L'Isola Incantata delle Figlie della Luna Un luogo protetto dalle Nebbie in cui le Fanciulle studiano insieme...

La Figlia di Arthur

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    AlessandroSkryer
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    00 13/09/2008 18:51



    Per chi ama percorrere le plaghe incantate e i labirinti del paese delle Fate, contemplare lo sfavillio delle merlature dorate e appisolarsi dolcemente presso i torrenti elisi, ecco narrata, in accenti di meraviglia e di paura, la storia di un cavaliere errante e di una damigella, nonché del terribile nodo stretto da un mago a punizione dell’orgoglio di una fanciulla. Fu raccontata in versi da Walter Scott in «The Bridal of Triermain», ed io ve ne offro, a puntate, un’umilissima parafrasi, nella speranza che possa dilettarvi almeno un poco…

    Dopo un’aspra battaglia, spossato, inquieto, quasi febbricitante, Sir Roland de Vaux di Triermain si coricò, e mentre le arpe dei suoi menestrelli diffondevano lentamente e dolcemente le melodie da lui maggiormente amate, il sonno si posò su di lui come la rugiada sopra un colle in estate.

    All’alba di un giorno d’autunno, quando il sole filtrava attraverso il grigiore della bruma e del gelo sui vetri, il barone di Triermain si destò di soprassalto e chiamò a gran voce i menestrelli per chiedere loro dove fosse colei che aveva visto passare qualche istante prima, intanto che le note di un’arpa si spegnevano in lontananza come sussurri angelici. Tuttavia nessuno aveva più suonato da quando lui si era addormentato e nessuno aveva visto né udito passare alcuno. Di sicuro nessuno avrebbe potuto sfuggire alla sorveglianza delle guardie. Allora Sir Roland incaricò un giovane paggio di sua fiducia di recarsi da un vecchio saggio di nome Lyulph, discendente dei druidi e dei bardi di re Arthur, depositario di una conoscenza antica. Capace di divinare il passato e il futuro attraverso i sogni e l’osservazione degli astri, il vecchio bardo avrebbe saputo dire chi fosse la fanciulla dalla fronte celestiale, il viso dolce, gli occhi belli, la chioma angelica e l’aggraziato incedere che Sir Roland aveva veduto. E questi giurò che se avesse scoperto che non si trattava di un’apparizione, non avrebbe trovato riposo fino a quando non l’avesse trovata, e nessun’altra fanciulla sarebbe mai stata sua sposa.

    Allorché il giovane paggio lo trovò, il canuto Lyulph sedeva all’ombra frusciante di un pioppo tremulo, sopra un masso spaccato dalla folgore. Interrogato, affermò di sapere che la fanciulla non era un’apparizione e che poteva essere sposata da un uomo mortale, ma quale cavaliere del Nord avrebbe mai osato intraprendere la pericolosa avventura che lo avrebbe condotto alla Valle di San Giovanni? Aggiunse che la fanciulla era nata cinquecentouno anni prima e ne raccontò in versi la storia, la quale, tramandata di bardo in bardo, risaliva ad un tempo ormai perduto, di cui restavano soltanto rovine: l’epoca di Merlino.

    Ed ecco la Storia di Lyulph…

    Un giorno, stanco della vita di corte e desideroso di avventure, re Arthur si pose in viaggio, e dopo avere cavalcato fra monti e brughiere, si addentrò nel buio assoluto del bosco e delle rocce fosche alla base di una montagna, dove il sole non scendeva mai. Poi, d’improvviso, rimase abbagliato dalla luce. Proteggendosi gli occhi con una mano, vide una bella valle stretta e verdeggiante, attraversata da un ruscello sinuoso, la quale scendeva fra alte colline verso il cielo occidentale, dove indugiava la luce rosseggiante del sole al tramonto. E là, in mezzo alla valle, s’innalzava imponente un castello colossale.


    Quando lo ebbe raggiunto, Arthur vi cavalcò intorno per tre volte senza scorgere bandiere sulle torri, né sentinelle sulle mura, né guardie al ponte levatoio, né alcun segno di vita. Il silenzio era quasi assoluto. E d’improvviso, in quel silenzio, come destandosi da un sogno, la civetta iniziò a stridere in armonia con lo scrosciare del ruscello che costeggiava le mura. Lasciato il cavallo a pascolare sulla riva, Arthur salì lentamente lo stretto sentiero che conduceva al ponte levatoio, innalzato a chiudere la porta tetra e grigia. Prima che il re potesse suonarte il suo corno d’avorio dalla punta d’oro per avvisare il guardiano della propria presenza, pur sospettando che il castello fosse abitato da un mago, da un goblin o da un gigante, il ponte levatoio fu abbassato. Nulla impedì al re di addentrarsi nell’oscurità passando sotto l’arco della porta.

    Continua… [SM=g27829]





    Il poema di Scott nella versione originale si può leggere qui:

    www.lib.rochester.edu/CAMELOT/trierma.htm

    E qui se ne possono trovare interessanti notizie:

    www.walterscott.lib.ed.ac.uk/works/poetry/triermain.html







    E sempre il vento e l’ombra misuravano il tempo,
    il sole portava riflessi come grate di gioia
    alloggiata là fuori, incurante degli agguati—
    quella che si sarebbe dovuta cercare.


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    AlessandroSkryer
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    Fanciulla dell'Isola
    Sognatore dell'Isola
    00 25/09/2008 00:50




    D’improvviso la tenebra fu dissolta dai fulgori morbidi e dorati di cento fiaccole profumate, che rivelarono al sovrano sbalordito cento damigelle, le quali, come l’onda estiva che danza sulla spiaggia, gli si appressarono e lo avvolsero, manifestando più volte il loro benvenuto e spogliandolo rapidamente delle armi e dell’armatura. Risero alle sue domande, lo incatenarono con ghirlande di fiori, lo condussero per lunghi corridoi, e infine oltre un arco, dove la più anziana fra loro, a malapena diciottenne, sollevò una mano ad imporre silenzio. Allora entrò la Regina.

    Il ricordo di com’erano quei giorni antichi vive ormai soltanto nei lai dei menestrelli. A quell’epoca la Natura, oggi devastata, offriva bene e male a profusione, forza gigantesca, prodezza smisurata, saggezza che s’innalzava oltre il cielo, bellezza la cui impareggiabile radiosità ormai non splende più neppure nei sogni degli amanti. Tuttavia neppure allora occhi mortali avevano mai potuto ammirare una bellezza quale quella di colei che lentamente si avvicinò ad Arthur in quel momento, scrutandolo con neri occhi lampeggianti.

    Dopo un lungo istante d’indugio, la Regina accolse Arthur con una fusione di fierezza e di cortesia tale da incantare e colmare di reverente timore. Così, allorché fu invitato ad accettare l’ospitalità che gli veniva offerta e a trascorrere la notte al castello, Arthur mitemente ringraziò.

    Durante il banchetto che seguì, rallegrato da lai e racconti, scherzi e risate, Arthur corteggiò la Regina, la quale parve rimanere indifferente, confusa, timida e pudica, spesso silenziosa, spesso abbassando i grandi occhi neri e sospirando, ma come se stesse nascondendo qualcosa. E il re, persuaso che celasse una passione ardente, divenne più audace e più insistente, e sempre più le si accostò, mentre i boccali tintinnavano, le fanciulle ridevano e i menestrelli cantavano…


    Continua…





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    stregaviolet )O(
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    Anziana dell'Isola
    00 25/09/2008 02:30
    Come ti avevo già detto questo tema è a dir poco splendido...
    ...e noi aspettiamo il "...continuo" [SM=g27822] [SM=g27823] [SM=g27823]



    "Oltre ogni tempo e tuttavia nel cuore del tempo."
    Haria

    "Incappucciate e velate, con le trecce color notte, le Fate porteranno ciò che nessun profeta intuì."
    Lord Dunsany

    Il Tempio della Ninfa

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    AlessandroSkryer
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    Fanciulla dell'Isola
    Sognatore dell'Isola
    00 02/10/2008 05:47




    Giorno dopo giorno, i barbari che saccheggiavano le coste della Britannia, la Tavola Rotonda, la sua bella moglie, la sua stessa spada, furono dimenticati da Arthur nel talamo, fra le braccia della bellissima Guendolen. Le settimane trascorsero l’una dopo l’altra come in un sogno, da cui ella ebbe timore che il re si destasse, benché il suo fascino quasi divino fosse superiore a quello di qualunque donna mortale. Guendolen infatti era figlia di una mortale e di una genio della terra, anticamente venerato dai giovani con danze e canti corali quale protettore degli inganni d’amore e della bellezza orgogliosa. Scacciato e isolato dall’avvento del cristianesimo, aveva addestrato la figlia alle arti della seduzione affinché inducesse i campioni della cristianità a sprofondare nella perdizione, inseguendo vani sogni d’amore destinati a rimanere insoddisfatti.

    Tuttavia, la parte di natura mortale aveva finalmente avuto il sopravvvento e Guendolen, seduttrice fino a quel momento, si era perdutamente innamorata di Arthur, diventandone la schiava anziché la dominatrice. Ad ogni arte, ad ogni lusinga, ad ogni stratagemma, d’amore e di magia, Guendolen ricorse per trattenere accanto a sé Arthur, il quale, tuttavia, dopo tre mesi estivi, dichiarò di avere trascurato troppo a lungo i propri doveri. Sebbene timidamente, con impaccio e con imbarazzo, dichiarò che se ne sarebbe andato, e dinanzi allo sguardo di rimprovero di Guendolen, affermò che tuttavia non sarebbe venuto meno al giuramento di reciproco amore. Sullo scettro e sulla spada, in quanto cavaliere e in quanto re, giurò che se ella gli avesse dato un figlio maschio, sarebbe stato erede al trono, mentre se fosse stata una figlia femmina, i suoi cavalieri si sarebbero battuti fra loro per stabilire chi fosse il più audace guerriero vivente, e questi l’avrebbe sposata. Alla promessa solenne, Guendolen rispose col silenzio.

    La mattina successiva, prima che un canto d’uccello s’innalzasse dal canneto o che un batter d’ali spruzzasse rugiada, o che un raggio di sole perforasse la nebbia, la porta si aprì ed Arthur uscì a cavallo dal castello. Ma proprio allora apparve Guendolen, abbigliata come cacciatrice dei boschi, i piedi calzati di sandali, le caviglie nude, la chioma adorna di penne d’aquila, lo sguardo risoluto, il portamento fiero, una coppa d’oro in mano. Anche se non lo avrebbe mai voluto, dichiarò, sapeva che non avrebbe mai rivisto Arthur e desiderava separarsi da lui come amante e come amica. Dunque brindò con la coppa, esortando il re a condividere con lei, non vino, bensì una bevanda divina, e bevve. Allora una luce prodigiosa le infiammò le guance e gli occhi.

    Il re si curvò dalla sella a prendere la coppa, ma nel sollevarla per bere a sua volta ne versò una goccia, che cadde come liquido fuoco infernale sul collo del cavallo, il quale subito s’impennò per la sofferenza ed il terrore, e nel ricadere trasse faville dalla roccia, in cui rimasero impresse per sempre le impronte degli zoccoli. La coppa volò via dalla mano del re, spargendo una pioggia di gocce ignee, le quali arsero e distrussero dove caddero. Il destriero fuggì al galoppo, impossibile a trattenersi. Quando finalmente l’animale si fermò, esausto e sudato, sulla cima di una collina, il re si volse a guardare il castello e non lo vide più. La fortezza era scomparsa. Il ruscello solitario scorreva intorno a un’altura erbosa, sulla quale scintillavano fiocamente frammenti di roccia e pietre spaccate.

    Continua…





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    AlessandroSkryer
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    Fanciulla dell'Isola
    Sognatore dell'Isola
    00 15/11/2008 05:21




    Nei quindici anni successivi, Arthur sconfisse i Sassoni in dodici sanguinose battaglie, liberò la Bretagna dal gigante Rhyton, sconfisse i Pitti e i Romani, assicurando la pace al regno. Sono trascorsi più di cinque secoli, da allora, ma il tempo stesso cesserà di esistere prima che un altro regno simile sorga. La corte, con il re e con tutti i suoi principi e i suoi cavalieri, era riunita nella valle di Eamont, a Penrith, quando giunse in sella a un palafreno bianco, alla testa di un corteo di fulgide damigelle, una giovane donna, la quale, al cospetto del re, smontò e s’inginocchiò.

    Era audace, graziosa e dignitosa, vestiva come una cacciatrice dei boschi, armata di arco e faretra adorni d’oro, le caviglie nude, i piedi calzati di sandali, la chioma adorna di una penna d’aquila. E quando con grazia gettò all’indietro il velo che le celava il viso, Arthur balzò in piedi gridando: «Guendolen!»

    Tuttavia, il volto era di fanciulla, più schietto e più selvaggio, e la bellezza meno magica, più umana, e nella fronte altezzosa si riconosceva la stirpe reale britanna di Pendragon. Con grazia, seppure con esitazione, dichiarò di essere un’orfana di madre giunta a chiedere la protezione promessa un tempo dal padre nella valle di San Giovanni. Senza esitare, il re la indusse ad alzarsi, le baciò la fronte, ne lodò la bellezza, giurò che la promessa sarebbe stata mantenuta, e guardò Guinevere, la quale, a sua volta, tranquillamente, guardò Lancelot e sorrise.

    Concessi Strathclyde, Rheged e Carlisle in dote alla figlia, Arthur indisse immediatamente un torneo, il cui vincitore, in quanto guerriero più nobile e più prode, l’avrebbe avuta in sposa. Soltanto i tre cavalieri più fedeli ai loro amori non parteciparono alla prova: Lancelot, Tristrem e Carodac. Alla fanciulla, di nome Gyneth, il re riconobbe il diritto di dichiarare conclusa la lotta a sua discrezione e di scegliere il proprio sposo, ma la implorò di non permettere che alcuno restasse gravemente ucciso o ferito, e che al momento opportuno rimettesse con fiducia il giudizio a lui.

    Tuttavia, fieramente, Gyneth rifiutò quell’accomodamento come indegno. Se Arthur non avesse mantenuto la promessa di accordarle quale marito il più prode cavaliere sopravvissuto, avrebbe rinunciato a tutto e se ne sarebbe andata. Così avrebbe avuto la prova che di nessun uomo ci si poteva fidare, come le aveva assicurato sua madre. Per non tradire la propria parola, Arthur cedette, ma promise che se un solo cavaliere fosse morto, Gyneth avrebbe cessato di essere sua figlia.

    Come il falco al gemito della preda, la giovane cacciatrice s’inebriò alla vista della battaglia, e mentre sul campo si levava lo spettro di sua madre, non ne decretò l’interruzione neppure quando essa si trasformò in un massacro in cui perirono molti dei migliori guerrieri del regno, finché, ad un tratto, il cielo si coprì di nubi, il turbine ululò infuriando, la terra si spaccò e Merlino apparve a dichiarare concluso il combattimento e a punire la fanciulla con la condanna ad un sonno eterno nella valle di San Giovanni. Ma poiché erano state le arti magiche della madre a pervertire il suo cuore innocente, e per amore della stirpre di Arthur, il suo sonno sarebbe cessato se un cavaliere tanto prode quanto quelli della Tavola Rotonda l’avesse destata.

    Invano Gyneth tentò di resistere alla magia di Merlino. Le sue palpebre dalle ciglia nere si chiusero sugli occhi azzurri, come lentamente nei crepuscoli estivi si chiudono le violette. Infine scomparve alla vista nella notte necromantica. E per luinghissimo tempo dormì, comparendo nei sogni dei cavalieri più valorosi a implorare di essere ridestata alla vita. Molti partirono alla sua ricerca. Pochissimi, dopo notti e notti di digiuno e di veglia, videro il castello magico in cui dormiva. I più tenaci non si lasciarono scoraggiare dalla tetra minaccia scolpita sulla porta tenebrosa e varcarono la soglia per non tornare mai più.

    Continua…






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    AlessandroSkryer
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    Fanciulla dell'Isola
    Sognatore dell'Isola
    00 15/11/2008 19:43




    Allorché gli fu riferita la storia della fanciulla che dormiva un sonno magico, Roland De Vaux di Triermain abbandonò i propri possedimenti ed ogni impresa guerresca per recarsi nella Valle di San Giovanni, dove durante il giorno esplorò incessantemente l’altura erbosa presso il ruscello, e di notte la vegliò alla luce della luna, sempre senza che essa si tramutasse in castello, finché, in una notte di nubi tempestose che velavano la luna d’argento e di silenziosi lampi rossastri all’orizzonte, si appisolò al tetro soffiare del vento e al fragore del ruscello gonfiato dalle piogge montane.

    Uno strano e spaventoso boato lo destò. Lentamente rotolò nel cielo una meteora rosseggiante, alla luce della quale l’altura incantata, con l’erba e le rocce, il boschetto e il ruscello, si tramutò in un castello turrito e imbandierato. Ma mentre Sir Roland correva verso la fortezza, la meteora scomparve, la sua luce si spense, la visione si dissolse.

    Altri giorni di perlustrazione e altre notti di veglia trascorsero, finché, una notte, al tramonto della luna d’argento, prima dell’alba, una bruma estiva s’innalzò a colmare la valle, e quando la brezza la scosse come un velo d’argento, il castello meraviglioso riapparve, soltanto per scomparire prima che Sir Roland giungesse all’altura. Furibondo, il guerriero scagliò la scure contro il versante. La lama possente spaccò la roccia provocando una frana, e rivelando così una scala dai gradini sbreccati e soffici di muschio.

    Salita la scala fino alla cima, Sir Roland vide finalmente, a tre tiri di lancia, il Castello di San Giovanni. Sulla porta, in informi caratteri antichi, era scolpita un’iscrizione: «Pazienza attende il giorno destinato, la forza può rimuovere ogni ostacolo. Guerriero che tanto a lungo hai atteso, saldo nell’anima e vigoroso nel corpo, ti è concesso osservare il castello dei giorni antichi. Non fu costruito da mano mortale, bensì innalzato per mezzo di segni, sigilli e parole di potere. Non osare più che camminarvi intorno ed osservarlo, giacché varcare la porta sarebbe mutare il fato, e forza e sopportazione sarebbero vane. Osservalo, e vattene».

    Naturalmente, Sir Roland entrò, e il cancello si richiuse alle sue spalle. Attraversata la corte si trovò dinanzi un fossato ampio e profondo, limpido e silente, senza ponti né traghetti, che lo separava dal palazzo. Così, si spogliò di quasi tutti gli indumenti e di tutte le armi, tranne la spada, si tuffò e lo attraversò a nuoto. Entrato nel palazzo, attraversò una sala in cui erano raffigurate le imprese dimenticate dei guerrieri antichi, a monito eterno per le epoche degenerate.

    Oltre una grata nella porta in fondo alla sala, vide un corridoio in marmo bianco, dove attendevano quattro Fanciulle africane, ciascuna delle quali teneva con un guinzaglio di garza una tigre. L’ammonimento pronunciato in coro dalle quattro Fanciulle non lo fermò, né lo fermarono le tigri, e così, dopo cinquecento anni, fu dissolto l’incantesimo che tratteneva le Fanciulle, le quali furono finalmente libere di tornare nei loro regni africani.

    Proseguendo, Sir Roland trovò una sala dove quattro Fanciulle dalla pelle ramata custodivano i tesori del Nuovo Mondo: oro e argento, perle, gemme e diamanti. Il guerriero, che mai aveva veduto la necessità della ricchezza, rifiutò l’offerta e riprese il cammino.

    A sole alto giunse in un cortile in cui mormorava e scintillava una fontana. Fra due archi attraverso i quali si scorgevano prospettive di giardini con boschetti, viali e chioschi, una porta bassa e fosca sembrava chiudere l’accesso alla solitaria dimora di un defunto dimenticato. Dopo essersi bagnato e dissetato, rimase a fissare il riflesso abbagliante del cielo nell’acqua, e si rilassò, come quando nel bosco s’indugia ad ascoltare il sospiro musicale delle fronde nella brezza, e come in sogno, ad occhi socchiusi, si può assistere all’apparizione delle Ninfe.

    E infatti dai giardini giunsero bellissime Fanciulle dalla pelle dorata e dalle chiome corvine, le quali gli offrirono il loro amore, promettendo che la sua prescelta sarebbe infine divenuta sua schiava d’amore. Sir Roland ne baciò una sulle labbra ridenti, strinse la mano offerta da un’altra, tutte le ringraziò, ma ne spezzò il cerchio magico e proseguì, seguito dalle loro lodi per avere scelto l’amore virtuoso.

    Disceso in un sotterraneo, percorse un lunghissimo labirinto diroccato, fra fuochi, vapori venefici e pozzi perigliosi. Infine risalì, e in cima all’erta trovò una ninfa della Gallia, una fanciulla di Spagna, una figlia della Germania, ciascuna delle quali era una regina che offriva una corona. Una Druidessa britanna, con l’arpa, offriva invece un disadorno serto d’alloro. Neppure i regni e i troni allettarono Sir Roland, che preferiva essere un libero guerriero scozzese. Allora la Druidessa, come riscuotendosi da un’estasi, toccò magicamente l’arpa e cantò, per annunciare il dissolvimento delll’incantesimo di Merlino, il superamento delle prove da parte del guerriero, e il risveglio di Gyneth.

    In un chiosco pervaso di crepuscolo viola, fra animali addormentati, riposava la figlia di Arthur, e sembrava che in lei dubbio, ira e sgomento fossero dimenticati insieme al sanguinoso torneo, e che Merlino, pentito, le avesse concesso sogni gentili, giacché sorrideva. Come nel racconto del bardo, era una fanciulla dalla pelle d’avorio in abito silvano, con le braccia e le caviglie nude, la chioma corvina sciolta sul seno niveo. Era così bella che Sir Roland rimase incantanto a contemplarla senza sapere come destarla.

    Allora le palpebre dalle ciglia nere si sollevarono e Gyneth lo guardò. Il guerriero s’inginocchiò, le prese le belle mani per baciarle e stringerle gentilmente. Intanto l’incantesimo s’infranse e il castello magico crollò intorno alla principessa fra le braccia del guerriero, la cui fronte era ora ornata dalla verde corona d’alloro della Druidessa. Di tutte le ricchezze e i poteri del magico castello rimasero soltanto la Ghirlanda e la Dama, ossia tutto ciò che un vero guerriero poteva desiderare di meritare con la propria prodezza.





    FINE






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    AlessandroSkryer
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    Fanciulla dell'Isola
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    00 19/11/2008 05:03



    Ecco alcune impressioni, alcune considerazioni improvvisate, sul poema di Scott, più una fiaba che una leggenda…

    I momenti liminali scandiscono il racconto.

    Sir Roland vede Gyneth in sogno, dopo un sonno febbrile, credendo di essere desto, e si sveglia in un’alba velata di gelide brume.

    Arthur giunge alla Valle di San Giovanni dopo avere attraversato gole e boschi nell’oscurità, e al tramonto, abbagliato dal sole, le armi e l’armatura sfavillanti come specchi, vede un’altura, un tumulo, e in cima al tumulo vede il castello di Guendolen. Si ode la voce della civetta, quando il re giunge al castello.

    È un’alba nebbiosa quando Arthur lascia Guendolen, e allorché si volge a guardare da una collina, non vede più il castello fatato, ma soltanto il tumulo erboso e il ruscello.

    Sir Roland inizia la sua veglia presso il tumulo sotto la Luna piena, la cui luce inargenta le sue armi e la sua armatura, luccicanti come specchi, nonché il tumulo, suscitando per pochi istanti l’illusione della comparsa del castello. È un’immagine come quelle che si scorgono nelle fiamme fissando a lungo il fuoco. Nei momenti liminali, a mezzanotte e a mezzogiorno, all’alba e al tramonto, Sir Roland attende invano che il castello appaia.

    In una notte in cui si vede soltanto una sottile, argentea falce di luna, appare la meteora, un prodigio, ed è alla sua luce crepuscolare che finalmente Sir Roland, scuotendosi da una condizione a metà fra veglia e sogno nell’udire il boato del bolide, vede il castello, che però scompare insieme alla meteora e alla sua luce.

    Esso ricompare alla luce argentea della luna, quando la brezza scuote il velo di bruma che si è innalzato a celare il tumulo.

    Con la scure, Sir Roland spacca la roccia del tumulo e rivela una scala che lo conduce misteriosamente in un altro spazio e in un altro tempo, anzi, nell’assenza di tempo: il tumulo è un passaggio per l’Altrove.

    Dopo avere varcato una porta infera, per giungere al palazzo, Sir Roland deve rinunciare alle armi e all’armatura, e attraversare un fossato: attraversare l’acqua infera.

    La galleria coi ritratti sembra un percorso fra i morti: guerrieri arcaici, il cui esempio di antica virtù, evidenziando la decadenza dei tempi, è monito e sprone, insegnamento e modello.

    Superate le prove delle tigri e dei tesori, Sir Roland giunge alla fontana, a mezzogiorno, e là, ascoltando la musica dei getti, fissando i riflessi iridati del sole sull’acqua, simili ai riflessi d’argento della Luna sui veli di bruma, entra in uno stato di coscienza rilassato, quasi di sogno, come quando, al sospiro delle fronde nella brezza, appaiono le Ninfe. Allora giungono le Fanciulle che gli offrono il loro amore, forse simbolo di amore profano.

    Infine Sir Roland si addentra in un sotterraneo tenebroso, in una grotta, in un labirinto infero, desolato, tetro e disperato: scende, e poi risale per un’erta ripida. Alla fine del suo percorso, Sir Roland è l’unico guerriero della fiaba ad accettare senza riserve l’amore fatato.

    Per vendetta contro il cristianesimo, Guendolen deve indurre i cavalieri a rinunciare a fede, fama e onore per un sogno d’amore, quindi viene presentata come una «cattiva», ma forse possiamo vederla diversamente. Il padre di Guendolen è un dio dell’amore, a cui i giovani di entrambi i sessi erano devoti per le gioie che donava. Ma i suoi altari sono stati bruciati dai cristiani. Se possiamo vedere qui un’immagine dell’amore naturale e spontaneo, represso e pervertito dal cristianesimo, possiamo forse vedere nell’incanto di Guendolen il sogno che questo amore si ridesti e rinasca?

    Il soggiorno di Arthur nel castello di Guendolen è un soggiorno nell’Aldilà, tuttavia il re lo interrompe rinunciando all’amore della fata, che gli concede di andarsene, non temporaneamente, ma per sempre, in cambio di una promessa. Il sovrano appare diverso da come si è soliti vederlo, cioè perplesso, irresoluto, quasi oppresso da un senso di colpa.

    Le due Dame soprannaturali, madre e figlia, Guendolen e Gyneth, sono presentate per certi versi come le «cattive» della fiaba, eppure sono donne che prim’ancora di essere amate desiderano essere rispettate, non disprezzate, non tradite: desiderano che la loro numinosità sia riconosciuta e rispettata.

    Soltanto i cavalieri fedeli al loro amore vero non si battono per Gyneth. Gli altri giungono a massacrarsi dissennatamente e indiscriminatamente. Ma perché Gyneth non li ferma? Per vendetta? Oppure perché essi, in realtà, non si battono per il suo amore, bensì esclusivamente per la sua eredità, cioè per il potere?

    Se così fosse, la punizione di Merlino apparirebbe ancora più sproporzionata, se non ingiusta, anche perché insieme a Gyneth vengono imprigionate per secoli, col rischio di restarlo in eterno, numerose fanciulle fatate che non hanno nessuna colpa.

    Se il percorso di Sir Roland può essere visto come una catabasi, il sonno incantato di Gyneth può essere visto come una morte provvisoria, e il suo risveglio come una rinascita?

    Forse nell’avventura di Sir Roland, motivata unicamente dall’amore, si può osservare che le armi e la forza non bastano a condurre a termine l’impresa. Bisogna sapersi battere senza paura all’occorrenza, talvolta persino abbandonarsi al furore. Tuttavia il percorso è prima di tutto spirituale, e dovrebbero essere dunque le qualità spirituali e l’amore a guidare nella lotta in ogni momento. Il guerriero valoroso combatte per la poesia e per l’amore, che sono la ricompensa del suo valore, il senso della sua vita e della sua lotta. La poesia può essere anche la capacità di vedere oltre il velo dell’illusione. L’amore può essere amore sacro.



    [Modificato da AlessandroSkryer 19/11/2008 06:10]


    E sempre il vento e l’ombra misuravano il tempo,
    il sole portava riflessi come grate di gioia
    alloggiata là fuori, incurante degli agguati—
    quella che si sarebbe dovuta cercare.


    Crevice Weeds






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    stregaviolet )O(
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    Anziana dell'Isola
    00 18/02/2009 20:57

    Ho letto finalmente, tutto quanto. [SM=g27823]
    Ed è un lavoro davvero splendido... grazie Alessandro per avercelo regalato.
    Proprio leggendo Il mito di Ginevra, di N. L. Goodrich, mi sono imbattuta nella leggenda, o fiaba, di Guendolen e Gyneth, fra gli amori e le amanti di Artù. E sono venuta subito qui all'Isoletta per leggere ciò che da tempo dovevo leggere. [SM=g27822]

    Ci sono dei punti che mi hanno ispirato delle piccole intuizioni, quindi li scrivo, di getto.
    Innanzitutto la storia è meravigliosa e mi pare un sovrapporsi di miti arturiani e fiaba di Rosaspina (la Bella Addormentata), a sottolineare e dimostrare un sottile carattere iniziatico di tutto il racconto.
    Il mondo storico e quello magico dell'Altrove si uniscono come accade - e deve accadere - nei veri percorsi iniziatici e quindi nelle vie verso la conoscenza di qualcosa di Altro e sublime, altrimenti irraggiungibile nella propria sola condizione umana.
    Il sogno, l'Ispirazione iniziale a cercare l'Amore divino (nominabile in molti modi diversi, quali Eros, Amore della Grande Madre, Amore Naturale) è la spinta del valoroso dall'animo puro a mettersi alla Ricerca. Una Ricerca che impegnerà tutta la sua vita e la sua esistenza. Per quanto poco gli importi di tempo e fatica.
    Gli altri cavalieri caduti nell'impresa, evidentemente, non potevano avere la stessa inclinazione salda e indistruttibile, se entrati nel castello (ed era già tanto che l'avessero trovato) non ne sono usciti più.

    Solo in certi momenti magici di liminarità il castello appare, a ricordare al Cavaliere la Realtà Vera della sua impresa. Compaiono e scompaiono come sogni, per non farlo desistere, cadendo nell'idea di aver solo sognato, di esserci illuso.
    Il castello esiste, ed appare in modi fantastici, per ricordare al Cavaliere proprio questo. Che non è illusione, ma realtà.
    Appare e scompare perchè appartiene ad una dimensione Altra, non a quella comune.
    Eppure, per raggiungerlo veramente, il Guerriero deve Agire. Soltanto nel momento in cui si riscuote dal sogno premonitore, dalla Visione eterea, e agisce attivamente, scalfendo l'altura con la spada (o la scure) la Scala appare.
    Questo mi pare intuitivamente un chiaro indizio, una lezione secondo cui non si otterrà mai nulla se non si agisce attivamente nella propria vita, se non si combatte attivamente, giorno per giorno, nella propria stessa storicità, per accedere al Sogno.
    Non si otterrà mai nulla limitandosi a guardare, abbandonati alle visioni. Bisogna agire anche sul piano fisico. Nel qui e ora.
    Solo in tal modo si troverà la Scala... che peraltro... è solo l'inizio.

    Altra intuizione, più dettata dall'abitudine di leggere racconti simili, che per quante forme e trame diverse assumano, riportano sempre allo stesso sacro significato.
    Per arrivare all'Amore, occorre liberarsi di tutto.
    Il Cavaliere inizialmente si libera di tutto ciò che pesa, ovvero di ciò che non gli permetterebbe di attraversare il riscello. In seguito, gli vengono offerte molte cose - a cui evidentemente gli altri cavalieri dispersi, non dotati di puro spirito e soprattutto di puro intento nel trovare l'Amore Naturale, cedono volentieri - molte cose diverse, tra cui ricchezze, potere, amore profano (come dicevi, Alessandro, e cosa su cui concordo pienamente). Ma egli non solo non prova interesse (l'interesse per le cose mondane, per la materialità, in tutte le forme che ha assunto nelle varie epoche, sia antiche che odierne) ma procedendo, continua a liberarsi di tutto. Si spoglia di tutto perchè solo in tal modo, solo leggeri e spogliati di pesi e interessi profani e illusori, si può giungere alla meta.
    Le varie "offerte" del racconto si possono anche interpretare una per una, ma l'importante è che il Cavaliere non vi cede. E finalmente giunge a ciò che desiderava davvero, ed all'unica cosa Vera, giacché tutto il resto, dinnanzi ad Essa, crolla.

    E' più che chiaramente un percorso iniziatico, questo. Nel quale è però racchiusa una storia a se stante.
    Una storia nella storia, un sogno nella storia.

    Sulla leggenda di Artù, Guendolen e Gyneth ci sarebbero altrettante cose da dire, anche se per certi versi sembra quasi un pretesto, per quanto meraviglioso, per giustificare e dare inizio alla ricerca dei Cavalieri nel qui e ora.
    Di certo Guendolen e Gyneth sono Dee d'Amore, sono Energie Amorose sacre, sono l'Amore del Sogno della Grande Madre. Vivono nel Sogno e possono unire la vita del Cavaliere, la storicità, al Sogno, all'Eternità (di fronte alla quale, però, la storicità - il castello, la costruzione, il mondo stesso - crolla).
    Solo l'Amore, infatti, come quello personificato da Gyneth, può essere lo scopo e la meta di una Ricerca cavalleresca. Non può esserci nulla di "cattivo" (come dici Alessandro) in questo, nonostante quello che si è cercato di far credere, perchè si tratta solo di flebili appannaggi che volano via al minimo cenno di vento.
    Ciò che sta sotto (e nemmeno poi tanto "sotto") è chiaro ed evidente.

    Mi stupisce un po', qui, il ruolo di Merlino... per nulla positivo e forse usato per giustificare la "cattiveria" di Guendolen e Gyneth.
    A meno che... sempre come dici, Alessandro, i cavalieri che si battevano per Gyneth non fossero spinti da reale desiderio di Amore, ma da eredità, potere, ecc.
    Del resto, la loro fine sul campo di battaglia, non differisce per nulla rispetto alla loro fine, nel tempo di Sir Roland de Vaux, nel castello incantato.
    Presumo che finiscano nello stesso modo, ovvero che Merlino abbia solamente "spostato" la scena della storia dal campo di battaglia alla corte di Artù al castello delle due Donne. L'ha "sopraelevata", mitizzata, trasferendola da un posto all'altro. Ma il succo non cambia.
    Inoltre, potrebbe aver voluto interrompere il torneo proprio per ciò che stava accadendo, ovvero il massacro di tutti i cavalieri. Ma per il semplice fatto che, non essendoci nessuno degno, non ne sarebbe rimasto uno solo in vita.
    Gyneth, dal canto suo, non ha perso nulla. E' sempre e comunque appartenuta al Sogno, al mito e all'Altrove, quindi per lei non cambiava nulla rimanere desta o addormentarsi. Ciò che rappresenta è l'Amore a cui aspirano gli uomini dal puro spirito. E tale rimane.

    La sua storia però richiama molto Rosaspina, e come vi sono significati profondi per Rosaspina, così ve ne sono di certo per lei. Forse si tratta di due percorsi diversi, quello femminile e quello maschile, racchiusi nello stesso racconto (come nella fiaba della Bella Addormentata).
    Oppure la Fanciulla dormiente è l'Amore addormentato dentro il Cavaliere, in attesa di essere risvegliato. Quindi ciò di cui si parla è solo il percorso maschile, volto alla Sua ricerca.
    Su questo c'è da riflettere un pochino...
    Potrebbero anche essere temi che si intrecciano fra loro e la Fanciulla che ha portato a compimento il suo Percorso iniziatico, diventa poi tramite per il Cavaliere e per il suo cammino.

    Per ora mi fermo qui, anche se di sicuro c'è molto altro da dire.
    Spero di essere stata abbastanza comprensibile, data la febbriciattola e il malessere da influenza.
    Un abbraccio grande (da lontano, per non attaccarvi i microbi [SM=g27828] ),
    Violet



    [Modificato da stregaviolet )O( 18/02/2009 21:06]


    "Oltre ogni tempo e tuttavia nel cuore del tempo."
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    "Incappucciate e velate, con le trecce color notte, le Fate porteranno ciò che nessun profeta intuì."
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