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RASSEGNA STAMPA PARTE 3


Eastern Promises - titolo originale di La Promessa dell’Assassino - di David Cronenberg è un'opera a struttura generativa. Articolata su due livelli: uno strato superficiale dove si deposita l'intreccio, agiscono i personaggi, si rispettano - talvolta in maniera sfacciatamente pedissequa - i codici del gangster-movie americano. E uno più profondo che ne costituisce il cuore pulsante, l'istanza primaria da cui il regista de La Mosca muove e fa ritorno lungo il percorso del film: sotterraneamente, retroattivamente ad esso. Non sono pochi i momenti in cui la compatta intelaiatura di genere si squarcia improvvisa sotto la spinta del magma autoriale, con faide e malaffari della mafia russa travolte da scelte estetiche ed enunciative che ci restituiscono del regista canadese la poetica più autentica, rappresa attorno ai temi della metamorfosi identitaria, l'ossessione per il corpo, la putrescenza della carne. Altrimenti perchè indugiare sui dettagli raccapriccianti, brutalizzare la rappresentazione, dilatare i tempi d'esposizione alla violenza quando uno stacco in più non avrebbe pregiudicato la sostanza del discorso? Marche stilistiche che incidono la materia narrativa, come farebbe un chirurgo sul corpo sano di un paziente: gratuitamente e con dolo. L'intenzione è colpire lo spettatore alle viscere, restituirgli tutta la sofferenza e la finitezza dell'essere mortali, fatti di carne. Si veda a riprova la terribile scena della sauna. O si osservi come inserendosi nella fortunata tradizione dei mafia-movie Cronenberg rifugga da ogni interesse antropologico e dalla volontà di restituirne un ritratto veritiero per rifarsi ai più scontati clichè, luoghi svuotati che il cineasta si diverte a infettare dei suoi eccessi di sguardo. Un'intenzione che si replica anche a livello formale, dove gli shock visivi fanno saltare l'impeccabile confezione mainstream.
Non si può dunque parlare di delusione riguardo all'ultimo Cronenberg, piuttosto di travisamento per quanti si aspettavano un'operazione alla Scorsese servita in salsa russa. Il difetto semmai è di costruzione. Assumere come punto di vista quello di un'ostetrica londinese con desideri di maternità (l'incolpevole Naomi Watts) equivale a sminuire la natura mortifera della vicenda facendo posto a questioni sentimentali posticcie. Significa piegare la cupa metafisica del milieu a soluzioni meccanicistiche e consolatorie. Costringe infine l'attenzione dello spettatore a divagare inutilmente su troppe piste, quando sarebbe bastato fare del personaggio di Viggo Mortensen (immobile eppure intenso) l'unico punto nevralgico della diegesi. Il film ne avrebbe guadagnato in ritmo, tenuta e coerenza.
Gianluca Arnone, cinematografo.it



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Eastern Promises è un film terminale. Rapprende sui fotogrammi l’immagine finale della civiltà. Assimila gli uomini a sepolcri ambulanti. Marchia la pelle di segni funerari. Significa attraverso la morte. Non c’è più carne: diversamente dalla precedente filmografia cronenberghiana, i corpi non sono più luoghi di elaborazione del senso, sono masse di ghiaccio (il cadavere surgelato di Soyka) o statue di pietra (la posa di Nikolai durante la promozione a capitano), tavole sulle quali incidere simboli (i tatuaggi come storiografia e condanna). La teratologia ha infine ceduto il passo alla necrologia, la metamorfosi è terminata: non resta che l’immanenza del potere, impassibile di fronte all’accidentale succedersi degli eventi. Il potere è distante, immateriale, imperturbabile. Uno sguardo che contempla con raggelante fissità la macabra celebrazione della sua magnificenza: indifferenza della forma. Cronenberg, giansenista, riprende tutto con teoretico rigore (“In questo campo il pericolo più grande viene dalle cose più stupide, non puoi permetterti la più piccola disattenzione”, pontifica Semyon, glaciale figura di auctor in fabula): scannamenti e nascite, cerimonie e ferocia vendicativa, fedeltà e doppi giochi. Guardate come i tagli delle inquadrature non assecondano il tenore degli eventi, osservate come i movimenti di macchina non si conformano alla materia rappresentata: lo sguardo “immana” il potere, si distanzia dalle cose. Anzi, ne è la distanza. La Promessa dell’Assassino è l’ultimo film di Cronenberg. Letteralmente, simbolicamente, cadavericamente. Un film girato dall’obitorio.
Alessandro Baratti, spietati.it



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Cronenberg, sotto l’abito disegnato del progetto, è nudo e crudo e si applica allo script. Cronenberg, divelte le vesti, è nudo e crudo, lo è fin dall’inizio: la stilizzata truculenza di uno sgozzamento, una pozza di sangue da rottura di placenta, un neonato gelatinoso a cui viene applicato un respiratore, un cadavere scongelato con il phon, un taglio di dita in dettaglio. La chirurgica macchina da presa di Suschitzky disegna anche Eastern Promises, pellicola che è difficile non considerare in rapporto stretto e necessario al precedente A History of Violence, sembrando, questi due film, formare un dittico (e non è solo la questione, ampiamente/inutilmente dibattuta, della serie B e del possibile, teorico aggiramento di una “normale” strategia produttivo-commerciale – Cronenberg Autore che, perdinci, funziona al botteghino - che è all’origine del progetto) in cui i due film dialogano e si confrontano specularmente. Il perno Viggo Mortensen (attore magnifico che sembra tradurre alla perfezione l’algore cronenberghiano, incarnazione sublime della duplicità su cui si fondano entrambe le opere) ricopre un ruolo che pare uguale e contrario a quello di Tom Stall del precedente, invertendosi le coordinate: lì il Male (un Male problematico, pieno di sfumature) che, trasformatosi in Bene, veniva richiamato nel suo vecchio mondo per un ultimo, supremo confronto; qui il Bene (un Bene controverso e torbido, sia chiaro) trasfigurato nel Male ma poi improvvisamente reviviscente, dunque umano. Destatosi dall’ibernazione: salvifico. Un film di metallico rigore, fatto di personaggi (e ambienti, pure: il raffinato ristorante copre qualsiasi nefandezza) che si disfano della muta [una pelle marchiata da segni (in)confondibili – Nikolai tatuato con i simboli dell’onore sì, ma come bestia da mandare al macello, inconsapevole agnello (?) sacrificale -] e si trasformano, un film che gioca sugli opposti e corre su due basilari livelli (normalità – anormalità) che si incrociano quando Anna incontra il padrone del ristorante (le si apre davanti lo “strano mondo”; comincia una lenta, implacabile analisi dell’ambiente malavitoso fatto di abusi, mutilazioni, sfruttamento) e che, come aHoV, non rinuncia all’ironia straniante di chi percorre la strada del genere, ma tenendosi strategicamente ai margini della corsia.
Scritto da Steve Knight, già autore del copione di Dirty Pretty Things di Frears, imperniato anch’esso sulla descrizione della Londra invisibile degli immigrati, Eastern Promises è sì una carola natalizia come può intonarla Cronenberg (tutto si svolge nei fatidici giorni festivi), lucente, violenta, tesa, ma confezionata come un thriller classico (altrimenti dicasi hollywoodiano) e che dunque affida tutto alla dinamica del meccanismo, con solo l’ombra di un sentimento e (per carità) nessun sentimentalismo. Eastern Promises, con l’occhio all’accademia, sfrondato, come il precedente, da certo gridato cascame autoriale (Cronenberg, teorizzatore very clever, certo, ma troppe volte – quasi sempre? - imperfetto traduttore della sua medesima poetica), non privo del riconoscibile virtuosismo, è sicuramente più omogeneo del suddetto, apparendo come granitico blocco narrativo che si snoda senza bruschi cambi di direzione, laddove la secca, imprevista (geniale, lo dico) deviazione di aHoV sorprendeva e spiazzava, ma in cui uguali risultano le modalità di svelamento della trasformazione/svestizione (metaforica e letterale) del personaggio centrale che avviene, improvvisa nella seconda parte (nella magnifica scena del bagno turco - tesa, cruenta, simbolica – Nikolai, l’uomo nudo, dopo la lotta disperata, si dispone in posizione fetale: è lì che assistiamo all’esplicita mutazione/ nuova nascita?). E il finale, nel cuore caloroso della casa, lynchianamente (Blue velvet…) accogliente. Dunque poco o nulla rassicurante. L’ombra di una minaccia.
Si aggiunga il sottotesto, in cui elementi di differenziazione (nazionalità, cultura, sesso) vengono letti come chiavi del Disagio, subculture che incrociano altre subculture, vissute con orgoglio/viste con disprezzo, ciascuna costituendo una marca (s)qualificante, la squadra in cui giocare (la prova di virilità, il Chelsea - il presidente è Abramovich, non dimentichiamocene -, il test di fedeltà), il popolo o la famiglia (la Famiglia) da non tradire. Un incrocio di tematiche, che si riflette nel miscuglio che risulta essere questo film radicalmente contemporaneo, in cui la malavita è polverizzata e entra in ogni ingranaggio (la mafia russa sintesi della brutalità di oggi), in cui la polizia non esiste, opera meticcia come i nostri tempi, appunto, diretta da un canadese, scritta da un inglese, e ambientata in una Londra dove personaggi di origini russe, diversamente/egualmente sradicati, vengono interpretati da australiani (Watts), statunitensi (Mortensen), francesi (Cassel), tedeschi (Mueller-Stahl, stupendo), polacchi (Skolimowski), inglesi (Cusack), scelte di casting ovviamente studiate che impongono una visione del film rigorosamente in originale, per saggiare come ciascuno di essi pieghi (muti?) il proprio idioma originario alla cadenza russa, per apprezzare fino in fondo il superbo lavoro che il regista fa, com’è suo costume, col parco attoriale a sua disposizione.
Luca Pacilio, spietati.it



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Nikolai Luzhin è l’autista di Kirill, figlio del boss di una delle più potenti famiglie della mafia russa a Londra. Anna è un’ostetrica del Trafalgar Hospital, figlia di un russo e una donna inglese. Una sera, mentre è di turno, una ragazzina ucraina sanguinante e priva di coscienza partorisce una bambina, per poi morire; Anna recupera il suo diario per scovare i parenti della ragazza deceduta e garantire una famiglia alla neonata.
Per tradurre il diario, scritto in russo, si rivolge, guidata da un biglietto da visita trovato fra gli effetti della ragazza, alla persona sbagliata; in apparenza un docile ristoratore, Semyon è in realtà il padre di Kirill, nonchè il boss di Vory V Zakone. Ovviamente Semyon, anche se con cautela, vuole far sparire il diario e Anna (interpretata dalla brava Naomi Watts). Incarica del compito Nikolai, uomo ambizioso da sempre alla ricerca delle "stelle" (tatuaggi su petto e ginocchia a forma di stella) che lo farebbero entrare di diritto nella famiglia del Vory V Zakone. Ma purtroppo per Nikolai, i piani di Semyon sono altri. Il russo e Anna dovranno quindi unire le forze per cercare di avere salva la vita.
Vincitore del Premio del Pubblico al Toronto Film Festival, unanimemente considerato dalla stampa mondiale come uno dei migliori film dell’anno, Eastern Promises sbarca in anteprima al Torino Film Festival, e dal prossimo 14 dicembre, col titolo di La Promessa dell’Assassino, anche nelle sale italiane. Attesissimo da chi del regista canadese aveva amato particolarmente A History of Violence, dacché era filtrata la notizia che ne fosse il seguito naturale, La Promessa dell’Assassino non delude; anzi, se possibile supera le aspettative a velocità doppia, caso più unico che raro nell’ambito della cinematografia contemporanea.
David Cronenberg dà vita a quello che lui stesso ha definito un giallo che reinventa il giallo; questo, sempre secondo le dichiarazioni del regista, è merito anche e soprattutto della sopraffina sceneggiatura di Steven Knight, che crea una storia ricca di tensione, originale, e che ammicca ai classici del genere riuscendo sempre e comunque a dimostrarsi moderno. Ovviamente una peana di lodi va spesa anche per il regista, sempre più a suo agio e sempre più confidente nel muoversi all’interno della nuova piega che ha preso la sua carriera artistica. Ma d’altronde è sempre stata prerogativa di questo regista, attivo da più di trent’anni, quella di essere eclettico, di saper spaziare su molti generi e linguaggi cinematografici mantenendo sempre e comunque intatta la potenza e il valore della sua poetica. Menzione d’onore per un cast di attori eccezionale, specialmente nei due ruoli maschili principali. Vincent Cassel e soprattutto Viggo Mortensen (vera e propria musa dell’odierna stagione registica di Cronenberg) danno magnificamente vita a due personaggi complessi e sfaccettati: il primo nei panni di un figlio succube, sensibile ma frastornato dal fallimento di una vita vuota; il secondo in quelli di uomo glaciale e misterioso, ma contemporaneamente stranamente buono e caloroso, che vive una dicotomia insanabile tra poli opposti e inconciliabili.
Nicola Capperi, nonsolocinema.com



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Ancora una volta la distribuzione va a modificare il senso stesso di un titolo. La pellicola di Cronenberg è infatti giunta da noi come La Promessa dell’Assassino, che snatura completamente il significato dell'originale, Eastern Promises. Tralasciando queste imperfezioni, a cui ahimè, siamo fin troppo (mal) abituati nel Belpaese, andiamo a parlare della trama. A Londra una ragazza russa, di 14 anni, muore in ospedale dando alla luce una bambina. Anna (Naomi Watts) l'infermiera di origini russe che l'ha messa al mondo, decide di cercare i parenti della giovane. Si troverà immischiata nel giro della mafia russa, visto che la madre della piccola altro non era che una baby prostituta. A capo della fazione londinese vi è Seymon (Armin Mueller-Stahl) in apparenza gestore di un ristorante, ma che tratta in verità traffici illeciti. Suo figlio Kirill (Vincent Cassel) è un ubriacone violento e immaturo, che ha alle sue dipendenze l'amico Nikolai (Viggo Mortensen), autista e becchino dell'organizzazione. Tra intrighi e tradimenti, omicidi e violenza, si dipana una storia di grande impatto emotivo.
Violento, oscuro, indagatore dell'anima. Il nuovo capolavoro di Cronenberg è uno splendido, raffinato apologo sul mondo crudele, che vede persone imprigionate all'interno di un ruolo non voluto. Il giro delle prostitute legato alla mafia russa viene trattato con una durezza emotiva di non poco conto, e la scena in cui Nikolai è costretto con la forza a violentare una di loro è l'esempio migliore per narrare questo dramma. Il diario della giovane prostituta morta, che invischierà Anna in un gioco pericoloso, torna più volte come voce narrante all'interno del film, una scelta forse "bastarda" ma di sicuro coinvolgimento.
I personaggi son tutti ottimamente caratterizzati, a cominciare da Nikolai, cui Mortensen regala anima e corpo in maniera strepitosa. A quasi 50 anni Viggo mostra una forma fisica impeccabile, con un corpo muscoloso reso ancor più massiccio da enormi tatuaggi, marchio di riconoscimento della mafia russa. E non è un caso se la scena della doccia, dove combatte completamente nudo contro due sicari pronti ad ucciderlo, si farà senz'altro ricordare nella storia del cinema. Potente, sanguinaria, perfetta nel movimento dei corpi, che qui riescono ad avere una forza non solo fisica, ma anche psicologica di altissimo livello. Se Mortensen quindi regala un'interpretazione magnifica, per cui un Oscar non sarebbe per nulla inappropriato, anche gli altri interpreti non sono da meno. Vincent Cassel delinea una figura instabile, malata e folle, carica di un'immaturità espressa con sguardi e scatti d'ira magnifici, e comunque capace di provar pietà. Il tedesco Armin Mueller-Stahl, nella sua apparente tranquillità, regala un cinismo estremo al suo personaggio, sintomo anche qui di una grande abilità recitativa. La Watts, il cui compito era a dir la verità ben più semplice, si fa comunque apprezzare.
La fotografia è lucida, e complice anche delle splendide ambientazioni notturne, riesce a rendere l'atmosfera ancor più inquietante. Le stesse musiche sono silenti accompagnatrici della storia, ed aiutano ad immergersi in questa storia cupa.
L'accento russo volutamente marcato dato ai protagonisti, una scelta rischiosa che avrebbe potuto far cader tutto nel ridicolo, si rivela invece azzeccata, anche se è a tratti inspiegabile il cambio di lingua nella stessa discussione tra due personaggi.
A livello di sceneggiatura, interessante il colpo di scena verso la fine del film, che rivoluziona tutto quello che lo spettatore aveva fin lì creduto, mentre un po' banale il finale pseudo / affettivo. Il finale in parte irrisolto (ma che non dovrebbe lasciare adito a seguiti, in quanto comunque il cerchio si chiude) è carico di gran fascino.
Niente appare finto, non si può neanche lontanamente paragonare a nessuno dei classici film d'azione made in Hollywood, giacchè la violenza qui è viva, reale, pulsa da ogni fotogramma, come trasformasse la realtà in immagine, in un'ossessiva e convulsiva ricerca di esistenza.
Un prodotto morale nella sua pur completa immoralità, dove però gli sprazzi di umanità son ancor più grandiosi, giacchè nati dal dolore e dalla tristezza, da personaggi insospettabili.
Un noir dell'anima, uno dei prodotti migliori degli ultimi anni, intenso e calamitante. Cronenberg e Mortensen ancora una volta insieme, e ancora una volta un capolavoro. Di solito non c'è il due senza il tre...
Maurizio "Blindevil" Encari, evereye.it



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David Cronenberg sbalordisce per la densità e l’asciuttezza con cui ci racconta questo dramma costruito su inquadrature statiche dall’enorme peso specifico e da una classicità chirurgica del montaggio che gli fornisce una forza insormontabile.
Eastern Promises è il film di un gigante. C'è ben poco da opinare in proposito, ma ribadirlo non è affatto pleonastico. Soprattutto è la dimostrazione che esiste ancora la possibilità di seguire un percorso autoriale chiarissimo e non per questo non al passo coi tempi. Se poi a qualcuno il cinema di David Cronenberg degli ultimi film può sembrare alimentato da un desiderio di allontanamento dai temi e dalle ossessioni che gli sono proprie, in direzione di un presunto ammorbidimento mainstream, probabilmente gli sfugge la portata della mutazione in atto nell'opera del regista canadese. Perché di differenze tra i suoi classici del passato e la nuova produzione ce ne sono eccome (e per fortuna) ma il percorso intrapreso mostra una coerenza e un intransigenza che mette davvero i brividi.
La Promessa dell’Assassino torna, dopo A History of Violence, a raccontare la tragica prossimità del male. Che non lo vediamo ma ci circonda e ci costringe a farci i conti, senza preavviso. Può essere un passato sopito che torna prepotentemente e mette a repentaglio il focolare domestico o sempre la storia di una famiglia, questa volta russa, che dissimula la sua aderenza alla mafia nella trasparenza di un ristorante russo, nei pressi del centro di Londra. Ma il male è sempre lì, con le sue regole, i suoi rituali e i suoi simboli, financo la sua intimità. Che è quella che si crea, volente o nolente, tra l'autista tirapiedi Nikolai (un Viggo Mortensen praticamente perfetto) e l'infermiera Anna Khitrova (un'intensa Naomi Watts) anche lei di origine russa. Perché anche nelle secche più aride c'è la possibilità per un ritorno ai sentimenti basilari, tra i tentativi di Anna di risalire, tramite un diario in russo, ai parenti di una ragazza che muore di parto per affidargli il neonato e le motivazioni di Nikolai a una scalata di potere nel sistema verticale della mafia russa. Un barlume che contagia persino Kirill (Vincent Cassel) inetto e violento, ma incapace di compiere l'omicidio di un neonato solo per apparire adeguato agli occhi del padre Semyon.
Senza intellettualismi o metafore il regista canadese sbalordisce per la densità e l'asciuttezza con cui ci racconta questo dramma costruito su inquadrature statiche dall'enorme peso specifico e da una classicità chirurgica del montaggio che gli fornisce una forza insormontabile. E mentre il cinema d'azione americano, oltrepassata la saturazione va verso la definitiva sovrabbondanza formale - che si fa discorso teorico nell'ultimo The Bourne Ultimatum - Il ritorno dello sciacallo di Greengrass - Cronenberg gira nel 2007 una scena di violenza inaudita in una sauna, che entra sotto pelle - e nell'immaginario cinematografico - perchè mostra tutto il mostrabile con una frontalità assoluta. Provare per credere.
Adriano Aiello, castlerock.it



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Per Cronenberg l’immagine resta rivelatrice: come se l’ambiguità che generava l’orrore di mutazioni nel profondo date/inflitte allo sguardo sia stata subito annullata dall’evidenza delle cose, una compostezza apparente sempre in realtà sostanzialmente eccedente, che non smette di lasciare spaesati. Quasi fosse una versione russolondinese del sublime dittico di Election a firma di Johnnie To (a questi accomunato anche dal vertiginoso finale irrisolto, inquadratura di chiusura compresa), Eastern Promises finisce così per mostrare ancora una volta la totale gratuità della violenza.
Nel cinema attuale di David Cronenberg la scrittura va facendosi sempre più esplicita e meravigliosamente di superficie: e la partitura di Steve Knight (suo lo script di un film per parecchi versi simile a questo, Dirty Pretty Things di Stephen Frears), così piena di situazioni e battute ‘tipiche’, non permette all’ambiguità che generava l’orrore di mutazioni nel profondo date/inflitte allo sguardo del precedente cinema del regista di palesarsi per non più di pochi istanti, subito annullata dall’evidenza delle cose – i tatuaggi che mappano il corpo di Nikolai (Viggo Mortensen), autista della mafia russa a Londra, chiariscono immediatamente il suo passato di crimini e penitenziari, agli occhi di chi li sa leggere (e proprio un tatuaggio sarà il segno di riconoscimento per chi ha intenzione di eliminarlo); il suo stesso comportamento che ad un certo punto della vicenda pare diventare sempre meno chiaro, viene subito dopo spiegato dalla rivelazione del vecchio poliziotto; le parole fuoricampo del diario della 14enne russa morta di parto su cui sta indagando l’ostetrica Anna (Naomi Watts che accetta con rassegnazione il grigiore del suo ruolo) per decidere le sorti della piccola rimasta orfana, svelano sin da subito la sua condizione di prostituta ‘deportata’ a Londra dalla mafia; le allusioni ad una omosessualità latente di Kirill, il figlio psicotico del boss dei Vory V Zakone, Semyon (Armin Mueller-Stahl) interpretato con la solita verve coatta da Vincent Cassel, sono ripetute volte sottolineate proprio dalla morbosità del suo rapporto con il fido tuttofare Nikolai ("lui non è l’autista: è il becchino"), spesso e volentieri abbracciato, accarezzato, baciato. Ecco che, alla stregua dei due precedenti Spider e History of Violence in cui il regista iniziava a sviluppare questo discorso, per Cronenberg oggi come oggi l’immagine, pur avendo forse irrevocabilmente rinunciato ad una consapevolezza horror di mostruosità dell'animo rese evidenti, non appare nonostante ciò meno rivelatrice. Come nel bellissimo e quantomai fondamentale e ‘teorico’ Black Book di Paul Verhoeven, il (neo)classicismo delle superfici illuminate – con Peter Suchitzky che sembra guardare in alcuni momenti addirittura a Gordon Willis per la compostezza apparente della costruzione di un’inquadratura sempre in realtà sostanzialmente eccedente (si veda la strepitosa sequenza dell’esame di ‘ammissione’ di Nikolai da parte dei vecchi padrini) – si traduce in un’atmosfera costantemente sopra-le-righe che almeno nella prima parte della pellicola non smette di lasciare spaesati: la crudele parodia grottesca del malsano banchetto dei mafiosi nel ristorante gestito dai Vory V Zakone; il quadretto edificante del gruppo familiare di Anna in tranquilla casetta all’inglese; l’omicidio del figlio ritardato di Semyon all’uscita dallo stadio insieme ai tifosi dell’Arsenal, mentre sta urinando su di una lapide passando dal cimitero, sgozzato con la compiaciuta evidenza di un effettaccio truculento realizzato con consapevole artigianato quasi vintage; e soprattutto, il primo quarto d’ora di presenza in scena di Viggo Mortensen, incarnazione insuperabile e perfetta delle intenzioni del regista sin dalla sua prima comparsa nel film, sino a quella strepitosa sequenza ‘chirurgica’ in cui si dimostra ‘pericolosamente cattivo’ spegnendosi una sigaretta sulla lingua mentre continua a sorridere facendo a pezzi un cadavere con le cesoie. Quasi fosse una versione russolondinese del sublime dittico di Election a firma di Johnnie To (a questi accomunato anche dal vertiginoso finale irrisolto, inquadratura di chiusura compresa), La Promessa dell’Assassino finisce così per mostrare ancora una volta la totale gratuità della violenza, con padrini fatti ammazzare solo per aver indicato qualcun altro come frocio, e un vecchio zio rimbambito, ciarlatano e sostanzialmente innocuo condannato a morte perché autodefinitosi ex-agente del KGB senza darne alcuna prova. Allora, l’attesissima sequenza di lotta nella sauna tra due killer energumeni e insormontabili, e Mortensen completamente nudo, più che il doppio dei corpo-a-corpo nella parte finale di A History of Violence, si rivela ancora di più come l’estremizzazione degli scontri di un Bond/Daniel Craig, o Bourne/Matt Damon, totalmente svuotati di senso sino a restare unicamente grovigli di membra avvinghiate l’uno sul corpo dell’altro mentre allo stremo delle forze continuano ad infierire ancora e ancora, morendo e tornando alla vita e morendo ancora, restando ciechi e senza più sangue.
Sergio Sozzo, sentieriselvaggi.it



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Anna Khitrova, ostetrica in un ospedale nei pressi di Londra, è assai scossa dalla vicenda di un’adolescente morta di parto, lasciando una creatura orfana: da ciò il suo proposito, perseguito con tenacia, di rintracciare i parenti di quest’ultima, affinché possano prendersene cura. Nella bisogna, la giovane è soccorsa dal diario della sventurata, scritto in russo: decide di darlo in lettura a Semyon, proprietario d’un lussuoso ristorante che fa da copertura ad attività mafiose, il quale è disgraziatamente implicato nei fatti narrati in quelle pagine. Capo della fratellanza criminale nota come “Vory V Zacone”, l’uomo ha un figlio ubriacone e debosciato, Kirill, che fa scortare da un uomo di fiducia, Nikolai, per il quale egli nutre invece la massima stima. Nel tentativo di disinnescare le minacce contenute nel documento (è Semyon l’uomo che violentò la ragazzina, poi morta alla conclusione della gravidanza, quand’era ancora minorenne), inizia un feroce gioco dell’oca, destinato a sinistri sviluppi ed a chiudersi, infine, senza vincitori né vinti.
Portando sullo schermo una bella sceneggiatura di Steve Knight (Dirty Pretty Things), David Cronenberg si confronta nuovamente col cinema di genere, dopo il felicissimo esito del precedente A History of Violence (2005). Si è detto, da più parti e segnatamente per questa più recente fatica, di una resa parziale del cineasta canadese alle ragioni dell’industria, richiedente pellicole ad alto tasso di fruibilità e quanto più possibile non segnate dalle stimmate del cinema d’autore; si è aggiunto, infine, che la forma filmica adoprata dal nostro è ormai assai lontana dallo sperimentalismo, dalla furia quasi iconoclasta dei primi suoi lavori.
Nulla di più errato: la forza del regista de Il demone sotto la pelle (1975) è invece proprio quella di adattarsi, versipelle com’è, a qualunque veicolo narrativo, impregnandolo in profondità delle proprie ossessioni. Si veda qui, a livello di contenuti, la maniera in cui la morte e la violenza sono trattate: omicidi crudeli all’arma bianca, cadaveri nudi e ghiacciati, mutilazioni postmortem, stupri raggelanti, torture efferate, proseguono l’antico discorso sulla carne-macchina, sul virus che contagia i corpi vittime della follia e della ferocia. Quanto alla forma, in luogo della paventata classicità, c’è un uso della macchina da presa ben poco ortodosso; frastornante invece, capace di produrre malessere nella propria ricerca continua d‘inquadrature sghembe, non tradizionali, ansiogene (eccellenti sia la fotografia di Peter Suschitzky sia il montaggio di Ronald Sanders).
Aiutato da un cast in stato di grazia (il migliore è, ancora una volta, Viggo Mortensen, sospeso tra obbedienza alle regole e richiami alla pietà), da un’ambientazione londinese che evita accuratamente i luoghi turistici o riconoscibili della città, Cronenberg orchestra brani magistrali, destinati a rimanere nella memoria: il livido incipit, con un omicidio a lama di rasoio in un barber shop, seguito da un’emorragia in strada che conduce ad una nascita drammatica; la sequenza dell’attentato a Mortensen in una sauna dove egli, armato solo della propria disperazione, elimina due killer venuti ad ammazzarlo, pagando un orribile prezzo di sangue e sfregi sul proprio corpo nudo e tatuato. Mai, ci sembra, ci si era spinti così innanzi nella rappresentazione fisica del dolore dei colpi subiti, delle lacerazioni, dello sforzo necessario a sopprimere o, viceversa, a non farsi sopprimere. Cronenberg allo stato puro, vedere per credere.
Francesco Troiano, tempimoderni.com



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“Il mio nome è Tatiana”. Incomincia così il diario della giovane ragazzina che Anna ha disperatamente tentato di salvare dopo che ha partorito. Era una ragazzina davvero giovane, di origini russe e con un passato che solo quel diario può spiegare e rivelare. Anna decide di accudire la bambina appena nata, e intanto è decisa ad indagare sulla vita di Tatiana…
Si parla di mafia russa in La Promessa dell’Assassino, il nuovo film di David Cronenberg. Ma, come al solito, l’argomento di base è solo una base su cui costruire ben altro. Si parte dalla freddezza e dalla paura di un argomento che presenta voluti stereotipi (la crudeltà e il sangue, i mafiosi interessati a donne e vendetta, addirittura la vodka) e si continua con la famiglia, il passato, l’amore e l’uomo.
Insomma, La Promessa dell’Assassino è Cronenberg puro, e chi ha già tacciato A History of Violence di essere una facile trovata commerciale per mettere d’accordo, in modo banale (sic!), critica e pubblico, non capirà neanche questo nuovo capolavoro. Innanzitutto perché i due film vanno a braccetto, soprattutto per stile, e poi perché il doppiaggio -lo si capisce dal trailer- renderà inutile tutto l’impressionante lavoro degli attori sostituendolo col ridicolo.
Se in A History of Violence vedevamo Tom Stall, tranquillo padre di famiglia, uccidere un uomo, qui il tatuatissimo e freddissimo Nikolai, autista della famiglia di mafiosi che a Londra possiede un ristorante, uccide per forza di cose. In entrambi i casi, però, c’è un elemento in comune: il passato ritorna per tutt’e due. In A History of Violence era inquietante e si svelava man mano, di Nikolai sapremo poco o nulla fino alla fine.
Ma l’ultima scena, da brividi, ci regala il ritratto più limpido ed emozionante di un personaggio a prima vista negativo (ma in fondo non così diverso da Stall) in una manciata di secondi. E capirete bene poi perché il film si chiama Eastern Promises (ovvero “promesse dall’est”: La Promessa dell’Assassino è la solita furbata della nostra distribuzione).
Teso come una corda di violino, si apre con alcune scene di violenza non indifferenti, per accumulare claustrofobia e malattia lungo il suo percorso, per sfociare in una scena gloriosa, audace e ad alto tasso di emoglobina che ha un sapore catartico: la scena della sauna con Mortensen tutto nudo, pronto a difendersi fino all’ultimo da un attacco improvviso, già paragonata alla scena della doccia di Psyco dallo stesso Cronenberg.
Non vale la pena discutere della tecnica, che è di una pulizia e una perfezione formale che è un piacere per gli occhi ad ogni fotogramma: ma lo si è ribadito anche con capolavori come Crash e M. Butterfly, e non è bastato neanche questo a far sì che Cronenberg venisse apprezzato dalla maggioranza (basta leggere il pessimo dizionario Maltin).
La Promessa dell’Assassino colpisce dritto al cuore, è capace di regalare emozioni tra le più temibili e può anche commuovere. Cronenberg non si smentisce: padroneggia la materia che ha fra le mani, a prima vista abbastanza banale, come materiale da plasmare per costruire qualcosa di mai visto prima. E se la Watts e Cassel regalano ottime interpretazioni, Mortensen regala la sua prova più bella di sempre: guardatelo come riesce ad essere freddo eppure allo stesso tempo ad entrare nel cuore del pubblico. Perché tutti hanno qualcosa di terribile alle spalle, e Nicolai è lì a ricordarcelo: con le sue cicatrici, coi suoi tatuaggi, con le sue promesse.
Gabriele, cineblog.it



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Una Londra grigia, minacciosa, emotivamente sospesa e raggelata dalla straordinaria fotografia di Peter Suschitzky. Una ragazza dell’est troppo giovane per morire abbandona la vita dando alla luce prematuramente una bambina. Anna, un’infermiera di origini russe, scopre il diario della giovane, mettendosi sulle tracce delle sue origini. Ignara dei terribili segreti che quella morte nasconde.
I grandi autori, si sa, amano sperimentare, spingersi sempre oltre il conosciuto. David Cronenberg, ancora alle prese con un film apparentemente di genere dopo il magnifico A History of Violence, sta facendo esattamente questo, ovvero ridisegnare a suo modo i confini del noir permeandolo della visione esistenziale che gli è sempre appartenuta, quella cioè di un dolente pessimismo “filosofico” che scuote e commuove tanto è profondo e sincero. In Eastern Promises - ci rifiutiamo di menzionare l’insensato titolo italiano: ma di quale promessa si sta parlando? E l’assassino poi chi diavolo sarebbe?? - tutti i personaggi sono prigionieri del ruolo che ha assegnato loro il Destino, tutto è successo ben prima. Il capolavoro di Cronenberg si apre nel sangue e nel segno dell’inevitabilità del sangue prosegue. La ragazza dell’est, arrivata a Londra in cerca di fortuna (da cui l’assai più evocativo titolo originale…), è già stata uccisa dai suoi aguzzini della mafia russa con molto anticipo rispetto alla sua morte fisica attraverso l’annientamento morale della sua persona, costretta alla prostituzione e ripetutamente stuprata. L’infermiera Anna (assai funzionale l’interpretazione di Naomi Watts), pure lei di origine russa, si è già scontrata con il dolore (un aborto spontaneo) ed il pregiudizio (il padre del bambino mai nato era di colore). L’autista della mafia Nikolai (uno straordinario Viggo Mortensen, qui alla miglior prova attoriale della carriera) ha già fatto le proprie significative scelte molto prima che il film avesse inizio. Come pure il medesimo discorso vale per il figlio del capo-cosca Kirill (un bravissimo Vincent Cassel), psicotico costretto, per evidenti ragioni di appartenenza tribale, a dissimulare la sua omosessualità e l’attrazione per Nikolai.
In sostanza Cronenberg costringe lo spettatore ad una doppia operazione, quella di seguire le tante sfaccettature di una trama comunque complessa e ben articolata e quella di eseguire un doloroso scavo nel passato dei personaggi, solo pedine di un gioco enormemente più grande di loro. E non è un caso che tra numerosi sgozzamenti, pugnalate dritte nel bulbo oculare, dita di cadavere mozzate ed altro ancora, l’inquadratura maggiormente angosciante - e molto ma molto “cronenberghiana” - vede il feto prematuro della bambina figlia di “una storia di violenza” attaccata ai macchinari, artificialmente tenuta in vita affinché possa, persino lei, andare incontro al suo Destino. In qualche modo scritto.
Un film, nella propria bellezza anche coreografica (vedere la magnifica sequenza della sauna, autentico “balletto” di morte dove si fronteggiano ferocia animalesca ed innato istinto di sopravvivenza…), definitivo e devastante.
Daniele De Angelis, cineclandestino.it
[Modificato da |Painter| 11/06/2010 14:14]