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CRISTIANI

Aspetti in ombra della legge sociale dell'islam. 2

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    Kaan.
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    00 11/01/2009 18:50
    G.nni Cantoni - Alleanza cattolica
    Dal secondo capitolo. N.B.: i riferimenti bibliografici incompleti si riferiscono a testi citati nei capitoli precedenti]

    II
    Dîn wa-dunyâ, "religione e società temporale", dîn wa-dawla, "religione e Stato", e la sharî’a

    1. Il problema della "legge sociale dell’islam"

    Il primo e principale punctum dolens e, insieme, punto di partenza delle mie osservazioni è costituito dal fatto che spesso, nelle sempre più numerose introduzioni all’islam — per certo di diverso valore, comunque segni evidenti di un interesse crescente, del quale ho segnalato alcune ragioni di fatto —, non ha adeguato risalto, quando non è vistosamente trascurato, un aspetto significativo dell’islam stesso, cioè la sua morale sociale, quella che si potrebbe chiamare, per analogia con quanto è noto relativamente alla Chiesa cattolica, "la dottrina sociale dell’islam", rectius "la legge sociale dell’islam", posto il suo carattere positivamente normativo piuttosto che orientativo, di regolamento per l’azione sociale piuttosto che di componente per la formazione della coscienza sociale.

    Se una presentazione anche elementare del cristianesimo cattolico non può prescindere almeno da un cenno alla dottrina sociale della Chiesa in quanto, al dire di Papa beato Giovanni XXIII (1958-1963), "parte integrante della concezione cristiana della vita" (1) — e della sua portata è conferma la consistente presenza di essa come commento al decalogo nella terza parte del Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992 —, non può accadere diversamente a proposito della legge sociale islamica, posto che nell’islamologia maggioritaria non divulgativa corre la tesi secondo cui nell’islam religione e comunità, religione e Stato coincidono, cioè l’islam è una compenetrazione strutturale di religione e di vita socio-politica.

    Per altro, si tratta di tesi autorevolmente contestata, per esempio dal politologo e islamologo francese Olivier Carré, che ipotizza l’esistenza di un’"ortodossia deviante" (2), e dal sociologo delle religioni Enzo Pace, che ne parla come di "stereotipo" (3), di "mito collettivo" (4) e di "ricorrente luogo comune" (5). Dal canto suo, Allievi giunge addirittura a qualificarla — attraverso una formulazione fenomenologicamente verosimile ma fattualmente infondata — come tesi prevalentemente, se non soltanto, divulgativa, cioè propria della volgarizzazione dell’argomento. Scrive infatti: "[...] dell’islam viene proposta spesso una vulgata che presuppone la sovrapposizione sostanziale tra din, cioè religione (in ebraico e in aramaico più ancora che in arabo la radice della parola si apparenta, significativamente, anche con legge), dunya, cioè la società (letteralmente il basso, potremmo dire la vita quotidiana, anche nei suoi aspetti sociali, collettivi), e dawla, parola che usiamo per tradurre e significare Stato, ma che curiosamente viene da una radice che significa alternanza, cambiamento, (la si usa, tra l’altro, anche per l’alternarsi delle stagioni) — tutto quindi tranne che qualcosa di fisso, di immutabile, di non soggetto al cambiamento: più un moto, per così dire, che uno stato. Tale concezione è quella "standard" più o meno di tutti i manuali di introduzione all’islam, e tanto più radicalmente tanto più questi sono brevi e sintetici, riducendo in pillole pre-digerite il contenuto dell’islam" (6). E accompagna l’affermazione, in nota, con un giudizio impietoso che ha l’allure di un’insinuazione: "Peraltro, va pur detto che essi [tali "manuali di introduzione all’islam"] si "riprendono", per usare un gentile eufemismo, l’uno dall’altro, per cui si ha talvolta la sensazione che tale interpretazione sia diventata la interpretazione ufficiale per il semplice fatto che, a furia di ripeterla, ce ne siamo convinti, e abbiamo finito per ritenerla l’unica possibile" (7).

    Come ho anticipato, un esame attento — che però non mi permetto assolutamente di qualificare come esaustivo — almeno della letteratura appunto divulgativa corrente in Italia mi autorizza a dichiarare infondata l’ipotesi avanzata, cioè quella dell’interpretazione accreditata per copiatura e/o per reiterazione. In attesa d’identificare anzitutto quali sono il testo o l’autore "ripresi", cioè "copiati", o almeno quali sono il testo o l’autore "ripetuti", che sarebbero all’origine della tesi dichiarata problematica, ma divenuta "ufficiale" nel modo improprio denunciato, per così valutare la sua serietà, certifico che, proprio nella vulgata, si verifica esattamente il contrario di quanto sostenuto da Allievi: la sovrapposizione sostanziale fra din, dunya e dawla, fra religione, società e Stato, non solo è spesso materialmente assente, ma, comunque, quando è presente, è presente in modo decisamente inadeguato a far intendere la portata del problema a chi viva, sia pure passivamente, della e nella cultura occidentale, che da due millenni porta in qualche modo in epigrafe la formula evangelica "Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio" (Mt. 22, 21; cfr. Mc. 12, 17; e Lc. 20, 25). Né costituisce eccezione che ne permetta l’assimilazione al mondo islamico la civiltà cristiana romano-germanica, detta Medioevo (8); cioè non basta eventualmente dire che "nell’Islam succede come nel Medioevo". Infatti, in tale civiltà cristiana il momento religioso — talora, anche il personale ecclesiastico — è per certo dominante su quello politico, per tacere di quello economico, ma non l’assorbe, e permane sempre la corretta distinzione — e la conseguente gerarchizzazione — fra spirituale e temporale, che diverrà separazione nella misura della realizzazione del processo di secolarizzazione da parte del secolarismo, mentre nella prospettiva islamica, anche nella sua ricostruzione da parte di musulmani, si parla esplicitamente di "riunificazione del temporale e dello spirituale" (9). Dal canto suo, l’orientalista britannico Bernard Lewis, professore emerito dell’Istituto per gli Studi sul Medio Oriente della statunitense Princeton University, chiarito che "teocrazia", "governo di Dio", e "ierocrazia", "governo dei preti", non sono sinonimi, afferma che "l’Islam è teocratico in linea di principio, se non nella pratica [...]. Teocrazia significa letteralmente governo di Dio. E in questo senso l’Islam, in teoria, è sempre stato una teocrazia. Nella Roma antica, Cesare era Dio. Nel Cristianesimo Cesare e Dio coesistono. Nell’Islam Dio è Cesare, in quanto Egli solo è il capo supremo dello Stato, fonte della sovranità e perciò anche dell’autorità e della legge. Lo stato è lo stato di Dio, la legge è la legge di Dio. L’esercito è l’esercito di Dio, e naturalmente il nemico è il nemico di Dio" (10). Per altro, lo conferma a chiare lettere lo stesso Allievi, quando — parlando dell’"offerta politica" dell’islam ai potenziali convertiti — nota: "L’islam è del resto tutt’altro che fuga mundi, volendo riunire, nella visione tradizionale ideale, dîn, dunyâ e dawla, il contrario quindi della separazione tra la sfera della religione e quelle della politica e della vita sociale" (11). Finalmente, il politologo francese Olivier Roy, pur sostenendo la tesi relativa all’esistenza di diversi islam, tanti quanti le diverse realizzazioni storiche nelle diverse civiltà islamiche, riconosce che questa storicizzazione collide con "[...] l’immaginario politico islamico [che] accetta e rivendica anche il presupposto secondo cui l’islam esiste sub specie aeternitatis" (12), e che, in tutti i suoi portatori espliciti e riflessi, nei diversi "intellettuali organici" al mondo islamico che si sono susseguiti dalla sua fondazione alla contemporaneità, "[...] concepisce appunto l’islam come atemporale, astorico e non sottoponibile a esame critico. Bisogna quindi capire le ragioni dell’egemonia del discorso "unicitario" fra i letterati e gli intellettuali musulmani, egemonia che comporta l’emarginazione degli altri punti di vista" (13).

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    Kaan.
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    Quanto al problema in sé, Rizzardi rileva: "Una delle questioni cruciali che la cultura occidentale oggi non riesce a penetrare fino in fondo è il rapporto tra religione e potere politico in Islâm. Perché e fino a che punto la dimensione religiosa prende spazio dentro la dimensione politica; fino a che punto i due termini dîn (religione) e dawlah (stato) sono indissociabili?" (14). Al quesito nodale risponde non solo evocando "Maometto, lo statista della Costituzione medinese, sulla quale viene costruita la "città" della ummah, [che] dà avvio al processo di statalità islamica" (15), ma affermando: "Non è sufficiente dire che l’Islâm è la religione di stato, occorre parlare di statalità islamica, in quanto la sharî’ah definisce la natura e la struttura dello stato" (16). Quindi propone: "Per introdurci a capire, richiamiamo due principi direttivi. Il primo è che la religione si mantiene e si fortifica nella misura in cui la ’asabiyyah (coesione di gruppo) cementa unitariamente il gruppo e il mulk (potere) fa vivere e protegge la sharî’ah.

    "L’appoggio che proviene dallo spirito di gruppo e dal potere è fondamentale per l’essere stesso della religione che a sua volta determina sia il gruppo che il potere. In simile contesto l’interrelazione fra dîn e dawlah è "naturale".

    "Il secondo principio riguarda la dinamica stessa della sharî’ah e in particolare le modalità della sua realizzazione. La sharî’ah deve essere realizzata pienamente, deve trovare accoglienza incondizionata, proprio perché Legge di Dio. La mancanza di successo è la sconfitta di Dio e il fallimento della recitazione e della testimonianza del predicatore. In questa prospettiva assume significato l’higrah del Profeta, in quanto segna il "trionfo" della Parola. Il gihâd entra nella fase di "testimonianza forte" mediante il coinvolgimento in primo piano anche della statalità. Il Profeta progetta la "città" islamica, per la quale tutte le componenti, individuo, gruppo e potere, sono convocate insieme a stabilire la sharî’ah internamente ed esternamente al gruppo islamico" (17).

    Dunque, il profeta — il primo musulmano e il musulmano per eccellenza (18) —, emigrato a Yathrib di fronte al rifiuto della sua predicazione da parte degli abitanti de La Mecca, la ribattezza Medina, la "città" per antonomasia, e vi organizza la "comunità", cioè costituisce lo Stato, la "città-Stato", e ne detta la Costituzione (19); quindi, a partire dalla battaglia di Badr, nella quale nel 624, alla testa degli emigrati e con l’aiuto dei medinesi, vince i meccani, piega manu militari chi non accetta l’appello.

    Stando così le cose, anche se "la storia dei paesi musulmani non conferma l’indirizzo muhammadiano, che perde la sua intrinseca forza con il disfacimento del califfato e il sorgere di una costellazione di stati diversamente gestiti" (20), se non altro perché si tratta di una storia sei volte secolare, se non addirittura tredici volte secolare, "la ummah, l’unità tra dîn e dawlah, il califfato rimangono i termini che hanno riferimento con l’idealità islamica, con la nativa vocazione dell’Islâm e in questo senso restano come la stella polare cui indirizzare la ricerca e la salvaguardia dell’identità islamica" (21).

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    00 11/01/2009 18:51

    Perciò, l’inadeguata comprensione del problema, talora promossa, talora alimentata dal "desiderio" che le cose stiano diversamente, produce avversione e disattenzione nei confronti di quanti si oppongono al proprio "sogno", cioè si pongono nella linea della ricerca e della salvaguardia dell’identità islamica, tacendone oppure trasformandoli in soggetti marginali, quando — al contrario — sono centrali in quanto essenziali, e veramente rappresentativi anche dell’islam diffuso, cioè dell’islam sociologicamente maggioritario. Non supera per certo la difficoltà chi, come lo stesso Rizzardi, la comprende, ma defalca volontariamente dalla presentazione dell’islam la dimensione politica, della quale pure identifica con lucidità la portata, adducendo di essere principalmente interessato alla religione (22), che però diventa in questo modo categoria di un universo concettuale, l’universo concettuale dello studioso, e non anzitutto rilevazione fattuale della relazione umana, individuale e sociale, con la trascendenza, in tesi e in ogni ipotesi storica, quindi servizio di "chierico" a "laico", di informato a non informato. Né si dispone a informare correttamente chi, come Allievi, partendo dalla distinzione fra movimento politico e idee diffuse, istituisce un parallelo appunto fra la diffusione del pensiero marxista nell’Europa degli anni 1970 e di quello islamista, e conclude, "[...] in particolare pensando a qualche approccio, purtroppo non solo di impianto giornalistico, che da un’analisi ravvicinata del pensiero islamista e della sua presenza in alcuni paesi, [si] finisce per dedurre un po’ troppo a proposito dell’islam politico e, più problematicamente ancora, dell’islam in generale" (23). È vero — constata — che "i testi dei padri fondatori e dei teorici del pensiero fondamentalista [...] sono assai diffusi, e di fatto presenti nelle biblioteche di ogni buon musulmano appena acculturato, un po’ come, negli anni ’70, erano presenti, e citate, e talvolta persino lette, le opere, diciamo, di un Marx [Karl, 1818-1883] o di un Gramsci [Antonio, 1891-1937], e spesso anche di un Lenin [Nikolaj, pseudonimo di Vladimir Il’ic Ul’janov, 1870-1924]. Ma da questo non si poteva dedurre direttamente nulla sull’oggettivo impegno politico dei loro lettori, e ancora meno sull’appartenenza ad aree radicali o addirittura violente" (24). Certo, tale diffusione non prova l’appartenenza a movimenti di sorta, ma — proprio grazie all’analogia con la diffusione del pensiero marxista-leninista — mi pare difficile sostenere che non dica nulla neppure sulla cultura del soggetto lettore, quindi sulla sua mentalità, e che si possa eludere il quesito relativo alla coerenza o all’incoerenza strutturale, essenziale, fra l’essere un buon musulmano e l’accettare almeno implicitamente, passivamente, il pensiero fondamentalista islamico.

    Dunque, questo modo "mutilato" di trattare il tema "islam", almeno — ma non solo — nella modalità divulgativa, sembra non costituire un caso particolare, ma far parte di una sorta di "tradizione consapevole", provata da quanto si può leggere in un classico appunto della divulgazione sull’islam in Italia, L’Islam, opera dell’iranista e islamologo di fede ba’â’î Alessandro Bausani, la cui prima edizione è del 1980 e che è stato ristampato nel 1999 con aggiornamenti a cura di Allievi (25). In essa, a smentita della scritta che compare come una sorta di "catenaccio" giornalistico al titolo, Una religione, un’etica, una prassi politica — per altro rivelatrice dei parametri dell’esigenza informativa —, all’inizio del capitolo su "La Legge" (26), l’autore afferma che "[...] essa disciplina tutta l’attività umana" (27): infatti, "i trattati [...] chiamati di "diritto musulmano" si aprono con una prima parte detta ‘ibâdât (atti di culto) includente cioè gli atti fisici, corpo esterno della fede del cuore, che mettono l’uomo in rapporto con Dio, per poi continuare con le mu‘âmalât, i rapporti cioè dell’uomo con gli altri uomini" (28); quindi "nel concetto musulmano "Dio" sostituisce il concetto antico di civitas. Si chiama "diritto di Dio" tutto quanto trascende il privato interesse" (29); ma, quando viene a esaminare quali siano i precetti della legge, dichiara: "Tratteremo soprattutto — per rimanere nel nostro concetto di "religione" — delle ‘ibâdât, atti più propriamente di culto, trascurando il mare magnum del vero e proprio diritto nel senso nostro, cioè le mu‘âmalât, e solo accennandovi quando ciò importi al nostro concetto di "religione"" (30).

    Rebus sic stantibus — quindi — non si presta ascolto adeguato a quanto afferma Abû al-A‘lâ al-Mawdûdî, secondo padre Borrmans "[...] uno dei fautori del risveglio islamico contemporaneo, così come fu uno dei leaders che lavorarono per la creazione di uno Stato islamico, il Pakistan, nel subcontinente indiano. Pensatore rigoroso, musulmano colto e scrittore prolifico, ha pubblicato più di 150 opere di cui molte sono state tradotte in arabo e in inglese. È senza dubbio uno degli autori più conosciuti e più letti nel mondo musulmano, tanto più che le diverse correnti fondamentaliste si richiamano volentieri al suo pensiero e alla sua azione" (31). Ebbene, al dire di al-Mawdûdî, è per certo premessa necessaria a ogni corretta presentazione dell’islam "stabilire con chiarezza la differenza esistente tra "dìn" e "sciari’ah"" (32): "[...] ciascuno dei profeti, che di tempo in tempo hanno fatto la loro comparsa, hanno predicato l’Islam, cioè la fede in Allah, nei Suoi attributi, nel Giorno del Giudizio, nei profeti, nei Libri rivelati, ed hanno chiesto ai rispettivi popoli di vivere una vita di obbedienza e di sottomissione al Signore. Ciò costituisce il "dìn" il quale è stato l’elemento comune degli Insegnamenti di Tutti i Profeti" (33). Ma, "oltre questo "dìn" — prosegue il pensatore originario dell’India Meridionale, fondatore e leader del movimento Jama’at-i Islami, "Associazione islamica" (34) — esiste la "sciari’ah": il codice dettagliato di condotta, o i canoni che descrivono i modi del culto, i criteri della morale e della vita, le cose permesse e proibite, le leggi che separano il bene dal male. Questo diritto canonico ha subito degli emendamenti di tempo in tempo e, benché ciascun profeta abbia predicato il medesimo "dìn", ciascuno di loro portò con sé una "sciari’ah" differente, più confacente alle condizioni del suo popolo e della sua epoca; ciò al fine di far progredire la civiltà dei differenti popoli attraverso le epoche e per dotarli di una moralità più alta.

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    Kaan.
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    "Il processo si è concluso con l’arrivo di Muhàmmad [...], l’Ultimo dei Profeti, il quale ha portato il Codice definitivo destinato a tutta l’umanità e per tutte le epoche a venire. Il "dìn" non ha subito alcun cambiamento, ma al giorno d’oggi, tutte le "Sciari’e" anteriori sono state abrogate e di canone di comportamento valido non sussiste che l’universale "sciari’ah" che Muhàmmad ci ha portato.

    "Essa è l’apogeo, il finale del grande processo di formazione che ebbe inizio all’alba dell’era umana" (35). Stando così le cose, il traduttore dell’opera da cui cito, Conoscere l’Islam, inserisce nel testo questa notazione: "La nostra trattazione relativa agli elementi essenziali dell’Islam resterebbe incompleta se non trattassimo anche la Legge dell’Islam, se non studiassimo i suoi principi fondamentali e se non tentassimo di descrivere il tipo di uomo e di società che l’Islam desidera produrre" (36).

    Infine molti propongono — non senza ragione storica e con indubbio vantaggio descrittivo e classificatorio — di distinguere fra islam come "religione", da scrivere con la "i" minuscola, e Islam come "civiltà islamica", da scrivere con la "I" maiuscola (37), ma, all’origine della storia in questione, il legame di principio dîn wa-dawla, "religione e comunità", o dîn wa-dunyâ, "religione e società temporale", sembra permanere in quanto costitutivo e non semplicemente in quanto artificio descrittivo (38).

    2. Il diritto pubblico nella "legge sociale dell’islam"

    Nel 1933, dando ragione dell’impianto della voce "Islamismo", redatta per l’Enciclopedia Italiana, Nallino svolge "Considerazioni generali" (39) e afferma: "La distribuzione della materia in sistema religioso, sistema politico e sistema giuridico viene fatta qui per adattarla ai criteri europei; ma dal punto di vista islamico la dogmatica, la morale, il rito, il diritto privato e molta parte del pubblico (il sistema fiscale, il diritto di guerra, il processuale, il penale) formano un unico tutto, che scaturisce dalle medesime fonti sacre e che porta il nome complessivo di shar’ o sharî’ah (scería, in francese chériat, chéri, chrâa), che noi, in base all’uso del Vecchio Testamento, potremmo rendere in modo approssimativo con la Legge (religiosa, d’origine divina)" (40).

    Procedendo nella descrizione lo stesso islamologo scrive: "La Sharî’ah è divisa dai musulmani in due sezioni: l’una riguardante quello che la teologia cattolica chiamerebbe il foro interno del credente, ossia l’attività della mente e del cuore (dogmatica e morale individuale); l’altra avente per oggetto gli atti esterni verso Dio, verso noi stessi e verso gli altri, ossia le pratiche del culto, i rapporti giuridici con gli altri uomini e alcune norme di condotta che in parte sarebbero per noi di galateo o di buona società e in parte anche di decoro personale. La seconda sezione (atti esterni) è quella che si chiama fiqh, vocabolo che, in mancanza di esatto equivalente nel mondo occidentale, si suol tradurre con "diritto musulmano"; essa si suddivide in ‘ibâdât, o pratiche del culto, e mu‘âmalât, o modo d’agire verso gli altri, ma senza che queste suddivisioni coincidano con quello che noi intenderemmo con esse secondo i criteri europei, poiché, ad es., nelle ‘ibâdât sono compresi precetti che a un occidentale parrebbero di diritto pubblico (qualche lato del sistema fiscale, il regime delle miniere) e viceversa nelle mu‘âmalât, che essenzialmente sarebbero i negozi giuridici, troviamo comprese materie che si direbbero piuttosto di rituale religioso (esecuzione di giuramenti e voti, macellazione ordinaria, sgozzamento delle vittime sacrificali, formalità di caccia e di pesca, cibi e bevande, abiti)" (41).

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    3. Il diritto pubblico islamico fra duplicità di sistemi normativi e indebolimento 

    Quindi, venendo a trattare de "Il sistema politico" (42), Nallino nota che "la dottrina classica del diritto pubblico musulmano, fondandosi sulle cose operate da Maometto, sulle circostanze di fatto della storia dei primi secoli dell’immenso impero islamico, sul principio fondamentale coranico che i musulmani sono tutti fratelli anche nel campo politico, senza distinzione di razza e di lingua, e infine sull’altro principio dominante il diritto pubblico e il privato, che un infedele non può avere autorità e supremazia su un musulmano, non concepisce musulmani viventi in terre governate da infedeli e quindi raffigura il mondo intero diviso in due sezioni: paesi d’islam (dâr al-islâm), abbraccianti tutti i territori abitati da musulmani e costituenti un’unica monarchia islamica, e paesi di guerra (dâr al-harb) ossia abitati e governati da infedeli. Dunque per l’islamismo v’è unità di fede, di legge, di governo, senza distinzione di nazionalità; e a capo di questa monarchia universale sta il califfo, che, se in materia di dogma e di rito è un credente come tutti gli altri e, dato il carattere rivelato della Legge islamica, è privo quasi completamente di facoltà legislativa, ha poteri sconfinati, è un padrone assoluto in tutto il rimanente degli affari dello stato. [...] Si ammette che il califfo possa affidare il governo di parti dell’impero a principi suoi vassalli, i quali ripetono la loro legittimità dal diploma d’investitura ricevuto dal califfo e possono avere il titolo di emiri, re, sultani ecc.; questi principi hanno gl’identici poteri del califfo, naturalmente sul solo territorio loro assegnato. Quindi la fine del califfato nel 1258 trovò già pronta la successione parziale nella maggioranza dei paesi musulmani" (43).

    Infine, dopo aver registrato il fatto che, "sotto la pressione europea, il concetto islamico dello stato ha ricevuto un colpo mortale nel sec. XIX in tutti i paesi del Mediterraneo, eccettuato il Marocco" (44) colpo del quale fornisce come esempio l’introduzione, nel 1839, nell’ordinamento giuridico dell’Impero Ottomano della "piena uguaglianza [...] di tutti sudditi [...], senza distinzione di confessione religiosa" (45), Nallino afferma che "[...] delle dottrine islamiche di diritto pubblico [...] si può dire che nei paesi europeizzati sopravviva solo il principio della personalità del diritto in base alla fede religiosa per tutto quello che concerne lo stato delle persone, la famiglia, le successioni e le fondazioni pie; materie per le quali ogni confessione religiosa conserva i propri tribunali e la propria legislazione" (46).

    Il fatto che Dio sia l’unico legislatore produce una sorta d’impotenza legislativa nei califfi e nei loro successori, che si devono limitare a far applicare e a "integrare" la Legge sacra, definendo questa integrazione attraverso una fictio iuris, denominata syiâsa, "linea di condotta", che la relega in campo amministrativo: "Il risultato di questo processo — osserva Schacht — fu la diffusione, in pratica in tutto il mondo islamico, di una duplice forma di amministrazione della giustizia: una di tipo religioso, esercitata dal qâdî che si atteneva scrupolosamente alla šarî‘a, e l’altra laica, esercitata da autorità politiche sulla base della consuetudine, dell’equità e dell’imparzialità — ma talvolta anche dell’arbitrio — delle norme governative e, in epoca moderna, sulla base dei codici" (47).

    Dunque — sostiene padre Borrmans, insieme ulteriormente sintetizzando ed esplicitando — "la Sharî’a è l’organizzazione di tutta la vita individuale e collettiva secondo le imposizioni [...] della legge positiva divina, come è stata rivelata agli uomini. La Sharî’a definisce il culto e i suoi riti (professione di fede, preghiera, elemosina, digiuno, pellegrinaggio), enumerando gli articoli del credo ed esponendone il commento (fede in Dio, nei suoi angeli, nei suoi libri, nei suoi profeti e inviati, nel giudizio finale con quel che segue e nella predestinazione). La Sharî’a comprende anche l’insieme delle leggi che regolano i rapporti umani, dal matrimonio al commercio e all’industria, attraverso i codici di procedura, e assicura, infine, le regole per il funzionamento dello Stato e le punizioni dei colpevoli (Codice penale). Per i musulmani, la Sharî’a o legge islamica è la perfetta espressione della volontà divina circa i rapporti del credente con Dio e con i suoi fratelli" (48). Passando a indicazioni tematiche, lo stesso studioso nota poi che la sharî’a, "in materia di diritto penale" (49) comporta le "[...] prescrizioni divine del Corano e della Sunna: cioè, la legge del taglione (in caso di omicidio volontario), la "conciliazione" con il versamento del prezzo di sangue (diya) (in caso di omicidio involontario) e l’applicazione delle leggi volute da Dio nel suo Libro (hudûd Allâh), per il furto (mano destra tagliata, e per i recidivi piede sinistro amputato), per il brigantaggio (morte o amputazione), per la fornicazione (lapidazione o flagellazione), per l’uso delle bevande alcoliche (flagellazione), per la falsa accusa di fornicazione (flagellazione) e per l’apostasia (condanna a morte)" (50).

    Quindi, anche a fronte di una storicamente e variamente ridotta rilevanza politico-giuridica, padre Borrmans osserva che, "tuttavia, la legge religiosa, o Sharî’a, struttura essenziale per l’organizzazione islamica della società, rimane per tutti fondamentale: eppure i musulmani sono profondamente divisi quando si tratta di darne una chiara interpretazione e di precisarne una giusta applicazione" (51). Infatti — prosegue — "al centro del dibattito resta tuttavia la domanda fondamentale: che cos’è l’Islam? Certuni vi vedono una fede e un’etica, altri vi aggiungono una dottrina e una mistica, ma molti insistono sulla legge (Sharî’a) e il sistema politico che essa include" (52).

    E però "una tale organizzazione della società — scrive sempre padre Borrmans — nei paesi arabi rischia spesso di ridurre straordinariamente la possibilità dei cittadini non musulmani di vedere i propri diritti equiparati a quelli degli altri abitanti (non dimentichiamo che i cristiani arabi rappresentano circa il 10% della popolazione [il dato è del 1986]). Difatti essa ratifica o provoca ovunque quella consuetudine storica dell’impero islamico che si chiama "confessionalizzazione della società". Ogni membro della società musulmana vi è identificato anzitutto in funzione della religione professata. Per tale ragione la "Gente del Libro" (cristiani o ebrei), pur avendo la libertà di seguire la propria religione, il proprio culto e il proprio statuto personale (riguardante il matrimonio, la discendenza, il testamento, le donazioni e talvolta l’eredità), dipende, tuttavia, da tribunali speciali autonomi, detti "confessionali", controllati dalle autorità governative musulmane stesse. Con questo ordinamento, le minoranze cristiane ed ebraiche si vedono protette nella loro specificità (o nella loro differenza!) e anche trattate come "ospiti privilegiati", ma devono accontentarsi dello statu quo, così concesso, senza mai pretendere di crescere di numero o di autorità (costruire una nuova chiesa si ritiene, in tale contesto, una cosa quasi impossibile). Poiché i loro membri non partecipano all’"ideologia islamica" dello Stato, è chiaro che [...] non possono mai pretendere di raggiungervi i gradi più alti, donde il rischio di discriminazione (o per lo meno, di spartizioni "confessionali") nelle cariche pubbliche e, qualche volta, anche nel mondo del lavoro. Confessionalizzazione ed emarginazione sembrano perciò andare di pari passo, soprattutto se la minoranza non musulmana si sgretola" (53).

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    Stando così le cose, padre Borrmans si chiede: "Possono i cristiani sentirsi a loro agio ed essere liberamente sereni in paesi nei quali, poco per volta, lo Stato intende favorire e realizzare l’ideale islamico? E i musulmani possono accontentarsi di vivere il loro Islam come religione personale in una società pluralistica, di ispirazione laica, dove lo Stato lascia ai cittadini la responsabilità della loro pratica religiosa e della loro organizzazione comunitaria? Tali domande non possono essere ignorate quando cristiani e musulmani, in un determinato contesto sociale, devono sviluppare l’insegnamento e la cultura, organizzare il lavoro e la giustizia e dare una struttura allo Stato e ai suoi servizi" (54).

    Quanto alla tipologia dei musulmani di fronte al rapporto religione-Stato, lo stesso padre Borrmans distingue — ma si tratta di una segmentazione molto diffusa — musulmani di ambiente popolare, musulmani di cultura religiosa, dal canto loro tradizionalisti o riformisti, musulmani modernisti di doppia cultura, islamica e occidentale, e — infine — musulmani fondamentalisti e integralisti (55).

    4. Scholion sul "fondamentalismo" 

    La comparsa degli aggettivi "fondamentalista" — peraltro già evocato — e "integralista" mi costringe, per non aggiungere equivoco a equivoco, a introdurre un’annotazione, qualcosa di più di una nota, cioè uno scholion, uno "scolio".

    Dunque, come osserva correttamente un altro missionario d’Africa, padre Robert Caspar, "fondamentalismo" è termine proveniente dal mondo protestantico e "integralismo" da quello cattolico (56). E si tratta di termini — aggiungo io — che non vengono però utilizzati solo, eventualmente, con intenti polemici nei confronti dell’islam, ma anzitutto, proprio per la loro origine, per far intendere all’uomo di cultura occidentale e cristiana qualcosa di più relativamente a una realtà a lui esterna con l’aiuto di elementi che di tale realtà favoriscano la comprensione per analogia. L’aggettivazione dell’islam come fondamentalista o integralista e degl’islamici come fondamentalisti o integralisti si "compatta", con l’applicazione del suffisso "ismo", nei termini "islamismo" e "islamisti"; e si tratta di un’espressione sintetica accreditata dall’uso che, nella loro versione francese — islamisme e islamistes —, di tali termini fanno gl’islamici radicali francofoni, in qualche modo testimoniando la capacità, per esempio, di "islamisti" di esprimere la specificità del neologismo al-islâmiyyûn, gl’"islamici radicali" — forse anche, i "musulmani impegnati" —, nei confronti dei semplici credenti musulmani, i muslimûn (57).

    L’uso rilevato di fondamentalismo e d’integralismo non sta a significare assolutamente un’equipollenza fra fondamentalisti protestanti e integralisti cattolici da una parte e fondamentalisti e integralisti islamici dall’altra, come neppure — sia detto di passaggio — fra le prime due categorie.

    Relativamente ai cattolici, illumina un’osservazione di Marie-Thérèse Urvoy, docente d’Islamologia a l’Institut Catholique e all’Institut Supérieur de Théologie des Religions di Tolosa, secondo cui "il fondamentalismo si può trovare ovunque. Ma un fondamentalista cristiano potrà far riferimento solamente a fatti di tradizione; potrà irrigidirsi su certe pratiche religiose o entusiasmarsi per l’"ordine cristiano medioevale", ma non potrà richiamarsi a un testo fondatore. Al contrario, un ebreo o un musulmano hanno nei loro stessi testi sacri un insieme di prescrizioni che danno la sensazione di disporre materialmente di un "manuale che basta applicare". Con "applicare" intendo la messa in pratica dei precetti concreti e immediati, dati letteralmente; non è il caso del Vangelo" (58).

    Ad altri sentenziare senza appello, sempre limitatamente al caso del musulmano, se si tratti di una "sensazione", come tale dettata dalla "sensibilità" inevitabilmente soggettiva, o della percezione di una realtà, nel qual caso appunto ogni musulmano sarebbe più o meno "fondamentalista", "islamista", e quest’ultimo termine quindi atto solamente a esprimere un grado di particolare densità dell’essere islamico, ma non a indicare una fuoriuscita dall’islam per eccesso, fuoriuscita che, peraltro, nell’islam stesso nessuno è in grado di denunciare, dal momento che non esiste nessuna autorità carismatica musulmana. Infatti, "[...] ad un osservatore occidentale verrebbe naturalmente alla mente il concetto di eresia — afferma Lewis —. Tale termine è però fuori luogo. L’eresia non è un concetto islamico, e l’Islam non possiede un termine che gli corrisponda. L’eresia è un vocabolo cristiano che indica una deviazione, ufficialmente definita come tale, da un’ortodossia altrettanto ufficialmente definita. E poiché l’Islam non possiede concili né chiese né gerarchie, non esiste un’ortodossia ufficiale e di conseguenza non può esistere una deviazione ufficialmente definita e condannata dall’ortodossia" (59).

    Tentando una definizione, il sociologo Renzo Guolo scrive: "L’islamismo è un movimento che attraversa da mezzo secolo il mondo musulmano e vive l’islam, oltre che come religione, anche come ideologia politica. Questo movimento mira a reislamizzare le società musulmane, che considera ormai "empie". L’islamismo è percorso da due correnti, quella neotradizionalista e quella radicale. La prima cerca di ricostituire una comunità "autentica" della fede, separata dalla società "pagana" circostante, a partire "dal basso". L’islamizzazione avviene qui a partire dal quotidiano. Quando tutti gli individui risponderanno alla da‘wa, l’appello all’"autentico" islam, la conquista del potere politico sarà matura.

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    00 11/01/2009 18:53

    "La seconda corrente, quella radicale, pensa l’islamizzazione a partire "dall’alto", dal politico. In questa strategia la conquista del potere non avviene attraverso la predicazione ma attraverso il gihâd, il combattimento sulla via di Dio. In Europa, fuori dalla Casa dell’islam, i gruppi islamisti non possono che seguire una strategia di tipo neotradizionalista" (60). Benché il tentativo definitorio sia decisamente apprezzabile, non posso non notare la difficoltà di accreditarlo simpliciter dopo quanto ho già trascritto — e ancora trascriverò — da fonti non meno autorevoli circa l’inscindibilità, nell’orizzonte islamico, fra "religione e società temporale" e "religione e Stato", quindi fra religione e politica. E, in subordine, riesce difficile accreditare altrettanto simpliciter l’attribuzione indubbia di una determinata strategia a ciascuna delle correnti identificate, quando lo stesso studioso certifica gli sponsali fra islamisti e neotradizionalisti in Europa, quindi anche in Italia (61). Valga come segno di questi sponsali il fatto che, nella "Bibliografia essenziale" della prima "parafrasi" o "traduzione interpretativa" in lingua italiana del Corano — il cui testo è di per sé intraducibile (62) —, con l’imprimatur — per così dire e per intendersi —, cioè con "revisione e controllo dottrinale" dell’UCOII, l’Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia (63), stanno fianco a fianco il commento coranico di orientamento radicale del "fratello musulmano" egiziano Sayyid Qutb (64) e il "catechismo" wahabita, quindi neotradizionalista, dello sceicco algerino, vissuto lungamente in Arabia Saudita, Abu Bakr Djabiar Al-Djazairi (1921-1999) (65).

    Comunque, rebus sic stantibus e rimanendo in tema, Annie Laurent suggerisce: "Notiamo che l’origine "divina" della condizione discriminatoria riservata ai non musulmani nell’Islam la differenzia completamente dalla condizione nella quale sono stati messi i non cristiani nei paesi di cristianità in determinate epoche storiche perché questa non deriva da una lettura letterale del Vangelo ma dal giudizio del potere politico o ecclesiastico in caso di minaccia alla sopravvivenza collettiva, oppure dalla malizia umana" (66).

    Superato per certo troppo brevemente lo "scoglio" — mi si perdoni il gioco di parole —, riprendo.

    5. La sharî’a come ideale e come riferimento 

    Il vulnus, la ferita inferta nel secolo XIX alla concezione dello Stato islamico, trova il suo precedente maggiore, secondo Nallino, nel 1258, cioè al tempo dell’invasione da parte dei mongoli del califfato di Baghdâd, dell’espugnazione e della devastazione della capitale e dell’estinzione della dinastia califfale araba degli Abbasidi (750-1258) (67); secondo altri si compie nel 1924, quando, in seguito all’esito del primo conflitto mondiale (1914-1918) e alla frantumazione dell’Impero Ottomano, Mustafa Kemal (1881-1938) nel 1923 instaura la Repubblica Turca e abolisce il sultanato, e nel 1924 abolisce formalmente lo stesso califfato (68); comunque, in entrambe le ipotesi, tale ferita viene strutturalmente collegata al terminus, a quo oppure ad quem, logico costituito appunto dall’istituzione califfale. Ebbene, tale vulnus dev’essere sanato, sia di fatto all’interno di ogni singola società islamica, sia di principio contestando la correttezza dottrinale della duplicità del diritto introdotta nelle stesse società attraverso l’assunzione di codificazioni occidentali: infatti, "la maggior parte delle costituzioni dei paesi arabi afferma che l’Islam è la religione di Stato e che il diritto musulmano è una fonte principale, o la fonte principale del diritto [...]. Malgrado queste affermazioni il diritto musulmano copre oggi soltanto il diritto di famiglia e il diritto successorio, come pure il diritto penale in qualche paese come l’Arabia Saudita" (69). Perciò la problematica relativa, diversamente affrontata dalle varie correnti intraislamiche identificate come tali da padre Borrmans, riporta alla problematica essenziale: si deve trattare e si tratta di "Risveglio politico o rinnovamento religioso?" (70). E il missionario d’Africa deve constatare che "nessun musulmano sarebbe in grado di rispondere a una domanda così formulata, poiché vi è il "detto" (quanto viene scritto da pensatori e giornalisti) e il "non detto" (quanto viene detto dal popolo), e quest’ultimo si rivela il più importante. Nel frattempo, sotto la pressione stessa della contestazione degli islamisti e delle loro manifestazioni violente, in numerosi paesi, l’Islam ufficiale o ufficioso diventa spesso molto esigente nei confronti del potere in carica [...] e la pratica religiosa si estende e diventa più evidente: le moschee si moltiplicano e la situazione d’insieme si fa più musulmana. Il politico e il religioso sembrano allora spalleggiarsi più che mai, anche se taluni vogliono distinguere molto chiaramente il risveglio (sahwa) dei veri credenti dall’estremismo degli islamisti" (71).

    6. Il problema del jihâd 

    A questo punto padre Borrmans deve sollevare un problema di enorme rilevanza: "Quale significato si dà, allora, al famoso jihâd?" (72). Jihâd è il termine tradotto abbastanza correntemente — e spesso, se non sempre, si aggiunge "più o meno correttamente" — con "guerra santa" e usato per indicare se non proprio un sesto "pilastro dell’islam", almeno un obbligo collettivo quando si tratta di portare le armi nel territorio degl’infedeli, che però diventa dovere personale, cioè non tollera esenzioni, quando il nemico minaccia la terra islamica (73).

    In proposito, merita assolutamente di essere meditato un passo nel quale ‘Abd al-Rahmân ibn Muhammad Ibn Haldûn fornisce un’esposizione, straordinariamente felice per profondità e per sinteticità, della problematica corrispondente: "In assenza di un profeta — scrive —, una comunità religiosa ha bisogno di qualcuno che se ne prenda cura e la possa costringere a comportarsi secondo la legge rivelata. Questo qualcuno fa in qualche modo le veci del profeta, in quanto bada a che siano rispettati gli obblighi da lui imposti. Inoltre, in ragione della necessità di un governo politico per ogni organizzazione sociale umana, gli uomini hanno bisogno di chi sia capace di perseguire il loro bene, impedendo loro, anche con la forza, di fare ciò che loro può nuocere. Questa persona è il sovrano. Ora, nella comunità islamica, la guerra santa è un dovere canonico, a causa del carattere universale della missione dell’Islam, e dell’obbligo di convertire tutto il mondo, volente o nolente che sia. Ecco perché potere temporale e potere spirituale sono in questo caso confusi: il sovrano può dedicarvi le sue forze contemporaneamente. Le altre comunità religiose non hanno questo carattere ecumenico, e la guerra santa non è per esse un dovere canonico, se si eccettua il caso della legittima difesa. Ciò comporta che i capi di queste religioni non si occupino di politica. Il potere regale presso queste comunità appartiene ai suoi titolari, che l’hanno ottenuto per caso, e in ogni modo senza rapporto con la loro fede. Regnano per necessario effetto dello spirito di clan (nella cui natura è pure la ricerca del potere) e non perché debbano vincere le altre nazioni, come è il caso dell’Islam. Devono soltanto confermare la propria religione tra i loro sudditi…" (74). Come si vede, si tratta di un testo ricchissimo d’informazioni, di stimoli alla riflessione e di suggerimenti per il confronto della "comunità islamica" con altri mondi, in primis con quello occidentale e cristiano, almeno sostanzialmente non dimentico dei due "se vuoi" evangelici: non solo di quello supererogatorio contenuto in Mt. 19, 21: "Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi"; ma anche di quello "ordinario" riferito in Mt. 21, 17: "Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti", che configura la stessa coazione al rispetto della legge naturale richiamata nel decalogo come promossa dalla formazione della coscienza individuale e realizzata come legittima difesa della comunità dall’aggressione di suoi membri con diversa motivazione irrispettosi di tale legge. Insomma — ancora —, si tratta di un testo nel quale l’autore sintetizza — secondo l’islamologa Biancamaria Scarcia Amoretti — "il concetto di missione islamica equivalente a statalità islamica" (75) mettendo ben in chiaro la "confusione" fra spirituale e temporale (76), a sua volta radicata nella "confusione" fra naturale e soprannaturale, fra ragione e rivelazione, quindi illuminando la fondazione della coazione religiosa sia ad intra della struttura statuale, cioè dell’organizzazione della società, sia ad extra di essa, cioè di quella costituita dalla "guerra santa", condotta in una prospettiva non di libera e volontaria conversione universale, ma di universale dominio, rispetto al quale la conversione stessa o consegue oppure è indifferente, certamente è di minore rilievo. 

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    Kaan.
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    00 11/01/2009 18:54
    Molti pensano — prosegue dal canto suo padre Borrmans facendo stato della situazione contemporanea — che debba essere una guerra offensiva e missionaria in nome di una fedeltà superiore ad Allah e all’imperativo ripetuto nel Corano: "Combattete…". Altri lo accettano come una guerra difensiva e un ultimo espediente, quando siano state esaurite tutte le altre forme di sforzo personale e collettivo" (77). Quindi segnala un importante tentativo di "rilettura", quasi di "trasformazione" del jihâd nella dinamica di un "movimento missionario", denunciandone contestualmente il sostanziale fallimento: "Numerosi e attivi sono oggi i movimenti missionari musulmani, di carattere collettivo o di stile associativo (Jamâ‘at-i Tablîgh, Almadiyya, Voce dell’Islam, ecc.) che vorrebbero essere principalmente "spirituali", ma conservano sempre in sé (a causa del Corano, della Sunna e della Sharî’a, di cui sono sostenitori e diffusori), la vocazione o la pretesa di instaurare un nuovo ordine pubblico islamico, nel quale la condizione dei cristiani e degli ebrei è pur sempre quella di essere cittadini protetti (dhimmî) che non possiedono tutti i diritti dei musulmani. Un hadîth attribuito a Maometto ripete che l’"Islam domina e non può essere dominato"; e un altro, troppo spesso citato nei testi scolastici, afferma che "il paradiso si trova all’ombra delle spade"" (78).

    Quindi, "deviante" o no che sia l’"ortodossia" — evoco di nuovo l’ipotesi di Carré —, essa è dominante e solo variamente rappresentata, talora con "deviazioni offensive" (79), ma non sostanzialmente contestata: "La situazione attuale dell’islam — confessa lo stesso Carré — sembra confortare la natura politica e quindi teocratica dell’islam in quanto religione, in particolare dell’islam sciita" (80). Quindi — ancora — si tratta di un fenomeno di cultura diffusa, che non dipende da scelte operate da singoli capi politici o da intellettuali, ma si radica nella natura del fenomeno religioso islamico ed emerge da esso, sulla base delle più diverse e imprevedibili sollecitazioni, che di queste emergenze costituiscono condizioni e non cause, perché in esso è presente (81). 

    Ergo, secondo Louis Gardet — in religione frà André, dei Piccoli Fratelli di Gesù —, "l’Islàm è dunque, e indivisibilmente, religione, insieme giuridico-politico e insieme culturale" (82): "Dobbiamo guardarci dall’applicare con troppa facilità concetti occidentali direttamente o indirettamente venuti dal cristianesimo. In valori cristiani, noi distingueremmo la Chiesa, "Cristo continuato" che ha le parole di verità eterna, [...] e la cristianità, sua figura temporale, con lo splendore dei santi, con tutte le esigenze spirituali impresse nella vita di ogni giorno, ma anche con tutto il peso delle debolezze e incapacità umane. Questa distinzione, indispensabile se si vuol comprendere le esigenze della fede cristiana nel mistero stesso della Chiesa — Chiesa visibile, fondata da Cristo e retta mediante la continuità apostolica — non ha una corrispondenza esatta nell’Islàm. La dâr al-Islàm — afferma conclusivamente e perentoriamente l’orientalista francese —, la casa, il mondo dell’Islàm, si presenta, non è mai esagerato ripeterlo, come un tutto politico-giuridico-religioso. "Quanto alla famosa distinzione, rendete a Dio ciò che è di Dio e a Cesare ciò che è di Cesare, non ha senso nell’Islàm", diceva nel 1939 il shaykh al-Marâghî [Muhammad Mustafâ, 1881-1945], rettore dell’Università d’al-Azhar" (83).

    Secondo una formula lapidaria del domenicano francese Jacques Jomier — uno dei fondatori dell’IDEO, l’Institut Dominicain d’Études Orientales, de Il Cairo —, "l’Islam è in effetti un movimento politico-religioso che vuole procurare ai suoi fedeli la felicità in questo mondo e nell’altro" (84); e non meno lapidaria è un’affermazione del tunisino Mohamed Talbi, specialista di storia musulmana medioevale e d’islamologia: "L’islam è una "religione politica" che, a partire dalla nahda, il suo rinascimento (relativo), ha cercato di sbarazzarsi, spesso in contesto violento, dall’influenza dell’ideologia del potere, anche se in effetti vi è rimasta avvolta sempre di più. L’islam è preda dell’ideologia politica e ne rimane condizionato; è sempre stato così. Per quanto ne sappiamo, è l’unica religione che ha iscritto la politica nella sua ‘aquida, cioè nel suo credo. L’imâma (l’esercizio dell’autorità) è il nocciolo del credo sciita e tutte le altre correnti dell’islam sono state indotte o costrette ad adeguarsi a questo credo. In cui non è la missione a possedere valore, ma il potere" (85).

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    00 11/01/2009 18:55

    7. I rapporti personali e comunitari fra cristiani e musulmani

    Le osservazioni brevemente illustrate impongono perciò a padre Borrmans di dare indicazioni di prudenza: "Nel quadro dei rapporti personali e comunitari fra cristiani e musulmani in Europa occidentale conviene dunque insistere, per ricordare che in questi paesi tradizionalmente cristiani la libertà religiosa esiste di regola: infatti non vi si potrebbero mai tollerare discriminazioni giuridiche a causa della religione. Forse organizzando meglio il pluralismo, a tutti i livelli (alimenti, abbigliamento, educazione, cultura ecc.), sarà possibile rimandare gli uni e gli altri alla propria coscienza e all’uso durevole della propria libertà, lontano dalle pressioni unilaterali o esclusive di integralisti musulmani che vorrebbero imporre la loro preminenza a tutti i musulmani. Se è bene incoraggiare la libertà di associazione (nella misura in cui possa aiutare l’integrazione di tali gruppi all’interno del sistema sociale), tuttavia la costituzione di minoranze religiose nelle società occidentali, con privilegi giuridici e sociologici, sembra dover essere sconsigliata, dati i progetti ideologici islamisti. Per questo, conviene essere molto prudenti nei confronti degli sforzi di istituzionalizzazione delle comunità musulmane (sia sotto forma autonoma, sia anche con l’appoggio di governi stranieri o di organizzazioni internazionali) e delle dichiarazioni troppo spesso ripetute della necessità di una società "pluriculturale", sapendo quello che intendono i musulmani quando esigono il diritto a una "cultura islamica" o semplicemente "musulmana". I diritti dell’uomo, della donna, della coppia e del bambino, spesso sacrificati dai musulmani integralisti in nome di una totale sottomissione alla legge islamica, devono essere ricordati e sostenuti pro e contro tutti, perché costituiscono la piattaforma di un dialogo comune ai cristiani e ai musulmani, e perché corrispondono alle più giuste aspirazioni della maggioranza dei musulmani residenti nei paesi occidentali" (86).

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    00 11/01/2009 18:56

    8. La situazione in Italia 

    Da parte mia mi chiedo se il quadro descritto e se le riserve cautamente avanzate dall’islamologo cattolico siano presenti agli operatori politici occidentali — sia al potere che all’opposizione — quando affrontano i problemi aperti dagl’immigrati da paesi musulmani, quindi dai convertiti all’islam, e si propongono sicuramente almeno di non accrescere le difficoltà dell’ordine pubblico, che — peraltro — non esaurisce il bene comune, fine di ogni politico e di ogni politica.

    Per esempio, relativamente alla situazione italiana, nel 1990 l’UCOII ha richiesto la stipulazione di un’intesa fra la Repubblica Italiana e la comunità musulmana in Italia, presentandosi come rappresentativa di essa. In tale richiesta, dopo reazioni di altri gruppi islamici, in seguito a un accordo con la sezione italiana della Lega Mondiale Islamica, presieduta da un convertito italiano, l’ex ambasciatore in Arabia Saudita Mario Scialoja, nel 1998 l’UCOII è stata sostituita dal Consiglio Islamico d’Italia quale "organismo rappresentativo dell’intera comunità musulmana in Italia", del quale è presidente il siriano Mohammad Nûr Dachan, militante dei Fratelli Musulmani, che presiede anche l’UCOII (87). Ebbene, l’eventuale firma di un’intesa "[...] tocca delicati aspetti quali la piena sovranità interna ed esterna dello Stato italiano" (88), a fronte "[...] dei legami che i due soggetti principali del nascente islam nazionale, i gruppi di filiazione Fratelli Musulmani e quelli che fanno capo alla Lega del mondo islamico, mantengono con le rispettive organizzazioni-madre a livello internazionale. La persistenza di una inevitabile "dipendenza di fatto" da questi centri, unita al carattere islamista della leadership musulmana in Italia, oltre a originare un fenomeno di "doppia lealtà", può produrre nuovi vincoli, oltre a quelli di carattere geopolitico, nei rapporti tra Italia e mondo musulmano. Il "partito islamico" interno potrebbe essere infatti supportato nelle sue rivendicazioni dal "partito islamico esterno", impegnato a fianco del primo in nome della comune appartenenza alla umma mondiale, condizionando le scelte politiche italiane" (89).

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    9. La tensione utopica di una "religione politica" 

    Dunque, l’islam è una "religione politica" (90), che promette e induce a perseguire anche la "[...] felicità terrena [...] legata essenzialmente alla obbedienza della Legge; quasi che la Legge giustifica [sic] il valore della felicità oltrechè garantirla" (91); quindi una felicità in un certo senso condizionata dall’instaurazione totale della legge e dalla sua applicazione, sì che ogni ostacolo storico costituisce ostacolo al passaggio della ummah dalla realtà all’utopia: "L’ideale della ummah è così alto che difficilmente viene realizzato dalle comunità storiche, dei popoli dell’Islâm. Le trasgressioni rispetto alla realizzazione della ummah, unica e una, sotto l’unica sharî’ah, guidata da un unico califfo, sono evidenti sia a livello giuridico che politico. Ciononostante l’ideale della ummah rimane, come aspirazione degli individui e dei popoli. In questo senso si può parlare di utopia, essa è il già e il non ancora dei popoli islamici; ogni popolo almeno parzialmente professa e attua la sharî’ah, tuttavia la pienezza di realizzazione della sharî’ah, in termini storici, non esiste. Si può parlare di un diverso grado di approssimazione all’ideale, ma l’ideale come tale è quasi irraggiungibile" (92). Ma la sua realizzazione è conditio sine qua non della stessa felicità eterna e della sua premessa terrena: il rispetto della Legge attraverso la sua adozione da parte del potere. Infatti — secondo Allam —, "non essendovi nell’islâm l’idea di un peccato originale, il regno di Dio può realizzarsi sulla terra" (93); inoltre — al dire del missionario d’Africa tedesco Josef Stamer —, "[...] L’islam è contemporaneamente religione e Stato, sottomissione al Dio Unico attraverso riti chiaramente codificati e, nello stesso tempo, modello d’organizzazione della società. I due sono rivelati da Dio. L’ideale religioso si può realizzare pienamente solo attraverso l’ideale politico, la città islamica" (94). Si tratta di tesi di specialista e d’osservatore, che però sintetizzano quanto afferma ex professo e articolatamente un protagonista, teorico e testimone autorevole, quale Sayyd Qutb: "Se si vuole che l’islam agisca — scrive in un’opera pubblicata agli inizi degli anni 1950 —, esso deve governare. Questa religione non è sorta per ritirarsi negli eremi e nei templi, né per rifugiarsi nei cuori e nelle coscienze. Essa è venuta per esercitare il potere sulla vita e disporne liberamente per forgiare la società secondo la concezione globale che essa ha della vita; non solo attraverso l’esortazione e il consiglio, ma anche grazie ai poteri legislativo e amministrativo. Questa religione si è manifestata per tradurre i suoi principi e i punti di vista in forma di vita [concreta], per imporre i suoi ordini e i suoi divieti a una società e a un popolo fatto di carne e sangue, che si muova su questa terra e che nel comportamento, nell’organizzazione della vita, nei legami sociali e nella forma di governo sia un modello di applicazione dei principi, delle concezioni, delle regole e delle leggi di questa religione" (95). Allo scopo — ribadisce lo stesso autore alla fine degli anni 1970 —, non basta la predicazione: "L’instaurazione del regno di Dio sulla terra, l’abolizione del dominio dell’uomo, la sottrazione della sovranità agli usurpatori per restituirla a Dio, l’applicazione della Legge divina e l’abolizione delle leggi umane non possono essere ottenuti solo attraverso la predicazione. Coloro che hanno usurpato l’autorità di Dio e opprimono le Sue creature non cederanno il loro potere semplicemente per effetto della predicazione; se così fosse, sarebbe stato molto semplice per gli Inviati di Dio stabilire la fede sulla terra.

    "La loro storia e le vicende di questa religione attraverso i secoli dimostrano piuttosto il contrario" (96): "Chi dunque capisca la vera natura di questa religione [...] si renderà conto dell’assoluta necessità che il movimento islamico comprenda anche la lotta armata (al-gihâd bi-l-saif), oltre all’impegno della predicazione, e che questa non è da intendersi come azione difensiva, nel senso specifico di "guerra di difesa", come vorrebbero i disfattisti che parlano sotto la spinta dei condizionamenti del presente o degli attacchi di qualche scaltro orientalista" (97).

    Insomma — le sintesi sono rispettivamente di al-Mawdûdî, in un testo della fine degli anni 1930, e dell’estensore di una prefazione a un altro scritto dello stesso pensatore, edito negli anni 1950 —, "È impossibile per un musulmano realizzare la sua intenzione di osservare un modello di vita islamico sotto l’autorità di un sistema di governo non islamico" (98), e "Le riforme che l’islam vuol apportare non possono essere effettuate soltanto con prediche. Per realizzarle è indispensabile il potere politico" (99). Con il corollario che, "se lo stato islamico è necessario per realizzare il messaggio di Dio, allora l’essere cittadino non si basa sullo jus sanguinis o sullo jus soli, ma sullo jus religionis" (100).

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    00 11/01/2009 18:58
    ***(1) Beato Giovanni XXIII, Enciclica Mater et magistra sugli sviluppi della questione sociale nella luce della dottrina cristiana, del 15-5-1961, IV, in Enchiridion delle Encicliche, vol. 7, Giovanni XXIII-Paolo VI (1958-1978), EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1994, nn. 222-481 (n. 440), pp. 192-321 (pp. 300-301).(2) Cfr. Olivier Carré, L’Islam laico, trad. it., il Mulino, Bologna 1997, passim, soprattutto pp. 31-38. Per intendere l’espressione "ortodossia deviante" senza depistanti riferimenti alla Chiesa cattolica, va ricordato che "nell’Islam, [...] pur esistendo una competente autorità in fatto di pratiche religiose, la distinzione tra "ortodossia" ed "eresia" è stata affidata a dispute dogmatiche intercorse fra le varie scuole e correnti" (Antonella Straface, Islam: ortodossia e dissenso, Edizioni Lavoro, Roma 1998, p. 11), mentre "[...] è prassi comune definire "ortodossa" la maggioranza ed "eterodossa" la minoranza" (ibid., p. 7, nota 1); cfr., in grandissima sintesi, H. Laoust, Comment définir le sunnisme et le chiisme, cit.; nonché, ampiamente, Idem, Gli scismi nell’Islam, cit.; e B. Lewis, "L’Islam classico", in Idem, La rinascita islamica, trad. it., il Mulino, Bologna 1991, pp. 9-70 (pp. 20-41).(3) Cfr. E. Pace, Islam e Occidente, cit., pp. 41-64 (p. 42).(4) Cfr. ibid., p. 76: "L’unità dei vari piani dell’agire sociale tenuti assieme dalle ragioni della fede religiosa è probabilmente più un mito collettivo che una realtà storica e sociale"; ma si tratta di "un mito che si fissa nella memoria sin dai tempi della città del Profeta (medina) e che comincia ad incrinarsi man mano che dal Califfato ci si sposta verso le epoche meno e più recenti della storia dell’Islàm. L’unità dei piani della vita collettiva forse, sociologicamente parlando, non è mai esistita; ci sono stati popoli e regnanti diversi, vicende storiche travagliate, espansioni e fratture dolorose e così via". Dunque, semplicemente, il "mito" è originario, fondativo, e la sua realizzazione seguente la prima sempre imperfetta, ma non si vede come potrebbe essere diversamente.(5) Cfr. Idem, Sociologia dell’islam. Fenomeni religiosi e logiche sociali, Carocci, Roma 1999, pp. 15-16 e 111-120 (p. 15).(6) S. Allievi, "Gli islamisti. I fondamentalismi nei paesi musulmani", cit. p. 24.(7) Ibid., nota 10.(8) Cfr. B. Lewis, "Il risveglio dell’Islam", in Idem, La rinascita islamica, cit., pp. 275-360 (pp. 279, 281, 286, 298-299 e 326-327); cfr. pure G. Crespi e G. S. Eid, op. cit., pp. 118.(9) Cfr. M. Hamidullah, Le Prophète de l’Islam, vol. II, Sa vie et son oeuvre, nn. 1467-1513, 4a ed. riveduta e accresciuta, s.e., Parigi 1979, pp. 787-809.(10) Cfr. B. Lewis, "Il risveglio dell’Islam", cit., pp. 283-284 (p. 284).(11) S. Allievi, I nuovi musulmani. I convertiti all’islam, cit., p. 242.(12) Olivier Roy, L’échec de l’Islam politique, Éditions du Seuil, Parigi 1992, p. 25.(13) Ibidem.(14) G. Rizzardi, Introduzione all’Islâm, Queriniana, Brescia 1992, p. 34; cfr. pure Idem, Islâm, processare o capire? Indicazioni bibliografico-metodologiche, cit., pp. 245-252.(15) Ibid., p. 35.(16) Ibidem.(17) Ibid., pp. 35-36. Relativamente all’interazione fra i due princìpi direttivi, ’asabiyyah, "coesione di gruppo", "spirito di gruppo", e mulk, "potere", rimando, come a probabile citazione implicita, alla Muqaddima d’Ibn Haldûn, sul quale cfr. Giancarlo Pizzi, Ibn Haldûn e la Muqaddima: una filosofia della storia, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1985, che introduce (pp. 17-100) alla vita e all’opera del filosofo, storico e sociologo ‘Abd al-Rahmân ibn Muhammad Ibn Haldûn — nato a Tunisi nel 1332 da famiglia di lontane origini dello Yemen e morto a Il Cairo nel 1406; autore appunto, fra l’altro, di una Muquaddima, "Introduzione" al "Libro degli esempi istruttivi e raccolta degli avvenimenti e delle loro cause nella storia degli arabi, degli stranieri e dei berberi" — e ne offre un’antologia (pp. 101-221), nella quale i due termini hanno dignità di categorie storiche e come tali trovano illustrazione (cfr. libro primo, capitolo secondo, nn. 7-17, pp. 153-161). Nella traduzione di Pizzi ‘asabiyya è reso con "spirito di comunità", così ricordando la Gemeinschaft del filosofo e sociologo tedesco Ferdinand Tönnies (1855-1936), del quale cfr. Comunità e società, trad. it., con introduzione di Renato Treves (1907-1992), Edizioni di Comunità, Milano 1963; circa la fortuna italiana del pensatore magrebino, aveva iniziato a editarne e a tradurne l’opera storica l’abate astigiano Gian Antonio Arri (1805-1841); cfr. poi Guglielmo Ferrero (1871-1943), "Un sociologo arabo del secolo XIV (Ibn Kaldoun)", in "La riforma sociale. Rassegna di scienze sociali e politiche, anno III, vol. VI, secondo semestre, Torino 1896, pp. 221-235, studio nel quale — sulla rivista diretta da Francesco Saverio Nitti (1868-1953) — lo storico e sociologo partenopeo suggerisce, fra l’altro, elementi di analogia con il filosofo e sociologo, pure partenopeo, della Contro-Riforma cattolica, Giambattista Vico (1668-1744).(18) Cfr. G. Rizzardi, Introduzione all’Islâm, cit., pp. 32-34.(19) Cfr. C. A. Nallino, Vita di Maometto. Edizione postuma di due letture preparate per la stampa nel 1916, cit., pp. 22-23; Idem, "Maometto", cit., pp. 50-56; A. d’Emilia, voce "Editto di Medina", in Novissimo Digesto Italiano, diretto da Antonio Azara (1883-1967) ed Ernesto Eula (1889-1981), vol. VI, dit-fall, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1964, pp. 404-405; e M. Hamidullah, Le Prophète de l’Islam, vol. II, Sa vie et son oeuvre, cit., nn. 1426-1514, pp. 771-809; cfr. testo e commento filologico e critico, in Leone Caetani (1869-1935), duca di Sermoneta e principe di Teano, Annali dell’Islâm, vol. I, Introduzione. Dall’anno I al 6. H., §§ 43-49, Casa Editrice Italiana, Roma 1904, pp. 391-408; cfr. pure Maxime Rodinson, "De Mohammad à l’Islam politique d’aujourd’hui", in Idem, L’Islam: politique et croyance, Librairie Arthème Fayard, Parigi 1993, pp. 25-78; nonché il fondamentale inquadramento proposto in William Montgomery Watt, La pensée politique de l’islam. Les concepts fondamentaux, trad. francese, Presses Universitaires de France, Parigi 1995, pp. 1-33.(20) G. Rizzardi, Introduzione all’Islâm, cit., pp. 36-37.(21) Ibid., p. 37; cfr. pure Idem, La sfida dell’Islâm, cit., pp. 181-198.(22) Cfr. ibid., p. 17.(23) S. Allievi, "Gli islamisti. I fondamentalismi nei paesi musulmani", cit., p. 15.(24) Ibidem.(25) Cfr. A. Bausani, L’Islam, Garzanti, Milano 1999; nel volume si trova un’appendice, opera dell’autore, dal titolo "La religione Bâbî-Bahâ’î" (pp. 193-200), in cui si spiega trattarsi di "una nuova religione" (p. 193): "Con la fede bahâ’î [...] si esce del tutto dall’Islam, in un tentativo, che in sé non contraddice lo spirito dell’Islam, di creare una religione universalistica, ma epurata dalle primitività della legge canonica islamica e pur sostanzialmente fedele [...] a quella esperienza profetica del divino, a quel voler vedere Iddio nella Persona del Profeta e "stringere il Patto" con lui, che fu propria delle prime generazioni musulmane" (p. 200).(26) Cfr. ibid., pp. 37-68.(27) Ibid., p. 37.(28) Ibidem.(29) Ibid., p. 38.(30) Ibid., p. 42.(31) M. Borrmans M.Afr., Gesù Cristo e i Musulmani del XX secolo. Testi coranici, catechismi, commentari, scrittori e poeti musulmani di fronte a Gesù, trad. it., Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000, p. 130, nota 60.(32) Abu-l’Àla Maududi, Conoscere l’Islam, trad. it., con prefazione dell’Unione degli Studenti Musulmani in Italia e dell’International Islamic Federation of Student Organization, Edizioni Mediterranee, Roma 1973, p. 121; cfr. pure Idem [trascritto come Abu Alá El Maududi], Vivere l’Islam, trad. it., con presentazione dell’International Islamic Federation of Student Organization e dell’Unione degli Studenti Musulmani in Italia, S.I.T.A., Ancona 1979; e Idem [trascritto come Abû al-‘Alâ al-Mawdûdî], "Perché uno Stato islamico", in P. Branca, Voci dell’Islam moderno. Il pensiero arabo-musulmano fra rinnovamento e tradizione, con prefazione di M. Borrmans M.Afr., Marietti, Genova 1991, pp. 205-210.(33) A. A. Maududi, Conoscere l’Islam, cit., p. 121.(34) Cfr. Robert Caspar M.Afr., Traité de Théologie Musulmane, tomo I, Histoire de la pensée religieuse musulmane, Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica (P.I.S.A.I.), Roma 1987, pp. 300-303; O. Roy, Généalogie de l’islamisme, Hachette, Parigi 1995, pp. 32-40; e K. F. Allam, "L’islâm contemporaneo", in Giovanni Filoramo (a cura di), Islâm, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 219-307 (pp. 257-264).(35) A. A. Maududi, Conoscere l’Islam, cit., p. 122.
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    (36) Ibid., p. 127.

    (37) Cfr., per esempio, Roger Du Pasquier, Il risveglio dell’Islâm, trad. it., Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1990, p. 8.

    (38) Cfr. L. Gardet, L’Islam. Religion et Communauté, Desclée de Brouwer, ed. riveduta e corretta, Parigi 1967; Idem, Gli uomini dell’Islam, trad. it., Jaca Book, Milano 1981; e Idem, La Cité musulmane. Vie sociale et politique, cit.; "a capire, più che a spezzare come tanti hanno tentato di fare, questo wa che sta tra le due parole e che in arabo vale "e", nient’altro che una modestissima copula, è dedicata [...] [l’]opera" di Bertrand Badie, I due stati. Società e potere in Islam e Occidente, a cura di S. Noja Noseda e K. F. Allam, trad. it., Marietti, Genova 1991; la notazione riassuntiva è di Noja Noseda, ibid., p. IX.

    (39) Cfr. C. A. Nallino, "Islamismo", cit., pp. 7-8.

    (40) Ibid., pp. 7-8; cfr. pure A. d’Emilia, "Diritto islamico", "Sharî’ah" e "Fiqh (Iurisprudentia Islamica)", in Idem, Scritti di diritto islamico, cit., rispettivamente pp. 1-43, 45-64 e 65-76; e J. Schacht, op. cit., p. 1.

    (41) C. A. Nallino, "Islamismo", cit., p. 8.

    (42) Cfr. ibid., pp. 42-44.

    (43) Ibid., p. 42; sul discusso problema del califfato e sulla sua storia, cfr. Idem, "Califfato", "Appunti sulla natura del "Califfato" in genere e sul presunto "Califfato ottomano"" e "La fine del così detto Califfato ottomano", in Idem, Raccolta di scritti editi e inediti, vol. III, Storia dell’Arabia preislamica. Storia e istituzioni musulmane, cit., rispettivamente pp. 227-233, 234-259 e 260-283.

    (44) Idem, "Islamismo", cit., p. 43.

    (45) Ibidem; cfr. pure J. Schacht, op. cit., p. 98; e i termini del khatt-i sherîf — il rescritto imperiale emanato dal sultano ‘Abd ul-Megîd I (1823-1861) il 3-11-1839 —, detto di Gülkhâneh dal nome della località nel recinto del Serraglio di Costantinopoli ove avvenne la cerimonia della lettura di esso, in Mario G. Losano, L’ammodernamento giuridico della Turchia (1839-1926), Unicopli, Milano 1985, pp. 11-12; cfr. pure B. Lewis, "L’Islam e l’Occidente", in Idem, La rinascita islamica, cit., pp. 71-136 (pp. 132-133).

    (46) C. A. Nallino, "Islamismo", cit., p. 44.

    (47) J. Schacht, op. cit., p. 58.

    (48) M. Borrmans M.Afr., "L’Islam contemporaneo e i problemi che ne derivano per musulmani e cristiani", in Idem, Islam e Cristianesimo. Le vie del dialogo, cit., pp. 121-144 (pp. 128-129).

    (49) Ibid., p. 132.

    (50) Ibidem.

    (51) Ibid., p. 143; cfr. pure Debats autour de l’application de la Sarî’a, "Études Arabes Dossiers", n. 70-71, Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica, Roma 1986, che raccoglie interventi e documenti a favore e contro, fra i primi uno di Sayyd Qutb (1906-1966) (pp. 25-41) e fra i secondi uno di Mahmûd Muhammad Tâhâ (1916-1985) (pp. 215-238); Dibattito sull’applicazione della "Shari‘a", con introduzione di A. Pacini, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1995, trad. it. di diversi testi contenuti nel dossier precedente nonché di altra fonte; Islâm dîn al-dawla. L’Islam religion de l’État, "Études Arabes Dossiers", n. 72, Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica, Roma 1987-1, che raccoglie in trad. francese il testo integrale del progetto del Consiglio Islamico d’Europa del Modello di Costituzione Islamica, del 1983, parti dei testi costituzionali del Regno Hashemita di Giordania, della Repubblica Democratica del Sudan, della Repubblica Araba d’Egitto e della Repubblica Islamica d’Iran, nonché documenti ideologici di riferimento d’Algeria, Libia e Arabia Saudita; e Islam et laïcité, "Études Arabes Dossiers", n. 91-92, Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica (P.I.S.A.I.), Roma 1996/2-1997/1, che raccoglie interventi su, a favore, contro e oltre la ‘ilmâniyya, la nozione islamica di laicità.

    (52) M. Borrmans M.Afr., "Risveglio islamico o rinnovamento musulmano?", in Idem, Islam e Cristianesimo. Le vie del dialogo, cit., pp. 145-155 (p. 152); cfr. pure Marie-Thérèse Urvoy, "Islam et politique", in A. Laurent (a cura di), Vivre avec l’Islam? Réflexions chrétiennes sur la religion de Mahomet, cit., pp. 17-29.

    (53) M. Borrmans M.Afr., "L’Islam contemporaneo e problemi che ne derivano per musulmani e cristiani", cit., pp. 126-127.

    (54) Ibid., p. 141.

    (55) Cfr. ibid., pp. 134-135.

    (56) Cfr. R. Caspar M.Afr., Pour un regard chrétien sur l’islam, Centurion, Parigi 1990, p. 9; tematicamente, cfr. Paolo Naso, "Tra radicalità evangelica e tentazione politica. I diversi volti del fondamentalismo cristiano", in Idem, S. Allievi e D. Bidussa, Il Libro e la spada. La sfida dei fondamentalismi religiosi. Ebraismo, cristianesimo e islam, cit., pp. 153-201, soprattutto pp. 156-160.

    (57) Cfr., sulla tutt’altro che trascurabile "questione di parole" e sulla problematica relativa, F. Burgat, op. cit., I e II — entrambi i capitoli portano significativamente nel titolo l’espressione "difficoltà di dar nome alle cose" —, pp. 10-47, nonché la "Nota dell’editore", ibid., p. VII; e Riccardo Redaelli, "L’Islam politico", in Idem e Gianluca Pastori, L’Italia e l’Islam non arabo. Percezioni e priorità, FrancoAngeli, Milano 1999, pp. 13-38 (pp. 13-18).

    (58) M.-Th. Urvoy, art. cit., p. 24.

    (59) B. Lewis, "Il risveglio dell’Islam", cit.. p. 285; più ampiamente, cfr. Idem, "L’Islam classico", cit., pp. 20-41.

    (60) Cfr. Renzo Guolo, "Attori sociali e processo di rappresentanza nell’islam italiano", in Ch. Saint-Blancat (a cura di), L’islam in Italia. Una presenza plurale, cit., pp. 67-90 (pp. 67-68); Idem, Il partito di Dio. L’Islam radicale contro l’Occidente, con prefazione di E. Pace, Guerini e Associati, Milano 1994; Idem, "Teologia e territorio nel radicalismo islamico", in "liMes. Rivista Italiana di Geopolitica", n. 3, Roma luglio-settembre 1994, pp. 257-263; Idem, Avanguardie della fede. L’islamismo tra ideologia e politica, Guerini e Associati, Milano 1999; Idem, "Il fondamentalismo islamico", in E. Pace e Idem, I fondamentalismi, Laterza, Bari-Roma 1998, pp. 35-54; B. Étienne, L’islamismo radicale, trad. it., Rizzoli, Milano 1988; Youssef M. Choueiri, Il fondamentalismo islamico. Origini storiche e basi sociali, trad. it., a cura di E. Pace, il Mulino, Bologna 1993; Bruce B. Lawrence, "Oltre la retorica delle guerre sante. Il fondamentalismo islamico all’ombra del Nuovo Ordine", trad. it., in Roberto Giammanco (a cura di), Ai quattro angoli del fondamentalismo. Movimenti religiosi nella loro tradizione, epifania, protesta, regressione, La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1993, pp. 131-231, soprattutto pp. 161-207; Serge Cordellier (a cura di), L’islamisme, Éditions La Découverte, Parigi 1994; O. Roy, Généalogie de l’islamisme, cit.; Bassam Tibi, Il fondamentalismo religioso alle soglie del Duemila, trad. it., Bollati Boringhieri, Torino 1997; E. Pace, Il regime della verità. Mappa ed evoluzione dei fondamentalismi religiosi contemporanei, il Mulino, Bologna 1998, pp. 63-101; D. Bidussa, S. Allievi e P. Naso, Il Libro e la spada. La sfida dei fondamentalismi. Ebraismo, cristianesimo, islam, cit.; ed E. Pace e Piero Stefani, Il fondamentalismo religioso contemporaneo, Edizione Queriniana, Brescia 2000, pp. 51-90. Merita di essere segnalato che, nelle opere che intendono costituire un tour d’horizon sul fenomeno fondamentalista, le sezioni dedicate al "fondamentalismo cattolico" — prescindendo dalla qualità delle informazioni e nonostante lo "spirito" scarsamente comprensivo del cattolicesimo che spesso le anima — sono titolate in modo interrogativo o ipotetico, quando non ricorrono addirittura a formulazione diversa da "integrismo", hanno comunque carattere più problematico che assertivo: così, cfr. E. Pace, "Le possibili basi del fondamentalismo cattolico contemporaneo", in R. Giammanco (a cura di), Ai quattro angoli del fondamentalismo. Movimenti religiosi nella loro tradizione, epifania, protesta, regressione, cit., pp. 349-415; Idem, "Esiste un fondamentalismo cattolico?", in Idem, Il regime della verità. Mappa ed evoluzione dei fondamentalismi religiosi contemporanei, cit., pp. 135-158; di nuovo, Idem, "Le possibili basi del fondamentalismo cattolico", in Idem e R. Guolo, I fondamentalismi, cit., pp. 73-84; E. Pace e P. Stefani, "Il neointegrismo cattolico", in Iidem, Il fondamentalismo religioso contemporaneo, cit., pp. 133-151; e P. Naso, "Tra radicalità evangelica e tentazione politica. I diversi volti del fondamentalismo cristiano", cit., pp. 153-201, che, quasi in apertura, sentenzia: "In genere non si parla di "fondamentalismo cattolico", evidenziando correttamente che il cattolicesimo "relativizza il testo sacro in quanto ‘lettera’ e soprattutto qualora lo si leghi alla pretesa di unicità e di esaustività in rapporto alla Parola"" (p. 155; la citazione è da monsignor Luigi Sartori, "Esiste un fondamentalismo cattolico?", in "Studi di teologia. Rivista teologica semestrale edita a cura dell’Istituto di Formazione Evangelica e Documentazione", nuova serie, anno II, n. 2, Padova II° semestre 1990, pp. 175-182 [p. 176]).

    (61) Cfr. R. Guolo, "Attori sociali e processo di rappresentanza nell’islam italiano", cit., pp. 81-84.

    (62) Cfr. Pino Blasone, "Introduzione" a Il Corano, ed. cit., pp. 7-16 (p. 15); e Livio Tescaroli M.C.C. I., Islàm e cristianesimo secondo i musulmani, EMI. Editrice Missionaria Italiana, Bologna 1996, pp. 86-90; sul divieto di tradurre il Corano, cfr. Tafsîr al-Manâr [Commento del Manar], Fatwa fî hazr targamat al-Qur’ân [Fatwa sul divieto di tradurre il Corano], trad. francese, in La passion de l’Unicité, "Études Arabes Dossiers", n. 65, cit., pp. 91-95.

    (63) Cfr. Il Corano, ed. cit., pp. 589-590.

    (64) Cfr. ibid., p. 589; il rimando è a S. Qutb, Fî dhilâl al Qur‘ân [All’ombra del Corano], Dâr Ash-Shrûq, Il Cairo 1992. Sull’Associazione dei Fratelli Musulmani, Al-Ikhwân al-muslimûn, una delle espressioni maggiori del fondamentalismo islamico o islamismo, cfr. in genere una scheda, in R. Mantran (a cura di), Le grandi date. Islam, ed. it., a cura di Claudio Balzaretti, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1991, p. 262; G. Rizzardi, Islâm, processare o capire? Indicazioni bibliografico-metodologiche, cit., pp. 243-245; Idem, La sfida dell’Islâm, cit., pp. 390-392; R. Du Pasquier, Il risveglio dell’Islâm, cit., pp. 71-86; ampiamente O. Carré e Gérard Michaud [pseudonimo di Michel Seurat], Les Frères musulmans. Égypte et Syrie (1928-1982), Éditions Gallimard/Julliard, Parigi 1983; Courants actuels dans l’islam: les frères musulmans (première partie), "Études Arabes Dossiers", Pontificio Istituto di Studi Arabi e Islamici, n. 61, Roma 1981-2, testo arabo e trad. francese di documenti programmatici del fondatore, Hasan al-Bannâ (1906-1949), esposizioni autorevoli dei princìpi e degli obiettivi del movimento in relazione al governo islamico, ai rapporti fra islam e società, ai pilastri della missione e ai diritti della donna; Courants actuels dans l’islam: les frères musulmans (deuxième partie), "Études Arabes Dossier", n. 62, Pontificio Istituto di Studi Arabi e Islamici, Roma 1982-1, testo arabo e trad. francese di un documento dello stesso al-Bannâ, Al-matâlib al-hamsûn, "Le cinquanta richieste", riassuntivo della prospettiva del movimento, di articoli di "fratelli musulmani" e di simpatizzanti comparsi nel 1979 sulla rivista tunisina Al-Ma‘rifa, infine di tre interventi, rispettivamente del 1965, del 1979 e del 1982, di avversari dichiarati; I Fratelli Musulmani e il dibattito sull’islam politico, con introduzione di A. Pacini, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1996, trad. it. di diversi testi contenuti nei due dossier precedenti nonché di altra fonte; S. Allievi, "Gli islamisti. I fondamentalismi nei paesi musulmani", cit., pp. 46-57; e, in specie, cfr. una scheda su Sayyd Qutb, in R. Mantran (a cura di), Le grandi date. Islam, cit., p. 295; e l’esposizione delle tesi principali di Fî dhilâl al Qur‘ân, in O. Carré, Mystique et politique. Lecture révolutionnaire du Coran par Sayyid Qutb, Frère musulman radical, Éditions du Cerf-Presses de la Fondation Nationale des Sciences Politiques, Parigi 1984; cfr. pure dell’autore, trascritto come Sayd Qutub, Il futuro sarà dell’Islam, trad. it., con prefazione dell’Unione degli Studenti Musulmani in Italia e International Islamic Federation of Student Organization, S.I.T.A., Ancona 1979; e, per una migliore conoscenza della stessa prospettiva, cfr. Mohammad Qutub [Qutb], Equivoci sull’Islam, trad. it., S.I.T.A., Ancona 1980; l’autore, fratello di Sayyd Qutb e "fratello musulmano", vive in Arabia Saudita: cfr. Gilles Kepel, Jihad. Expansion et déclin de l’islamisme, Gallimard, Parigi 2000, p. 49.

    (65) Cfr. Il Corano, ed. cit., p. 590; il rimando è allo sheikh Abu Bakr Djabar Al-Djazairi, La Via del Musulmano (Minhaj Al Muslim), trad. it. di Hamza Abu Dawud Piccardo, Unione degli Studenti Musulmani in Italia-U.S.M.I., Centro Islamico di Milano e della Lombardia e Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia-U.C.O.I.I., Perugia 1990. Quanto al titolo sheikh, termine trascritto anche shaikh o shaykh e che significa letteralmente "vecchio", è variamente utilizzato, ma sempre a indicare soggetto autorevole, degno di fiducia e, di conseguenza, di rispetto: cfr. C. A. Nallino, voce "sheikh", in Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, ristampa fotolitica del volume XXXI, cit., pp. 603-604. Quanto all’aggettivo "wahabita", riporto un’altra definizione di R. Guolo: "Il wahhabitismo è il movimento promosso da Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab (1703-1792), che predica un ritorno alle "pure fonti", a un islam rigoroso e puro, liberato da tutte le "innovazioni riprovevoli" che sono state accolte nei secoli. La dinastia dei Sa‘ud, che regna oggi sull’Arabia Saudita, si convertì al credo wahhabita, imponendolo come dottrina ai suoi sudditi, sin dalla fondazione del regno nel Nagd" ("Attori sociali e processo di rappresentanza nell’islam italiano", cit., p. 83, nota 25); cfr. pure R. Caspar M.Afr., Traité de Théologie Musulmane, tomo I, Histoire de la pensée religieuse musulmane, cit., pp. 223-225; R. Du Pasquier, Il risveglio dell’Islâm, cit., pp. 55-61; e Alberto Ventura, L’islâm della transizione (XVIII-XVIII secolo), in G. Filoramo (a cura di), Islâm, cit., pp. 203-218 (pp. 207-211); più ampiamente, cfr. al-wahhâbiyya. Le mouvement wahhâbite, "Études Arabes Dossier", n. 82, Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica (P.I.S.A. I.), Roma 1992-2.

    (66) A. Laurent, "Le statut des non-musulmans en Islam et le problème de la liberté religieuse", cit., p. 81.

    (67) Cfr. Cl. Cahen, L’islamismo, vol. I, Dalle origini all’inizio dell’impero ottomano, cit., p. 303; cfr. pure Eustace Dockray Phillips, Genghiz khan e l’Impero dei Mongoli, trad. it., Newton & Compton, Roma 1998, pp. 78-83; e David Morgan, Breve storia dei Mongoli, trad. it., Mondadori, Milano 1997, pp. 143-152.

    (68) Cfr. Stanford Jay Shaw, "L’Impero ottomano e la Turchia moderna", in G. E. von Grunebaum (a cura di), op. cit., pp. 21-159 (p. 148); cfr. una scheda su Kemal Atatürk, "padre dei turchi", in R. Mantran (a cura di), Le grandi date. Islam, cit. pp. 273-274; Morgan Philips Price (1885-1973), Storia della Turchia dall’Impero alla Repubblica, trad. it., Cappelli, Bologna 1958, soprattutto pp. 149-159; e Anna Maria Porciatti, Dall’Impero Ottomano alla nuova Turchia. Cronache e Storia, Alinea, Firenze 1997, pp. 252-271.

    (69) S. A. Aldeeb Abu-Sahlieh, Les Musulmans face aux droits de l’homme. Religion & droit & politique. Étude et documents, cit., p. 22.

    (70) Cfr. M. Borrmans M.Afr., "Risveglio islamico o rinnovamento musulmano?", cit.

    (71) Ibid., p. 151.

    (72) Ibidem.

    (73) Sul jihâd, cfr. brevemente S. Scaranari Introvigne, op. cit., pp. 73-74; e G. Crespi e G. S. Eid, op. cit., pp. 58-59; ampiamente, David Santillana (1851-1931), Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al sistema sciafiita, vol. I, La comunità musulmana e il suo capo. Fonti del diritto e loro ermeneutica. La legge nello spazio e nel tempo. Le persone. La famiglia. I diritti reali, libro III, "Limiti della Legge nello spazio e nel tempo", titolo I, "Limiti della Legge nello spazio", capitolo I, "L’Islam rispetto ai paesi abitati dagl’infedeli ("dâr al-harb")", sezione II, "Il "gihâd" (Guerra Santa)", §§ 4-9, Istituto per l’Oriente, Roma s.d. probabilmente 1926, pp. 88-96; A. Fattal, op. cit., pp. 9-18; B. Scarcia Amoretti, Tolleranza e guerra santa nell’Islam, cit., soprattutto pp. 90-102; Idem, "Bellum pium et justum: il jihàd", in "Islàm. Storia e civiltà. Rivista trimestrale edita dall’Accademia della Cultura Islamica (U.I.O) sotto l’egida della Società per l’appello all’Islàm, Tripoli", anno VI, n. 1 (18), Roma gennaio-marzo 1987, pp. 5-11; Halim Sabit Sibay (E. Tyan), voce "djihâd", in Encyclopédie de l’Islam, tome II, cit., pp. 551-553; Giuseppina Ligios, "Teoria e prassi della dottrina classica del jihâd", in Valeria Fiorani Piacentini, Il pensiero militare nel mondo musulmano, FrancoAngeli, Milano 1996, pp. 189-228; Eadem, "La dottrina del "jihad" presso la shi‘ah imamita", in V. Fiorani Piacentini (a cura di), Rapporto di Ricerca su "Il pensiero militare nel mondo musulmano", vol. secondo, "RM. Rivista Militare", Roma 1991, pp. 87-110; e V. Fiorani Piacentini, "Credenti e non credenti: il pensiero militare e la dottrina del jihâd", in Eadem, Il pensiero militare nel mondo musulmano, cit., pp. 9-188.

    (74) Ibn Haldûn, Muqaddima, cit., senza ulteriori indicazioni, in B. Scarcia Amoretti, Tolleranza e guerra santa nell’Islam, cit., p. 99.

    (75) B. Scarcia Amoretti, Tolleranza e guerra santa nell’Islam, cit., ibidem.

    (76) Proprio questa "confusione" credo possa fondare il riferimento alla "teologia della liberazione", in O. Roy, Généalogie de l’islamisme, cit., p. 28; sulla teologia della liberazione, cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione "Libertatis nuntius" su alcuni aspetti della "teologia della liberazione", del 6-8-1984; Idem, Istruzione "Liberatatis conscientia" su libertà cristiana e liberazione, del 22-3-1986; e il mio "La "rivalutazione" della dottrina sociale della Chiesa", in "Cristianità", anno XIV, n. 133, Piacenza maggio 1986, pp. 3-5.

    (77) M. Borrmans M.Afr., "Risveglio islamico o rinnovamento musulmano?", cit., p. 151.

    (78) Ibid., pp. 151-152; sui movimenti missionari, cfr. al-da‘wa l-islâmiyya. L’Appel à l’Islam, "Études Arabes Dossiers", n. 73, Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica, Roma 1987-2; e Ch. W. Troll S.J., "La "missione" secondo la concezione musulmana", in "La Civiltà Cattolica", anno 149, quaderno 3541, Roma 3-1-1998, pp. 40-54; sulla situazione di fatto, cfr. Camille Eid e Carlo Broli, "La Da‘wa in Africa e Oceania", dossier in "Asia news", supplemento a "Mondo e Missione. Rivista del Pontificio istituto missioni estere", n. 6, Milano giugno-luglio 1999, pp. 31-54; Iidem, "La Da‘wa islamica e la sua diffusione in Asia", dossier ibid., n. 10, Milano dicembre 1999, pp. 23-56; e Iidem, "La Da‘wa in Europa e America", dossier ibid., n. 2, Milano febbraio 2000, pp. 23-43.

    (79) Cfr. O. Carré, L’Islam laico, cit., pp. 38-44.

    (80) Ibid., p. 31.

    (81) L’affermazione socio-culturale esclude ogni considerazione relativa ai pensatori politici musulmani, quindi alla storia del pensiero politico musulmano almeno nelle sue espressioni non dominanti, e appoggia l’approccio al problema secondo la cosiddetta "interpretazione culturalista", avanzata dal politologo Samuel P. Huntington originariamente nell’articolo "The Clash of Civilization?" ("Foreign Affairs", vol. LXXII, n. 3, New York estate 1993, pp. 22-49), con risposte a obiezioni in Idem, "If Not Civilizations, What? Paradigms of the Post-Cold War World" (ibid., vol. LXXII, n. 5, New York novembre-dicembre 1993, pp. 186-194), poi in Idem, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (trad. it., Garzanti, Milano 1997). "Questo approccio — qualificato come "ingiustamente famoso" da Riccardo Redaelli —, pur non privo di validi argomenti, appiattisce il radicalismo islamico a semplice conseguenza inevitabile intrinseca ai fondamenti stessi della religione islamica" (op. cit., in G. Pastori e R. Redaelli, op. cit., p. 15 e nota 3); e lo stesso Redaelli rimanda a Shireen T. Hunter, "L’ascesa dei movimenti islamisti e la risposta occidentale: scontro di civiltà o scontro di interessi?", in Laura Guazzone (a cura di), Il dilemma dell’Islam. Politica e movimenti islamisti nel mondo arabo contemporaneo, trad. it., FrancoAngeli, Milano 1995, pp. 231-263): come se affermare la presenza di una causa dominante escludesse altre concause degli avvenimenti e come se le conseguenze potessero essere totalmente estranee se non alle condizioni del loro prodursi, almeno alle loro cause. Cfr. un giudizio analogo su Huntigton in S. Allievi, "Gli islamisti. I fondamentalismi nei paesi musulmani", cit., pp. 8-10. Comunque, circa il pensiero politico musulmano e i suoi protagonisti, cfr. un quadro grande, in L. Gardet, L’Islam. Religion et Communauté, cit., pp. 273-299; Idem, La Cité musulmane. Vie sociale et politique, cit., soprattutto pp. 17-104; e in F. Gabrieli, "Il pensiero politico musulmano", in Luigi Firpo (1915-1989) (diretta da), Storia delle idee politiche, economiche e sociali, vol. secondo, Ebraismo e Cristianesimo. Il Medioevo, tomo secondo, Il Medioevo, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1983, pp. 867-899; quadri minori o analisi, in H. Enayat, op. cit.; Abdallah Laroui, Islam e modernità, trad. it., Marietti, Genova 1992; e Massimo Campanini, Islam e politica, il Mulino, Bologna 1999; ma, soprattutto, B. Lewis, Il linguaggio politico dell’Islam, cit., in quanto attento appunto al linguaggio, "la istituzione fondamentale della società" (Peter Ludwig Berger e Brigitte Berger, Sociologia. La dimensione sociale della vita quotidiana, trad. it., il Mulino, Bologna 1987, p. 95).

    (82) L. Gardet, Conoscere l’Islàm, trad. it., Edizioni Paoline, Catania 1959, p. 52; più ampiamente, cfr. Idem, L’Islam. Religion et Communauté, cit., pp. 273-279; e Idem, La Cité musulmane. Vie sociale et politique, cit., pp. 22-29.

    (83) Idem, Conoscere l’Islàm, cit., p. 52, nota 1; correggo il nome dello shaykh al-Azhar, cioè del rettore della moschea-università de Il Cairo, sulla base di quanto se ne legge in Idem, La Cité musulmane. Vie sociale et politique, cit., pp. 25 e 26, nota 2. L’istituto dei Piccoli Fratelli di Gesù s’ispira al progetto dei Piccoli Fratelli del Sacro Cuore del sacerdote francese, eremita e missionario, Charles-Eugène de Foucauld (1858-1916).

    (84) Jacques Jomier O.P., Per conoscere l’Islam, trad. it., Borla, Roma 1996, p. 114.

    (85) M. Talbi, Le vie del dialogo nell’islam, cit., p. 37. Con il termine nahda — "rinascimento" o "risorgimento", ma sembra meglio "risveglio" — viene indicato il movimento nato nel mondo islamico dal primo incontro con la modernità, cioè a partire dalla prima spedizione d’Egitto (1798-1801), guidata da Napoleone Bonaparte (1769-1821): sulla Nahda, cfr. sinteticamente Ali Merad, L’Islam contemporain, 5a ed. corretta, Presses Universitaires de France, Parigi 1995, pp. 19-32; e N. Tomiche, voce "nahda", in Encyclopédie de l’Islam, nouvelle édition établie avec le concours des principaux orientalistes par C. E. Bosworth, E. van Donzel, W. P. Heinrichs et feu C. Pellat, assistés de F. Th. Dijkema (pp. 1-384), P. J. Bearman (pp. 385-1060) et Mme S. Nurit, sous le patronage de l’Union Académique Internationale, tome VII, mif-naz, E. J. Brill-Éditions G.-P. Maisonneuve & Larose A.A., Leida-New York-Parigi 1993, pp. 901-904; ampiamente F. Gabrieli, Il risorgimento arabo, Einaudi, Torino 1958; R. Caspar M.Afr., Traité de Théologie Musulmane, tomo I, Histoire de la pensée religieuse musulmane, cit., pp. 221-319; Albert Habib Hourani (1915-1993), La pensée arabe et l’Occident, trad. francese, Naufal, Parigi 1991, dell’opera Arabic Thought in the Liberal Age (1798-1939), Cambridge University Press, Cambridge 1983, della quale si può trovare lo sfondo fattuale in Idem, Storia dei popoli arabi. Da Maometto ai nostri giorni, trad. it., Mondadori, Milano 1992, pp. 263-352; e K. F. Allam, "L’islâm contemporaneo", cit., pp. 221-252.

    (86) M. Borrmans M.Afr., "Risveglio islamico o rinnovamento musulmano?", cit., pp. 153-154.

    (87) Cfr. R. Guolo, "Attori sociali e processi di rappresentanza nell’islam italiano", cit., passim, ma soprattutto p. 82; cfr. Idem, "È possibile un partito islamico in Italia?", in "liMes. Rivista Italiana di Geopolitica", n. 4, Roma ottobre-dicembre 1997, pp. 271-284; Idem, "Le tensioni latenti nell’islam italiano", in Ch. Saint-Blancat (a cura di), L’islam in Italia. Una presenza plurale, cit., pp. 159-173; Idem, "La rappresentanza dell’Islam italiano e la questione delle intese", in S. Ferrari (a cura di), Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche, cit., pp. 67-82; e P. Naso, Il mosaico della fede. La religione degli italiani, Baldini & Castoldi, Milano 2000, pp. 103-140.

    (88) R. Guolo, "Attori sociali e processi di rappresentanza nell’islam italiano", cit., p. 90.

    (89) Ibidem.

    (90) Cfr. la nozione di "religione politica", in Eric Voegelin (1901-1985), Le religioni politiche, in Idem, La politica: dai simboli alle esperienze. 1. Le religioni politiche. 2. Riflessioni autobiografiche, trad. it., a cura di Sandro Chignola, Giuffrè, Milano 1993, pp. 17-76.

    (91) G. Rizzardi, Islâm, processare o capire? Indicazioni bibliografico-metodologiche, cit., p. 265.

    (92) Idem, Introduzione all’Islâm, cit., pp. 15-16.

    (93) K. F. Allam, "L’islâm contemporaneo", cit., p. 264, che rimanda a O. Roy, L’èchec de l’Islam politique, cit.

    (94) J. Stamer M.Afr., op. cit., p. 11.

    (95) S. Qutb, "L’islam e l’organizzazione della città", trad. it. di Idem, Ma‘rakat al-islâm wa-l-ra’smâliyya [La lotta fra l’islam e il capitalismo], Dâr al-Kitâb al-‘Arabî, Il Cairo 1952, pp. 70-79, in I Fratelli Musulmani e il dibattito sull’islam politico, con introduzione di A. Pacini, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1996, pp. 35-39 (p. 35).

    (96) Idem, "Il gihâd per la causa di Dio", trad. it. di Idem, Ma‘âlim fî al-tarîq [Pietre miliari], Dâr al-šurûq, Beirut 1979, pp. 59-65, in P. Branca (a cura di), Voci dell’Islam moderno. Il pensiero arabo-musulmano fra rinnovamento e tradizione, con prefazione di Maurice Borrmans M.Afr., Marietti, Genova 1991, pp. 197-200 (p. 199); cfr., pure, del predecessore di Sayyd Qutb come guida intellettuale del movimento dei Fratelli Musulmani, l’avvocato ‘Abd al-Qâdir ‘Ûda (m. 1954), "Islam e politica", trad. it. di Idem, al-Islâm bayna gahl abnâ’i-hi wa ‘agz ‘umalâi-hi [L’Islam, tra seguaci ignoranti e guide incapaci], al-Muthâr al-Islâmi, Il Cairo s.d., pp. 43-49, ibid., pp. 200-205; e Idem, "La sarî‘a: costituzione fondamentale dei musulmani", trad. it. di Idem, Al-Islâm wa-awdâ‘u-na al–qânûniyya [L’Islam e le nostre istituzioni giuridiche], Maktabat al-Kitâb al-‘Arabî, Il Cairo 1951, pp. 27-32 e 45-46, in Dibattito sull’applicazione della "Shari‘a", cit., pp. 11-15.

    (97) S. Qutb, "Il gihâd per la causa di Dio", cit., p. 199.

    (98) A. Maududi, Jihâd in Islâm, The Holy Coran Publishing House, Beirut 1980, p. 19, testo scritto in inglese nel 1939, cit. in O. Roy, L’échec de l’Islam politique, cit., p. 85; cfr. pure H. Enayat, op. cit., pp. 83-110, soprattutto pp. 106-107.

    (99) Khorshid Ahmad, "Introduzione" a A. Maududi, The Islamic Law and Constitution, Islamic Publication, Lahore 1980, 1a ed. 1955, p. 5, cit. in O. Roy, L’échec de l’Islam politique, cit., p. 85.

    (100) Panayotis J. Vatikiotis, Islam: stati senza nazioni, con presentazione di Giampaolo Calchi Novati, trad. it., il Saggiatore, Milano 1993, p. 47.