00 23/11/2007 15:02
a Riccardo,
perché lo stimo e perché questo tipo di scritti me li ha fatti amare lui

ciao Rino,
come stai? Ti scrivo dopo più di trent’anni perché ieri, dal mio letto bianco di calce di un corridoio d’ospedale – le stanze erano piene –, ti ho pensato. Sai perché ero lì? Ho finalmente trovato il coraggio di operarmi al fegato.
Lo so che starai sorridendo indulgente; starai pensando: <>. Lo so. Però la scienza ha fatto passi da gigante in questi trent’anni e non ci lasciano più nemmeno il fascino delle metafore: hanno trovato un donatore compatibile e dalle sue cellule hanno clonato il fegato e me l’hanno trapiantato; poi birra e whisky hanno fatto il resto e nel giro di due anni mi sono operato.
Lo sai, Rino? Molte cose sono cambiate dopo quella maledetta notte del giugno dell’81. De Gregori disse che sei volato via presto perché “eri caro agli dei”, ma lo diceva Menandro in realtà e tutti lì a pensare “Che genio De Gregori!”; io dico che è una gran stronzata simil-consolatoria e probabilmente De Gregori il fatto che non fosse sua l’ha sempre tenuta come asso nella manica, per lavarsene le mani nel caso qualcuno gli avesse fatto notare la realtà ontologicamente fecale dell’affermazione.

Qualche settimana fa me ne andavo alle tre di notte, col mio fegato malato, in giro per la città. Era stato un lunedì, mi pare, ed era stato uno di quei lunedì alienanti, tristi come solo può essere triste la vita di un modesto lavoratore in una modesta azienda di periferia. Sul lavoro era stato il giorno del premio; mi avranno dato una dozzina di premi aziendali da una quindicina d’anni a questa parte, solo che con lo stipendio non arrivo mai a fine mese come accadeva prima, ma sarà che non c’ho mai capito molto con queste cose. Insomma, quel lunedì tornai a casa tardi, verso le nove e mezza di sera e vidi che sulla Rai stavano dando una Fiction, che aveva come protagonista un tale che si chiamava come te. Ah già, ti chiederai : <>. Beh, è un film prodotto per la Tv che va molto di moda ai nostri tempi, dove si inventano storie che immancabilmente devono stecchirti una quantità corposa di neuroni, facendoti però credere di vedere un’opera abbastanza intelligente perché “la storia è avvincente”, “è comunque arte”, “è la moderna espressione dell’arte cinematografica”, “parla dei valori sani della società”, e tante altre pistolate del genere. In realtà sono solo riprese fatte con molto mestiere, senza un minimo di valenza artistica, con strafighe, belli e tenebrosi, brutti ma simpatici, lacrime mostrate e stimolate, amori giusti e sbagliati, buoni, cattivi, carabinieri simpatici e criminali imperdonabili; incollano famiglie intere alla Tv e le bombardano con costosissime pubblicità ogni venti minuti. Durano due, tre, dieci puntate, con lo stesso meccanismo delle telenovelas, e ne fanno anche sui mafiosi, perché, sai, la perversione della gente non si ferma solo ai cadaveri; eh no, il gossip orwelliano ha nuove frontiere e oggi vanno di moda anche i mafiosi ed è intrigante sapere come è andata la vita di una bestia come, metti caso, Riina; è intrigante esaltare le gesta di questo eroe postmoderno, è comunque un buon esempio di selfmeidmen, s’è fatto da solo ed è il sogno di tutti.
La Fiction sul tale che portava il tuo nome ha rispettato tutti i canoni, senza, però, i carabinieri simpatici; senti: ma Venditti ha mai suonato una chitarra in vita sua? Vabbè…
Insomma, alla fine di questa Fiction ho pensato di uscirmene di casa e andare un po’ in giro per la città. Sono passato da Berta, sull’Appia. Te la ricordi Berta? La figlia del sarto, quella ragazzina che andava all’asilo al tempo della canzone che mi dedicasti. Adesso batte lì sull’Appia e quando mi capitano giornate da vomito e serate a tema vado a trovarla; la vado a trovare spesso. Con lei mi sfogo, si parla di tutto, è molto intelligente e sa tutte le tue canzoni a memoria, solo che non possiamo stare molto, così poi facciamo l’amore, la pago e la saluto.
Berta abitava a Monte Sacro, ricordi? La sua famiglia era di Manfredonia e aveva uno zio ferroviere. Me lo ricordo bene lo zio di Berta, perché veniva a trovarci spesso e ci portava quel vino tanto aspro di sole che faceva lui. Per lui era un lusso. Sai che mi ha ospitato per un po’ di tempo qualche anno fa? Per lavoro andai ad abitare a Foggia un paio d’anni e i primi tempi andai a stare da lui; non dimenticherò mai quel periodo perché facevo praticamente la spola tra Foggia e Milano, dove c’erano dei clienti importanti. Non dimenticherò mai il puzzo di piedi dell’Intercity – è così che adesso chiamano il Rapido – delle ventidue e ventisette da Foggia per Milano Centrale. Veniva da Lecce, non da Taranto, ed io prenotavo sempre il mio bel posticino in seconda classe, perché l’azienda così imponeva. Il posto io lo prenotavo, ma lo trovavo immancabilmente occupato da famiglie intere che si facevano tutta la notturna traversata adriatico-padana; appena aprivo la porta dello scompartimento venivo inondato dal fetore e poi vedevo di sistemarmi alla meno peggio. Fino ad oggi ho l’incubo del poggiatesta sulla nuca, sulla guancia, sulle tempie a ritmo del tremolio del treno e l’ansia per il male alle ginocchia a forza di tenerle piegate tutte il tempo.

Ah, il treno! Forse, come disse qualcuno poco dopo che tu te ne andasti, <>, ma a me il treno fa pensare ai film western, a <>… <>, alle uniche due espressioni di Eastwood – col cappello e senza –, al panciotto antiproiettile, ai quattro assi nella manica; forse, sì, quel tale ha ragione sulla banalità del treno, però certi film me li restituivano mutati dal vetrino della fantasia. Oggi che schifo che è diventato anche il cinema! Ci sono dei saloni enormi, freddi, per carità, sempre ben puliti, dove non si fuma più e per terra non trovi più involucri di semi sminuzzati o di pistacchi; ogni cinema ne ha parecchi di saloni così, dentro vi proiettano i film dei loro compari, che iniziano Trilogie dicendoti prima che è una Trilogia, così decidi coscientemente che lo prenderai nel culo dalla fine del film fino all’anno dopo, quando uscirà il seguito. Sono film che di cinematografico hanno solo l’involucro nostalgico del rumore dei popcorn sgranocchiati, per il resto riciclano attori inventati – mica tutti, per carità, solo gli strafighi e le strafighe da far poi accoppiare per i rotocalchi – e costruiscono il film al computer. Ecco, una volta c’era il movimento di macchina che ti faceva sentire qualcosa muoversi dentro il petto, o la forza iconica di una inquadratura inaspettata, o un linguaggio del tutto personale tramite le immagini, oggi c’è il “Signore degli anelli”. Cos’è? E’ uno di questi pseudo-film che proiettano dentro questi baracconi; per carità, non l’ho mai visto – nessuna delle tre puntate – ma non ci tengo, né ci tesi mai.

Sai, gioco ancora a calcio. Ogni tanto si organizzano delle partitine tra colleghi ed è l’unica cosa che ancora mi tiene in contatto con questo sport. L’anno scorso hanno arrestato gente della serie A italiana. Ricordi nel 1980 che successe? Beh, l’anno scorso è successo ben di peggio, solo che alla fine hanno trovato un capro espiatorio, come spesso si fa per queste cosucce della nostra turgida Italietta, l’hanno fatta pagare ad alcuni e ad altri, Golia, hanno regalato scudetti e risarcito le spese pazze del passato con uno scudettino vinto su campi pieni di Davide; ora tutto è tornato come prima, con poliziotti che sparano sui ragazzi di vent’anni e rigurgiti nazifascisti nelle curve: tutto perfettamente normale.
Ma voglio parlare dello sport, in questa lettera. Mi spiace che te ne sia andato troppo presto, tanto da non veder giocare quello che ad oggi è il più forte giocatore italiano di sempre, altro che Chinaglia. Si chiama Roberto Baggio ed ha giocato in Italia dalla metà degli anni Ottanta per una ventina d’anni. E’ vicentino. Avresti dovuto vederlo! Non giocava, danzava. E’ stato il migliore e, ad un certo punto – non ci volevo credere e, lo sai, ero convinto che cose così non potessero accadere –, è passato al Brescia, una neopromossa!

Ci sono troppe cose che non vanno e che, credo andranno sempre peggio. A volte mi difendo, sogno un posto meraviglioso fatto di soli amici e per qualche minuto sono anche felice, bevendo un amaro dopo un pasto con un amico, persino scandagliando Freud e i suoi sogni col lanternino.
Ma la televisione incita sempre più all’odio razziale, si insinua il Quarto Reich col beneplacito dei cittadini “liberi”; i governanti incitano le ronde per bastonare gli stranieri, la società è basata sul lavoro precario e ormai anche un paio di scarpe devi comprarle a rate ma, se non hai un lavoro fisso, le rate non te le fanno fare. E nessuno si indigna più per questo. E qualche anno fa si sono indignati e c’è scappato il morto – sparato e calpestato a colpi di retromarcia – in una città ripida chiusa da sbarre, un flipper messo in bilico, in mezzo a manifestanti indignati vomitati lì in un sussulto da Piazza Principe; c’è scappato il morto e le persone per bene hanno detto che se l’è meritato; gli stessi per cui Diaz è solo un centravanti che ha giocato con Inter e Avellino.

Il mare, intanto, continua a vomitare a sua volta. E vomita persone senza futuro e che alcuni vorrebbero anche senza presente. E’ un girone di mani protese e sguardi drammatici a mezzobusto; nomi perduti per sempre se nessuno li chiama, quando lo sapevamo anche noi l’odore delle stive e l’amaro del partire. E’ un giorno di vento freddo, di corpi che arrivano sporchi, dimagriti e che, quando va bene, vengono massacrati in qualche CPT e poi rispediti a morire a casa loro.
Ho paura, Rino. Ho paura che a loro serva diffondere l’odio per il debole, il ribrezzo per il disgregato, per il fuori moda, per l’autodeterminato. La mia vita è un inferno, mi spogliano di dignità in ogni momento, mi derubano della vitalità necessaria. Poi li sento, mi scherniscono, deridono, mi comprano la vita e fanno intorno a me terra bruciata.

Come vedi, amico mio, fratello mio, le cose sono cambiate; sono molto cambiate. Te le ho elencate tutte, se non sbaglio. Alcune cose sono cambiate da sole: te lo ricordi il Guccini che non reggevi più? Si è fatto da parte da solo. Non scrive più canzoni, dice che il prossimo disco sarà l’ultimo e già da tempo si fa scrivere canzoni su misura dai beppidati e dai bigazzi, che rispolverano e tirano a lucido i Che Guevara, i Cristoforo Colombo e i Cirani, cavalcano l’alone culturale e spremono le migliori forze vendibili dell’intera carriera di quel “pover’uomo”: politica e cultura, dalla storia alla letteratura; adesso è convinto di essere un bravo scrittore e un bravo ospite alle sagre della bruschetta.
Altre cose ho provato io a cambiarle e ci sono riuscito.
Mi aspettavo molto dai cambiamenti, confidavo. Ma dopo tutte queste cose la sai qual è la novità? Sono ancora solo.

Eh, adesso immagino che avrai sulla faccia una smorfia di riso amaro; lo so che questo non fa altro che esaltare e confermare il motivo che t’aveva spinto a scrivere quella canzone.
Oggi quel cane non ha più nemmeno il cono di luce.
Mi manchi.

Ti voglio bene Rino, tuo Mario
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So che si può vivere non esistendo, emersi da una quinta, da un fondale, da un fuori che non c'è se mai nessuno l'ha veduto