Quando Basket City soffiava gli assi alla Nba
Vent'anni fa, nell'estate dell'88, Virtus e Fortitudo piazzavano tre colpi in Usa A Bologna arrivavano le stelle Sugar Richardson, Johnson e Gilmore
- Corriere di Bologna -
Quei favolosi anni Ottanta erano così favolosi, in città, perché la sera si stava fuori, i locali erano pieni, il centro era pulito (e ripulito), in tasca c'erano due lire e Basket City stava diventando, appunto, Basket City. I denari li avevano anche i presidenti e le società, che ancora non erano delle «essepià» ma costole — un po' autonome, a dire il vero — delle «case madri». In ogni caso il portafoglio era pieno e nel-l'estate del 1988, dopo il leggendario «sorpasso» dell'Aquila alla Vu — la Fortitudo che veniva dall'A2 buttò fuori la Virtus al primo turno di playoff — l'avvocato Porelli decise di rilanciare il programma bianconero.
Era, guardandola vent'anni dopo, l'ultima estate d'un'era che sembrava eterna. E invece, quante cose cambiarono.
C'erano le superpotenze e il Muro era ancora in piedi, Bologna ritrovò quell'anno la serie A nel calcio e forse anche quella gloria spinse Basket City ad alzare una cresta un po' afflosciata. Porelli strinse subito la mano a Dan Peterson: era lui, pluridecorato allenatore alla Virtus e a Milano ma fermo da un paio d'anni, il consulente di mercato. Un general manager? Non proprio, ma quasi. Ci sentivamo tutti di rialzare la testa, alla Vu come alla Effe. E cosa disse subito Peterson? «Bisogna ridare slancio», trovando l'avvocato con un'idea suggestiva, folle, ambiziosa, clamorosa, una visione. Portare alla Virtus il genio di Micheal — così, all'anagrafe — Ray Sugar Richardson.
Ora, Sugar era una prima scelta nel draft del '78, selezionato dietro Larry Bird, stella d'impensabile grandezza nella Nba prima di cadere nel tunnel della droga. Si può paragonare solo a Michael Jordan. Qui vinse due Coppe Italia e una Coppa delle Coppe, il primo trofeo internazionale bianconero, pennellando basket. Ma, come scrisse Gianfranco Civolani, «io che lo vidi in campo a New York al massimo del suo splendore, vi dico che a Bologna giocò al 30% del suo talento». Con lui, Porelli prese Clemon Johnson (oggi allenatore, come Sugar), vecchio drago d'area campione Nba con Philadelphia nel 1983, e diede la bacchetta in mano a Bob Hill, coach consigliato proprio da Peterson. Fu il grande capolavoro di Porelli, che convinse David Stern, commissioner Nba, a riabilitare Sugar dalla imperitura radiazione per droga comminata nel 1986. «Gli dissi che lo volevo alla Virtus per riportarlo in alto, e che avevo bisogno di lui. Gli promisi che avrei preso Sugar e lui revocò la squalifica», dirà. E Richardson racconterà (parole raccolte da Gentilomi e De Carvalho nella sua biografia): «Quando incontrai Porelli per la prima volta capii subito che era una persona molto, ma molto, potente. Scelsi la Vu per lui, per il coach e per farmi una nuova vita».
Sugar sconvolse subito Bologna, con la Virtus fu amore a prima vista — «Welcome home Sugar» scrissero i tifosi la prima notte sui muri del palazzo in piazza Azzarita — e lo fu pure con le discoteche, l'Hobby One in primis, con le bolognesi d'ogni ceto ed età, alla faccia della bella moglie Leah, che due anni dopo lo lasciò. La storia è arcinota e non finì bene perché vinte le coppe, stravolti i derby, baciato in fronte Bianchini, rispediti in Fossa i rotoli di carta igienica, snobbati gli ululati «Sugar tossico », ci fu il misterioso divorzio nel '91. «C'era ricascato». «Fu incastrato ». I partiti erano questi, sotto i portici. Ma lui, Sugar, fu la scintilla per l'escalation trionfale che portò Basket City ad issarsi a comune dominatore della pallacanestro europea.
E per non star dietro, com'era legge in città, la Fortitudo rispose con Artis Gilmore, certamente meno personaggio di Sugar, certamente meno talento di Sugar, ma egualmente mostro sacro della Nba con le sue 17 stagioni fra i pro. Porelli piglia Richardson? Ecco Gambini che rilancia e firma A-Train per 400 mila dollari. È il giorno della marmotta, a Bologna, visto, rivisto e rivissuto per un ventennio.
Erano i favolosi anni Ottanta, quando Basket City soffiava gli assi alla Nba avendo la potenza di far riabilitare un vecchio califfo emigrato in Israele dove tutti i peccati erano mondati. Ma era a Bologna, il grande basket. Qua si costruivano trionfi e stelle, quelle con i tubolari al ginocchio con la banda blu, o nera, orizzontale, quelle con le scarpe di pelle e il fondo scuro di gomma, quelle delle t-shirt col tondo con la «V» o con la «F» nello scudo, quelle dei braghini inguinali e degli sponsor ricamati sulla canotta, quelle che gli allenamenti sono a porte aperte e i ragazzini, finita la scuola, potevano entrare in Furla o al Madison per vederli, quelle che si girava con la sciarpa legata al polso o col berretto da baseball, logo davanti e retina trasparente dietro. Quelle che ci piacevano tanto, nell'estate dell'88, con i sogni americani d'una città che si sentiva grande.
Daniele Labanti