne distrattamente qualcosa
salire dagli appezzarnenti.
Porgiamo lui come una parte piccola di noi
ferita da una maschera sentimentale che andava e veniva
tra le lamiere impennate dal vento delle nostre decadi. Vele
di latta in mezzo agli alberi
da frutta e al fumo
temperato dei comignoli
stampato sui muri come l'anello d'ombra dell'altalena
ricavata dalla ruota di camion - d'inverno rasa
fino all'orlo infiammabile
di grandine e larve. Urtava nello spigolo dell'anno (l'ultima festa
comandata prima di andarsene
insieme a un dispiacere: il tempo che passa
come il piccolo attrito che adesso asciuga nelle tue narici
sotto il mio volto inconsolabilmente fedele.
condanna alla fortuna o scena di rottura
I bambini limitano il nostro infinitesimale scivolìo nella morte
con le loro parole con le loro braccia
piene di tutto l'invisibile
venuto dai solchi senza specchiamenti di nuvole dell'infanzia per trapiantarci sull'acqua
in qualità di dicerie terrestri che si imbastiscono come grandi archi per essere
[ dettate dalla bocca del cielo. La prosa
retroattiva del mare sigla più del metallo delle armate
le ortodosse colonie abbeverate di terra e i sorsi copiosi più ancora dei cantieri
navali inarcati sugli affluenti, circondati da affioramenti di teste piccole
dall'umore salutante. Siamo arcipelaghi cinti di luce, fiumi senza tribù,
[ né relativo rimpianto.
La sera logora l'intavolata
ombra delle cabine sulla sabbia: come il piede dell'uomo, la luce
fa uno strappo tra il grigio e i gommoni
che l'obliqua copisteria del tramonto sommariamente trascrive su gobbe terrestri
o pedane - ma lascia intatta quella forma di casa copiata sul mare, odorosa
di resina e saponi altrui, del cielo che si scarica a spintoni.
Siamo membri del corpo materno nello scamiciato a fiori
e siamo esseri pericolosi, diritti, veli neri tesi tra i chiodi
che non gettano ombre. Solo uno
si professò innocente: il legno rugginoso delle barche porta a riva l'odore del suo oblio
e l'imposta nerastra pressione del suo palmo
in blocco alla buia legione della larga aria; la sua bella testa
(remigando la paglia dei capelli al contraccolpo climatico sulla bocca
del forno in gesso del sole) taglia il Luogo Comune; con le mani
fa approdare il collasso dei pescatori (specie di Simone
detto Pietro) - perché il mare salassa i terrestri
e i pescatori stanno
al mare come al cielo
l'affettuosa montagna
sta, assorbendo e drenando
l'ansante
(inizio di) perturbazione divina.
Questo, se dio
solo abbassa la fronte sulla corteccia del nostro Albero
Maestro - e ci sogna.
Un ritardo nel gettito solitario e intelligente della pioggia
annunciata dall'asciuttezza di tutti i canali - e comunque imperfetta, là dove cade
nel sonno intrauterino e irriga la sua pace apocalittica di cratere spento.
E lei che parla dentro - alla ripresa di metà mattina - dei cari, di quelli
cui basta una incrinatura per scivolare verso la catastrofe, nel vento dei mari
baltici
tra pali secchi sferzati
dal bianco inesistente del dolore. Fin che perdonano alla nostra assenza il gesto
[ di farsi scoprire a cose fatte.